Bellus Tempus

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Bellus Tempus
Francesco Onnis
Bellus Tempus
Arregòtta de contixèddus in sadru seddorèsu
A cura di Renzo Cau
Capitolo1
Questo libro...
Questa pubblicazione è stata voluta e finanziata dalla
Amministrazione del Comune di Sanluri.
Tutti i diritti e le competenze sui testi di Francesco Onnis
sono tutelati dalla Ass. turistica Pro loco di Sanluri.
Coordinamento e consulenza linguistica:
Renzo Cau e Sergio Usai
Progetto grafico e immagini:
Roberto Bandinu
uesto libro è per me un omaggio all’amico Francesco Onnis.
Non lo ricorderò da docente che ha lavorato con lui o da
presidente della Pro Loco che cercava di convincerlo a lasciare
che si pubblicasse qualcosa della sua notevole produzione scritta,
meno che mai oggi, nello scomodo ruolo di Assessore del Comune
di Sanluri.
L’amico Cheddi era un perfetto rappresentante del sanlurese che
si ritrova nella memoria. Sagace, divertente, pungente, dissacratore,
ma allo stesso tempo fermo nelle sue convinzioni e osservante rigoroso
di principi di vita che hanno come perno la famiglia ed il rispetto
delle tradizioni. Era anche un grande attore comico ed io nella mia
vita ho avuto la fortuna di interpretarne in più di un’occasione il
ruolo di spalla. La sua comicità stava nella capacità di far ridere o
sorridere delle vicende tragiche della vita, trasformando la povertà,
le malattie, le disgrazie in momenti di gioia.
Nella mia testa girano vorticosi i ricordi di decine di sanluresi
descritti da Cheddi; lui conosceva tutti, di tutti sapeva cogliere
espressioni, manie, caratterizzazioni e pregi, trovando per ognuno
un ruolo indispensabile come personaggio nella commedia della
vita. Come tutti i grandi comici, riusciva con facilità a suscitare
risate immediate e coinvolgenti. Ma, oltre alle risate, i suoi racconti
portavano lo spettatore a pensare e a meditare su ciò che vi era di
serio, spesso di tragico. Si scopriva in essi il monito nascosto a non
rimpiangere la miseria, le ricchezze dei pochi, la fame, i disagi; si
capiva che il messaggio era sempre: apprezza ciò che hai, vivi ogni
giorno con gioia, come un regalo che Dio ti concede, non dimenticare
mai che molti altri sono meno fortunati di te.
Con presunzione voglio credere che questa piccola raccolta possa
servire a portare avanti il suo messaggio.
Antonello Porcedda
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Bellus tempus
Un ringraziamento
La stampa e la diffusione di questo libro si deve, oltre alla famiglia
Onnis che per espressa volontà di Francesco ha donato i diritti presenti
e futuri all’Associazione Pro Loco di Sanluri, all’Assessore alla
Cultura e Pubblica Istruzione del Comune di Sanluri, Prof. Antonello
Porcedda, al lavoro puntuale del Prof. Renzo Cau che ne ha curato
l’introduzione e la correzione dei testi in modo del tutto gratuito, in
nome del legame di amicizia con Francesco.
Associazione Turistica Pro Loco di Sanluri
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Introduzione
Vede finalmente la luce, sia pure con la nostalgia del postumo,
Bellus tempus di Francesco Onnis: un’opera di non facile definizione,
di cui, però, si percepirà l’importanza a lettura finita. Affinché non
venga deluso l’orizzonte d’attesa, è bene precisare subito che non si
tratta di una tradizionale autobiografia, giocata sull’evocazione del
buon tempo antico. Il recupero memoriale è presente, attivo, a volte
preponderante, ma non esaustivo. Lontana da ogni accademismo,
l’opera non si propone neppure una riesumazione delle tradizioni di
Sanluri. Benché il lettore possa trovarvi al riguardo utili e numerosi
spunti, non si imbatterà in una trattazione sistematica e ben articolata,
propria di un lavoro scientifico.
Francesco Onnis, come appare d’altra parte dalla sua raccolta
(arregòtta), è soprattutto un artista. Pochi lo sanno, ma di lui restano,
purtroppo ancora inedite, le poesie in italiano. E da buon artista ci
ha lasciato un’opera composita, in cui la mescidanza di elementi
eterogenei sembra regnare sovrana, compromettendone, almeno
apparentemente, l’unità. Il lettore, infatti, si imbatterà in una silloge
di poesie e racconti in sardo, in scarni elenchi di nomi (Is mèsisi de
s’annu, Is attisi de û tèmpusu, I disi de sa xida), nelle preghiere più
comuni del buon cristiano (Invocaziõisi sàdrasa), un elenco di
proverbi (Cancû diciu, Dicius sàdrusu...seddorèsusu) e perfino in un
nutrito elenco delle similitudini più in uso nel linguaggio quotidiano
(Narànta is antìgusu). Questi elementi, meglio sarebbe chiamarli
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Bellus tempus
reperti, convivono ognuno nella sua forma originaria, finché non
vengono ospitati negli spazi magici della scrittura: da semplici
comparse assurgono allora a dignità di protagonisti, perché innescati
nella vivacità del racconto-didascalia, come accade all’elenco dei
mestieri nella chiusa di S’avventùra de sa vida, a quello dei soprannomi
(Is annomìngiusu), o infine a quello relativo alle malattie più comuni
e alla loro arcaica terapia (Mexîasa de û’otta). Con brillanti notazioni
di sapore autobiografico, l’autore non rinuncia a divertire il lettore,
scopo dichiarato dell’opera, intrecciando l’ironia, talora il sarcasmo
con l’arguzia spiccatamente sanlurese, ed enfatizzando i toni del
parlato, che gode di notevole esposizione quando distorce gli acquisti
linguistici provenienti dall’Italiano o dall’Inglese o quando ricorre
a paragoni desunti dal costume odierno per spiegare parole o abitudini
del passato.
Tuttavia, se è vero che i materiali meno fortunati, tagliati fuori in
apparenza dalla scansione poetico - narrativa della raccolta,
costituiscono indubbiamente il materiale grezzo di un testo mai
emerso dal mondo del possibile artistico, è anche altrettanto vero che
essi, indelebili icone della memoria, nella particolare struttura
dell’opera conservano il fascino dell’incompiuto.
Poiché gli scrittori non lasciano niente al caso, il segno della loro
presenza costituisce per il lettore un’evidente provocazione, come
una pagina bianca in un libro di poesie. E’ il caso di alcune preghiere
in sardo, che l’autore ha accolto in Bellus tempus. Il peso della loro
citazione non è di poco conto. Benché non siano precedute da alcuna
didascalia, è assai facile postulare la ragione della loro ospitalità,
dettata non solo dal desiderio di salvarle dall’oblio, ma dalla
preoccupazione di offrire al lettore un’opzione ancora valida per il
colloquio con Dio, così da recuperare un’identità religiosa, ormai
compromessa anche da una liturgia cristiana irrimediabilmente
italianizzata. Questi che possono apparire spezzoni ingombranti, non
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Introduzione
lo sono di certo per l’autore, che intende la tradizione come un
innesto, sia pure doloroso, nella propria vita: Torrèndu a cussus
tempus passàusu, candu si bivìada û pagheddu a sa cadrangiàda e
in su mundu chi giràda ancora cun is arròdasa de taba, ndi êidi de
còsasa a conca, bellas e màbasa, ma sempri craccàdasa in su coru,
a pungi che corr’e boi in sa schîa (S’avventùra de sa vida). Questo
e altri numerosi passi evidenziano lo straordinario impatto nel testo
dell’evocazione memoriale.
Il sentimento profondo e dolente, che si alimenta dal ricordo, anima
infatti i disparati elementi di Bellus tempus e ne incrementa la loro
significanza. A ben guardare, non solo gli elenchi nella loro nudità
espressiva, ma anche i singoli fonemi sembrano rivelare, in una
poetica così concepita, le strutture palpitanti della tradizione. Non
stupisca dunque la ridondanza del segno. Si prenda a mo’ d’esempio
anche l’elenco dei proverbi. Condensato della sapienza del popolo
sardo e sanlurese in particolare, il proverbio rappresenta per l’autore,
come appare dai racconti, l’unica vera auctoritas, che avvalora o
conclude un ragionamento. Poco importa se nell’elenco ne compaiano
alcuni, che proprio sardi non sono. E’ importante per l’autore, al di
là di uno squallido purismo, sottolineare che essi vennero accolti e
assimilati dalla cultura della sua gente.
La ridondanza del segno suggerisce anche un concetto sano di
tradizione, che non implichi il rifiuto aprioristico dell’altro. Neppure
dell’altro linguistico: nessun accenno all’annosa problematica sul
bilinguismo. Nulla di più estraneo dallo spirito della raccolta. Vi
aleggia invece un concetto di tradizione aperto e dinamico, capace
di rivitalizzare detriti linguistici non più in uso e di accogliere
contemporaneamente i neologismi, provenienti in gran parte dal
linguaggio settoriale, non senza averli sottoposti a una divertita,
spesso maliziosa sardizzazione, quasi a sottolineare una certa qual
frizione tra codici, e la difficoltà di una messa a dimora in un nuovo
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territorio linguistico. Il lettore più attento noterà agevolmente che
l’autore predilige, violando i teritori del genere comico, i momenti
in cui l’ibrido linguistico raggiunge la sua esibizione più vistosa.
Non meraviglia, quindi, se un tale meticciato linguistico interessi
a tal punto lo scrittore, da costringerlo a dargli forma di racconto
nelle cinque lettere di Fisieddu. Senza dubbio le missive alla cara
mammaicella possono essere lette come un esercizio di ridanciana
mimesi, ma, se si coglie l’irradiazione del segno nel suo impatto
semiotico, appaiono piuttosto come un’espressionistica cronistoria
delle difficoltà che il popolo sanlurese, e non solo, ha incontrato
quando, costretto a imparare l’italiano, ha affrontato l’avventura
bilingue. Come in filigrana, tuttavia, la dialettica tra le due lingue
segna anche la testimonianza storica di un evento dagli effetti
devastanti per la lingua sarda.
Quando questa dialettica cede il posto al puro gioco linguistico,
si scopre in tutta la sua portata l’intentio operis, che è quella di
rallegrare (a procurài arrisàdasa) il lettore, con la rievocazione di
alcuni fra i momenti più sereni della tradizione (custus arregòdus
bèllusu de su tèmpusu chi oramài si nd’est andau...). Disseminato
nel testo come un’autentica struttura, il gioco linguistico non disdegna
né il calembour né l’antitesi fra i due codici, se queste figure retoriche
servono alla realizzazione del fine. Il testo offre allora una lingua
agile, sorgiva, per nulla succube all’italiano, capace di esprimere in
tutta la sua freschezza ogni pur lieve sfumatura.
A ben guardare, questo particolare divertissement, che sfrutta
abilmente le ottime risorse della lingua parlata, disponendolo all’ironia
e ai toni di una bonaria caricatura, sfugge abilmente ai tranelli del
kitsch. Mai fine a se stesso, è orientato dall’autore a disegnare con
precisione veristica la Sanluri di cinquant’anni fa e, probabilmente,
per la lentezza dei ritmi storici che la Sardegna ha conosciuto, una
Sanluri ancora più remota. Il racconto-didascalia, esibisce - lo
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Introduzione
ribadiamo - quasi esclusivamente gli stilemi del parlato, e forse
soprattutto grazie a questa scelta linguistica, di sequenza in sequenza
chiama a nuova vita i materiali della memoria, offrendoli al lettore
integri, liberati dalle scorie del passato, miracolosamente presenti
nel loro palpitante e caotico divenire.
L’abile strumentazione linguistica non distrae, tuttavia, dalle sottili
connotazioni, che si propagano dal testo, dove anche un semplice
reperto, in apparenza un flebile flatus vocis, evoca un affresco di
costumi, di abitudini, in cui un intero popolo si riconosce. Più
esplicitamente il narratore, in improvvisi squarci metalinguistici,
punta l’obiettivo sull’ambiente socio-economico, segnando con
crudezza gli spazi di arretratezza e di sofferenza in cui si dibatte la
Sanluri degli anni Quaranta e Cinquanta. Il limite temporale, e lo
scrittore ne è dolorosamente conscio, è ampiamente superato da una
gestualità, che ripete fatalmente i ritmi più antichi imposti dalla
povertà (Sa poberesa). Filtrata dalla magia del racconto quella
gestualità può oggi apparire surreale, se non fosse anche un amaro
documento di storia e quindi di verità. A intermittenza, però,
abbandonati i toni scanzonati del modulo narrativo, con lucida
consapevolezza il narratore lascia trasparire la commozione per le
vicissitudini della sua gente, domata da sofferenze ancestrali e succube
alle imposizioni del progresso.
Alla sopraggiunta cosiddetta civiltà del benessere, che pur eclissando
la povertà, violentemente e in modo acritico cancellò i preziosi valori
della tradizione, travolgendo con essi anche lo strumento linguistico
che li esprimeva, non resta che opporre lo sforzo del ricordo (su
traballu chi eu fattu po torrai a luxi custus’arregòdusu bellus) e il
brio di una lingua risuscitata a nuova vita. Si leggano in proposito
le divertenti pagine dedicate ai giochi della fanciullezza (Arregòdusu
de piciòccu de crobi) o alle medicine (mexîasa de û’otta) in auge
negli anni difficili del secondo dopoguerra, ma forse in uso da secoli:
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l’autore vi ha allestito un’interessante e ricca vetrina di informazioni,
in cui fa bella mostra di sé anche un artigianato linguistico sanlurese
tra i più raffinati. Analoga osservazione va fatta per la commossa
rievocazione de Su stabi de santu Mattî, una delle più belle prose
della raccolta, in cui è in vista la figura della prosopopea, ma anche
la sensibilità dello scrittore per i problemi sociali.
Il gioco linguistico si concede docilmente al piacere affabulatorio
negli undici racconti, dove il novel delle didascalie con il suo
puntiglioso attaccamento alla verità della tradizione è sostituito dal
romance, dal fantastico e dal fiabesco o addirittura dal fascino della
favola. Il variegato materiale narrativo, grazie sopattutto alla spiccata
flessibilità del suo segno linguistico, è filtrato da una sola voce
narrante di estrazione popolare, che amalgama i racconti in una
rassicurante unità redazionale
In perfetta sintonia con la narrativa popolare il narratore ne sposa
anche i canoni e i moduli narrativi tipici dell’oralità, orientando il
racconto, privo di complicazioni strutturali, alla comunicazione dei
più genuini distillati della sapienza tramandata, pregnante di esperienza
e di buon senso e talora avvallata dall’onnipresente proverbio..
L’alto tasso di oralità presente in questi undici racconti pone un
problema critico di non piccola rilevanza: si tratta di reperti narrativi,
che l’autore ha salvato dall’effimero e inteso tramandare ai posteri
o di detriti della tradizione orale da lui raccolti, dando loro dignità
di racconto in una nuova veste popolare ben congegnata e consona
ai moduli narrativi dell’oralità? Il problema appare di difficile
soluzione. Il sottotitolo dell’opera (Arregòtta de contixèddusu in
sadru seddorèsu) sembra fornire un debole indizio a favore della
prima ipotesi. Non abbiamo trovato, tuttavia, nessun documento
scritto, che possa essere stato utilizzato come fonte. La seconda
ipotesi appare più attendibile, perché suffragata da una duplice
informazione, che leggiamo in uno dei racconti: in Is tres fradisi,
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Introduzione
infatti, apprendiamo che il narratore ha ascoltato il racconto (custu
contu) dalla nonna (ascuttàu tanti’òtasa de sa bucca de aiàia...) e
che esiste a Sanluri un autentico repertorio orale di leggende
(leggèndasa seddorèsasa).
Queste informazioni permettono di ipotizzare una pluralità di fonti
da cui l’autore ha attinto e, nel contempo, di penetrare meglio nel
significato del sottotitolo, dove raccolta (arregòtta) è probabilmente
da intendersi in un’accezione più generale, che investe gran parte
dell’opera e non solo i racconti: un’antologia, insomma, dove sono
stati accolti materiali di varia provenienza, scritti e orali, che l’autore
ha giudicato degni di essere tramandati.
Il lettore potrà ammirare nella silloge poetica la perfezione
compositiva di alcune liriche, tra cui spicca Cussas mãusu, un autentico
gioiello, che fa onore allo scrittore e al codice da lui prescelto. Ma
tutta l’opera, non la singola lirica o il singolo racconto, si offrono al
lettore come un momento importante della tradizione sanlurese, in
cui l’autore si è inserito, a buon diritto, come punto di riferimento
e sapiente restauratore. Se ne potrà condividere o no il metodo, ma
è innegabile che l’autore con Bellus tempus abbia dotato il lettore di
uno strumento che gli consenta un facile e divertente approccio ai
territori spesso impervi della propria tradizione.
Ma l’originale testo di Francesco Onnis costituisce anche un
momento di utile riflessione per chi abbia rimosso, spesso anche
incolpevolmente, il problema fondamentale dell’identità.
Il messaggio più accorato, che traspare da ogni sezione del testo,
urge, infatti, in una direzione univoca: un invito a rivisitare le proprie
radici e a riappropriarsi dell’identità linguistica.
Mi sia consentito, infine, di rivolgere un grazie riconoscente
all’amico Sergio Usai per la collaborazione avuta nel dirimere i non
pochi problemi relativi alla grafia e alla pronuncia del sardo sanlurese.
Renzo Cau
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Incipit
NOTA
La grafia del testo ha subito lievi ritocchi nei confronti di quello
originale. Per renderla più consona alla pronuncia della variante
sanlurese, si è preferito avvertire il lettore della presenza della vocale
provvista di nasale, dotandola di deltide. Per esempio: invece di
scrivere su cai si è preferita la grafia di su cãi; invece di biu (termine
equivoco per vino, vivo e visto), nel significato di vino si è optato
per bîu, grafia più fedele alla pronuncia, lasciando biu nel significato
di vivo e di visto. Si è inoltre alleggerita l’eccessiva presenza di
accenti, conservandoli in genere nelle parole con più di due sillabe
e nei casi in cui si è ritenuto necessario facilitare la lettura di una
prosa assai legata all’oralità e rendere più immediato il significato
delle parole omografe.
Nella sezione riservata alla poesia, l’accentuazione è stata ridotta
ai canoni grammaticali per non turbare la naturale scansione del
verso. In modo analogo si è operato in presenza di elenchi di nomi,
proverbi e preghiere. Il problema ortografico non è stato minimamente
sfiorato, avendo prevalso il rispetto per le scelte dell’autore.
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asciando nel suo percorso la possibilità
di una presenza e, quindi, essendo in
grado di liberarsi dalla caducità assoluta,
il tempo umano si costituisce come futuro.
Ed è un futuro in qualche misura prevedibile,
poiché si fa della materia del passato…
Il ricordo del passato armonizza l’esistenza
umana e rende possibili il progetto, il desiderio,
la speranza… Il presente dell’uomo è sempre
un presente storico; un presente in cui si
armonizzano memoria del passato e progetto
futuro, il quale nasce precisamente da quel
passato.
Questa armonia sorpassa l’approssimarsi
rischioso di qualunque futuro.
Emilio lledò
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Arregòdusu de picciòccus de crobi
Pagu tèmpusu apùstisi de sa guerra, naràusu de su 1945 a su 1955,
Seddòri fia fatta a bixiãusu, cumènti Siena fia fatta a cuntradasa.
Sceti ca a Siena, me in su paddiu, currìanta is quàddusu, me in
Seddòri, invèciasa, currìanta, maccai senz’e gana, is pòburus cristiãusu
po sa mir’a pedra de sa picciocàlla, chi sciorronciuàda a totu dì me
is arrùgasa.
Is bixiãusu prus nodìusu e pirigullòsusu fìanta quattru: s’Arei,
Santu Mattî, sa Matt’e s’obia e Funtãmùrusu!
Is primus tresi, pòstusu in zona stratègica e fotunàda, tenìanta
tèrrasa, in cantidàdi e bèllasa, po giogai a boccia de izzàppu, chi fìada
uã mingia de trattoxiu, prëa de izzàppusu e cosìda a mãu. Sa novidàdi
de s’invenziõi de sa busciùcca de procu, suàda a bucca, a Seddòri no
fìada ancòra arribàda!
Su bixiãu de funtãmùrusu, invèciasa, serrau cumènti fìada, in
mes’e’ su triàngullu infrennàlli, donni’ota chi obia provai
s’imbriagadùra de s’erbixèdda frisca, chi abundàda sceti me is
axriòbasa de Gallantõi, de Sriviu Usai, de Luisìcu Màrrasa o me in
cussa de don Luigi, depìada preparài su pianu bèllicu de sa batàlla
a s’ùttima pedra, po si guadangiài sa partidèdda carcìstica dominicàlli.
Ma is allenamèntusu de sa dì’e fattu (su de fai gei fia sempri pagu!),
fiàusu obrigàusu a ddùs fai me in sa prazza de Funtãmùrusu ca ddoi
fìada s’acqua frisca accànta, o me in s’arrùga de is Scaberèddusu,
Via Mannu de immõi. Su camp’e giogu, a nai sa beridàdi, no fìada
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nì collaudàu nì regollamentàri e nimàncu praticàbilli. A patti cancü
fundu de camingiõi asùb’e i mùrusu e cussu poghèddu de cannaiõi
chi spuntàda de s’impedràu, de bidri sindi bidìada pagu diadèrusu
me i bìasa de bidda. Ma is tèmpusu fìanta cùssusu e toccàd’a
s’arrangiài.
Su chi fadìada pru’ prexei, però, fìada sa tribunèdda zentràlli de
sa zittadèdda sportìva, posta asùba de su muru de làdriri, mesu
sciorroccàu, de zia Maitèdda. Is ispettadòrisi fìanta sempri
adattadèddusu, ma, cabexèttasa a brenti a susu po pigai su sobi gei
sindi scabullìada a totu dì.
De cussa tribunèdda però, si podìanta bì tòtusu is càmpusu sportìvusu
chi teneiàusu e no fìanta cosa de pagu: su campu po giogai a boccia
de izzàpu me in s’impedràu a pedra lisa de frummi; quattru càmpusu
de peinconèddu cun is arrìgasa trassàdasa a tabàcciu; dexi fèrasa o
còrasa allisàdasa a spudu po giogai a pallìnasa de gazzòsa o de terra
cotta; quattru arrògusu de terrènu traballàu a pei scruzzu po giogai
a piràsta o a badrùffa; poi, ü poghèddu prus attèsu su marciapèi de
is fònniasa, fatt’a pista, po curri a xriccu cun sa nettànica.
Sa partìda si fadìada donnia dì, senza de cussu perìgullu chi oindì
zèrrianta stressi psicufìsicu e chi nanta chi ghèttidi a terra is giogadòrisi
de frootboll affrimmàusu.
Is attrèttasa, cuncodràusu tòtusu aguàllisi (ita bellixèddusu chi
fiàusu!), nò deppìanta pedri tèmpusu sceti po is crapìttasa. Cùstasa
fìanta arregallàdasa direttamènti de Nostu Sinniori; atru che
isponsùrrusu de oindì! Peddi moddi e lisa, totu cunfezionàda appèna
nasciu e fatta bëi bëi, a misùra prefètta!
In dì di oi is picciocchèddusu custùmmanta, e cancüa mamma
affroddièra puru, a potai crapìttasa frimàdasa de Adidas. Nosu,
invèciasa, si depiàusu accuntentài de su nonnu de custa marca nodìda:
A...didusu! Fiada üa marca, però, chi lassàda sempri allibetàu totu
su pei, senza de istringimèntusu fastidiòsusu speciarmènti cun is
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Arregòdusu de picciòccus de crobi
crapìtasa de is femmièddasa, e fadìa cresci is dìdusu mànnusu
cument’e’ üa canciòffa femmia sprappaddàda e prònt’a còi me in sa
braxia.
Ü antra cosa bella de su pei iscrùzzu fìada in su momèntu de
scioberài is giogadòrisi de is dùasa squàdrasa. Su ruòllu si bidìada
sùbitu. Su chi potà su didu mannu de mãu travèssa scancioffàu deppìa
fai obbrigatoriamènti s’aba derètta; su chi potà su derèttu mabandàu,
deppìa fai s’aba sinìstra; su chi potà tott’e i du’dìdusu scancioffàusu,
fadìa su pottièri (tant’agò ndi bessìada scuncodriàu a is arrodèddasa
de is genùgus puru!).
I nùmmerusu, nosu puru ddus potteiàusu attaccàusu a is
prantalloncìnusu cumènti de is...brasilliànusu; scetti ca cùstusu ddus
pòttanta appiccigàusu a fiancu; nosu, invèciasa, a fùndu de pantallòni,
pò accònciu.
A s’intràda de is dùasa squàdrasa in campu, (cùstu, affacc’iòra de
s’ùna de merì), no mancà mai su tiffu de is crùvasa.
Appàbasa de sa funtã de Funtãmùrusu accostumànta a si cuai is
pru toccàusu a conca (òlligansa de is ingrèsusu di oindì, là!), cun
bòmbasa a bottu de carburu e bòssullusu de su tèmpus de sa guerra,
senz’e sparai.
Fìada üa festa po tòtusu in mèsu de su budrèllu de is attrètasa,
maccai cun is còncasa e is càmbasa pinzollàdasa. Pagu invèciasa fia
su spassiu po is fèmmiasa, chi ìanta appèna sciacquau is pànnusu,
po su fangu pudèsciu chi bobàd’in aria.
Sa partìda fìada a s’ùttimu sangui in mes’escroxiobadùrasa, segàdasa
e scancioffadùrasa. Su medicu sozzialli giai sempri fìada su chi buffà
prus acqua, ca poi, bogà prus lìquidu anargèsigu… Intrà sùbitu in
trabàllu: po disinfettài àlcullu de naturàu a grifõi, oppùru piricciòu
spuntu de ziu Luisèddu Usai!
Is prüiusu atipriòtticcusu prus’adoperàusu fìanta cùssusu chi
s’arregollìanta de sa terra de frommìga a conca arrubia. Po is ceròttusu
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toccàda andai a is cànnasa de ziu Luigìnu Collu: pettia grussa, ma
fàzilli a sperrài in mesu e ndi scerai su coramèddu friscu!
In casu de fasciadùra urgenti, is scimbùssasa, ü poghèddu
fragòsidasa, de sa guerra quìndixi/dixiòttu, sìddasa prestàda ziu
Pietrìnu passabàra. Su sinniàlli finàlli deppìad’essi a su scurigadròxiu,
ma càncü’otta toccàd’a lassai su cumbattimèntu prim’e s’ora. Difàttu,
càndu is bàccasa de Ziu Accheddu Pittau accorrànta in antìzzippu,
su campu de giogu si fadìada ü poghèddu impraticabilli e deppiàusu
cambiài giògu: tirollàsticu de busciàcca e via a sconchiài cabaxèttasa
me is mùrusu de zia Candida.
Candu totu fia normalli, invèciasa, a fischiài su finàlli toccàd’a su
cabõi de ziu Giuanniccu Congia, ma, a nai sa beridàdi, is tres fìschiusu
o is tres cantàdasa no accudìa mai a ddas fai, puetta ca su mèri, a su
primu azzìnnu de càntidu fora de oràriu, nci ddi scudìada su fusti
annodiàu e ddù siddìada in d’ü nudda. Poi ndi bessìada a sa ia cun
su cabõi asùtt’e surèccu e su fusti me is mãusu e zerriàda: - Fòrasa
de innoi, scurreggìusu chi no seisi àtrusu, ca cun custu giogu de
pralloni furistèru, mi sbelliàisi tòtusu is cabõis e mi ddus fadèisi
cantai a is noiòrasa de notti, e poi, a su chizzi, si ddoi dromminti e
no mi ndi scìdanta. E castiènd’a su cabõi cun d’üa oghiàda maba,
accabbàd’aìcci.- A tui crasi gei ti potu anch’è s’arrelloggèri de Futtèi,
po ti cambiài su tèmpusu.
E di fattu, a s’incràsi, su pòburu cabõi, no cantà prusu, nì ai noiòrasa
de nòtti, nì a su chizzi. Dd’ia fattu a bànnia po cundì üa bella timbàlla
de maccarrõis de cibìru.Cancü’otta si giogàda in nottùrna puru e fia
notturna diadèrusu. S’illuminaziõi accabà totu in duas lampadinèddasa
de quìndixi. (sa SES, Sozziedadi Ellertica Sadra, fia pobirittèdda!),
pòstasa centu mètrusu s’una de s’àtra e appiccigàdasa asutt’e ü
crobettòri arruiãu, me in sa contonàda de zia Nocenzia e a costau de
sa fentanèdda de ziu Trassilliu Muntõi.
Ca fìada giai cumenzàu su spettàccullu nottùrnu, sa genti
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Arregòdusu de picciòccus de crobi
sind’accattàda de is izzèrriusu de ziu Trassilliu, po s’imbìdri torrau
a segai. De cussu momèntu su giogu si fadìada po tòtusu obbrigàu:
su giogu de mammacùa, chi obia nai: curri cantu pòdisi e cuadìdda
in logu sigùru. Sa tappa prus indicàda fia sa fentanèdda obètta de
s’omu po sa pàlla de ziu Luiginu Matta, bëi cuada me in su strintu
de su guttureddu de Pappasattizzu.
Chi cancùnu no sturridàda po su pruîu de sa palla, totu gei andà
bëi, deghinò toccàda a si ciccai atru logu prus attèsu. Poi, candu is
mànnusu cumenzànt’arretirài de sa friscùra, toccàda a nosu puru
rientrài a domu: segùnda razziõi de cìxiri o de fa, candu sìndi tenìada,
e sùbitu a nanna. Matallàfusu premafregusu, càncüa scorriàda de
mammasèssi a schîadùra, lenzòrusu a frorixèddusu (stampàusu, là!),
coprillèttusu frimmàusu o, chi obèisi, abarràus frìmmusu me in sa
buttèga po sa poberèsa, e a drommì gràtisi e a vollontàdi. Tantu, a
s’incràsi, sa musica no cambiàda.
Unica novidàdi fia su murzu de su mengiãu, totu diettètticu: pãi
arridàu a nu’ mannu de fa cun ladru, oppùru, tanti po cambiai, pãi
arridàu a palla fini de fa. Ma fiàusu cuntèntusu a su proppiu!
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Bellus tempus
Is annomìngiusu
Is annomìngiusu
In s’antigòriu, candu is còsasa costànta tresi arriàbisi o mesu pezza,
candu su zùccuru o sa cunsèrva si compràd’a ùnzasa; candu s’arròba
si tallàda a pràmusu e su imbùdu fattu arràsu misurà su trigu, meda
prusu di òi, s’annomìngiu fìa cosa de tòtusu: de s’arrìcu e de su
pòburu, de su sãu o de su strupiàu.
Mànnusu e pittìusu, fèmmiasa u òmisi, depìanta nasci e bivi
pròntusu a sa brulla. Sa genti seddorèsa fia connòta po su giogu e
s’allirghìa pronta e acùzza. E po su seddorèsu, beffiãu de sangui,
custa fia diventàda ü’atti chi benìa passàda de babbu in fillu, (fillu
de craba, crabìttu bèssidi, narànta is antìgusu!), e sa cosa prus
nommenàda me in su cìrcullu de su furistèri.
E sigumènti tòtusu scidìanta ca semièndu spîa non depìanta andai
scrùzzusu e ca su chi seidi a cuaddu è suggèttu a nd’arrui, toccàd’a
essi pròntusu a parai su croppu e iscì torrai s’ottàva, cumènti fai su
bonu cantadòri. Su vaccìnu di allirghìa ddu fadìada sa levadòra, giai
de sa prim’ora de vida. Su neonnàtu, pereffèttu, dd’abituànta de
sùbitu a tenni prontu s’arrìsu e a fai arrì.
Nàranta is mammas nòstasa, ca cussa chi benìad’a Seddori, fìada
üa levadòra totu patticullàri: a su pipiu, appena nasciu, di fatti, no
ddi zaccà sa nadièdda po prangi, ma ddi fadìa su chirighìtu a crox’e
pei, po fai trestammèngiusu e arrì a scraccàxiusu. In custu modu su
corixèddu, chi no ddi cabà prima gutta coràbi, s’affottiàda e su
picciocchèddu fìa preparàu a totu! S’arracumandìzia prusu importànti
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Bellus tempus
fia sempri custa: - Su chi pòtta pistòccu in betua, no morri de fami!
Su chi poòtta sa brulla in su sangui, no morri de bregùngia! A mussiu
de cãi, pìu de cãi, - dd’arrecumandànta su babbu e sa mamma!
Praxìbi o inzurtadòri, allìrgu o malliziòsu, su chi pottàda cussu
annomìngiu, bolli o no bolli, si ddu tenìada : sa brulla fatta è pru fotti
de su ferru e, maccai a spagu tirau e a crànciusu e inzùnchiusu,
deppìada ammoddìai su zùmburu e s’ammasedài che angiõi.
Arròrisi mànnusu nascìanta candu cancùnu s’allulluràda e s’arribìada
de febi, cumènti de ü còmbudu becciu, cicchèndu de si ndi liberài
de cussu pesu. Gei nd’iddi cabànta is mustàzzusu a punt’a susu!
Dd’accabàda arrecraccàu de ü antru annomìngiu, pru bregungiòsu
de su primu e no podia camminai derèttu mancu me in sa ia.
- A cuaddo friàto la sedda li pizzia, - naràda ancòra su verbu sadru,
ma su seddoresu giai mai si fadia nodiu po si cuai, candu cancüa
mancanzèdda o cancü fìziu si torràd’a fai intendi de contonàda in
contonàda, cun s’arrisixèddu de sa genti.
Giai tòtusu, de su restu, fianta imbudrigàusu in su stessu ludràgu
e, dùncasa, pàgusu si ndi dispraxìanta: campàna soba, malli sònada
e boi sou no tira carru. Arrièndu impàri s’ü de s’atru, s’aghettà su
modu de alluttài sa menti (- S’apprèttu, - nanta, - ca fai curri sa
beccia) e de nci passai su tèmpusu divertendusìdda in brulla. Mabi
chi andèssidi, a su scurigadròxiu, ddoi fìanta pròntasa ü scantu
bòmbasa de pezz’e procu o sa maccarronàda cun tamàtigas frìscasa
e cabõìscu troppu cantadòri, chi nd’arruìada de i sas scabèrasasa
iscannìdasa de su parcuscèniccu.
S’abogàu prù bellu e pru cannòtu in totu su circondàriu po discinì
sa causa, fia sempri su stessu: su piricciòu friscu de carràda, chi
arrennescìada in donnia ciccustànzia a nci bogai su mab’e conca, a
punta de arratàssa. E nosu puru obeus fai sa stessa cosa, torrènd’a
bogai a pillu s’ellèncu spassiòsu de su seddorèsu beffiãu. Su trabàllu
chi eu fattu po torrai a luxi custus’arregòdusu bellus de su tempusu
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Is annommingius
chi oramài si nd’est’andau, srèbada scetti a procurài arrisàdasa a
onniü de nosu, senza de mabèsa po nisciùnusu.
Nosu dd’eu fattu sciendu bëi ca su chi morìga pedra, scrappõi ddu
pùngidi e ca sa marighèdda bàndada a funtã, fìnzasa chi no si sègada.
Ma seus sigùrusu ca su vaccìnu de sa levadora seddorèsa appi fattu
effèttu po sa genti di òi puru! S’arrìsu fai sangui bellu! E, poi, ita
nàrada su dìcciu antìgu ? Tutti i sallàmi finìscono in groria. Allìrgu
seddoresu e impàra bëi is annommìngiusu!
A
come ARRASAU!
Acceddu; Allichidiu; Allievu cristiãu; Andrieddu; Arrallasciau;
Arrasau; Arrellichîu; Arrodeddu; Arrubieddu; Ascutta fragusu.
B
come BUSCADÎU!
Baddidoi; Baieddu; Ballei; Ballica; Ballõi; Bangheddu;
Banghillõi; Barabba; Barracca; Barracellu; Barragosu; Barr’e
conchedda; Battìbi Battistedda; Battollu; Bell’annadendu; Bent’e
sobi; Bibbîu; Biccu Billella; Billettu; Bobboi; Bollanti; Bottu;
Brabalunga; Braghetta; Brent’e cuarra; Brentedda; Bucch’e brabei;
Bucch’e turra; Bucch’e zirigheddu; Buddas de proccu; Bullettu;
Bum Mereu; Burrullu; Burzighîu; Buscadîu; Busciucca; Buttonera.
C
come CABASCETTA!
Caboru; Caga bombasa; Caga dinai; Cagallõi; Cagaredda;
Cagasucci; Cagheddu; Callellu; Calloddi; Cariafà; Carroga;
Carrõipedda; Carzaglia; Cavua; Checchei Nieddu; Chillichi;
Chirriou; Coccodè; Coeda; Cioccioi; Coccoi; Cõillu; Conch’e
boccia; Conch’e malloru; Conca niedda; Conch’e ottigu; Conch’e
proccu; Conchedda; Conch’i mannu; Corighedda; Corriazzu;
Corrudeddu; Coscia cagada; Cott’a fêu; Craccaterra; Cri-Cri;
Crobeddu; Cruccueu; Cull’a tuppu; Cu’e toppi; Cu’ e peddi.
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Bellus tempus
D
F
come DROLLU!
Derett’a proi; Drollu.
come FRIAXIU!
Facci niedda; Fadiori; Fariseu; Fai contusu; Fascittu; Fazzõi;
Fesci; Fibettu; Fibiccitu; Friaxiu; Friolla; Frosceddu; Fuettu.
G
come GALLETTU!
Gallantõi; Gallettu; Garotti; Garrucciu; Garzõi; Gattou; Gattu;
Ghitarra; Giarrettu; Giunchiu; Gravellu.
L
M
come LEBIEDDU !
Lebieddu; Lioddi; Lioni; Lugori.
come MACCAI!
Maccai; Macchiori; Manestu; Mangiamosca; Mantinica;
Mantiorusu; Marighedda; Marragau; Marrollu; Mazza cabada;
Masedu; Mes’e idasa; Micchittu ; Miracèu; Miss a pompa; Mraxiãi;
Mungetta; Murrottu; Muscadeddu; Muscedra.
N
O
P
Is annommingius
Pizzõi; Poddingiu; Priogu.
S
come STUGÕI!
S’arrosa; Sa tega; Sa tentaziõi; Sa tennica; Sa tradotta;
Scarfollio; Schicchioba; Sciasciapeisi; Scricchillõi; Segadì casu;
Sillieta; Sizziacca; Sa bell’e sa idda; Sa culla; Sa mongia; Sannoreddu;
Santubellu; Sàntusu; Spabada; Spaghittu; Srubiettu; Stugõi; Su chiu;
Su cocchi; Su cogu; Su cruzzu; Su cuccu; Su frori; Su para; Su
puntori; Su topi; Su rei; Su stori; S’intruxiu; S’untroddi.
T
U
Z
come TOPPOLLINO!
Torramidd’a fai; Tragera; Troddiapãi; Tromba; Tutturigu.
come UNGHEDDA!
come ZACCA LA COSTEDDA!
Zaccarreddu; Ziddicca; Zigarru; Ziringõi; Ziroddi.
come NIEDDEDDU!
come OPPADDADA!
Offu ta basca; Olli Olli pãi.
come PRIOGU!
Pabedda; Padriedu; Passabara; Pattata; Peidepepiri; Pellonero;
Perregãi; Perriogu; Pettiãu; Pibizzua; Pidaddu; Pigh’e torra;
Pillàtusu; Pioncu; Piredda; Piribicchia; Piricciou; Pirichèlla; Pirisiû;
Piroddi; Pirracciu; Piscia - piscia; Pisittu; Pisõi; Pistiddu;
Pistillemuru; Pistinca; Pistolla; Pizzalleddu; Pizz’e pudda; Pizzillotu;
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Bellus tempus
S’avventura de sa vida
SA XIDA
Nasci e cresci me is tempus andàusu
Lüisi
Cettu ca, a nci pensài bëi bëi, si ndi scabùllidi de cosittèddasa de
arregodài, furrièndu sa conca appàbasa de s’avventùra de sa vida.
Torrèndu a cussus tempus passàusu, candu si bivìada unu poghèddu
a sa cadrangiàda e in su mundu chi giràda ancòra cun is arròdasa de
tàba, ndi ëidi de còsasa a conca, bellas e màbasa, ma sempri craccàdasa
in su coru, a pungi che corr’e boi in sa schîa.
Bellus tempus, candu po si coiai bastàd’ü fustìgu e po nasci ü
sturrìdu! E di fattu, s’avventùra de sa vida nosta, cumenzà propiu
cun is ispòsusu. Sùbitu, però, muccàd’in giògu su vicariu, e guai chi
manchèssidi su sraghestãu, (ca ddi sputtìa sa mància, sciadàu!).
Nascìa di aicci sa famillia. Manna o pittìa? Eh, dipendìada de sa
Provvidenzia, ma meda òttasa de sa previdenza de is interessàusu
puru! S’atru avvenimèntu mannu de sa famillièdda appena
affricongiàda, fìada candu in domu s’aspettàda ü pippìu e no fia cosa
arrara, ànzisi… Nanta ca is Ciccònniasa, in cussus tempus antìgusu,
accostumànt’a tenni gràndusu scòntusu e agevollaziõisi de viaggiu,
po dònnia mesi de s’annu, e in tòtusu is bìasa de su mundu.
Is preparatòrius po sa nàscita fìanta fattus e penzàusu aìntr’e sa
fammìlli’e totu, cun cosittèddasa a sa bona. Oindì, no si bì s’ora de
cannòsci chi è pisèddu o faixèdda, e si curri sùbitu a fai dònnia
trastamèngiu specciallìsticu: sa taccammografìa, s’ecugrammografìa,
sa pottografia a su pippiu, in deretta e de travèssu, arrièndu o gioghèndu
me in sa brenti de sa mamma. In cussus tempus, invèciasa, sa primu
Mattisi
Mrecuisi
Giobia
Cenabara
Sabudu
Domigu
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S’avventura de sa vida
I disi de sa xida
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Bellus tempus
visita speciallìstica, spettàd’a s’aiàia, ca fìa sa prus’anziàna di edàdi
e sa pru pràtiga de mãusu. Beimìndi bella! Ge ndi obìada de tàccasa
de is crìnicasa di òi! Cun grandu attenziõi, fadìada totu a su toccu!
- Lassài mi bì a mimmi, narà sa beccittèdda, - ca gei ddu scìu dèu
su chi deppu fai. Immui si fazzu scì sùbitu chi è mascu o chi è
fèmmia.! Üa toccadèdda a sa brenti e sùbitu, senz’e nisciùnu dubbiu,
sa sceda prus aspettàda arribàda zètta e prezìsa: - Est’a pùntasa a
susu, dùncasa no si pòdidi sballiài. E’ mascu! E, mabagràbiu, gei si
ndi intendìa puru, bàlla!
Di fattu, sa dì de sa nascita, sinniora Domenica, sa primu strettica
de bidda nosta, bessènd’a fòrasa, zerriàda: - Funti duas femmièddasa!
Ma fìant’accullìdasa a su propiu, cun totu su coru e cun tott’is istrèpusu
giai preparàusu po sa primu dì de sa vida. Sùbitu is scimbussasa, sa
fasca e su triàngullu o...su cuaccèddu, a sa sadra, là! Totu arròba de
cotõi, linu, mollettõi o teba grussa (po aguantài de prusu.
Su neonnàtu, pobirìttu, de cussu momèntu, diventà pru mummiedda
egizziàna che pippìu, totu serrau cument’e ü bòzzullu de farfàlla
prima de si scrappuddài. S’ùnica cosa chi si bidìada, sciadadèddu,
fia sa conchittèdda spinniàda cu is ogus sprappaddàusu; e no si
scidìada chi fessi po sa strintùra de is codrèddasa o po su scraffìngiu
a sa schîa de sa sciustùra finzas’a su zugu, po is servizièddusu
abbudàntisi chi fadìada.
Sa cosa prù bella, però, fìa su girottìu - girèllu. Ingüi, nci passà
totu su tempu lìberu. Fiad’üa crobedd’e’quarra, cuncodràda cun
chirriòusu de xillõisi beccius, accappiàusu a istrìntu cun is tirèllasa
de sa unnèdda antìga de sa zia abarràda bagadìa.
Candu su pippiu cumenzà d’ammattuccài e a si strobeddài sempri
de prusu, accostummàd’a si nci furriai cun crobèdd’e totu e a si
scadraxiài de prantu, mes’abbungiàu a conca o a mùrrusu (e mancu
malli ca no iad’ancòra cuncòdràu is dentixèddasa!).
Po ddu torrai a settiu e ddi fai passai is sungùttidusu, però, is
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S’avventura de sa vida
màmmasa tenìanta pròntusu is biscottîusu Mellusu: càncüa scorriàda
de cimingionèddusu de pãi ammoddiàusu in s’acqua de funtã e appèna
appèna incaràusu in su zùccuru.
Cànd’accabbàda sa brovènda adìzziu adìzziu indrucciàda, tenìad’ora
succèndu su pippìu cuss’arrògu de teba mesu scorriàu e stirongiàu
de is gingìvasa giai accuzzixèddasa!
Drivèssu fìada candu cumenzàd’affottiài a cantrèxiusu. Po incarrerài
a ddi fai tastai cancüa cosa de prù sustanziosa, ddi ponìanta in mãusu
ü ossu de proccu giai allisàu de sa mamma. E ìta iàist’a bì? Cuddu
pippìu, pòburu nozzènti, stidingiàu de trumèntu po ddi ogai oll’e
còstasa, si ddoi drommiàda appàgu appàgu che üa bellèsa! Candu
fìada de intèna bona, invècciasa, ddi srebia po si ddoi stentai totu su
mengiãu e, cancü’òtta, su merì puru.
Cüi gust’allimentaziõi, arrìcca scetti de sabìasa, a nai sa beridàdi,
sa crescimènta, gei no si ndi pesà meda meda, no! Ma, assummàncu,
su pappai gei fìada sanu e cuntrollàu de sa tabella diettettica, cùssa
stabillìda dopu su consùrtu specciallìsticu cun su dietollogu e su
pediatru. Di fattu, fìnzas’a dexiòtt’ànnusu, no fadeiàusu atru che
arrecrammài sa tabella diettettica. - Ta...bella, nareiàusu cun is sabìasa
in corr’e bucca! Ta...bella sa pezza, babbài! Ta...bella sa costèdda,
mammài!
E, de torràda, su babbu e sa mamma: - Ma no podèisi pedì atru,
ca seisi sempri cicchèndu còsasa bèllasa, e bàstada? Cùssasa, no si
tòccanta, deghinò si spàccianta e no ddasa biei prusu.
E’ bèrusu ca bivieiàusu scetti addisiggèndu, ma di aicci puru, si
spassieiàusu e cresceiàusu: totu a frozza de sparau, matùzzu, lau,
fighèndiasa, pir’e pròccusu e, a sa fini, po diggirì totu su chi iàu
pappau o...no pappau, piricciòu de sattu, chi fadìada broccobài i
sabìasa fìnzas di ògusu!
Sa primu bessìda cuncodràusu a nou, fia cussa po andai a i scolla.
Mallionèddu fàtt’in domu, cun lana de brabei, prantalloncìnusu
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Bellus tempus
crùzzusu de teba ca pru crùzzusu no si podìada, po arrispramiài
arròbba, zòccullusu de taba candu si ndi tenìada, puetta sinnùccasa
nci fiada scetti su pei limpiu de su nasciòri; pinna cun su pinnìnu
sempri accancarronàu e, po accabài sa cuncòdria, üa fitt’e pãi ingiàbi,
mesu assiccorràda de sa basca. E bëimìndi mundu, ita bellèsa!
Cancùnu ad’a nai: - E su grembiullìnu? Gei nci fìa puru su chi
s’attrivìad’a ndi furai su pannianànti de sa mamma, ma gei nci stuppà
de sa scolla, cun su fragh’e xibùdda o di oll’e proccu chi nd’ittìada!
Però, deppu arricconnòsci ca sa scolla si praxìada. M’arregòdu sa
primu lizziõi. Su maistu, scedau, bonu che ü arrògh’e pãi, cannoscèndu
bëi su bivi nostu di onniadì, si prepparàda prissicollogicamènti, totu
appàgu appàgu, me in sa timmorìa de no si enni càncü attàccu a su
coru e ddoi abarrài parallizzàusu de gutta coràbi.
Di fattu, appèna intendeiàusu: - Pronti a fare i maccarroni!- nascìa
sùbitu üa spezzia de budrellu intra scraxiàlli. - Nosta Sannora mia!
– zerrià su prus axebiàu, - ta bella sa marraconada! Cun su fammi
chi lompìad’a chinzu, òi morrèusu tre bòttasa!
Però, a frozza de intèndi cussas còsasa, bolli o no bolli, gei
passànt’ammaròlla is accancarronadùrasa a su stògumu.
Dopu tre mesis de maccarrõisi in biancu, toccàd’a is lìttrasa de
s’arfabèttu. Arràzz’e ispàssiu, cussu puru! Oi, po nai, is pippìusu,
me in sa scolla, binti appiccigàusu a is mùrusu pullìusu e biàncusu,
quadrìttusu bëi fàttusu, totu pintàusu, praxìbisi, chi ingrunguìzzanta
sempri a studiai:
A uguàlle Anadedda
B uguàlle Briccichetta
C uguàlle Giuccollàtto
R uguàlle Ralloggètto pintàto
Po nosu, invècciasa, fianta totu còsasa de fai muccai su friusu scetti
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S’avventura de sa vida
a ddas intendi nommenài. A dònnia patti ti giràsta, no fadìasta atru
che bì e intèndi cosas màbasa chi ti lumbànta is còstasa giai pagu
imbuttìdasa di oll’e lùmbusu, candu no si nci pedrìada càncüa carrèr’e
dèntisi, puru.
Is quadrìttusu appiccàusu, sonànta aicci:
A uguàlle Agittoriu...mamma
B uguàlle Bastõi
P uguàlle Pettia
Z uguàlle Zirònia
E chi oindì, no impàra sùbitu sa liziõi, po penittènzia, a totu
mabandài, ti compòranta de ü marrocchìnu assummàncu ü
arralloggèddu. Po nosu, invèciasa, fiad’assiguràda üa scarrocciàd’e
schissiòba o de zirònia e...adiòsu barràcca cun sa past’e latti. Però,
e custa fia sa fottüa nosta, gei nci fia su prangiu a ti torrai a pàrisi
su logu, candu totu andà bëi.
M’arregòdu, sa torràda a domu. üa bella arraffriscàda di acqua
tèbida cun su sciampu de Parigi, in su bànniu luxènti e fragòsigu di
arràncu de froris arèstisi, cun sa maiòllica chi ti sprigàda a dònnia
patti ti giràsta. ma chi no nci muccàsta a su muttõi, corrovonàu de
is pùddasa, gei tenìasta cosa bella di aspettài!
Sia cumenti siada, pullìusu o accattobiàusu, arribà su momentu de
si sei a mesa. Deppèisi iscì, ca me is tempus passàusu, sa mesa, obia
nai totu. A s’ora giusta, difàttu, fadìa su quadru e cancü’òtta sa
pottografìa puru de su stad’e famìllia. Medasa o pàgusu, bàbbusu o
fìllusu, nisciùnusu s’azzadràda a mancai a s’or’e pappai. Anzisi fiaus
tòttus’a orìgas paràdasa a scruccullìai, fadèndu sa mantinichèdda in
s’or’e s’enna de coxîa, e abettèndu s’indrà de patti de sa mamma.
Ü tocch’e coccerõi a sa pingiàda annieddàda de su fumu de sa
forrèdda e, bëi o malli chi stadèssisti, mesu izzòppu a accallenturàu,
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Bellus tempus
toccàd’arregòlli is ùttimas fròzzasa chi abarrànta me in cròppusu, po
no nci dd’as pedri cumprettamènti schicchiobàu de su dinganimèntu
de su fammi.
Sa cuncòdria de sa mesa, impàri cun s’eticchètta de ...Missiè
Lassàllo, gei fìa pagu strolliccàda! Ü prattu mesu scannìu (a ddu
castiai bëi, parria chi essi fattu scummìssa po sighì aguantài!), üa
frocchìtta a còrrusu mes’accancarronàusu o giài struncàusu. Su fammi,
meda bòttasa, no pedronà mancu sa ferràllia: sa cullièra, sciadàda,
torràd’a s’òssu po s’allisadùra linguìstica. Zettu ca fadèndu sa lissia,
sa mamma no deppìada spacciài sa spunniètt’arrùvida, po ndi ddi
andai s’arrest’e s’ollu, no!
Serrà sa cuncòdria de sa tàvulla imbrandìda, cuss’arroghèdd’e
civràxiu tostau, post’anànt’e donniü, e istrunciàu de segadùra, ca
parrìa segàu de su maist’e càrrusu! A nai sa beridàdi, de su settiu de
sa talladùra, gei no ndi fadìanta contu is cantrèxiusu affottiàusu de
s’avvèsu a mazziai tostau.
Sa cosa pru bella, però, fia su follièttu affroriggiàu de su mennù
pressonnallizzàu, po podi donai arrispòsta a is disìggius prus
arriccercàusu.
M’arregòdu, donnia dì, su trabbàllu pru mau me in domu nosta
(ca fiàusu doxi de donai a pappai !), fia cussu de nc’approddài in su
parastàggiu de coxîa, üa pùnt’e billèttu scrìttu po sa desiderata de
s’incràsi.
Lisàndias còttasa a forru deu acostumà a domandài sempri,
sottillèttassa meda, arrosbìffu cun conniàcciu, fibèttu o... fibi cittu
de boi cottu pagu a su sangui, kiiuis o...schìbius de fammi, annannàssu
a fìttasa (mànnasa a su stògumu!), e, po finì bëi, üa bella ciccarèdda
de Gaffeu. Arròbb’e prima callidàdi! Spudeiàusu mamma de caffè
tòttu sa dì. E a nai sa beridàdi, sa torràda gei no si fadìada aspettài
mèda meda. Ü cartèllu mannu, narà sempri: mandiàre arrichièsto,
arrinviàto preche’ sheffo no’ arrivàto. E di aicci, de üa dì a s’atra,
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S’avventura de sa vida
s’arrisurtàu fìada unu scetti: o mangi di questo minestrello (acqua e
ollio!), o sarti questo pranzerello e, cancuna vorta, il cenerello , pure!
Oi, invècciasa, òinti tott’is cosa bèllasa e proffummàdasa. E aicci,
si alliàganta su nuncu cun is muccadòreddus de pappèri e imbrùttanta
su logu scavuenducèddusu a terra! E bai in bonòra s’ambiènti cun
s’ecullogìa!
S’atra pedra milliari de tëi bëi annòttu me in sa vida è siguramènti
sa Prima cummeniõi. M’arregòdu is maìstasa: zia Maittèdda, zia
Consollàta, zia Lisètta, zia Cràmmina, zia Pasquallìna, zia Arrosìna.
Arrazz’e festa in famìllia! Fìanta tòtusu parèntisi di accànta!
Totus’izzìasa!
Ma, maccai nci fèssinti is accàppiusu de sangui, chi no ponìasta
memmòria a imparài sùbitu sa drottîa de su catachisimu, gei nci
torràsta a domu cun is trèmpasa mesu scuncodriàdasa! Abòttasa
parrìanta üa circhiòlla de xeu doppu su dillùviu!
S’arreccumàndu, poi, sa salla de lezziõi, oiamommìa bèlla! Fia sa
Cappèlla de su Santissimu, tòttu ingiriàda de bàngusu arrogàusu e
de cadìrasa scosciàdasa, chi parrìada ü corràzzu de brabèisi cun
s’attàccu de su mabacadùccu.
Candu torreiàusu a domu, mesu axebiàusu de su fammi e de su
sonnu, cussa fitt’e pãi cun ladru chi aghetteiàusu maccai mesu
annieddàu de sa cagadùr’e musca, gei ndi ddu fadìada scarraxiài su
sonnu di ògusu e su pruîu de mùrrusu! Però, bëi o malli, si
prommovìanta sempri a tòtusu, e tòtusu impari fadeiàusu üa bella
festa po arreccì sa primu òtta a Gesu Cristu.
E aicci, de festa in festa, si crescìada e si tiràd’a innàntisi.
Arribà su Natalli e benìa sa Befana. Cussa pùru, sigurèdda iad’èssi!
Deppèisi iscì, ca in cussus tèmpusu, Gesùsu pippiu, ancora troppu
pitticchèddu e nozzènti, no tenia su premmìssu de bessì assou adenòtti.
E di aicci, ia donau su podèri a sa Befana, parenti di Eva de tantus
sèccullusu, maccai beccittèdda e mesu mobadiòngia, a pottai is
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Bellus tempus
arregàllusu a donnia picciocchèddu chi duranti s’annu ia fattu a
bonixèddu.
Abòttasa, sciadàda, cun sa cataràtta me is ògusu chi dda fadìanta
mesu zrùppa, nò inzettà su logu o nc’arruìada a su fògu e abruxendusì,
lassà scetti crabõi mottu. Cussas pagus ottasa chi nc’attaffàda a sa
crappìtta giusta, pòbera in s’òssu cumènti fiada, lassàda adìzziu
adìzziu duas figus siccàdasa, dua nùxisi o ü mandarinu, e chi proppiu
fìausu stausu bonixèddusu bonixèddusu, podia lassai ü arroghèddu
de sattìzzu mesu stantissàu!
Sa bellèsa, però, de cussus tempusu de picciocchèddus de crobi,
fìanta i vacanzasa. Podeiàusu scioberài donnia tippu de locallidàdi
turìstica po is feriasa longasa o is vuichendisi mussia e ...fui. Sa
locallìdadi pru cannòtta me in cussus tempus fìada s’...Arenilli de
Frummi Mannu beach, su carròppu de Santa Luxìa, là!
Pòi si podìada cambiai aria a Muntarràsu camping o Cùccuru
Santa Rita rellax.
Su seddorèsu chi proppiu obia cumenzài de pittìccu sa ia de is
attividàdisi sportìvasa, gei tenia cosa de scioberài! A pottàtta di mano
e di pede, podìada andai gràttisi a su...Saddori sport center, axròbasa
imbrazzamàdas de is brabèisi o de is bàccasa a vollontàdi...
A su nòtti, infìnisi, a si sezzi in sa friscùra po is giògusu de
sozziedàdi, cundìusu de còntusu de mòttusu e da pantàsimasa. Arràzz’e
sonnu discanzòsu, appùstisi! Però, aicci puru, cresceiàusu pagu in
fottillènzia e, prus pagu ancòra, me in sciènzia.
S’edàdi mattucchèdda si pottàda a fai su millitari, chi dd’ oi fia
s’artèzza e su xriccu torràccicu, e poi, a penzai a si coiai e a si ciccai
ü trabàllu.
E calli trabàllu me in cussus tempusu?
A nai sa beridàdi, de mestièrisi, gei sindi scabullìada, po chi tenìada
gana. E incummenzànta de picciocchèddus pittìccusu. E poi, iast’a
nai ca no tenìasta tìttullu onnorìfficu. Tòtusu ammaistàusu. Ndi antèssi
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S’avventura de sa vida
arrùttusu quattru òttasa de i sa scabèrasa de s’Univressidadi!
Ma, sia cumènti siada, totusu ddis izzerriànta maiste’e pannusu;
maist’e murusu; maist’e carrusu; maist’e crappittasa; maist’e linna!
Avvòllia de scioberài sa callidàdi de insenniamèntu! Is atrus trabàllusu
prusu arramattadèddus fìanta, invècciasa acconciacòssu, cuzzalifèrri,
bandidòri, interramòttusu, pastòri, mindadòri, marradòri, pudadòri,
sozzu, castiadòri de axròbasa, castiadòri de bìngiasa.
Cùssusu chi ponìanta pagu dabòri de conca, fìanta is trabàllus de
is vippis o ellittisi. Ma fianta troppu pàgusu: su mèri (arràzza di àtti,
custa!); su potacàriu, su frebòttumu, sa levadòra, ( gei ndi onà quattru
de nadiàdasa, dònnia dì!).
Donniü podìada imparài su mestieri chi dd’aggradessìada. Ma ü
mestieri tòtusu, deppìanta scì fai: su panetteri domesticu! Ü mestièri
troppu importanti, chi srebia po bivi, dì po dì, maccài poberesamenti.
E tra sudòri e arrìsu, sallùdi o mobadìa, s’avventùra de sa vida de
is tempus andàusu, nci scorriàda a pagu a pagu, fìnzasa a candu,
cument’e tòtusu in custu mundu, si serrànta is ògusu po bì atra luxi.
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Cancu diciu
Bellus tempus
Fridu che sa nì
Friscu che s’arrosa
Frunziu che fa
Grai che û tronu
Grassu che û proccu
“In mesu che su mreccuisi.”
Grogu che sa xera
“Ad’a tenni duas giobiasa.”
Imbriagu che suppa
“Tristu che sa cenabara.”
Lebiu che ûa pinna
Leggiu che su tiau
Longu che s’annada maba
Narànta is antigusu
Luxenti che su sprigu
Maccu che û quaddu
Marriu che cãi
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Arrosciu che pezza pudescia
Nieddu cha sa pixi
Arrubiu che su fogu
Prêu che s’ou
Asullu che su lillu
Prexiau che puxi
Bellu che û frori
Pudesciu a bentu
Biancu che su casu
Pudesciu che cãi motu
Bidri che s’erba
Sazzau che intruxiu
Brundu che su nènniri
Sciugu che sa linna
Callenti che su latti
Siccau che s’ossu
Caru che su fogu
Tontu che ûa cozzîa
Drucci che su zuccuru
Tostau che sa balla
Frassu che Giuda
Tristu che sa notti.
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Bellus tempus
Giògusu e gioghìttusu
Sa xida de su mandrõi
Giògusu e gioghìttusu
Arregòdusu de su tempus andau
“Palchì no torri,
di tempu passatu!
Palchì no torri
di tempu paldutu!”
Lûisi lûisi miu
Mattisi no ddu sciu
Mreccuisi incappasa fibu
Giobia fazzu farra
Cenabara cozzu pãi,
Sabudu non pozzu
Domigu è baganza.
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Aicci cantàda, cun is suspìrusu in su coru, ü poetta de sa patt’e’
Sassari. Ma teniad’ora cantèndu, su picciòccu. Su tèmpusu no si
frìmmada e de sa giovventùdi, bella o maba chi sìada stada, chi si
òllidi o chi no si òllidi, abàrrada scetti s’arregòdu.
E in conca? Cant’arregòdusu ddoi aidi istuggiàusu! De fammi e
de abudànzia, de festa e de tristùra, de sallùdi e de mobadìasa, de
fattìga e de bagànzia, de giògusu e de gioghittusu, sempri bèllusu,
sempri nousu e, asùb’e totu, sempri abettàusu. Puetta, s’atti pru bella
de su picciocchèddu de ü otta, fìada cussa de fai gioghittèddusu.
Su mommèntu prus indiccàu fia su mericceddu , a sobi mesu
indrommiscàu, cun s’àbidu de su bentixeddu estu, chi spirà de
Biddaxìdru a t’infriscài sa peddi bruttàzza e ü poghèddu scallentàda.
I màmmasa, doppu üa dì passàd’a trummentài e attrippoggiài cun
is fìllusu e is animabèddusu de su cottìlli, arrolliànta asùtt’e su pottàbi
prù mannu e prus apprigàu de su xiãu, (su scannixèddu a fundu de
fastòia frisca in mãusu, chi nò manchèssidi!), e tòtusu pigàdasa de
s’arràlla, accrastullàda di arrìsu, lassànta chi is fìllusu si stentèssinti,
fadèndu maccai màbisi, in dònnia manèra.
Di fattu, sa primu impunnàda de su maschixèddu, po misurài is
fròzzasa e s’abillènzia, fìa sa giogàda de sa strumpa, üa spezzia de
lotta ammericàna fàtt’a sa sadra, in mes’e s’impedràu.
Su chi pedrìada sa lotta, giai sempri accostummàd’a nci lassai in
terra ü scantu dèntisi o cancüa costa scannigàda. Però gei dd’aspettàda
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Bellus tempus
ü bellu prèmmiu finàlli: üa scuttullàd’e pettia di ollàstu fatt’a nusu,
de patt’e sa mamma, dd’accabbàd’e callentài sa schîa e sa nadièdda.
Cettu ca su picciòccu, po totu su merì, no si torràd’attrivvì a ciccai
su puggillàu furistèri! Prepparà, prusappèstu, ü àntru giogu arrillassànti
e prus pagu pirigullòsu po s’ossammènta ancòra strammattigàda. Per
esèmpiu allisàda is corixeddasa a ispùdu lattinòsu , po fai curri prus
allèstru is pallinasa de terra cotta o de gazzosa, oppùru prepparàda
is pirastasa, üa spezzia de gallettìna tunda de pedra o de tabàcciu,
po’ studai mèllusu su muttonèddu de sa fa crobètta de terra!
Bellu giogu custu, nommenàu faffonnànna! Bèllu, però, fia su
sciaccu, candu, spacciàda sa fa frisca, furàda naturarmènti de is
càrrusu chi passànta me in s’arrùga, po andai a s’axriòba a dda trebai.
Chi obìasta sighì a giogai, eh...ti deppìasta arrangiài cummènti
Deusu bòidi, cicchèndu s’arremmèdiu pru fàzzilli, ma de zettu, ü
poghèddu azzadràu: üa tiràda a istrùnciu e adiòsu i buttõisi ...de is
prantallõisi.
Mau fìada candu si nci pedrìanta cussus puru! Chi no pottàsta
codrèdda bella in bucciàcca, gei tindi cabàda üa bella giorronnàda
de sobi, torrènd’a domu, cü is pantallõisi appoddàusu in mãusu!
Però, candu cabà su scurìu, pappau ü mussièdd’e pãi lunt’a
tammàttiga frisca (nàsciu, s’ìant’a scancioffài i gengìvvasa cun sa
spazzullèdd’e is dèntisi, prima de nci essì di omu!), sùbbitu,
cummenzànta i drivessivi nottambulli, chi oindì, a sa tellevisiõi,
izzèrrianta giochi di merzanotte e...drintorni...!
Su pru nodiu, po donai s’indran a sa seràtta, fia su giogu de
mammaccùa, spezzia di nascondimmènto arràpido, durànte che si
contàva fino a diècci dippiù no si eraviàmmo cappàzzi. Pòi sighìada
su zaccaeppõi, spezzia de spruzzigàda arrogadùra, chi nci furriàd’a
terra su pobirìttu mabaccappittàu.
Is chi timmìanta i sas spruzzigàdasa a is bàrrasa, girànta a illàrgu
e currìant’a xriccu cun sa mettànicca, arnèsu de ferru o pettia de
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Giògusu e gioghìttusu
canna bëi allisàda chi fadìada girai ü cerchiõi becciu de
briccicchètt’arrogàda.
Su chi no tenìada sa possibbillidàdi sfinanziària de comporài custa
attrezzadùra de arrìccu, si nci ghettàd’a sa badrùffa, giogu prus pagu
dispendiòsu e prus’adattàu po dònnia accurrènzia.
Ma su giogu pru fini e pru poetticcu de sa notti, fia cussu didiccàu
a sa lüa. Candu bessia cussa bella lüa, a trèmpasa sempri bëi prëasa,
incarreràda de dèntisi arrisprendèntisi de su prexiu, (oindì, po finzas
sa lüa è trista e mobadiòngia, sempri minudèdda, e si fai bì adìzziu
adìzziu e a spizzuèddusu, totu istrunciàd’e fatta!) po nosu fia su
mommèntu indiccàu de cummenzài sa nennia de sa giogàda: una la
luna, due ar bue, tre al re, quatturo spazzullini e mani in terra!
Arràzz’e giogu intelligènti e sinzìllu! Ellusu, cument’e cùssasa
imbrabballuccàdas de femmîèddas, a bambulleddasa de izzàppu in
mãusu, no mi tocchètti che mi caghètti, sempri a inzùnchiusu e
zicchìrriusu! Nosu maschittèddusu, de izzàppu fadeiàusu scetti sa
boccia, po giogai cun is peisi. Cùssasa, invèciasa, alle belle stattuette!
Orasa e òrasa, ingüi, frìmmasa che mummùzziasa, pillìguru de ndi
pigai cancu puntòri.
E poi bellixèddasa chi no fìanta! Su froccu pru mannu de sa conca!
Scrùzzasa...su istirèddu poi si ddu arraccumàndu! Totu stirongiàu a
pattiàttra, fia cruzzu e parrìa longu, mesu ingespiàu de succ’e
trammàttiga, arròri bèllu! de...modèllasa di cinemmatrògaffo o de
missaittàllia!
Ca no fianta curiòsasa, poi, candu scioberànta su giògu de musca
zruppa (càncüa bastonàda de pistadùra a is contonàdasa de is mùrusu!),
o cussu de cavvalieri in potta oppùru scaberèddu scaberèddu o ancòra,
cussu de s’anèddu, po prepparài sa coia. Ta mmi sia sa coia de cùssasa
strecchèddasa!
Ü giogu prus allìrgu e carinniòsu fiada, invèciasa, cussu de sa
fillastrocca sadra, chi donà sa penittènzia a su chi sballiàda! Bàlla!
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Bellus tempus
In custu giogu, sa femmièdda, bella de linguàzzu, no sballià, nou!
Sempri a nosu toccàd’a pagai!
S’attru giogu mescollatto o prommisco, premittiu de is màmmasa,
fia sa spirriccìa uno, spirriccìa duo, triei, quatturo, puetta ca fadìa
cannòsci a su chi ìada studiàu sa tabellìna pittagòricca.
Su peinconèddu, sàttidu a camba assobàda in mesu de is casèllasa
sinniàdasa a inghìsci, oppùru su sartido colla fune, fianta is
esercittazzioni finalli, ollìmpiche femminìlli.
Nòsu maschixèddusu, no teneiàusu sciabèru: sa finàlli di onnia
notti fia sempri uguàllisi. Fògusu di attiffìziu a bottu de carburu.
Candu scoppiànta cùssusu, in mes’è su ludràgu e su fragu pudèsciu,
sa cumpangìa si sciollìada e tòttus a nànna. Tanti, s’uncràsi, fìa sa
stessa minèstra: arràllasa de is mànnusu, giogus e gioghittusu de is
pittìccusu.
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Is mesisi de s’annu
Is mesisi de s’annu
Gennarxiu
Friaxiû
Mrazzu
Abribi
Maiu
Lampadasa
Mesi’i axriobasa
Austu
Cabudannu
Mes’e ladammi
Onnia Santu
Mes’e idasa
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Bellus tempus
Cancu diciu
Cancu diciu
Gennargiu: bîu, satizzu e civraxiu.
Gennargiu: disi ndi conta trintuna, ma chi dd’accùcada
no tindi lassa traballai manc’una.
Friaxiu: donnia pillõi põidi a scraxiu.
Friaxiu: cruzzitteddu, totu giogu, senz’e cappeddu.
Mrazzu: mrazzu siccu, messaiu arriccu.
Mrazzu: sperra peisi e scroxia brabeisi.
Abribi: nci tòrrada su leppiri a coibi.
Abribi: abribi sciuttu, messaiu arruttu.
Mesi de axriobasa: tempusu de aberri i mobasa.
Mesi de axriobasa: su bentu a riga a riga ndi ògada sa
biga.
Austu: marrammidda in austu chi òisi fai mustu,
Austu: su mesi pru giustu..
Cabudannu: Acconcia su pannu ca nci passaus s’annu.
Cabudannu: scavuanci su lodammi po boccì su fammi.
Mes’e ladammi: no si timi pru su fammi.
Mes’e ladammi: Gennargiu prêidi is foràdasa.
Mes’e ladammi: prêidi is carràdasa.
Onnia Santu: a Santu Mattî sa carrad’à prantu.
Onnia Santu: non c’è lazzu paràu che su lori arau.
Mes’e idasa: tra baganzasa e dì fridasa nc’eu bogau s’annu.
Mes’e idasa: tra festasa e dì fridasa, baganzasa po tres
cidasa.
Maiu: maiu arrosiau, mesi proffummau.
Maiu: maiu affroriggiau, senz’e fundoriu chi è acquau..
Lampadasa: chi no podi messai, spigada.
Lampadasa: malleducau, de palla m’à carriau.
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Bellus tempus
Mexîasa de u’otta
Me is tèmpus andàusu, ma non troppu, prima meda, però, chi sa
Sanidadi fèssidi arrefrommàda a su pàrisi de su sodràu de leva,
patticullàri me is bìddasa scarrappacciàdasa, is apparàttusu po assigurài
a sa genti sa sallùdi fìanta diadèrusu paghixèddusu.
Su Tiki fìada scetti cussu de su mabaccadùcu, e is fàsciasa de
pagamèntu, chi oi ant’appiccigàu a is mexîasa, in cussus tèmpusu
benìanta attruccillàdasa a is pòburusu pippièddusu appena nàsciusu.
Tombollini, De Lareèzu, Sgarravàllia, Arrosabrùnda...e chi ddus
cannoscìada? Cummessiõi premmanènti de sallùdi pùbbrica? Gei nci
fiada in cussus tempus puru. Ma fìa frommàda scetti de tres pressònasa:
s’Arrettori po dd’aggiudài a mòrri, su maist’e linna po fai baùllusu,
e s’interramòttusu po ddi ciccai domixèdda de acuiài po sempri.
Chi su parèri asub’e su brofètt’e sa mexîa dd’onà su preìdi, ancòra
ancòra su digraziàu si podìada arrecumandài s’ànima a Dèusu.
Ma chi nc’arruìada in mãusu a is atrus dusu, adiòsu barracca! No
accudìada mancu a imbruttài is cràzzasa!
De dattòrisi, dùncasa, mancu s’arràstu. Adìziu, adìziu nci fia su
frebòtumu, üa spezzia de speciallìstu arrùsticu fattu in domu e
femmîèddas bellasa a improddai donnia impriàstu e a cuncodrài
donnia arrimèdiu. De cussas femmîèddasa gei si ndi scabullìada in
abbudànzia. I nòmisi de su pressonàlli mèdicu e de cussu
infremmierìsticu, pònianta brugària in cròppusu scetti a ddus intèndi
nommenài: ziu conca carròccia, bonu meda po tirai casciàbisi e
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Bellus tempus
scuncodrài cantrèxiusu; zia Annixedda bruccuìtu, pràtiga po sanai
sa co fatta a gancìttu, s’appendicìccolla di òi, là!; zia Maria corriàzzu,
maista de s’ogu liau, cand’unu fiada striau de s’asssìcchidu.
Custa fèmmia, parri chi fèssidi aicci leggia, ca scetti su s’apparài
in su pottallìt’e s’enna de coxîa mes’affaccàu, a su pobirìttu sciottunàu
chi benìada a passài, ddi pigàda üa spezzia de scatarru abbruschiãu
e ddoi abarràda mottu accidriàu.
Narai totu su chi obèisi, ma assummàncu su sreviziu premanenti
de guàdria medica fìa sempri assiguràu.
Maccài s’àbidu de.cuncòdria de su dattòri candu andàda a bisittài
su pippìu o su mannu mabacapittàu chi arruìada iscònciu, gei fìa
pagu fraccòngiu. Podèisi maginài su dattòri frebòttumu, candu torràda
de pasci is pròccusu!
Sa muscìllia, fadìada de bussa pottastrumèntusu po is accurrènziasa
prusu difficurtòsasa: livèllu po misurài sa callentùra, sanguissùgasa
po abbasciài su fogadõi de su sangui, decottèddu de cim’e lampàzzu
e coramèdd’e moddìzia, po ndi ogai su muccu de is prummõisi,
pruîusu de scatàrru assofocatòriu, arroghèddusu de lua siccàda po
s’avòmbitu buidu, mazzùccu a conca lisa, po su mabaccadùcu
arrivortòsu, croccorìga de piricciòu po su pàsiu ( su breku de gaffeu
di òi, là!, candu s’operaziõi tirà troppu a longu).
Cument’ei biu, totu su necessarièddu po podi aggiudài su pobirìttu
a nci trapassài de sa notti a s’atra vida. Però, a patti is brùllasa, gei
si ndi scabullìada, in cussus tempus puru, arrimèdiusu naturàllisi po
donnia arrazza de màbisi.
Eccu, üa spezzia de prontuàriu sanitàriu antìgu, ma chi oi puru,
bollèndu, donniü po contu sù, poidi sperimentài in domu o me in su
sattu, senz’e pagai tìccusu e senz’e fai tàccasa abettèndu su dattòri.
Dabori de dentisi
Cucchèddasa de scetti affibbiàdas a bàrrasa!
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Sa preparaziõi è fàzzili e lestra: si pìgada ü poghèddu de scetti de
trigu Cappelli, no cussu de trigu dent’e cani, totu brenti bianca chi
no balli nudda; si impàstada a longu cun bîu axèdu (a is tempus
andàusu gei si ndi scabullìada unu zicchèddu, gràziasa a su Sinniori;
su bîu, chi no fìada spuntu, no fìa bellu!), e poi si spràxidi in d’üa
pezza de teba bianca (ma, chi est’asùlla, ddi faidi üa stoccàda, ddi
fàidi!), e si nci appròdda me in trempa unfràda, bëi bëi accappiàda
a gir’a giru de sa conca.
S’effèttu è giai sempri sùbitu benèficu. Candu, però, no funziònada
in custa manèra, c’esti ü’aggiùdu prus sigùru: sa rezzètta de ziu conca
carròccia, chi dd’adi sperimentàda meda cun is pròccusu.
Dùncasa, a totu s’ammestùru de prima s’acciùngidi üa fa siccàda
in bucca, s’allùidi a fogu abìllu su forru de coi su pãi e sinci incàrada
sa conca cun sa fa. Candu custa è cotta sperràda, su dabòri de su
casciàbi, de sigùru, è totu sparèssiu.Sa rizzètta, pagu cumpricàda, nu
ha mai faddìttu. E’ maracullòsa! Provài po crei!
Dabori de conca
Innoi puru nci srebia sa fa, ma cust’otta occùrridi üa bella fa frisca
sperràda, appèna appèna spappàda.
Üa perra si põidi in sa memmòria de derètta e s’atra perra me in
sa memmòria de manca, appiccigàdasa a fotti a fotti cun is dua mãusu
e doppu üa mesorèdda de sfrigadùra e craccamèntu a giru tundu, giai
sempri passa su dabòri. Chi custu no suzzedìada, zerriànta a ziu conca
carròccia e sa mazzòcca a conca lisa accabà sa cura cun brofèttu.
Dabori de brenti
Custa rezzètta, lestra e sigùra, fia praticàda meda de Zia Annixèdda
Bruccuìttu, imparàda - pàrridi - a frozza de furai prupellènti de is
Arrioprànus ammericànus, me in s’Acqua cotta de Biddaremòsa:
Zia Annixèdda, dùncasa, ponia su mobàdiu brent’a ceu e cun is
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Bellus tempus
mãusu accappiàdasa a patt’e asègusu. Fattu custu, cumenzàda a frigai
su stògumu indaborìu cun petrolliu bëi callenti, ghettèndu üa parìgh’e
istìddiusu aìntru de s’ombellìcu, su biddiu, a sa sadra, là!
S’affoghìggiu e su callentòri chi ndi stuppàda, nci ogà donnia
dabòri de brenti. S’ùnicu incumbeniènti fia ca a s’incràsi sa peddi si
pesàd’a busciùcca e scoppiàda a lìquidu artamenti infiammàbilli. Ma
s’arremèdiu, gei fia broffettòs’e totu.
Dabori de zugu
Po custu mabi s’arrecurrìada a sa pudda oppùru a su quaddu.
Zia Maria Corriàzzu pigàda ü poghèddu di ollu de pudda o de
quaddu, ddu callentàda in d’ü tianèddu de terra cotta smartàda, ddu
spraxìada in su zugu e, agò, ddu trogàda cun sa sciarpa de lan’e
trottòxiu buddìda. A s’un crasi ammengiãu, chi andà bëi, fia totu
scarèsciu. Chi no arrennescìa cussa cura, nci fia sempri prontu Ziu
Conca Carròccia cun su forru callenti...
Dabori de origasa
Innoi puru sa rizzètta fiada a basi di ollu callènti. Bastàda ü
zicchèddu di ollu buddìu in s’orìga mobàdia, üa notti accugucciàu
a lettu, e po su pazziènti accabànta is dabòrisi.
Su màu fiada candu sa dottoressa Bruccuittu abbundàda ü
poddixèddu me in su tanti o me in s’affracchìlliu de s’arràlla cun is
ammìgasa, si scarescìa s’ollu in su fogu.
Su maràccullu, sciadàu, gei ddi passàda! Buddèndu cumènti fiada,
s’ollu ddi stampà su trìmpanu de s’orìga e a su pobirìttu ndi ddi
torràda in càrigasa affritteddèndu me is cantrèxiusu e me in sa lingua.
Issàrasa gei fìanta dabòrisi diadèrusu!
Guroisi de sangui
Ollu minàu e cera noba po nappuittusu!
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Custa fìa su succia sangui ammallòrau de su gurõi assoddìttu. Fìa sa
cura de sa scienzia prus avanzàda, po cussus tèmpusu!
Candu, però, no scioppàda cun su nappuìttu, si torràd’a s’antìgu,
arreccurrèndu a ü ferru operatòriu totu patticcullàri, chi scetti ziu
Arrolliu baffu, sabatteri nommenàu de Futtei, tenìa sempri prontu:
sa sua a punta furriàda a ganc’e proccu!
Üa infrissìda bëi donàda e gei ndi stuppà sa mattèria truazza a
muccu caborìu e gei ndi cabàd’a lestru s’unfradùr’e sa camba!
Bogadura de pari
Su trattamèntu tirapèutticu prusu usau fia cussu de su sab’a pedra,
scallau bëi me in d’ü lavamàu di acqua frida.
Postu su pei o sa mãu a ammoddiài in custu lavamàu de ferru
smartau (chi è possìbilli scroxiobàu, po ddi muccài mèllusu su ferru
arruiàu), sa cura bandà fatta durài setti disi e setti nòttisi. Chi poi si
tenìada s’avvettènzia de acciùngi a s’acqua sabìda cancü’arroghèddu
di allu friscu, su pei o sa mãu fìanta pròntusu a coi a cadrìga e fai
sallamòia.
S’àtru trattamèntu ottopèdicu meda broffettòsu de ziu Niccollàu
froscèddu, specciallizzàu in sa crinica trottomollògica Arfio Zudda
de Cruccùrisi, fia su picch’e pãi cun latti. S’effèttu fia cussu de
s’inghìsci intostàu, ingeostatùra di oindì, là! Scetti ca custa incrostadùra
fia pru lestra di effèttu. Difàttu, appena si ingiriàd’a sa patti chi ia
tentu su dannu, totu a frozza de pallittèdda de muradòri po maiòllica
de còmbudu, arrolliànta de pressi musca, muschìttu, muscõi, àbisi,
lambrèttasa e Zanzàrasa collùdasa, chi attaccànta a pungi arrogàdura
su mobàdiu, fìnzasa a candu su pobirìttu. olli o no bolli, sindi
strempiàd’a curri, sanèndu a su stanti.
Scarraffiu de cani
Posollògia scientrifica: Nòdolli guinàlli di debollèzza sfamìfuga
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Bellus tempus
Candu bessìanta cussu nuixèddusu dolloròsusu in mes’e càmbasa,
is beccius nòstusu, custu fattu, d’attrivìanta a su cãi, chi, fadèndu is
...abbisòngius susu in mes’e sa ìa, scarraffiàda sa terra.
Su mabacapittàu chi ddoi ponia su pei asùba, ndi pinnicà su mabi!
Ma, su motìvu, invècciasa, chi fadìada spuntai i nodulli trubecollari
dabillitanti a tipu codroîu tabacch’e mraxiãi, fiada sa dieta ecullògica
frozzàda de dopu sa guerra (su fammi, là!)
Però sa cura fìa curiòsa diadèrusu. S’arresurtàu, maccai, prus pagu
gioiòsu! Dùncasa: si pigàda terrixèdda fini fini e sciniòsa de linna ,
sprüiàda me in su scetti (spèzia de borrotàrcu modernu, là) e si nci
scavuàd’a terra.
Su pippìu, mesu disinganìu de fammi e iscosciàu de zoppìmmi,
dda deppia sattai currèndu e spudendìdda asùba. Chi no inzettà su
spudu a sa turra, torràd’a cummenzài. Agò sa mamma pigà sa turra
maracullòsa e nci dda craccaxiàda me in su nuixèddu mobàdiu e po
premmiu, nci ddu pottàd’a lettu chen’e pappai.
S’incràsi, chi totu andà bëi, su picciocchèddu abarrà parallìticu
assummàncu po ü mèsi.
Atras mabadìasa nci fìanta: su tussi mobentîu, sa callentùra martèsa,
cussa de sa mallària, sa diarrèa mottàlli, s’arrasfrìu a canabi frassu,
s’àsima sbrunchiàlli a fìschiu de trenu in pesàda, là!, su scadrimèntu
insanguentàu, s’abarradùra de su carru (sa stìppisi di oindì, là!), su
dabòr’e costau a suidu de cabor’e siccu, sa straccommatòsa a is ogus
(üa spezzia de ziddìca appiccigadòngia, a sa sadra!)
Senz’e contai priogu, puxi e lìndiri, chi aggiudànta a nci passai su
merì me in sa ia, arrallèndu, sprughèndu e scraccabièndu a festa.
Insòmma, in cussus tempus puru, gei no si podìanta lamentài de
is mabis chi si cannoscìanta. Sa fottüa fiada ü antra, però. Tòtusu is
cùrasa fìanta baràttasa: si spendìa pagu po bivi e prus pagu po morri.
E narai ca fìa pagu cosa cussa…
Assoddimentu de idu
Su trattamèntu studiau po custu mabi è fruttu di ànnusu de pròvasa
frammacollògicasa de su frebòttumu ziu Conca carroccia, sperimentàu
in su Laborattòiu Furistèri ottosallicìllico murcollìticu a pullitùra
arràppida de is proccus de Santa Cadenìa.
Sa cur’è lestra: acqua buddèndu in cassaròll’e terra cotta; dùasa
o tresi intràdasa e bessìdasa de su idu sconciu e s’assoddidùra è bell’e
che sparèssia. Cancü’otta, però, po sa buddidùra de s’acqua ü poghèddu
arretraddàda po iscarescimèntu, a su pobirìttu, chi no accudìada a
ddi cabai gutta corabi, ddi sparessìada assoddimèntu impàri cun totu
su idu. Certu su quadru crìnicu de totus is mabis de su tempus passau,
presentàu in custus pagus fuèddus, no poidi essi cumprèttu e finiu.
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Bellus tempus
Su sabatteri
Su ferreri
Su maist’e linna
Su sedderi
Su braberi
Su panetteri
Su messaiu
Su procaxiu
Su pudadori
Su guetteri
Su interramotusu
Su buttaiu
Su maist’e pannu
Su maist’e muru
Su crannazzeri
S’ottuãu
Su barraccellu
Su castiadori
Su pisciaiu
Su carratoneri
Sa levadora
Su craddaxiaiu
S’acconcia cossu
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Su bandidori
Su messadori
Su marradori
Su sciaferru
S’acciappacãi
Su potacariu
S’arrettori
Su stangheri
Su stangiaiu
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Bellus tempus
Bellus tempus
Invocaziõi
Cara mammaicella...
Santr’Abara e Santu Iaccu,
osu pottàisi is crai de lampu,
osu potàisi is crai de xeu.
No tocchèisi a fillu allêu,
nè in domu nè in su sattu!
Santr’Abara e Santu Iaccu!
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Bellus tempus
Cara mammaicella
Cara mammaicella
Currispundènzia epistullàri de su...spattriu a Aborèa
Maccai poberesamènti, in su tempus passau puru, cumènt’e òi, is
picciocchèddusu, accostumànta a pattì attèsu di omu, po fai üa
parìgh’e disi de vacànza. Efisièddu, spray-boi de Seddòri, dezzìdidi
de si nci stesiai meda de sa idda sua, impàri cun sa cumbrìcculla de
is amìgus prus’ accunnotàusu.
Sa spiaggia de aghettài, esti, po cùssusus tèmpusu, attesu e pagu
serbida de mèzzusu de trasportu. Sa locallidàdi sciaberàda, si zerriàda
Aborèa, in sadru, o Mussollìnea, in talliano.
Arribàu a su logu sonnau, cìccad’e imparài bëi sa lingua furistèra
e cumènzada a mandai a sa mammai, lìtrasa de su viaggiu e de sa
vida di onnia dì de su campèggiu .
Sa prima littarèdda sònada di aicci:
Cara mammai,
ànzisi, cara mammaicella (chi fa piu talliano arricercato), chi sei
buona e indovini inzettando e chi e che ti scrive questa littra a missiva
quasi continentalle. Ci scommitto che anchi si sei abilla e spizzecca
come la margianetta di boscallia, no nci riesci a sciorinare la mantassa!
Eppuro, no è diffizzille, connoscendo i tuoi casalinghi fatti in casa
di te stessa.
Zetto, a primma vista, ti potteresse sembrare anche una scritta di
studiante di scuolle grandi o dirittura nivressitarie. Ma proppio li nci
fa la cascatta l’asinella. E’ tuo fillio Fisieddu, mammiccella! Proppio
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Bellus tempus
lui, chi a due giorronnatte solle della dippartitta dalla sua nidiata
nascittalle di Salluri, a paratto a iscrivere colle mani di sestesso onni
parolla talliana!
Tu puoi magginare chi si ano pottatto in uno paeso straspostato da
Continnente a Sadrinia e chi si chiamma Musollinea, ovverosia in
sadrinniollo Aborèa.
Cui la terra è cuasi ugualle alla nostra. Sollo chi è tutta scannallata
a srucchi grandi coi canalli di aqqua, dove nci scorrono a vollontà i
pisci chi li chiammano trinche.
La lingua si chi e un pocchettino drivessa e trobeddata, per afferrarla
subito. Però il cappo iscuadra vuolle a prallettare no colla nostra
diallettica, ma colla sua. Io tuttainvia no nci o miettutto morto a
rancogliere l’odore della cosa e a falli fare una arrazza di figurina.
Ascorta questa, mammaiccella, e poi me ne tornerai una rrisposta
tu stessa. A noi, vedi, si chiammano colla lingua di essi boi - scappusu.
Il bello della chistione però e chi a tutti vengono soprainnominati
così, sia ai masculletti chi alle femminuccie.
Io chi no sono colla sarsiccia drento il naso, li o fatto annotttare
cuesta grossia discre pancia. Sono andato alla sua faccia e li o sputtato
nelli occhi le arregolle sgrammatticcalli dei vrebbi talliani. - Guardi
sinniore cappo iscuadra, - li o detto - guardi chi a scuolla (e io ai
fatto anchi cuarche annetto buono nella sigunda illimmentare), si ano
sinniatto chi nci sono il vrebo maschietto e il vrebo femminuccia.
Duncue è obbrigo di dovere grammatticcalle e orto apostograffico
a dire: boi scappusu pe i maschietti e bacca scappasa pe i femminilli!
Mammai, nci vuoi credere? Quello si e arburiato come un bue di
montannia chi strarrippa nel riggannio di pianura dormitta. Si lo
vedevi i triccicri spettoralli e le cordulle unsimanti dello zugo! Si li
vedevi le arrottelle dei ginocchi chi si grappano alle stibbie e ai
piscioni delle gambe! E le mani? Ano i giunti arrottullari dei ditti
comme i cuscinetti dei carri armatti, e assimbillano alle pabie per
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Cara mammaicella
inforrare il civraxiu. No ti dico dei piedi! Onni giorno li carzano a
ispinta il nummino 88! Sollo il piede si era più grando di Lilliccu
messo in deretto! Il dittino piu piccollo (il pistirinchiu, la!), no intrava
nianchi nella bucca di Giuanniccu su proccu!
Cosmuncue, tu vuoi sapere l’arresurtato finalle, vero? Cuando si
stava per asventarsi sopra di me, si esce fuori da dentro Giuanniccu,
chi di muscolli ni a piu di io, e lli dice: - Chi sei capazzo e lo tocchi,
cuesto chi e mio ammicco?
Cuello, senza nianchi musciare, lli da una sventolla arrotteatta e
lli sbrunca una larva superiore. Allora Giuanniccu, prosciugandosi
l’arrossore della larva buccalle, si pinnicca a guido e lli grida: - Si
sei cappazzo e mi ne ddai ü’antro? Cuello, senza pronunciarsi di
parolla, lli scarroccia ü’antra sventolla in faccia e lo arrottolla a terra.
Giuanniccu, si riarza tutto stontitto e mi fa: - Tocca, Fisieddu, tocca
chi se ne andiammo, artrimenti cuesto ci arritorna come linna
inturronnata. E sai chi ti dicco, mammaicella? Andati se ne siamo.
Cui lo chiammano Rambo, ma noi lo soppra annommingiamo
Rambullone, proppio per le sue spropositazioni di talliasfisica.
Adesso, però, lassiamo dietro alle spalle Rambullone per conto
suo proppio, ca ti vollio arracontare la partenzia di noi da Salluri
paesano a cuello di Stato.
Eraviamo tutti assudorati per la camminata appiedi affrettollati,
ca doveviammo afferrare in orario il treno arrapido, cuando lli capita
la primma disventura a Lillicu.
Siccomme si erano abbusciuccate le scarpe nei piedi e, dato per
il caso che spiazza della stazzione sollatta no si potteva arresisistere
per l’asfa cani a collare, a vidutto un furgone di treno arrimmorchiatto
a vuoto, e sinc’e intratto senza il premesso delli addendi ai lavori.
Tutto di vorta il furgone, si e miettutto a partire assollo e Lilliccu
soppra senza billietto di uscita fuori paese.
Cuando si è vidutto così, che ti a fattu Lilliccu furittu, pe si cuare
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Bellus tempus
alle controllate delle guadrie ferro e viarie? Li viccino si a annottatto
una cascia piccollina di morto scovveccatto (senza la cadaverina,
la!), e sinc’e scuttullatto drento.
Chi vedevi, mammaiccella, comme si era cariccello tutto ingiriatto
di arraso indrammascatto di broscatto arrosso e col cuscinetto
arrandatto a punto crocce. Era coricatto in sillenzio, arrussando biatto,
cuando chi si muove il cun vollio trenille e llui, senza nci penzare
nianchi ü mommento, si accovvecca di fuori a chiudere di drento la
sua pressona cuasi morta per viva.
Oiammommia! Cuando o visto di lontano chi lo pottavvano di
drento un binario ucciso immagazzinato per la scaricazzione delle
sderratte limentari arrepperibilli, mi sono corso correndo straffellatto,
e cosa ti o visto? Due opperai, colla testa a berretto di treno, chi
pilliano la cascitta di tumbina e la fanno per colloccarla in una
cambionetta frigorifferatta a ghiaccio attiffizzialle sgasato pe no
facere sudare i morticcelli.
Appena se lanno caricatta a spallatta, Lilliccu, alla fidatta, scovecca
in arto la crobetta della tumbetta in linna intrassiata dal maisto di
legno, e ne sarta in aria come uno furittu alla strada arrotteata di ferro
per il treno.
Cosa dovevi vedere, mammaiccella!
I due strappottattori chi pottavano a collo la cassiccella, la sbuttano
in arto nell’asfartico arribollente e arzano le gambe indimmoniate
fino ai piedi, e lli prende a correre a correre e...proppio dove si andava
Lilliccu, il morticello arrisuscitato. Lilliccu, chi si credeva assegitto
di cuesti, correva anchi di piu. Fino a cuando no si scontra co il
cancello ferroviario a terra, precché sbassatto per il periccolo combente
di passaggio deralliante di cuarche convollio.
E si come no si aveva il premmesso ni a apprillo ni a arzallo e no
nci arrennesceva a sartallo, precché era arrimpicciollitto di piccollino,
si gira di scarto a di dietro, colla fazzia e anchi il corpo. I due correnti
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Cara mammaicella
della carrossa ferro viaria, vedendo tornare a loro il morto arresuscitatto,
si fanno una gira e vorta frumminea lampiggiante e ritornano a correre
di dietro dalla parte di dove erano vienuti.
Meno malle chi alla fine Lilliccu, allocchiatto dalla sfattica, si
ascascia a terra e si frimma suando comme una bisciolla di luogo
siccu. Asino, la giorronnata già finisce nella groria, già!
Comuncue, mammaicella, speccifficcato onni patticcullari della
storiella al capo della ferrovia, cuesto, si a fatto una arrisatta a bocca
apritta, e si a datto anchi i billietti grattisi pe sallire alle seggiolline
della litta orina.
E cosi siamo spartiti per la disventura campeggialle stiva!
Beh, adesso devo istudiare un’antro porchettino di lingua talliana
e cosi spero anche di te istessa.
Ti sbaccio e ti sbraccio a occhio cummosso senza lagrime, tuo
discendente carnalle di primo aggrado.
Fisieddu
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Cara mammaicella
Bellus tempus
Cara mammaiccella
Segùnda missìva pistollàre di Aborèa
Cara mammaiccella,
e comme ti statte a casa, sedutta nello scanniccello affundato a
sessene, a spidiobare alla friscura della serata chi si ingolla nella
nostra bella arruga?
Nci scommitto chi nci saranno tutte le tue commariccelle a crastullare
e scraccabiare cuando zio Corriazzu arracconta i sui arraccontini
drivettenti e un porchettino sgrassoncelli.
Eh, biatti voi tutti, messi impari! Ma anchi noi, però, no abarriammo
agò, no! Cuì, no si possiammo mai frimmare, sempri a camminare
deretti nelle nostra strada, anchi sinc’è una cruva. Cuesto è un
mallincommio scollastico, chi no ti fa drommire mai. Io, onni giorno
dippiù, mi sto arraffinando la lingua, lingendo libri e giorronnalli
struttivi.
Ma lassiamo le cose di oggi aggiorno, pre torrare a quelle di ieri,
chi e già passatto arremmotto senza girundivo scomposto.
Ti arriccordi, mammaiccella, chi ti avevo lassiatto sopra le
seggiolline della litto orina, doppo che Lilliccu si era morto pre brulla
brullata? Be, le sviccende sventurose no erano ancora accabbate.
Lilliccu, diffattu, anche drento il cumpartimento litto orinalle, ni à
cumbinato un’antra belliccella. Si avieva pottatto indietro impari a
si madesimo, un pacchiccello chi tieneva infianco, tutto arrottollato
di giorronnalli a tippo pronnografico sissualle, e lo imprassava affotti
sotto lo sureccu, senza si dire a nessuno la robba chi nc’era
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imboddiccata a strinto. Tutto di una vorta, si scuallia la sinniorina
spollinca annuda del giorronnale e si esce sconchiando una testicciolla
di anguilla, arridendo a denticcelli apritti. Puoi magginare nel vagone
assollato e imbrazzimmato di gente a sardina! Uno sgrido urlatto di
gente ammacciatta di mallore generalle, mentre Lilliccu sbutta la
pacchettata in terra e una spazziatta di anguille (figlie trotte di fiume
mannu, la!), si struffolano in mezzo alle gambe appette delle donne,
comme zreppenti avvischiosi di terra acuosa pallustre. Gesu,Giuseppe
e Maria!
No ti dicco le donne, i babini, i babi grandi, li zoppatti alle gambe
e quelli alli occi. Tutti si appiccavano appenzolloni nella tettoia del
trenicello sgridando e scontorcendosi coi cappelli strallunatti della
paura. In tutto cuesto bisbillio di urli sterici e scontrollatti di
mallincommio, si ne esce Fidericcu bibbîu, co un corpo di gennio
soppra dente. Pillia la sua croccoriga di crannaccia di Solla Arrussa
(...e meno ammalle chi eraviamo iniziando il viaggio e ci ne avieva
ancora!), la sbutta assopra delle anguille, faccendolle arrussare
diavvero!
Così durante che Lilliccu le rincoglieva di nuovo in mano, tutti
praudivano e sbacciavano in onni luogo della sua pressona, a Fidericcu
bibbîu. Ma lui si scarniva arridendo e diceva chi era Dante allighiero
chi lli avieva donnatto il penzamento nella Di vina Cu media, cuando
annaffiava le anguille colla crannaccia sadra ( ...però no si capische
bene si fosse di Riolla, di Barattilli, Zeddiani o Solla Arrussa .)
E comuncue, bene o malle, si siamo arribatti a Marrubiu, e da cuì,
camminando coi piedi sempre fissati alla terra, siamo arraggiunti
drento il Campo Scuolla di Aborèa.
E cuì torriammo a bomba di Arrambullone, chi aveviamo tralla
sciato ai bisticci con Giuanniccu chi si era messo a diffesa di io.
Adesso, però, tanto pe dire, tine vollio arraccontare una frettollosa
sverta, sempri di Lilliccu.
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Cara mammaicella
Eraviamo di primmo giorno di scuolla, tutti spianati in filla diana,
nella prazza di esercitazione verballe e spratticcata di colleganza per
arrestare impari aggruppati insieme.
Tutto in un mommento, Lilliccu, chi era il capo figlia dell’adunata
(precché pocco arto), sente odore di mangimme nella furreria avviccina
e sballia la mano di marcia, furriando alla contraria e faccendo infillare
a tutti drento i cuccinieri. E si sente una sgridatta di urlo arrentro
anante polliffemmico nei nostri corniccolli oreccialli.
Mammaiccella, ti arriccordi le notti avventose ullullatte di straccìa
nottambulla, chi io ero ancora bamboccello, cuando tu mi addiccevi
di arricoverarmi sotto i lenzuolli stampatti, che stava passando il
carro di nannai, arrummorando nel ciello colle ruotte chi parevano
di ferro? Agualle, mammai, agualle e anchi peggiore di cuello!
Ci siamo rincorrutti tutti di nuovo di fuori, coi piedi arzati alle
gambe e con il quore drento i budelli della golla. Appena si eraviamo
tutti rindisposti in filla, uno di fianco coll’artro, Rambullone si e
miettutto le pabie delle mani ai fianchi, a stirato i corni della bucca,
à arrivortato li occhi uno drivesso dell’artro comme lo scammalleonte
allullurato, e spalla ancando l’ugolla della campana grande, à mettutto
in movvimentazione sollo la pabia di deretta e dorrododò!, la lassiatta
andare assoppra di Lilliccu. Cuesto, scartante comme uno furittu, si
é provvisamente croccatto in terra e no lo à preso. Ha preso, verce,
a Giuanniccu, chi era secondario di filla. Cosa dovevi vedere,
mammaiccella!
A messattura, a farciattura alla arradicce, tutti uno di dietro all’artro
come una morto sega chi sbatte giù una figlia intera di callipti. Mi
pariva una spezzia di mottalla a pestillenzia fantille e adurterille
stantania. Una strange dei nozzenti. di mammoria bimbricca, la!
E’ da dire, però, che nel fondo del fondo, é un bravvo cammeratta
di commandazzione di odrini, e morto pieno di cuore.
Pe dire, adesso, ieri chi era sabbatto ( di cueste parti é primma
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della dommenica, chi attaccano insieme e fanno due giorronnatte di
spicchi - nicchis !), giai chi aveviamo appeso bene la lizzione della
sua lingua, si à ditto: - Di oggi, sabbatto, a domani, chi poteresse
essere di dommenica, il campo della scuolla lo innarzeremmo drento
al mare. E così nci à pilliatti tutti insiemme e nci à colloccatto sulla
sabbioncella della istrada comunalle dicci-otto di Aborèa (cuì le
istrade ano i santi tutti annummeratti comme la tombolla di Natalle)
Il primmo giorno chi siammo accostati viccino del mare (Bissenticcu
lo credeva una funtana di pozzo grande e senza le costolle, che si
facceva scappare l’acua!), si siamo miettutti insiemme noi salluresi,
uno soppra fianco dell’artro.
Lilliccu, sempre primmo per la sua corporazione piccollina di
neonnatto; Giuanniccu Proccu, basciotto e grassoncello; Luisiccu
corriazzu; Arremundiccu ziringõi; Fidericcu bibbîu (ca lo tastava per
il salle, il viniccello!); Bissenticcu pidaiou e, urtimo, a capo isquadretta,
io, Fisieddu, lo studiante posto allimmentare.
Li artri, sono tutti asfarbettici senza arritorno! Cosmunque, eraviamo
tutti spranciatti sulla spiaggia insabbiollatta, bianchi comme il latte
fatto a callatto frisco appena smunto. Il solle, assollatto comme di
giorno callente, scallava anchi le pedre. Sudoratti eraviamo, e rossatti
come mai alletti pinturatti di sangue malloratto.
Si arza, tutto in un mommento, Arremundiccu ziringõi e fa: Fisieddu,
nella cuccina del cucciniere, attendato a sollo, ci sono cuelle tanniche
a barattollo grande di frommaggio mericano chi si scalla appena lo
sparmi nella scutte. Farà pe sbronzante di solle?
Io nci ò penzatto sollo due mommenti: - vadi, lli dico, - ziringona
sotto della tendiccella culli in aria, vedi cuello chi incià drento il
cucciniere e arrittorna collo oggetto.
Arrottollando la terra comme un’animmalletto a strisciatura,
Arremundiccu, sgattaiolla nella rippostillia serchetta e avviettatta, e
ti tira fuori la cosa intera già scovveccata di cuel frommaggio mericano.
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Cara mammaicella
L’odore no sembrava troppo buono di profummo, ma alla primma
lisciattura sulla pelle roventatta, si era apparutta rappaccifficcante
con le busciucchelle di solle. Ma doppo un pocchiccello, cosa ti
dovevi vedere mammin...cella! Dalla pinnetta arberatta di Aborèa,
si arza un arrummore svorticcoso, sfischiante e asciordante, comme
di rio prani tedeschi della Raffa durante lli abbombardamenti della
guerra mondialle. Una nuvollatta, neritta e carbonniffica, vollava
arzandosi nel ciello a scurare il solle, e si spagliava a cespullio,
vienendo tutta vresso di noi che si eraviamo lunti coriccatti!
Avevano fatto adunata poppollare, senza filla diana, tutte le arrazze
animallesche vollanti circondarialli: api, apicelle, musche, muschitti,
musconi, vespe, vesponi, lambrette, scraffaioni neri e ludrigonatti
pibizziri in cintollati, frommicche colle alli di rioprano, sizzimurreddi
giornallieri.
In piu,ancora, le api arreggine, si erano tiratti indietro di loro anche
i casiddi, pe facci derettamente a mielle.
La gente della riva, timmendo una novella sbombardata di guerra
nemmicca, fa a fagotto frettolloso, i bambini coi paraspioggia sollari,
i gellatti scallatti colle stoie arenariatte, fitte di sindriette già smasticatte
a mezzo co il vino appressiatto in frisco e sinci entra a gridi, sterre
fatti e larghimmosi disparatti, nei fortini della spiaggia appinnettatta.
Ma il soggetto prellibbatto dei vellivolli, no si erano i fortini,
armatti di cemmento, ma bensì verce, eraviamo sollo noi, luccicchianti
di frommaggio bavoso a di scualliamento.
Il primo di essere appungilliatto è Giuanniccu proccu, grasso e
arrottondatto come ü’ maialle pronto a fare a sarsiccia fresca. Ma no
nci era cosa di tristulliare co il tempo nianchi pe noi artri, no!
Ce ne siamo pesatti, tutti in un tallo, e senza nimmanco tulliarci
il sabbioncello, via alla grida sordatesca della Sbrigata Sazzari fratelli
di Sadrinia, filli Salluri, si sarvi a chillo può!
No ti dicco mammaiccella cuello chi nc’era a palla di noi! Una
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Bellus tempus
nuvollatta animmallesca coi pingillioni accuzzi in fuori, chi
assimbillavano a schidoni e chi no vedevano l’ora di firzarci a sangue
le arrobbettine più moddiccelle e cuatte!
Tutto di un mommento, però, eccu Rambullone, chi si mette paratto
a fronte di noi e sbutta un urlo feroccitto di bestia forestalle antiga
pre-isterica: - Tutti sotto dell’acua! - fa Rambullone! Lilliccu, sempre
scappo-filla devanti di noi, isballia svortatta, e si rientra drento della
pinnetta arberatta. Oiammommia oiammommia, mammai! Che dallori!
Una smancellata di aghiccelli, agoncini, prinzette, serracchetti,
artilli, artillietti, sbeccatte, surbiture dentallistiche chi si infrissivano
di onni parte della corporatura, e i gridi, e lli urli co i lammenti e lli
occhi sbranatti di fuori! Una battallia all’urtimo sangui, inserralliatti
nella foresta di pinnie, fino a cuando Lilliccu no torna a imbuccare
una uscitta di strada secondariatta (un more di campannia, la!), chi
si saresse doviutta gittare drento il mare.
E cuì, gialla fa bella una nuova vorta, Lilliccu! La seratta primma,
si eraviamo spassiatti nella notte della luna a fromma di farcetta
scallante a cantecchiare canzonnette di montannia sopra del mare,
colla lucce del fallò di fuocco, a lennia siccatta (cuella frisca no
volliono a metterla pe scoppio culloggico!).
Poi, cuando si siamo arrogatti di voce, abbiammo tudatto il cinisetto
ancora abbracciffero (vivo ancora, là!), sotto una sbucca accovveccata
di sabbia. Beh...lo crederessi, mammai! e Lilliccu e no va a si sbuttare,
coi piedi scarzatti, a pelle pullitta, proppio nella sfossa affuoccatta
e noi anchi, dietro di elli. Gesu,Maria e Giuseppi, che sarti in arto,
in longo e trippo, arrotteatti si siamo fatto!
Mammaiccella, lai visto un ferro orbigatto chi nci cade in una
banni e ruolla di aqqua sghiacciatta? Vero é che boga fummiccella
e soffiggia afforte, afforte? Agualle, mammai, anzisi più aguallissimo
di cuello, anchi pe noi!
Una annebbiatta di svappore aqquo, adorante di rosto sbunci ancatto
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Cara mammaicella
si mette a truffollare nelli sfori nasallici della gente, serratta ancora
nei fortini, ai quali li torna il sangue a logo e si rincorrono dietro di
noi precché si credono chi nci sia pezza arrustitta a gratticcola o a
schidione. Dovevi vedere che artra bella sfifficcella, e comme onni
uno di noi si era costrinto di allontanarsi a sravvammento in mezzo
all’aqqua del mare!
Beh adesso ti lassio alle frescatte seralli paesane e torno alle
raffinazioni lingualli, pre accurturarmi in onni punto, giogra fico,
sterico, e della fill’e soffia stronommicca.
Cuesta vorta ti mando uno sbaccio sollo, così mi aspetti lartra
missiva della prossima ventura.
Fisieddu
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Bellus tempus
Cara mammaicella
Cara mammaiccella
Atra missìva di Aborèa: e...seus’a tresi!
Cara mammaiccella,
no nc’e due senza trei, dice il porvebbio anticco chi fa anche per
oggi di giorno. Eccu il tuo Fisieddu che si arrittorna a ti scrivere, pe
no struncare il fillo sbelliccalle di congiungimento mattriarcalle sfill
ianciatto dalla luntananzia, anchi si temporaniesca, dell’scitta a gitta
a drivessivo cuasi continentalle.
Tu già arriccorderai che lantra vorta si eraviamo rimasti correndo
drento il mare, precchè rincorrutti da tutta la gente che si creva i
nostri piedi cuasi rostitti dalla fariccella di fuoco abillo cuato nella
sabbia, spezzettini di procco appena cotto.
Eh...mammaiccella! Già era andata a terminare bene, anche quella
cosa di là. Dinfarto, allontana chi ti allontana dalla arrivva, si siammo
trovatti chi laqqua ti sfregava alla golla. E cuando la sfregava a noi,
a Lilliccu, verce, già li tuda la testa. E così, cuello, trovandosi a
simmilli condizioni, e no si mette a disbattere colle mani sbassatte
e i piedi arzatti, drento laqqua, a fare la pianta, sgridando tutto
sprappaddatto colli ecchi. E tutti noi a si ridere e a si dire: Là, là,
Lilliccu, comme si sta spassiando di sollo, precché à paratto a naticare!
E, datosi che tutto di un momento si frimma in trunco e si coricca a
spancia in giù, colle spalle arrivortate soppra di oi, Bissenticcu li
sgrida dillontano: Hai visto chi già ti frimmi di gioccare, anchi tu!
Mammaiccella artro chi spassio era! Stava a sbevverare aqqua a
sospirattura comme gli buoi di ziu passabara nello sbevverattoio fatto
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Bellus tempus
a lacco piettreso. Cuando se ne siammo accattatti chi la pancia si
stava abbusciuccando cemme una sindria di cueste patti di Musollinea,
labbiammo pilliatto tutto di fretta in cuattro e pottatto fuori drento
la sabbia.
Dovevi vedello, mammai. Era asullettatto comme i lilli della
settimana santa. Li occhi erano fuoruscitti drento lerbittallica cullare,
comme cuelli di una testiccella di anniello messa a cuoccere nella
gratticcolla affuoccatta. Noi giallo credeviamo morto e sepurtoratto.
Totununo, eccu chi arriva Rambullone. Si scara avventa a tutti
lontano, e lo pillia sotto conservazzione mediccalle. Poi, senza
nisciuna piettà, li mette la rottulla ginocchialle di deretta drento la
spancia impallonatta e sgrida a corpo sicco: - Affuori laqqua!
Nci crederessi, mammai? La gente era colli occhi aspuntatti allinsù
vresso larto, a vedere cuel miraccollo di Milano abborese, fatto
aqquolleggico. Un zampillo arto piu del campanille nostrano e
ascompagatto da uno scibillo urlante di Lilliccu, pe il dallore scorporalle
arripportatto. E nci avieva raggione, poverello!
La craccatta ginocchialle, llo avieva vallidatto colla sfrattura di tre
cestolle sane, lo sfracello della preura e la spuntattura straummattiga
dei pormoni sinistri. Mapperò, bene o malle chi sia svuottatta, lavieva
laqqua sgurgittatta drento il mare, e tornatto in vita è statto, eccomme!
Ma lassiamo le cose vecchie e stantifiche comme te, e torriammo
alle cose piu fresche di giornatta, che sono morto mellio.
Oggi, mammaiccella carissima, si siamo arreccatti a un paesoncello
del tempo anticco (lo chiammano di ettà parallittico - preistericco!),
chi si chiamma Della pietra, anzisi Sassu , tiratto in su dai piscatteri.
Tutti si credeviammo di trovare sollammente una postazzione da
spedriare o luoghi di sgavvi, verce si siamo scontratti in una sterratta
di vasche a piscina per le rincorse dei pisci murgini, li sfammosi
mughelli di Sassu, pe siccare lli ovvulli sfarinnaccei a bottariga
sallatta. E i pisci erano a millianta e più ancora, chi sartavano luno
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Cara mammaicella
soppra dellantro e no si sappeva mai a chi arrivvava primmo nel
tranguardo. Però si eraviamo accattati che onni pisci chi sartiava più
grande, lo pilliavano subbitto con la manica lunga di una retticcella
di mortadella usatta, e lo accasciavano nelle scattelle di giunco
viccine. Cuando erano tutte costippatte di mughelli, chi faccevano
gli urtimi caschilli per morire assiggenatti, i pescatteri si erano contenti
e lassiavano li antri pisci a gioccare ancora nella vasca grande.
Che bella visualle di vedere a giorronnatte intere e a bocca apritta!
Ma ne si potteviamo stare lì, pollaiatti come bimbolleti di negozzio
a gioccattolli di Beffana! Dinfarto, siccome anco in cuel mare di lì
si poteviamo fare il bannio arregullare, Rambullone si à detto: Oggi
e domani si fermiamo in cuesta arena di Sassu a sostare, primma e
doppo i pasti, così due vorte al giorno si mangiamo e si dormiamo
e si fazziamo il bannio. Ci vuolle, però, una scompannia pe tirare
insù la barracca di dormitta, e una pe fare un cucciniere di giornatta,
pe laccurrente mangereccio.
Subbito, Lilliccu, anche se un porco arrogatto di vocce, per via
delle costolle infratturatte e i pormoni un tantinello scuccitti dal vello
pre urico, si arza di diettro e iscramma a tutti, appena appena
sentendosi: - Io saperessi faccere la gallina a brodiccello e anchi la
bannietta di tammartighe frische di staggione pe i maccarroni lunghi.
Così chi è sconcuassatto di stommacco, mangia il brodiccello e chi,
verce, nc’ella guastatto, si beve la pasta sciutta.
Bene - si dice Rambullone, - adesso voi antri sei, a pilliare canne
frische per la casina della notte: tutti lli antri al mare!
E così, durante che Lilliccu a sollo, si indaffariava a cuoccere tutto
onni cosa, noi, li antri, si eraviamo sdraiatti nella spiaggia cardissima
di solle. Onni tanto Lilliccu si faccava dalla cuccinetta e noi li
gridaviammo di lontano: - La bannia, Lilliccu, giralla e saggialla per
il salle! E lui, bidiente comme ü babbinello drommiscatto di
sonnollenza, andava e torrava doppo un quartioretto diccendo: - Già
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Bellus tempus
vva tutto bene! Mammiccella, nci crederessi? Lo sai cosa facceva,
di nascosto sillenziatto, Lilliccu furittu? Si talliava una fitta di pane
cuanto tutto andava il civraxiu e lo imbrazzimmava nella casseruolla
della bannia. Doppo chi lo facceva dui o tre vorte... adiosu bella
bannia! La casseruella si era divventatta limpia comme lo sprigo di
cristallo antigo e lucciccanti comme cuando si era comperatta! Di
cuesto trestamengio disfidatto, però, si ne siammo accattatti sollo
doppo, cuando è succedutto ü antro fatto callammittoso e disdiccibbille.
Le galline chi dovveviano faccere il brodollino cardo pe cuelli
istommaccati di fegatto billiattico mirzeso, si erano statte gittatte
drento la pentolla grande di terra-corta furatta della mamma, sollo
spinniatte, ma senza smazzimmazione. Ne potterai mai magginare
cuello chi si è suzzedutto!
Le galline, piene azzeppo fino al cello di onni benegallinaccio di
cuesta terra, mettutte nellaqqua sbollente, si unfrano si unfrano e si
unfrano ancora, fino accuando ne possono dippiù e si scuattarano a
bomba tommica tippo Harroscimmi, la zittadella friccana
abbombardatta dei tedeschi nella primma guerra spanniolla. Sartano
accosi i coppercolli della pentollona, tienutti frimmi da bronchetti
di tuffollo di una cavua lì viccino, spratticcamente si possiammo
chiamarli coppercolli a impressione. Tutto di un po si arza una spezzia
di terremmepullo vurcanisticco visuviano di Pompeio, inseguitto di
un fuocco incendiario , no dolloroso ni punibbille di legge.
Dai finestrelli del fortino sbellico, chi fingeva di cuccina pre visoria
temporalle, si sproiettano comme balle di pistolla tommattiga, tutti
i scremmenti a collori di gallina scoppiettatta: favi piccolli, favi
grandi, linticchie, cicci, pisurcetti e piseddini, trigo sardo e trigo
turco, a vena, e onni antro lore che puoi magginare, e vanno a corpire,
comme una matrallia feroccitta, cuelli poverelli chi erano coriccatti
nella spiaggia.
Fidericcu, il piu prontutto di tutti, nci ddà una sgridatta e grida
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Cara mammaicella
affotti: - Croccattevi, croccattevi, asinò nci stampano comme tratta
casi. E così, si siammo sarvati di cuella arrattata’ sbellicca marina.
Ma eccu chi alla fidatta improvvisa di pantasimma fernalle
dimmoniatta, ne stuppa fuori anchi Luisiccu, tutto allampionatto di
brodo verdo arramme, chi sembrava uno svenusiano di Marzio,
sterratto di pocco dalla tumba assideralle gallattica.
Già pocca ni aveva di vocce primma, precchè arraccostollato di
Rambullone, ma adesso si era comme corpitto di parallisi guttullaria,
e così, comme appena appena si à pottutto scanciare i labbri, à ditto:
- Scuattaratte, tutte le gallinelle scuattarate, e anchi la pingiada di
mammai di me. Ma armeno la bannia ne si è andatta sperduta.
Ammarolla, si la era tutta sarzatta co il civraxiu!
A cuesto spunto, pe larrobba di mangiare, le cose si erano divventate
diffizzilli di risorvere. Tu, mammaiccella, che cosa ne avriesti fatto
sartare in fuori?
Io gia llo so che tu no ti saressi abarratta di fare cuarche cosa. Ma
anchi tuo fillio, però, nò è arrimmasto agò, no! O’ sgridatto subbitto
a Rambullone :- Sinniò cappo scua drillia, io sono cappaccio di
prepparare uno pasto di mangimme pe tutti, sollo in una quartioretta.
Saresse un pranzetto porco arriccercatto, ma sano, arrobbustoso e
fotti ficcante pe onni sciammi gatto: pattatte a schiscioni era verde,
talliatte a grandiccello e pullitte sollo della sbuccia di fuori, con pietro
semme, cippolla bondante allio in crianza e bondante, ollio più
bondante ancora. Dattemi dieci infermi eri di cuccina e alluna di
pranzo si mettiammo tutti alla tavvollatta sparecchiatta.
Cuello che ti fa, mammaiccella? Mi ne mette in mano, pella pullizzia
delle sue pattatte chi nci avieva allogatte bene di riserva, armeno
venti. Così, in un patri di fillio, le pattatte sono pullitte e talliatte e
miettutte nella pentollaccia a bidene di ferro-asmattico.
Mi ò fatto pottare cincue smazzi di pietro semme, cincue di allio
grosso e cincue chilli di cippolla arrossatta e pizziccosa. Pe lallio,
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Bellus tempus
verce, ò fatto allocchio.
Ti arriccordi, mammaiccella, cosa mi avveressi detto pe il tanto
di mettere? Un cuarticcello di ollio onni chillo di pattatte.
Io no mello sono scarescio, no! Così, in fretta memmorialle, appo
fatto i conti smattemmatticci della tabbellina ritti mettica. Venti chilli
di pattatte addivviso pe cento bambinelli, distratto Luisiccu, addietta
pe costollitte pre-uricca accuzza, e Rambullone, chi si era già
smangiatto le galline scuattaratte, mortrippiccatto lora diggià arrittardo,
sdizzionata lasciammighenzia cu mmullata di tutti, facceva a
compressivo ammente, armeno cincue littri di ollio!
Ma, pe faccerle un porchettino piu spettittose, mi sono confidatto
comme stesso madesimmo, e appo arrippettutto in sordinamente,
collalingua latrina: mellusu abbundaccere chi disficcere pe mancanzia
di cosa primmaria. E così ni ò sbuttatto artri due litriccelli budanti.
Ma adesso lassiammo cuoccere le pattatte da solle, che già tello
dicco la proscimma vorta larresto della storia campeggialle.
Ti abbandono, senza sbacci, precchè no ò piu tempo di perdere
cotte chi sei un pocco ostruitta nella scienzia occippittale, e anche
dippù sfarbettica, pella nascitta di crescenza origginalle.
Ti arriccordo sollo chi sei mia marde di carne e di sangue fino da
princippio della tua esistenza, no di cuella mia, e chillo sarai anco
doppo di prima.
Tuo fillio di nascita
Fisieddu
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Cara mammaicella
Cara mammaicella
E siammo già a cuattro, comme ammissive!
Cara mammai, oggi no ti faccio la festa pecchè no sono nella vena,
ànzisi sono tristo e affriggitto precchè la primma giorronnatta di
Sassu, à sciambussollatto la nosta asistenzia, pottandoci tutti, cuasi
a punto di morte pe la diarrea mottalle chi poi di seguito ti farò sentire
collo scritto e cosi lo potterai fare vedere e sentire alle tue ammicche
e toccare colle tue mani medesimme, a che cosa vuolle dire a provallo.
Anchi il solle adesso sta morendosi appalla del mare e lunica allirga
è cuella schiffosa di luna, a trempe arrippiene, chi se ne va a giro di
notte a ridere di noi chi siammo allocchiatti di dallori e di sfattica
sventriccollari.
E sono sicuro chi, sbuggiarda comme chi è, no a chiesto neppuro
il premmisso a suo babbo il solle, chi a cuest’ora si è, poveretto,
drommitto di sfatticcamento pendullare! Pibiruda chi nu e artra! A
uscire solla di notte! Basta a essere femmiedda...
Ma già li passerà anchi a essa dommani mattina, cuando si tornerà
a arzare suo babbo! Vabbene chi anchi quello no è chi sia morto
sicuro di cervello. E’ comme un crabo medio...totunduno chi va
avvanti, arrittorna indietro comme il mio arrevvulloggio di mracca
Arrenscoffo. Pe dire, adesso comme farà a si coriccare dalla parte
dei monti di Villacidro e a arzarsi allo dommani di tutta ü antra parte
chi è cuella di Segariu? Dui sono li spiegammenti arrazzionalli chi
si possono intra vollare colla raggionatura scattollogica: o cuello no
dromme, penzando a sua fillia un pochettino sconcorrata di testa,
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Bellus tempus
oppuro magari nci cade dal letto chi videntemente deve essere in
cabata, e si scivvolla, arrottollando a se stesso di un’antra parte.
Meno malle chi nc’e la scienzia esatta, di cuella rammifficazzione
studiante chi si annommina astri-anemia chi saresse la mediccina
giusta pe no fare stumbare le istelle. Asinò gei succederebbe bello
con tutte le arrotteazzioni stelli uriche! Ah, si arrittornasse armeno
Nicolletto Scoppernico, chi volleva facere la revolluzzione del ciello,
frimmando il solle e facciendo arrestare sempre a giorno anchi la
notte. Vai chi la luniccella no si uscirebbe più solla e spomposa a
riccerca di cuarche stelloncino scadente, pieno di fuocco ardente pe
pottesselo scallappiare...
Ma meno malle chi di cueste patti perintanto sua un bel venticcello
frescollino. Mi pare chi sia proppio vento di Villacidro, anchi si
Villacidro è rovesciatto a fronte di diettro di Aborea.
Ma si a ditto Giuanniccu, metrollogo iollico, chi la cosa è la stessa
medesima proppia: -Tanto, dicce, - sempre soffio è, sia chi porvenga
di Villacidro, sia chi ne arrivi di Cruccurisi, o di dove vuolle venire.
E forse forse no nci à tutti li storti di arrexionare a così. Tanto,
cuell’abido arranfriscatto, che sia soffio sventoso, che sia vento
soffioso, sempre aria fa a sventollare e allevare porvere nelle istrade.
Beh, torriamo un mommentello alla cuccina dellantra vorta, ca
seguramente lo starai amcora sonnando, di che cosa avevvo fatto
colle pattatte a schiscio nera!
Ti arriccordi che nci avievo sbuttatto anchi artri due littriccelli di
ollio im più ai cinque di primma?
Mammaiccella! Tutto benissimo assai, fino a cuando le pattatte si
erano ancora crude. Ma, cuando, verce, sono cummenzatte a runzare
e a si sfarinare un porchettino, addivvenendo un liquido un po
ammermoso, che ti dovevi vedere? Lollio, chi si era nascosto sotto
le pattatte, si comincia a sgattaiollare fuori, sempri più su, ancora di
più su, fino allagare tutta la pentollona. Morigavo, morigavo e cuanto
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Cara mammaicella
di piu morigavo, sempri dippiu sartava fuori di antro ollio chi pareva
olliatto. No ti dicco, però, allora di si mettere a tavolla pe mangiare!
La scuadrillia di bambinelli ne arrivva sciammigatta fino alla
spuppilla delli occhi e comenzia a sgridare la richiesta del pasto a
rancio sordatesco millittare. E mi spriogo a sforrare scucchiaiatte di
spassatto di ollio di pattatte e a gittare a vollontà drinto ai piatti
cuppudi svuotti; e ti vedi cuesti marmocchielli bugoni e disfammatti
impastare di pane drento il brodo, e appallare in bocca, senza sostare
le mani, e nianchi tirare la respirazione. E subbitto a recrammare: Ancora artro, artro! Bisi, Bisi!(chi vuolle dicere: addoppio!).
Beh, mammaiccella, pe no tiralla troppo allunga, io non ò fatto a
tempo a girare li occhi, che cuella pentollona a bidone era accovveccata
e sfinitta!
Ero cosi scuntento di allirghia, che no mi vieniva vollia nianchi
di penzare a mangiare ammè istesso. Ma allimprovviso, in cuesta
tommosfera di spenzieratto penzammento gioioso, si arza un
bambinello colla mano craccatta nella sprancietta, e si domanda a
me stesso medesimo si lo pottevo attorizzare a andare a bannio
commudalle arberatto.
Ora, mammaiccella, precchè tu, chi sei pocco uscitta, carpisca onni
cosa di cuesto luogo esteroggeneo, ti fazzio sapere chi noi, nella
spiaggia, no abbiammo un bannio a muntone di sgalline e sgalloni,
chiuso di muri, comme a casa di noi. Cuì, il cabinetto lo fanno
cullogico - campanniollo, e appetto a tutti, però, comme scompenzo,
è grando e arberatto alla moda di Funtanó di Salluri.
Lunicco sconvenienta disfettoso è che, si no sei già pronto a fare
in fretta la tua abbisongia cropporalle, mmm....gialla fai bella, sì!
Precchè, diffarto, appiattatte sotto e di sopra alli arberi, nci sono
cuatte, le zanzare collude, chi ano li aghi comme cuelli di scuccire
mantellaffi di crinitto o di mammola setzi.
E allora, cuasi tutti, pre frozza di vollere, sono addivvenutti stintichi
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Bellus tempus
(co il carro abarratto, là!) pe la paura dei pungilioni acuzzi e pizziosi.
Cuarcuno chi si azzarda, precchè obbrigatto di ammarolla, lo dobbiamo
subbito sottosporre a frigatture cu ollio e accetto, pe abbrandare un
porchettino le bullucche nauticcalli.
Eccu il meravigliamento di cuesta premmissione arricchiesta dal
bambinello. Ma, poicchè, però, si scontorceva di larchime, li ò detto:
- Pillia la cartollina gienica appresa al fillo di ferro a ganciu e fai
correndo di fretta, ca io già ti prepparo lunguento sana - nauticca,
appena arrittorni.
No ò fatto a tempo a vortarmi per cercare i condimmenti farmi
accettici, chi ü antro bambinello mi chiede lo stesso, e poi ü antro,
e ü antro ancora e, allaccabbo della storia, tutti si arzano, senza
nianchi premmissi torizzattivi, e si scuinzalliano nella foresta, fatta
a cabinetto pumbricco spoppollare.
I bambinettini pe iscrezzo, lo avvevviano sopra annomminatto
labbaia del tuono, per li arrummori trumbulliatti e scontinuatti a
fromma di sconvorgimmento terremmottalle!
Artro che iscrezzo era. Lampi, troni e scuttullate sfragorose
accuiffere si disfondevano a Sassu e dintorni .marini. Le pattatte
olleatte, spurganti a pronta ripresa, si avvvievvano fatto una addiarrea
generalle.
No ti dicco, mammaiccella, i gridi di doppo, di cuesti siederini
sbuccatti dei pungi - leoni delle zanzare avvortoie e draccullate.
Allora, io, chi era cuello unicco chi si era sarvatto dalli effetti cu
latteralli, ò pilliatto pratti di ollio e accetto e li o miettutti affianco
del moriccello di arrittorno della pinnetta.
Mammaiccella, arriccordi cuando ano organizzatto la girata
podisticca del nosto paesello a piedi, per Santu Lorenzo? In onni
cantonatta miettevano robba di restaurazione riffoccillaria pe cuelli
chi erano distrutti di sudore e sfatticca. Eccu, anchi cuì erano ugualli
dentici. Tutti si frimmavano pe restaurare un porchettino la parte
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Cara mammaicella
diettrolloggica siederalle culli naria, chi si era fatta a luppie unfratte,
comme i guroni di sangue ammalloratto senza sciopparsi.
Ma però alla fine della disventura visceralle, tutti si erano tornatti
cuntenti, precche, sinnò artro, si erano scariccatti di un penzammento
chi li pesava più di due giorni. E meno malle chi, doppo di seguitto
venendo i piscivvendolli di Sassu, si ano datto una bella cascitta di
mughelli nuottattori di vasca accuiffera.
Sollo Luisiccu, a dietta frozzatta, li ano arregallatto una scattolletta
di scarpe, però piena con un gatticcello piccollo piccollo, chi ammalla
pena musciavva! E cosi, anchi lui, nci avvievva il suo arregallopremmio di sconzollazzione. Ma già fu statto arregallo fortunatto,
anchi cuello! Siccomme, però, siammo arriviatti cuasi alla finalle
cinimascoppica, ti lassio in suspensione di sospirammento nottizziario,
fino allurtima spuntatta dell’arracconto spollizziesco di Agatina
Scristi, tutto sconditto di strillinghi.
Mammaiccella, ti arre cu mando carda mmente, no ti fare cabare
cuarche cidente allinterno, mi! Aguanta ancora un porchettino, che
già no crepperai, no, si aspetti unantro brevviatto arribbo litterario
arrammanzatto. E’ vero chi la curiositta è femminille, ma tu pe una
vorta armeno, falla divientare maschietta, e cosi potterai carmierare
la tua spassienzia. Anchio ti bandono a fretta di subbito co una parma
di naso miettutta dovve vuoi.
Se ti l’appiccighi bene bene, vederai che ti passerà onni svollia di
sappere i pidi artrui, andando di arruga in arruga, a spibisare sfandonie
crastullaria, colle artre tue cumpangie scrianzatte. Drommi perintanto!
Drommi e aspetta il proximmo scuùppo letterario di tuo fillio.
Fisieddu
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Cara mammaicella
Bellus tempus
Cara mammaiccella
Missiva finalle da Aborèa
Cara mammaiccella,
Oggi mi à sopra ingiunto un corpo di nostargia provisa e fantille
chi à cattarputtato il mio stato di animo in una tommosfera di
luntananzia mammiffera chi si avviccina per il proximmo arribbo
del mio arrittorno nella brincocca casallinga. Tutto inciò mi fa sentire
comme assimbilliante morto a Robinsonnu Croxi ou!
Mammaiccèlla, mi guardo a giro e no sono più io! Mi paro un
cagno arrandaggio, un garto servattico di campannia, pilliuncatto dei
pelli della schiena e della coda per la mancanzia disvittamminosa di
sostanzia curturo allimmentare, un gambo di arbero stenchitto, pe
legno di facere a carbone. No riesco a scrivello nianchi in rommanze
cuello chi provo aintro e fuori della mia arroventatta corporattura.
Vorrei fare una produzzione di scritti infrennalli e spurgattorialli,
ma mi ammanca la prottosi nasalle di Danto Allighiero, pe essere a
odore poetticco di vino e pe sbuttare tutti i paesani salluresi nei gironi
avvortollatti dei dellitti e delle pene dellartro mondo.
Ah gioventudine! Ah Naturella! Pecchè mi tolli cuello chi no mi
ài datto primma, faccièndomi soffriggere tanto, e mettendo a repe
intallio la mia asistenzia adulterille?
Pecchè nò mi dai la potte stà di fare da sollo cuello chi mi
abbisongia? - Oh, biatta sollitudine! Oh, solla biattittudine - dicceva
Santo Bernardino, chi camminava sempri da sollo a riccercare gente,
sotto la neve dei monti arti e annevvatti delle arpi arpine.
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Bellus tempus
Già lo so che cràmmina no’ danno pane, ma armeno potterò
castigare arridendo i mori e inventare cuarche cosa di nuovvo.
Ahh, cuanto lo invidio a Lilliccu, inventore di cose tutte belle e
tutte novve! A sproppòsito di Lillicu. Adesso, mammaicella, ascorta
bene cuesto arto pìccollo reccontino che ti vollio arrecontare.
E’ già una cosa diffizzille di capire pe tuo fìllio che nel gambo
scienziattico à fatto istudi lunghi e sproffon ditti, sfiguratti pe te chi
sei un porchettino abarratta indiettro comme curtura mettarsfìsicco
inforrattica.
Cuando siammo torratti al paeso di Musollinea, oppuro sia Aborèa,
istrada numminu dicci otto, il cappo istruttore si à fatto la lizzione
pe il tellefforo di scampo, ovverossìa senza fìgli ellerticci. E si à ditto
comme si funzionavva di viccino e anchi di luntano.
Uno, pe esempio, chistiona a Rio Ciccu di Salluri e subbito lo
intendono a Rio de Giuannerio, chi si trova un porchettìno più di
soppra delle bucche di Bonisfaccio, a un tiro di schioppollo di Arghero.
E si à fatto una esempiazzione naturalle della nosta vitta giornalliera,
chi si può cappittare a tutti di onniuno di noi: Si uno pillia un garto
e li tira la punta della coda di diettro, cuello cosa tiffà? Scrammia
subbito di avanti. Eppuro no nci à figli ellerticci attaccatti allaria o
sterratti sotto della terra. Allo stesso è il tellefforo! Si tiri la vocce
dal corniccello davvanti, cuèllo scràmmia, corrispundendo di diettro,
sia diaccanta, sia puro di atteso, in luntananzia.
A Luisiccu, tutto cu esto fatticcello stuzzicchiante, no li era
strappazzatto neanchi nellartra origa, no! La notte, durante cuando
era senza drommire e si corcollava il gatticcello chi avvievva soppra
innomminato scu ettu, si rovvellavva la cerviccalle della testa per
fare, anchi esso, li sperimmenti tellefforicci senza fìgli.
Così, alla primma arzatta di solle, furtivammente di sos piatto, si
ne esce col gattuccino scu ettu e si mette di diettro di un arbero
grande, pe no si vedello nessuno. Pillia il gatt uccello tellefforicco
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Cara mammaicella
senza figli e lo stringe affotte affote intra i due ginocchi delle gambe.
Poi, faccendosi finzione chi la testa sia larrottella pe fare la
nummerazziòne sfonicca, cummenzia a fricchire i ditti soppra li
occhiccini, drento le carighette nasalli e drento la bocchetta apritta
dal dallore e, pe accabbare, li tira a frozza la codiccella.
Tutto di un tratto il gattoncello, cuando no nci à visto dippiu dei
craccammenti annummerari, si è spolliatto delle unghie a puntine di
vettro, accuzze comme cortelli, e sfillandosi dalle gambe, si è
affraccatto nella faccia di Luisiccu, scrammiando comme uno
indimmoniatto. Gia dovvevvi vedello, mammaiccella, a Luisiccu
Gulliermo Marconicco tellefforico, tutto assanguentatto è fatto, le
costolle arrogatte, la preura staccatta dai pormoni, i piedi abbulluccatti
dallo fari-fari sotto arenille, la corporazzione tutta spunturatta dalle
aspidi e la vocce chi appena appena si sente e dicce: - Gartinello
filliacco, verità che mi ài sgraffinatto a sangue, però balla, già ài
scrammiatto lo stesso ammarolla, a movvenza del tellefforo senza
figli!
Eh, cuanto si è bello sentire un ammicco di fanzia giovannille chi
riesce a scienziatto della Sippa telleforicca e cuanto si è più bello
ancora a ti pottere arracontare tutte cueste storielle struttive, chi de
sicuro ti faranno risare a creppa pella. Mammai, no ti sbattere di
niente dalli evventi sproccellosi della nosta asistenzia, precchè fra
un pocchiccello ti potterò imprassare una nuova vorta e adesso chi
inciò la lingua a padrona, arrennescerò zetammente, a arraccontare
da vivvo, onni artra disventura.
Tù aspetta, e spira chi, a frozza di spirare, suffierai assiggeno e
cuarche cosa ni arrivverà a te stessa puro. Pe intanto chi sei così, io
di sospiatto ti lassio stare.
Ma tu no ti rimmanere rintanatta a casa fìno al giorno dellarrivvo
del tuo dismentigabile iscrittore a epistolle favollatte, comme si sfossi
Sfedro ommerico. Accuzza anchi tu la tua lingua (ca già no sei
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Bellus tempus
cancaratta, no cuando vuoi!), e fai le predicche a tutte le case, che
fra pocco si giungerà il Messiatticco della litterattura cicro pedicca
e anchi Salluri avrà la nuova Cademmia della cruscolla comme
incontinnente, nei tempi delle cincue giorronnatte di Millano.
Mammaiccella, ascortammi bene pe il proximmo futuro della tua
arberatta gennealloggica cu insanguinea: Fisieddu si è gia scritto alla
Socciazzione crandestina e crabonaia smazziniana della Scampilliattura
(chi sarebbe una sembrea di pressone studiatte pe fare a tutti braba
e pilli), e frabbicherà anchi in Sadrinnia una più manniffica Cademmia.
Ma cuesta, sarà morto drivessa di cuella della Cruscolla (arrobbetta
di galline ovaiolle!).
Sarà, diffàrto, una Cademmia più mellio, più sostanzialle e più
sfammante, precchè la farò di sembolla e anchi grussa: la cademmia
della sembolla sallurese !
Eccu, la tittollazzione pe la sentenzia dei sposteri, comme addiccevva
Sandro Manzone a padre Rovvigo, cuando no volleva sposare a Luxia
Arrenziana. E poi, cuesta Cademmia sarà traspottatta da tuo fìllio
Fisieddu, ai covegni di frommazziòne, chi si interranno alli attrippodi
del mondo: anchi al pollo nord e al circollo pollaio attricco.
Dillo, pecciò, a mio zio Pallanchîu Farranco, chi saresse il tuo
frattello mandrone, preccheé pianti morto granoduro (no cuello molle
e a ventre bianco, chi fa sollo sfarinaccio), e lo mollini subbito, anchi
girando le pietre delli asinelli, pe fare grande cuantittà di sembolla,
pe cuando arribbo io.
Areremmo arberi di uva a curtura pranosfericca-universalle, pe
spandere alla rosea dei venti ( macchè venti, anchi trenti si è
possibbille!), i semmenti ciiìlli, millittari e arrelliggiosi.
Voi, alle pianticcelle allevvattelle cortivandolle, marrandolle,
scrazzandolle e accozzandolle, ca già nci penzo io a pudalle a tallio
furistero, dimmodo che nascia una novella scrittoria e rammanzeria
poppollaresca dei tempi chi seranno comme di sempio:
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Cara mammaicella
bimbriotteccolle, briccicchetteccolle, civraxiotteccolle,
ammaretteccolle, panino teccolle, pinna a cotteccolle, ecc.ecc. (chi
saresse comme dire uno sturrido arrimmasto a mezzo).
Chi, verce, no devve arrestare a mezzo sei tu, mammaiccella, donna
fellicce e frottunatta. Puro voiantri di casallinga estirpazzione, sarette
grandi e potterette entrare nel vasca bollario sfammoso dei Treccani
(pe Lilliccu, verce, sollo dei tre garti!).
Per il mommento, mettettevvi la musa arolla e stattevvi sidditti,
chi no vi pillia il callappa cani e vi ranchiude nella canilliatta comunalle
e saranno fammi, istenti e zicchirri di denticci.
Sillenzio, dunca, e moscolla in bucca, tanto a casa già se ne cabbulle
in abbudanzia.
Aspettattemi, e statte approntatti a bracci arzatti pe sempre e in
onni luogo che io sto vienendo!
Il tuo scienziatticco spezzialle.
Frimmatto (ma cuasi vienutto)
Fisieddu
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Dicius
Bellus tempus
Dicius sadrusu...seddoresusu
A chi têidi atti no ddi manca patti
2) A chi têidi proccu o pudda no dd’ammanca nudda
3) A dì a dì tocca su casu
4) A fueddusu maccusu, origas sudrasa
5) A morri e a pagai nc’à sempri tempusu
6) A mussiu de cãi, piu de cãi
7) A peddi allêa corrìa lada
8) A pregontu s’arrìbada a Roma
9) A quaddu friau, sa sedda ddi pìzziada
10) A s’arriccu no dèppasta e a su poburu no imprommittasta
11) A santu Mattîu donnia mustu è bîu
12) A su toccu de s’Ave Maria, o me in dommu o in sa ia
13) Abribi, nci torra su epiri a coibi
14) Acqua e friusu, annad’e pippiusu
15) Acqua e sobi annad’e lori; acqua e bentu annada de srammentu
16) An chi dd’oidi a fumu dd’oidi a fogu
17) Anch’i oi su meri accappiausu su quaddu
18) Aria limpia no timi trõusu
19) Arrì de is carrusu furriausu
20) Arriu chi curridi no pudèscidi
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Bellus tempus
21) Assimbillasa
a û pisittu pappendu prummõi
22) Axia cotta cu mur’e arrù, donnia cosa a su tempu su
23) Balli pru sa salludi che centu boisi
24) Boi sou no tira carru
25) Cãi becciu, fûi noba
26) Cãi zàbada e proccu pàscidi
27) Campana soba, mabi sònada
28) Chi àndada cun su zoppu impàrada a zoppiai
29) Chi àndasa a mari no agàttasa acqua
30) Chi àrada, incùngiada
31) Chi bàndada a segai concasa ndi tòrrada a conca segàda
32) Chi bivi de speranza, morridi disisperau
33) Chi càntada a mesa o a lettu o è maccu o è fettu
34) Chi cròccada cun cãi sindi pèsada carriau de puxi
35) Chi cròccada cun mrexiãi, sindi pèsada carriau de piu
36) Chi dona prangiu aspetta cena
37) Chi esti accant’e su fogu, si dd’oi callèntada
38) Chi esti iscrammentau de s’acqua buddida, timi sa frida puru
39) Chi mànda mau missu, mellus chi àndid’issu
40) Chi no arrìscada, no pìscada
41) Chi no têi cos’e fai scràffidi su cuu a is cãisi
42) Chi oi pappai piscau, si sciundi su paneri
43) Chi pàppada e allògada, donnia dì ndi ògada
44) Chi seid’a quaddu allêu, ndi càbada candu no boidi
45) Chi sèmia bentu, arregòllidi tempesta
46) Chi têi bingia, têi tingia
47) Chi têidi santusu in cotti, no timi sa motti
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Dicius
48) Circhiolla
di a merì, sinnialli de bella dì
49) Circhiolla di ammengiãu, sinnialli de tempu mau
50) Compra e coia in bidda tua e chi podisi in bixiãu
51) Corroxiu de mobenti no arrìbbad’a su xeu
52) Cuaddu furiosu, arringu cruzzu
53) Cummercianti de proccu...a ddu bì appusti mottu
54) Cun is Santusu e cun is maccusu no cumbenidi a giogai
55) Cun su preìdi in paxi, ma attesu
56) Cunfrommasa a su stampu su babballoti
57) De cussa linna ndi fainti is santusu
58) De mau pagadori, tirandi su chi podisi
59) De s’acqua chi si straùllada sindi tòrrada a buffai
60) De su chi timisi no ti ndi scampasa
61) Deusu si ndi campidi de su poburu avanzau
62) Donnia buncõi è nemigu de su fammi
63) Donnia mandrõi têi sotti
64) Fai bêi e bài in oramabasa
65) Fammi finzas’a coi no è fammi maba
66) Fill’e gattu topi càssada
67) Fillu de crabu, crabittu bessidi
68) Fillu pittìusu axìu pittìusu, fillu mannusu axìu mannusu
69) Giuabisi trottusu, àxia meda
70) In domm’e su ferreri schidõisi de linna
71) Mellu motta pobidda che quaddu
72) Mellusu a istrintu in logu su, che a largu in logu allêu
73) Mellusu a mi bì caghendu che a mi cagai
74) Mellusu a timi che a provai
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Dicius
Bellus tempus
75) Mi
parrisi û proccu puntu
76) Naramì cun chi abitasa e ti nau chi sesi
77) No mi neristi biada, fìnzas’a candu no seu tudàda
78) Pagu genti, mellu festa
79) Passau su santu passàda sa festa
80) Peccau de babbu, fìllu ddu prangidi
81) Pezza niedda, brodu saboriu
82) Pillõi chi no bìccada, ha biccau
83) Po imbellì, tòccad’a sunfrì
84) Pobiddu allêu collumbu parridi
85) Preìdi, para o sodrau, mancu in su muru pintau
86) S’appretu fai curri sa beccia
87) S’è travessu che sa linna maba
88) S’uncõi prazziu, s’àngiullu si dd’oi sèidi
89) Sa brulla è pru fotti de su ferru
90) Sa dì si bidi de su mengiãu
91) Sa
mariga càbada a funtã finzas’a candu no si sègada
92) Sa maxîa pru bella è sa cagàda fatt’a su mengiãu
93) Sa pressi faidi is pisitteddusu zurpusu
94) Saccu buidu no abàrrada strantaxiu
95) Su bixîu è prusu de su parenti
96) Su boi nàra corrudu a su mobenti
97) Su bonu pagadori agatta sempri sa potta abetta
98) Su cãi cùrridi a s’ossu
99) Su chi abàrrada agò, serra s’enna
100) Su chi no scidi è cumpangiu de su chi no bidi
101) Su chi sèidi a quaddu è suggett’a nd’arrui
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102) Su
chi sèmiada spîa no deppidi andai scruzzu
103) Su mau no têidi serradura
104) Su mobenti doppu chi dd’ungrassasa si fùrriada a su maiou
105) Su mobenti no pàppada zaffanau
106) Su mrexiãi cambia su piu ma no su viziu
107) Su tiau faidi is pingiadasa ma no is crobettorisi
108) Su topi si cùada, ma sa co si parridi
109) Su traballu de su dommigu è farra de su tiau
110) Su troppu, strùppiada
111) Tòccad’a bentuai candu sua su entu
112) Totusu is arriusu currinti a mari
113) Tra muru e cresura, fueddusu a misura
114) Tra pobiddu e mulleri no ti pongiasta mèri
115) Trigu in su saccu, saîa in su laccu
116) Trõusu medasa, acqua pagu
117) Truncu’e figu, astua’e figu
118) Tui òisi s’ou, sa pudda e s’arriabi
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Bellus tempus
Contisceddus
Contisceddus
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Bellus tempus
Contisceddus
Su preìdi e sa gommai
Ziu Sisìnni Murrùdu (aicci ddi zerriànta po duas dèntisi chi ndi ddi
essìanta ü poghèddu allonghiàdasa de is còrrusu de sa ucca), fìada
ü ommi de mes’edàdi, proppietarièddu de càncüa terrixèdda a bingia,
obìasa e a mattixèddasa de frutta.
Donnia tanti accostummàda a nci essì a su sattu cun su fusìlli a
coddu, a fai ü girixèddu, naràda ìssu, po pigai aria bona.
Üa dì, po fottüa sua, càssada dexiòttu sturrus pintus e, cuntèntu
che ü pùxi, tòrrada a domu, e ddi nàrada a sa pobìdda Ludovìcca:
- Pobìdda mia, castia cantu pillõisi appu cassàu oi. Incàppasa, giai
chi no dd’eu fattu mai, invitàusu a cèna a goppai su preìdi. Tanti,
funti dexiòttu e ndi spèttada sesi a donniü.
- Ei ei, ddi nara sa pobìdda, invitàddu puru!
Sùbitu ziu Sisìnni bàndada a domu de su goppai arrattòri, e ddu
invìttada a cenai. Deppèisi scì ca sa pobìdda de Sisìnni, fèmmia
fracòngia e faidòsa cantu nd’esìstidi, tenia però su vizziu de pappaccìna
ü poghèddu ingordiggiòsa e di aicci, dòppu chi à bëi bëi cottu is
pillonèddus de tàcculla, ponendìddusu me in sa cassaròlla de terracòtta
cun sa mutta, non si ndi trattëidi e ndi spattìlliada in d’ü patterefilliu
tresi tott’a ü otta.
- Ma, - nàra castièndu is àtrasa abarràdas, - funti quìndixi, divìdiasa
in tresi fàinti cinqu a donniü. Incàppasa dd’i tastu cancü’antra.
E aicci sighèndu, contèndu e dividèndu, dd’accàbbada chi de
pillõisi de tàccula nd’abàrrada scetti tresi.
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Candu s’accàttada ca orammài su sciaccu chi à fattu è meda mannu
e pagu arrimmediàbbili, pensa tra si: - E immui cummènti fàzzu a
invitài a cenai a goppai su preìdi, cun tres pillonèddusu scetti? Ah...ma
si dda imbèntu deu üa de cussas bèllasa a goppài, candu bëidi!
De ingüi a pagu, eccu arribbàu s’arrattòri totu prexiàu e cuntèntu,
giai pensèndu a su pastu chi dd’aspettàda.
Ma candu a mabapèna ia salludàu a gommai Ludovìcca, eccu chi
custa s’accòstada accànta e ddi nàrada totu avabottàda:
- Goppài, goppài arrattòri, gei tëidi bèllasa intenziõisi òi pobìddu
miu! À nau ca doppu chi ddi fai pappai is pillonèddus, ndi ddi sègada
tott’e is dùasa is orìgasa.
- Mabagràbiu fàzzada cun pillõis’e totu! Chi si ndi sèghidi issu
cancü’àtra cosa e bàndidi in mabòra!
E si dd’ònad’a curri me in sa ia aicci drabèssi, ma aicci drabèssi,
ca is peisi ddi lompìanta a nàdiasa.
In sù mèntrisi, ziu Sisìnni, fischiètta fischiètta, mùccada a domu
e faidi a sa pobìdda: - Pronta sa xëa, Ludovìcca?
- E pronta gei fiada, e bëi preparàda puru, - ddi torra cussa, - ma
è benìu goppai, nd’à liau tòtusu is pillõisi e s’è fùiu. Ddu bisì, là,
ch’è currèndu cummènt’e ü maccu me in sa ia!
- Su santu chi dd’à criau, fatt’a preìdi! Aìcci si põidi a furai puru!
Lassa ca immüi si ndì ddus fazzu torrai deu maccai de cròppusu is
pillonèddus mìusu! A calli patti est’andau?
- Ai cussa, là, ddu bisi?
E Ziu Sisìnni, a gottèddu in mãusu, inchièttu che ü sribõi, cùrridi
a su preìdi e donnia tanti izzerriàda: - Assummànc’üa, assummànc’üa!
Cussu pobirìttu de preìdi, credèndu chi fèssidi assummanc’üa di
orìga, currìada sempri de prusu, cuttu de Ziu Sisìnni chi obìada
assummàncu ü pillonèddu de tàcculla.
Sa pobìdda, in su mèntrisi chi is dusu si currìanta pari pari senza
de si scumpõi po nudda, si tòrrad’a sei a mesa e s’accàbbad’e pappai
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Bellus tempus
is atras tres tàccullasa. E di aicci, Sisìnni cun su goppai, po su
bribantèsimu de üa fèmmîa, funti abarràusu che Annìcca chen’e
cadìra, diggiùnusu e inchièttusu a su contràriu de Ludovìcca prexiàda
e a brenti bëi prèna!
Gei no fàddidi su dicciu antìgu:
Sa femmîa ndi scidi üa pru de su tiau!
Contisceddus
Is tres fràdisi
Custu contu de Is tres fràdisi, ascuttàu tanti òtasa de sa bucca di aiàia,
ancòra in dì di oi, maccai s’edàdi si sia fatta mattucchèdda, à lassau
in sa conca mia üa spezzia de dubbiu, diffìzzilli a si ndi scancellài
de s’arregòdu.
Mi domandu sempri: ad’essi beridàdi sa storièdda aicci antìga
oppuru cosa imbentàda de sa genti de cussus tèmpusu, prena de
timmorìasa e imprenniàdasa de credullènziasa, chi attrivìada a donnia
callidàdi de tiàusu, brusciasa o pantàsimasa, s’arricchèsa o sa poberèsa
chi arribbàda in d’ü nudda o cùssasa mabadìasa o sanadùrasa chi
nisciùnusu arrennescìada a cumprendi?
A nai su chi oi deu penzu, creu ca me in mesu de totus cussas
còsasa ü poghèddu morigadasa de ü’aiàia a s’atra, cancu spizzuèddu
de beridadi accostummèssidi a ddoi essi.
Aiàia mia, naturarmenti, no tenia nisciùnu dubbiu. Totusu is
contixeddusu chi si fadìada ascutai, fìanta, segund’issa, fàttusu
suzzèdiusu diadèrusu, e nosu, nozzèntisi, nci credeiàusu fìnzasa a
s’ùttimu fueddu.
M’arregòdu, candu s’ierru cummenzàda a fai intendi is aràxisi
frìdasa e pizziòsasa de su bentu estu chi ndi cabàda de is montisi de
Biddexìdru, e su merì si fadìada sempri pru cruzzu, mamma ndi
muccàd’a coxîa cun d’üa scatèdda de numànnu de fa, alluìada su
fogu, e sùbitu tòtusu a si sei a giru a giru de sa stufa, accànta accànta
de aiàia, giai assettiàda cun su scannixèddu de linna , affundàu sempri
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Bellus tempus
a nou. E di aicci cummenzànta is còntusu de forrèdda.
Unu de is pru bellusu fia propiu custu de Is tres fradisi.
- Tanti, ma tanti tempus faidi - cummenzàda aiàia, – me in Seddori,
in logu assobàu chi si narada Muntarràsu, tres fràdisi, òrfanusu de
babbu e de mamma, tenìanta ü arroghèddu de terra cun d’ü scantu
màttasa de obia e üa parìga de fiòbasa di axia de pappai. Candu su
tèmpusu ddu premmittìada, ponianta me in sa bettua su froxèddu de
s’acqua, üa tacchixèdda de pãi tostaiòngiu e cancü’ otta ü arroghèddu
de casu mesu stantissàu e nci azziànta a su territorièddu de su monti.
Ü merì, sudàusu e fadiàusu po sa pudadùra de is màttasa de s’obia,
biu ca s’ora si fia fatta trada e ca s’incràsi puru deppìanta sighì a
traballài ingüi e totu, dezzìdinti de xenai in su sattu e de si croccai
in sa barracchèdda de canna, fatta proppiu po s’abbisòngiu.
Stèrrinti ü chirriòu de xillõi e ndi bòganta s’arrèstu de prandi. In
su mèntrisi, su fradi pru giòvunu piga su froxèddu oramài buidu, e
bàndada a ddu torrai a prëi a sa funtã chi fìada ingüi accanta. - Depèisi
iscì - naràda aiàia - ca cussa funtã fia nommenàda meda me in
s’antigòriu po s’acqua sempri limpia e frisca, ma in patticullàri po
cettus fàttusu ü poddixèddu misteriòsusu, passausu a sa storia de is
leggèndasa sedorresasa e contausu in donnia famillia.
Dùncasa, torrèndu a su contu de Is tres fràdisi, su pru giovunèddu,
s’accòstada a sa funtã miracullosa, piga sa craccìda appiccàda a sa
tallòra e in mesu de is zicchìrriusu de s’arròda arrüiàda, nci dda
làssada andai fìnzasa a fundu po dda prëi di acqua.
Candu, però, cìccada de nd’idda pesài a susu, intèndidi cummènt’e
üa spezzia de frozza chi no ddi lassa tirai sa füi. Pròvada a puntai is
peisi me in sa costa de sa funtã, po fai prus appoggiu siguru e cìccada
ancòra de tirai sa füi de sa craccìda. Ma su pesu est’aicci mannu chi
sa craccìda mancu si mòvidi de su fundu.
Biu ca non d’accammìngia nudda issu a sou, lassa sa füi accappiàda
a su ferru de sa tallora e curridi a sa barràcca totu assustràu. Torrau
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Contisceddus
suidu pagu pagu, conta su chi ddi fia suzzèdiu a is dus fràdisi chi
fianta giai pròntusu a cenai. E maccai no ddu crèttanta meda meda,
dezzìdinti, comunque, tot’e is tresi impari, de torrai a sa funtã, po bi
cun is ògusu insoru ita fia capitàu diadèrusu.
Su prus anziànu e pru forzùdu puru piga sa füi e fai po tirai a susu
sa craccìda, ma custa a mabapèna si movi de su fundu. Prova su
segùndu, ma is còsasa càmbianta pagu o nudda.
A sa fini dezzìdinti de tirai tot’e is tresi impari e, a frozza de provai
in tanti manèrasa, cun suìdusu lòngusu e cun su sudori chi còbada
a terra che arriu in tèmpusu de ierru, nci arrennèscinti a ndi dda pesai
a pàrisi de sa costera.
Ma ita ddi si scumpàrridi ananti de is ogusu sprappaddàusu, in
cussa notti de luna prena? Aintru de sa craccìda, in logu de s’aqua
frisca, ddoi fìanta abbrazzàdasa a pari, a strintu a strintu, tres
beccittèddasa, cun is pìusu biàncusu lòngusu fìnzasa a metàdi de is
pàbasa, sdentàdasa e cun sa facci marrìda, ma diaìcci marrìda chi
ddas fadìada assimbillài prusu a tres cògasa chi no a genti de custu
mundu.
Is fràdisi, mesu sciolloccàusu de sa cosa chi ddis parìada ü bisu,
si càstianta a pari e prënusu de timorìa in su momèntu no scinti ita
fai.
Sa primu impunnàda chi bëidi a conca è cussa de nci ddas torrai
a ghettai a funtã senza de nisciùna piedadi. Ma proppiu candu
cummènzanta a lassai andai sa füi, eccu chi a simprovvisu de sa
bucca de una de is tres beccittèddasa, ndi èssidi ü fiu de boxi, chi
assimbillà prusu a su lamèntu de ü pisittu mobadiòngiu che a su
fueddu de cristiànu.
- Bonus picciòccusu – nara sa femmîa chi a s’apparenza parria
prus anziana, – si domandu una grazia: fadeisì torrai a su mundu de
is biusu, ca po troppu tèmpusu eus biviu me in cussu friusu de su
fundàbi de sa funtã. Donaisì acculliènzia me in sa barràcca callenti
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Bellus tempus
e offreisì ü mussièddu de pãi, puru chi sia tostau! Sa ricumpènza, a
modu nostu, ad’essi sigùra e bëi aggradèssia.
Maccai cun su coru ü poghèddu trumbullàu, is tres fràdisi,
giovunèddusu ma de grandu bonu coru, accumpàngianta is tres
femmièddasa a sa barràcca e dividendu sa pòbera xëa fatta de is
arrèstusu de su prangiu, dònanta a pappai a cussas òspitisi pagu
connòttasa e improvvisàdasa.
Duranti sa xëa nisciùnu boga mesu fueddu. Arribba, però, su
momentu de si separài e is tres femmîèddasa, prima de torrai gràziasa
a cussus bravus picciòccusu e de ddus salludài cun su teneisì a contu,
lassanta sa ricunpenza promittia.
- Seisi stèttiusu bravus fìllusu a bolli accùlli me in sa barracca di
osàtrusu tres beccittèddasa mai bìdasa e mai connòttasa, lèggiasa de
fai a timi fìnzasa a su tiau; seisi stèttiusu ancora pru bràvusu e de
bonu coru a bolli divìdi su pagu de pãi e ingaungiu cun genti
cumment’e nosu. Dùncasa, sa promissa chi eu fattu in su momèntu
chi s’eisi liberau de sa cundànna de s’aqua, bàndada mantènnia.
Ascutài attèntusu su chi si lassàusu prima de si ndi andai e de sparèssi
de custu logu chi, a cummenzai de sa dì di oi, ad’essi sempri nommenàu
su monti de sa funtã miracullosa. Immui, accostaisì tòtusu accànta
nosta e donai bëi attenziõi a su chi si naràusu: - A tui - nara sa primu
coga (o fata?), - a tui, ca sesi su pru mannu de is tres fràdisi, t’arregàllu
custa tialla bianca. Donni’otta chi as a bolli pappai assou, impàri cun
is fràdisi o in cumpangìa di amìgusu, no deppi fai atru che dda sbatti
tres bòttasa a s’aria e dda stendi me in terra. Asub’e cussa, subitu,
ad a cumpàrri donnia bëi de Deusu! - A tui, invèciasa, - sentènziada sa segunda coga – a tui, ca se’
nasciu segundu cumment’e mei – t’arregàllu custu pottafòlliu. Donni’
otta chi dd’as appèrri, ddoi as’agatài tòttu su dinai chi ü ommini podi
disigiài me in sa vida - .
Arrìbba s’ora de sa recumpènza a su fradi prus pittiu e, cust’otta,
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Contisceddus
tòccada a sa coga chi pàrridi, a s’ogu, prus pagu anziàna e ü pogheddu
prus bellixèdda de is atras sòrrisi.
- A tui, ca sesi ancòra picciocchèddu e, dùncasa, pottau po su
giogu, ti onu, de vera ammìga, custu suittu de canna. Custa launedda,
pittia e dillicada, no ad a srebì scetti a tui, ma ad’essi de bona fortuna
po is chi dd’anta sonai e is chi dd’ant’ascuttài. Bai, giovunèddu, deu
no tengiu de mèllusu de t’arregallài, ma asa bì ca custu donu, fattu
cun ammòri, t’ad’a rendi srevìzziusu prus bèllusu e prusu importàntisi
de cùssusu chi ant’a rendi a fradis tusu su pottafòlliu e sa tialla.
No iada accabbàu de sentenziài custas prommìssasa, ca a
s’improvvìsu is tres beccittèddasa sparessinti de su monti e làssanta
me in su spantu pru mannu is tres fràdisi de bonu coru ma fottunàusu.
No tenèndu prusu abbisòngiu de traballài, mèrisi oramài de cùssusu
arregàllusu miracullòsusus, is tres fràdisi si ònanta a girai pe is bìddasa
de totu sa Sardìnnia, pappèndu, buffèndu, fadèndu festa a donni’ora
e baddèndu a su sõu de su suittu de canna de su fradixèddu pittiu.
De bonus giòvunus chi fìanta, poi, in donnia patti chi ponìanta pei,
no fadìanta atru che donai a sa genti abbisongiòsa dinai e cosa de
pappai, lassèndu appàbasa de ìssusu arrastu de generosidadi e de
beneficienzia.
Custu fai de bonu coru, chi ddus pottàda a essi bëi òffiusu de sa
genti de totu su circondàriu, bëi però a s’orìga de ü preìdi gellòsu e
prepotènti.
Custu, senz’e nci penzai duas òttasa, òrdinada a is tres fràdisi de
no torrai mai prusu a fai cussus trestammèngiusu miracullòsusu, pena
sa cresiàstica scommùniga o su presõi a vida.
Is tres fràdisi, naturarmènti, a cust’òrdini de su preìdi, si pointi
arrì, puetta ca scidìanta bëi su podèri de is arregàllusu miracullòsusu,
invisìbillisi a totusu, ma nou ai cùssusu chi ddus pussidìanta. Dùncasa
no tenìanta nudda de timi. Ma su preìdi, sempri pru prepotènti, ghetta
sa scommùniga de s’artàri a is tres fràdisi, credendu, in custu modu,
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Bellus tempus
de dd’is ponni timoria de is vangèllusu.
Cummenti intendi di aicci, su meri de su suittu no faid’atru che si
ponni a sonai me in prazz’e cresia. Su sõu, chi tenia su poderi de fai
baddai totus cussus chi ascuttànta sa musica, obbrigàda, a s’improvvìsu,
a sattai che crabu mediu, proppiu a su preìdi maccai chen’e gana.
Biendu cussu spettàcullu macchillòtu e senz’e frëusu cuncodràu
de s’arrettòri, cummènzada a s’arrolliài üa grandu cantidàdi de genti
me in su spiazzu de sa cresia, e tòtusu, cantu prusu ascuttànta su sõu
de suittu, tanti prusu sattànta e zerriànta e, bolli o no bolli, nisciùnusu
nc’arrennescìada a si frimmai. In pagus tempusu, totu sa bia de cresia
si prëidi de genti ammacchiàda e cunvusionàda, e no s’ntèndidi atru
che pràntusu e pregadorìasa a su sonadòri, chi accàbidi custu trumèntu.
Ma su giovunèddu si spassia sempri de prusu, biendu baddai su
preìdi, grassu e tundu cumment’e üa carradèdda de xentu. E diaìcci
su spassiu sìghidi fìnzasa a candu no ddu bidi arrùttu a terra cummènti
de ü saccu de patàtasa e svenniu de su sfinimèntu.
Ma, dopu totu custu budrèllu cuncodrau contras’a su preìdi
prepotenti, biu s’arresurtàu pagu praxìbi po s’atra genti puru, a is tre
fràdisi, castiàusu unu pogheddu a cu di ogu, no abàrrada atra cosa
de fai che si fuì de bidda.
Is pobiritusu chi ìanta deppiu baddai ammaròlla, però, ddus cùrrinti
avatu, ddus càssanta e, accappiausu cun d’üa bella füi, nci ddusu
ghèttanta in su fundu de sa turri de su casteddu. Ma ingüi in basciu
puru, dì e notti, no fadìanta atru che si spassiài, sonèndu, baddèndu
e pappèndu in grandu abbudanzia, no sceti cun is is presonèrisi, ma
cun tòtusu is guàdrias puru.
Po custu motivu su dibattimentu bëi fattu allestru e, cundannàusu
a motti, dopu pagus disi funti pottàusu a s’mpìccu.
Sa genti, po bì su spettàcullu, arrìbada a milliàiasa; ü frummi de
crosidadòsusu, benìusu de onnia bidda accànta e fìnzasa de cùssasa
prus attèsu, pronta a si gosai su momèntu de bì sa motti de is tres
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Contisceddus
fràdisi arrambullèrisi, chi tòtusu, oramài, cunsiderànta nudd’atru che
tiàusu.
Arrìba su momèntu fatalli, ma proppiu in su puntu de tirai sa
codrèdda allosingiàda a nou, su fradi mannu domàndada a su giùdici
presènti a sa zerimònia mottàlli, de podi ottenni, a nomi de is atrus
dus fradis puru, s’ùttima grazia prima de morri. E sigumenti a su
cundannàu a motti, custa no si nega mai, (a patti sa vida!), is tres
fradisi ottëinti totu su chi domàndanta.
Su primu domàndada de podi offèrri a tòtusu is presèntisi,
cumprèndiusu i giùdicisi de sa cumpangìa de motti, ü bellu prangiu,
arrìccu de onnia arràzza de mandiàrisi, fàttusu de pezza , de pisci,
de drùcisi e de frutta.
Sa proposta de su primu fradi, mancu nau siat’essi, bëidi accùllia,
de cussa sciumàna de genti, cun izzèrriusu de prexiu e de cuntentèsa.
Su cundannàu, aicci biendu, in d’unu patterefìlliu scutùlla sa tialla
me in aria po tres bòttasa e poi dda stèrridi me in terra. In d’ü nudda,
asub’e custa mesa, manna cantu totu sa prazza de sa cresia, cumpàrrinti
còsasa de pappai di onnia callidàdi in cantidàdi mai bida de is ògusu
de cussa genti, e poi su biü nieddu e biancu a damingiànas prenasa,
tanti de podi accuntentài assummàncu centu milla pressònasa. Sa
genti pàppada e bùffada senz’e torràda, e prus pàppada e bùffada e
prus còsasa bèllasa cumparrìanta anant’e is ògusu allampaiàusu de
totu su biü sgrangarrozzàu a bruncu e senz’e ritènniu.
A sa fini, tòtusu , sodràusu, giùdicisi, popollaziõi, crannazzèrisi
e preìdi, barraccollèndu cumment’e badrùffasa, s’agàtanta imbriàgusu
e sazzàusu fìnzasa a ògusu, axebiàusu de su stantonamèntu. E di
fattu, candu su segundu fradi fai sa propòsta de arregallài dinai in
grandu cantidàdi a tòtusu is presèntisi, nisciùnusu si oppõidi.
Abéttu su pottafòlliu miracullòsu, su segundu cundannàu a motti,
cummènzada a spraxi me in aria marèngusu di oru fìnzasa a candu
totu sa prazza de cresia non bessi crobètta de dinai.
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Bellus tempus
Cussa genti, maccai totu arrambullonadura e a càmbasa
arrammoddàdasa de sa imbriaghèra, si ghèttada a pari me in terra,
spantàda de cussa maravìllia mai bida me in sa vida insòru.
Ma proppiu candu sa cunfusiõi si fia fatta pru manna, su fradi
pittiu, domàndada de podi sonai su suitèddu de canna.
Sa genti e i giùdicisi, oramài fora de xrobèddu, penzendu di ottenni
cancu antru benefiziu, no nci pènzanta dua botasa a ddi onai su
premmìssu po sonai su strumentèddu màggicu.
Su picciocchèddu, strantàxiu asub’e su intabàu de s’impìccu, si
põidi a sonai e subitu sa genti imbriàga, impari cun is giùdicisi, is
sodràusu, su preìdi e i bòiasa, si ònanta a baddai cumment’e màccusu,
spingendusì s’unu cun s’atru, pistendusì e accraccaxendusì
disisperausu. E in cust’inferru de cunvusiõi generalli, chi nci arrùidi
a terra, chini svènidi toccau de su mabacadùccu arcòllicu, chi ddoi
abbàrrada ammattroxiàu e alliagàu de is trìncusu a conca, e , in mesu
de totu cussa scutullàda furiòsa, cancunu ddoi lassa puru sa peddi.
E proppiu in mesu de custa cunfusiõi de disisperàusu, is tres fràdisi
cundannàusu a s’impìccu, nc’arrennèscinti a sindi scappiai de is füisi
e scoitta scoitta si fùinti attèsu de cussa bidda, pottendusì avàtu is
arregàllus miracullòsusu.
Su pru prexiau de is tresi, però, fia su fradixèddu pittiu ca ia pozziu
sperimentài a prëu su chi dd’ia nau sa coga prus giòvuna: - Custu
suitèddu maccai pàrrada ü gioghìtu, chi esti scipiu usai in s’ora giusta,
ad essi prus ùtilli de sa tialla e de su pottafòlliu.
E proppiu di aicci esti stau.
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Contisceddus
Si còntada ca in d’ü muntronàxiu de üa domu de campànnia, nci
fìada üa pùdda chi sciorrònciua sciorrònciua, me in mesu de su lodami
iad’aghettàu ü soddixèddu di oru. In su stessu mommèntu est’arribbàu
su cabõi, chi à biu totu su trestammèngiu, e rivòrgiu a sa puddastèdda,
ddi nàrada: - O gommài puddixèdda, it’eisi aghettàu ingüi asùtta?”
- ü soddu di oru - ddi fai totu pompòsa cussa.
- Andàusu a sa festa! - ddi torra su cabõi.
- E puetta no? Andàusu!- e s’incammìnanta me in sa ia. Andèndu
andèndu si faint’a pari cun d’ü proccu chi scricchiobàda làndiri a
cantu podìada: - Oh, gommài pudda, e ita tenèisi, ca si biu aicci
prexiàda?
- App’agattàu ü soddixèddu di oru e sèusu andèndu a si spassìai
a sa festa.
- E mi obèisi a mei puru?
- Zettu ca ti obèusu. Ahiò! - ddi fài sa pùdda.
E di aicci, cun sa cumpangìa chi s’ingrùssa sempri de prusu,
sìghinti, canta che ti canta, a s’accostài a su logu de sa festa. Ma
eccu, a s’improvvìsu, paràusu anànti, ü burrìccu mannu e sanzèru e
ü cãi de cassa.
- E a innui toccàisi, aicci prexiàda e in grandu cumpangìa, gom
mài puddastèdda? - ddi fàinti i dusu.
- A sa festa, po spendi ü soddu di oru chi app’agattàu!
- E puetta no pottàisi a nosu puru? - Ma zettu ca si pottàusu a
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Bellus tempus
osàtrus puru. Ahiò, ahiò a si spassiài! Su cammìnu, tra croccobàdasa,
arràlliusu de burrìccu e izzàbidus de cãi e càntidus de cabõi cun
bòxisi de proccu, arrìbbada giai a sa fìni candu, de su xeu limpiu e
asullettàu ndi càbada üa bella cadrallîa, asrubiettèndu che ü suittu de
canna.
- E a innui seis’andèndu tòtusu impàri - fai cun boxixèdda educàda,
sa cadrallîa.
- Seus de grandu festa, - dd’arrespùndidi cun boxi de tronu de fai
a timi, su proccu. - Bëi tui puru, aicci sa cumpangìa si fai cumprèta!
E senza de pònni atrus fuèddusu, sa cadrallîa sighi su bòbidu cun
is cumpàngiusu de fottüa.
Ma sa carovàna fìa destinàda a si fài pru manna. Di fattu, proppiu
a s’intràda de su corràzzu de sa festa, giràda scoìtta scoìtta ü mrexiãi
cun sa co’ grussa e arrubiàsta.
- Dd’oi bì - nàrada cun d’ü fai de bribànti, prontu a nd’aproffitài
de sa bonèsa de is àtrusu, - ca seisi andèndu a sa festa po spendi
cancü soddixèddu in cosa de pappai e de buffai?
- Proppiu di aicci - ddi faidi azzùda e arrodiànti sa pùdda - e
sigummènti oi sèusu tòtusu de bonu coru, arregollèusu a tui puru.”
E s’incammìnanta a su corràzzu de sa festa, ma candu fìanta accànta
de is paràdasa, su mrexiãi fàidi üa propòsta: - Immui andàusu a bì
a pobìdda mia: si dda fazzu cannòsci, - sìghidi cun aria de nozzènti,
- puètta ca seisi amìgus mìusu.
- Sì, sì, - fàinti tòtusu impàri. - Andàusu! E nci ddus pòttada a
domu sua. Doppu chi nci funti muccàusu tòtusu a sa tana, su mrexiãi
sèrrada bëi bëi appàbasa su stampu de intràda e sùbitu faid’a cumprèndi
su chi pottàd’in conca .
Po primma càstiada arrì-arrì a sa pudda e ddi nàrada: - Immui, po
cumenzài pru bëi sa festa de su soddixèddu, po primma tòccad’a
fustei, gommai puddixèdda. A mei pràxidi sa pittùrra, a Pullighìtta,
pobìdda mìa, is costixèddasa e a fillu miu sa conca po ciucciài. Poi,
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Contisceddus
ad’ a toccai a tòtusu osàtrusu chi seisi innoi aintru. Sa cadrallîa,
candu intèndidi a su mrexiãi narèndu custas còsasa, ita faidi po ciccai
de si sravai de sa motti oramài sigùra? Senz’e nci penzai meda meda,
ddi nàrada a su mrexãi: - Prova appèrri sa ucca, bellu mrexiãi, aicci
deu, de su mommèntu chi deppu morri mazziàu de is dentis tùasa,
nci mùccu derettu e intèru a brenti tua.
Su mrexiãi, totu cuntèntu de custa propòsta, appèrridi sùbitu is
cantrèxiusu e sa cadrallîa, svèrta ddu càgada a bucca.
Pigau a sa sprovvìsta de su sabòri e de su fragu mau, su mrexiãi,
a vòmbitus de ndi fai torrai s’anima, s’accancarrònada a izzèrriusu,
me in terra e si ndi scarèscidi de is presonèrisi chi si deppìa pappai.
Sa cadrallîa nd’approffìtada sùbitu e, agattàu ü stampixèddu po nci
essì a fòrasa, izzèrriada aggiùdu po ndi ogai is atrus cumpàngiusu
abarràusu aìntru.
Ddoi fìada ingüi accànta ü quaddu pascèndu tranquìllu chi prontu
a sa domànda de sa cadrallîa, accùrri sùbitu e cun sa frozza chi
tenìada, no abàrra meda a nci sfundai sa tuppadùra. E di aicci, cun
su prexiu me in su coru, tòtusu impàri, sìghint’andai a sa festa fadèndu
sciallu mannu. Su mrexiãi, invècciasa, fìad’abarràu cùn d’ü prammu
de nàsu, fraghèndu e tastèndu ü drucci chi fìa pagu saborìu.
E diaìcci, medi òtasa, su bribantèsimu pagu onèstu, bëi superàu
de sa bundàdi e su coràggiu.
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Bellus tempus
Contisceddus
Su goppai
Custa storièdda chi si contu, fuèddada de ü ommi pòburu in canna,
de nòmm Bissènti, chi s’esti sposau e à cumenzàu a fai fìllusu a
scattèddasa.
A ü’ certu puntu, sa famìllia si faidi aicci nummeròsa ca non
c’arrennèsci prùsu mancu a agattài goppàisi de battìsimu. Üa bella
dì, senz’e nimmàncu dd’olli, ddi nàscidi ü antru pippiu. - Immui, nàra tra sè su pobirìtu, - po aghettài goppai, mi tòccad’a nci essì a
fòrasa de bidda: tanti, me in noi nisciùnus prusu è dispòstu a battiài
ü fìllu miu.
E di aicci, puru de malagàna, si põidi in cammìnu e bàndada a sa
bidda accànta. Ma durànti sa camminàda, incòntrada ü ommi pe
istràda chi ddu frìmmada e ddi domàndada: -A innui seisi andèndu,
bon’ommi!
-Eh, - ddi fai de torrada Bissenti, - Seu andèndu a mi ciccai ü
goppai de battìsimu, ca in bidda non d’appu pozziu aghettài. - Mi
oisi a mei? - ddi fai su viandànti .
- E tui chi sesi?”
- Deu seu Gesù Cristu!
- Nou, no ti ollu.
- E po calli motìvu no mi oisi, - domànda Gesù Cristu.
- Puètta ca Tui non faisi is cosas giùstasa.
E aìcci narèndu, sìghidi a camminài derèttu. A üa certa distànza,
però, incòntrada ü antr’ommi, mai biu e mai connòttu, chi ddi
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domàndada: - E a innui seisi andèndu, bon’ommi?
- E di aicci e di aicci, caru viandanti. M’è nasciu ü antru fìllu e seu
andendu a mi ciccai ü goppài de battìsimu, ca me in bidda mia
nisciùnus prusu mi fài custu prexei.
Sùbitu s’atru: - M’iad’a bolli a mimmi?
- E chi ses tui?
- Dèu seu sa motti.
- Ah balla, a tui gei ti ollu, puetta ca faisi is cosas giùstasa.
E di aicci si põinti di accòrdiu, tòrranta a domu e bàttianta su
pippiu.
Sa motti, pòi, biu ca iad’aghettàu crienti nou, pò si fai ancòra prus
stimmàda de su goppai, dd’aggiùdada a si procurài tanti ma tanti
terras e dinai a muttõisi, ca me in bidda sua Bissènti su pòburu
divèntada a s’improvvìsu s’arrìccu prus nodiu.
Su tèmpusu pàssada allèstru, in mesu de s’abbudànzia e de is
prexèisi de sa vìda, ma üa bella dì sa pobìdda de Bissènti intèndidi
ü toccu a sa potta di ommu. S’affàcciada e chi ddoi esti parau anànti
de su minàxi de s’enna? Ddoi è proppiu su goppai de battìsimu de
s’ùttimu fìllu: sa motti.
- E goppai non c’esti ? - fai sa motti.
- Nossi, - arrespùndidi sùbitu sa mullèri; - ma fustèi e ita iad’a
bolli de pobìddu miu?
- Umm, pagu cosa o nudda, gommài: seu benìu scetti po ndi ddu
liai.
- Po ndi ddu liai, à nau? E ndi ddu oi liai proppiu immüi ca stadèusu
aicci bëi?
- Eh, gommài mia bella, deu fazzu sempri is cosas giùstasa e
dùncasa ndi ddu deppu liai per forza. Nerissìddu a goppài ca gei
app’a torrai talli dì e a tall’ora.
- Sissi sissi, goppài, fàzzada cummènt’oidi.
Torrau su pobìddu, sa mullèri ddi conta totu su chi è suzzèdiu e
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Bellus tempus
ddi nara pùru ca sa motti, in talli dì e a tall’ora, ad’a bëi a ndi ddu
liai.
- Ih, arrazz’e cosa bella puru, - fai Bissanti, - immui ca stau bëi e
ca mi seu fàttu üa bella propiedàdi, immui oidi sciusciài totu su chi
eus fattu e mi ndi oi liai. E proppiu a mei chi dd’appu scioberau po
goppai!
A custu puntu sa pobìdda, credendusìdda prù bribànta de sa motti,
ddi nàrada: - Càstia, fadeus di aicci; deu, sa dì chi bëi sa motti, ti
serru in d’üa cascia de linna tostàda e, candu cìccada de tui, ddi nau
ca non ci sesi.
Sa dì chi deppìa torrai sa motti, nci dd’à ghettàu aintru de üa bella
cascia fatta de linn’e castàngia e dd’à serràda bëi bëi a istrìntu, cun
füisi grùssasa e obìbisi lòngusu.
A üa cert’ora, eccu sa motti arribbàda!
- E goppai non c’è ? - domàndada a sa mullèri de Bissènti.
- Nossi, esti andau a su sattu, e no sciu mancu s’ora chi ad’ a deppi
torrai.
-Ah no ddi fai nudda, arrespùndidi sa motti. Custa è sa màncu
cosa. E, senz’e ddi acciùngi ü antru fueddu, si ndi àndada. Appèna
sinc’èsti stesiàda ü poghèddu, sa pobìdda de Bissènti, abèrri debrèssi
sa cascia, ma calli è sa sopprèsa! Su pobìddu è giai mottu e pòttada
ü cartèllu mannu me in su zugu: sa motti fai sempri is cosas giustasa.
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Contisceddus
Su serpenti e su pastori
Me in su sattu de Seddòri, prëu di erba frisca e de mìtzasa di acqua
pullìda, iada aghettàu arricòveru tranquìllu, ü bravu pastorèddu,
giòvunu, traballànti e sempri prontu a sa generosidàdi.
Üa dì, accumpangèndu is brabèisi me is tèrrasa bìdrisi di erba
appèna spuntàda, intèndidi custa boxi prantuèna:
- A innoi, a innoi!
Su pastori, pigau ü poghèdd’a sa sprovvìsta de cussa boxi stramba
e mai connòtta, maccai timi timi, po crosidàdi si ddòi accòstada
accànta, e tòrrad’a intèndi:
- Bogamìndi de innoi, bogamìndi! Chi mi faisi custu prexei às’a
bì cantu bëisi nd’às’a tènni me in sa vida tua! Bogamìndi, po prexei!
E diaicci po tre bòtasa.
Su pastorèddu, cummòviu de cùstu pràntu chi fadìa piedàdi, si fai
cunvìnci a nd’azziài üa pedra manna e grai che ü trõu, chi tenìada
impresonàu su pòbirittèddu chi domandàda aggiùdu.
Candu, cun d’ü sforzu fora de contu nc’arrennèscidi a spostai
appènasa-appènasa cussu pesu chi dd’arrecraccàda in terra, de asùtta
ndi èssidi ü serpènti grussu e longu, cun sa bucca obètta, prontu a
ndi ddu divorài.
E s’idea fìa proppiu cussa: - Tì ndi pappu, ti ndi pappu. - naràda
a su pòburu pastòri, giài moribùndu e cun is cambas a tremuîa.
- Ma cummènti ? - ddi fai su pastorèddu cùn d’ü fìu de boxi, - m’à
nau ca iadèssi ü grandu bëi po mimmi, chi t’indèssi bogau de asùtta
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Bellus tempus
de sa pedra, e immui mi oisi divorài biu e bonu. Aspètta assummàncu
ca domandàusu su parèri a chi si ndi intèndidi diadèrusu; càstia là!,
me ingüi in basciu funti pascèndu ü quaddu e ü burrìccu. Su pastori
e su serpènti s’accòstanta po primu a su quaddu e ddi fàinti custa
domànda:
- Naramì quaddu miu e ascùtta chi seu fueddèndu bëi o mabi.
Custu serpènti m’adi zerriàu po ndi ddu bogai de asùtt’e üa pedra
manna, promittendumì grandu bëisi po sa vida mia. Deu appu ascuttàu
su lamèntu e ndi dd’appu sarvau, e immui cussu mi ndi oi pappai
cun sa bucca manna chi pòttada e chi adi giai abéttu.
- Ti ndi pappu...ti ndi pappu, - arripettìa su serpènti, sempri prùsu
infuriàu de su fàmmi.
- No, nu ànda bëi, - sentènzia su quaddu, - no banda bëi po nudda,
Deu gei ddu sciu ca sa ricumpènsa de su mundu nu è mai ni bella nì
giusta e meda bòttasa no bëidi arrispettàda mancu sa vida. Càstia a
mei, scavuàu me innoi doppu tant’ànnusu de trabàllu!
- Ddu bisi, ddu bisi, - nara prontu su serpènti.- Ti divòru, ti divòru!
- Nò, aspètta, - fai su pastòri ,- aspètta ca intendèusu ancòra su
parèri de su mobènti.
- Naramì, bellu mobènti, custu serpènti mi oi divorài doppu chi
deu ndi dd’appu tirau a fòrasa de asùtta de üa pedra manna cantu üa
dommu.
-Mabi à fattu! Ha fattu mabi meda, pastorèddu nozzènti! Ma non
ti nd’accàttasa cumment’è sa recumpènsa de cùstu mundu. Dèu pùru,
po tant’ànnusu appu sudau e fadigàu po su mèri miu chi credìa bonu
e arricconoscènti!
E calli esti stada, a s’accàbbu, sa paga donàda? M’anti lassàu a
sou e senz’e nisciùna assistènzia, me in custu logu spèrrimu, a pigai
donnia dì frìusu, basca, sidi e cancü’ òtta fammi puru!
- Ddu bisi, ddu bisi, - arripettìada sempri prusu allulluràu su
serpènti, - deu ti ndi pappu, e bàstada. Ma proppiu candu pottà sa
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Contisceddus
ucca sparrancàda asùba de sa conch’e su pastorèddu po nci ddu ingùtti
intèru, eccu chi arrìbba su mrexiãi.
- E ita c’esti, e ita c’esti? - domàndada su mrexiãi:
- Bëi, mrexianèddu miu, bëi. E no ddu bisi ca custu serpènti mi
oidi divorài, dopo chi deu ndi dd’appu bogau de asùtt’e üa pedra
manna e grai che ü trònu, fadèndu üa fadìga de duas persònasa!
- Aspètta, fadèusu is còsasa cumènti si spèttada e a pagu a pagu nàra su mrexiãi. - Andàusu accànta de sa pedra chi tui nd’as’azziàu,
collu bì chi fìada aicci manna cummènti nàrasa. Bollu bì chi tui ha
fattu, diadèrusu ü trabàllu de duas persònasa, po ndi dda pesai. E
funti andàusu
- Torra, torrànci asùtt’e sa pedra an chi fìasta attruccillìau, - ddi
fai su mrexiãi a su serpenti, - ca ollu bì deu personalmènti cummènti
fìasta postu. Su serpènti, de pagu intelligènzia, senz’e nci pensai duas
bòttasa, tòrrada a s’acconcoiài bëi bëi an chi dd’iada aghettàu su
pastorèddu, e sùbitu su mrexiãi fai s’ogu a su pastòri e di schìcchiada
a boxi bascia: -Tòcca, debrèssi, torrancèdd’a ghettài sa pedra asùba!
Su pastòri, cùn lestrèsa acciùnta a sa timmorìa, sènz’e màncu si
nai, nci ddi tòrrada a scutullài sa pedra manna asùba e ddu strèccada
che pattèdda in terra.
E di aicci su bribantèsimu de su mrexiãi nc’è arrennèsciu a binci
sa mabèsa de su serpènti e à pozziu sarvai sa vida de ü giòvunu
traballànti e di ànimu bonu.
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Contisceddus
Bellus tempus
Is duas connadasa
Ü otta nci fìanta duas connàdasa, una arrìcca, s’àtra pòbera. Sa pòbera,
sciadàda, andà donnia santa dì a fai su pãi a sa genti allëa. Candu
torràd’a domu sa fillixèdda ddi naràda:
- O mamma, non d’ei bittìu manc’òi de pãi?
- Nòu, filla mia, scètti ü poghèdd’e farra. Bëi, accostadìdda e
scutullamì su devantàgliu e su istìri, aicci ti fazzzu sa costeddèdda.
E ita fadìada cussa pobirìtta de femmîa, donnia merì, candu torràd’a
domu? Cun cussu pagu de farra chi abarràda me in sa unnèdda, ddi
fadìada, misenìa misenìa, üa costeddèdda. S’atra, invècciasa, sa
connàda arrìcca, a sa fìlla si dda fadìada aicci manna de no dda podi
aguantài me in mãusu. Üa dì sa mamma pòbera nàrada a sa fìlla:
- Bai,fìlla mìa, bai a sa funtã e pottamì üa marighèdda di acqua.”
Custa, ubbidiènti cummènt’e sempri, cùrridi a sa funtã, potendusì
avàttu sa costeddèdda , chi a mabapèna si bidìada. Po prëi sa màriga,
però, làssada su paîxèddu asùb’e sa costa de su putzu, e sùbitu, üa
callellèdda bracca e a piu longu arricciàu ndi lìada sa costeddèdda
e in d’ü nudda si dda pàppada.
- Ohia, fai sa picciocchèdda, ohiamomìa de mei! E immui, cummènti
fazzu? Non di tengiu atra ca seus pòberusu. Beneditta callelledda
torrami’ sa costeddèdda. Ma cussa callellèdda ca fìada üa fata bona,
dd’arrespùndi a sa pippìa: - Benedìtta sìasta de Deusu e de is Santus!
Chi t’arrùanta marèngusu di oru de sa conca, donni’otta chi mamma
tua ti pettònada cùstus bellus pìusu chi pòttasa. Sa picciocchèdda,
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mesu intontìda de su chi ddi fia capitàu, torràd’a domu, conta totu
a sa mamma. Sa mamma, puru, cun is cambas tremuîasa, pìga su
petti e cummènzada a ddu passai me is pìusu de sa filla.
E ita iais’ a bì? Üa sciummàna de marèngusu di oru me in terra ca
parrìada su tesòru de Rei Sallammõi. E cantu prusu pettònada, sempri
de prusu arruìada oru de sa conca de sa fìlla.
Biu cummènti fia sa cosa, manda sùbitu sa filla a domandài sa
misura a sa zia, narèndu ca deppìanta misurài làndiri! Candu, però,
nci tòrrada sa misura a sa zia, po isbàlliu fiad’abarràu attaccàu ü
marèngu di oru e sa pippìa, ca non scia nai fàbasa, conta totu a sa
zia puru.
Senz’e pedri tèmpusu fàidi üa costèdda manna che üa poîa, e
màndada a sa fìlla a bittì acqua a sa funtã. Custa, lòmpia a su putzu,
põidi cuss’arrògu de pãi mannu me in sa costèra, e sùbitu cumpàrridi
sa cãixèdda.
- Bau Bau, - fai custa e in d’ü àttimu ndi lia sa costèdda manna e
si dda pàppada.
- Mabadìtta callellèdda ti occiu a pedra chi non mi tòrrasa sa
costèdda.
- Mabadìtta sìasta de s’ora chi s’è nascia! Chi de custu mommèntu,
candu chistiònasa, ti ndi èssanta de bucca, pìbarasa, arrãsa, serpèntisi
e cabòrusu, - sentènzia sa callellèdda.
Torràda a dòmu ü poghèddu intimmorìda, sa filla arrìcca non bòidi
fueddài. Sa mamma, insàrasa, ddi domàndada:
-Dùncasa, contamì ita t’à nau sa fata.
Ma, appèna cummènzada a nai is primus fuèddusu, de sa ucca
impriastàda de succi bidri, ndi èssinti animàbisi de onnia arràzza.
Sa mamma arrìcca, in sa cunvusiõi fatta de is pìberas, cabòrusu e
serpèntisi, pìgada ü fusti mannu, e ghèttada ü croppu mottàlli a sa
fìlla puru. Aicci fìnidi s’ingordìgia de s’arricchèsa, bella scetti chi
esti accumpangiàda di onestàdi e generosidàdi.
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Bellus tempus
Me is mòntisi de Biddaxìdru e Arbus, in tèmpusu andàusu, ddoi fìanta
scetti barràccasa de linna e crobèttasa de fòllasa frìscasa de moddìzia
e de oiõi.
Proppiu in custu logu spèrrimu e fòrasa de su mundu, bivìanta tres
fràdisi, abarràusu òrfanusu de babbu e de mamma: a ùnu ddi narànta
Francìscu, a ü antru Giuànni, a su prus pittìu Cuccudèddu, aicci
nommenàu po sa basciùra e sa grassèsa.
Tenìanta ü bellu tallu de cràbasa e ü scantu mõisi de tèrrasa arrìccasa
di erba e de pùtzusu di acqua sempri abbudànti chi ddis’assiguràda
pastùra po totu s’annu.
Cuccudèddu, chi is fràdisi credìanta mesu scrammèccu, biu ca is
atrus dusu fìanta sposàusu e ca traballànta pagu o nudda, proppõidi
de divìdi su tallu de is cràbasa in modu chi donniü traballèssidi e
guadangèssidi po contu su.
Is fràdisi mànnusu accèttanta sa propòsta de Cuccudèddu, penzèndu
giai però de dd’imbrolliài a modu insòru.
Fàinti ü corràzzu nou anànti de cussu becciu e nànta a Cuccudèddu:
- Dùncasa, po stabillì su chi toccada a nosu e su chi tòccada a tui,
lassau chi sia sa sotti a ddu dezzìdi. Is cràbasa chi nci mùccanta a su
corràzzu becciu ant’essi is nòstasa, cussas chi nci mùccanta a su
corràzzu nou is tuasa.
- Anda bëi, - nàra Cuccudèddu e diaìcci fàinti.
Naturarmènti, is cràbasa, abituàdasa a s’arregòlli me in su corràzzu
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Su crabu zurpu
becciu, a ùnasa a ùnasa nci mùccanta tòtusu a ingüi.
S’ùnicu a sballiài logu e a nci muccài a su reccìntu fattu de nou,
esti ü crabu becciu scorantàu e zurpu lìmpiu.
- S’è cuntèntu? - ddi nanta is fràdisi a Cuccudèddu.
- E puetta no? - fai custu. - Sa sotti ad’offiu di aicci e di aicci siada
- Pìga su crabu mascu e zurpu, si ddu põidi a coddu e nci càbada a
bidda po ddu bendi.
Passèndu in d’üa bia, agàttada üa fèmmia sforrèndu pãi callènti e
moddi, cosa de ndi fai cabai is sabìasa sceti a ddu bì.
- Ddu comporàisi, bòna fèmmia, ü crabu mascu, ma zurpu? domànda Cuccudèddu, - Càstidi chi no tëidi dinai, si dd’onu maccai
po ü poghèdd’e pãi moddi: basta chi mi ndi lessi pappai a vollontàdi.
- Chi è di aicci, gei ddu compòru, - fai sa femmina, - sezzeisì e
pappai totu su chi s’arrecchèdidi!
E seziu s’esti! Sciammigàu de üa parìgh’e dìsi de diggiùnu, prëu
de sallùdi e di appittìttu, (no po nudda dd’ianta appiccigàu su nommi
de Cuccudèddu!), no podìada accùdi cussa pòbera fèmmia, apporrèndu
costèdda e civràxiu!
Candu, però, Cuccudèddu nd’iada spattilliàu mesu forru de pãi,
arrìbba su pobìddu e, allulluràu cummènt’e ü sribõi ferìu, piga sa
pabia de inforrài su pãi e mi ddu cùrridi fìnzasa a sa potta de sa ia.
Cuccudèddu, fàtt’a tontu, bëi prëu de brenti, ndi tòrrada a liai su
crabu, e sìghidi a zerriài me in totu su xiãu.
Andèndu andèndu, agàttada dus fràdisi chi fìanta travasèndu bîu
nou e ddisi fàidi: - Dd’obèisi custu crabu mascu in cambiu de bîu?
No bollu dinai. Bàsta chi mi lassèisi buffai bîu a vollontàdi. Cùstusu,
credèndu ca custu bendidòri fèssidi üa pressòna normàlli, accèttanta
sa proppòsta, e Cuccudèddu cummènzada a sbuidài buccàllisi de
cinqu lìtrusu po una, po dùasa e di aicci fìnzasa a dexi otasa.
I dus fràdisi, candu s’accàttanta ca su stògumu de su criènti esti
senz’e fundu e pìgada prusu de üa carràda de centu, infuriàsu cument’e
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Bellus tempus
bèstiasa, ncì ddi scàvuanta su crabu a sa ia e nci dd’òganta de su
magasîu zerrièndu: - Foras de innoi, bruttu imbriagõi chi no ses atru!
E di aicci, gira che ti gira me in sa bidda, nc’attàffada a domu de
üa fèmmîa sposàda, ammìga de su preìdi, e mancu a ddu fài appòsta,
in cussu momèntu ddoi fìa proppiu s’arrettòri.
- Ddu còmprada, bona fèmmîa, ü crabu mascu ma zurpu po ddu
coi arrùstu? - ddi nàrada Cuccudèddu a cussa picciòcca.
In su mèntrisi, però, s’accàttada ca ddoi è su preìdi, chi s’è cuau
aintru de üa cascia, e candu sa mèri de sa domu ddi domàndada
cant’oidi, sùbitu nàrada:- No seu beniu po dinài, m’iad’a praxi cussa
cascia beccia chi è posta in cussu furrungõi.
Sa fèmmîa, naturarmènti, scièndu ca me ingüi aintru ddoi è su
preìdi, cìccada iscùsasa di onnia manèra e no dd’oi donai.
Ma eccu chi arrìbba su pobìddu. Cùstu, biu ca Cuccudèddu no
obìa dinai, ma sa cascia beccia chi addirittura nci deppìada scavuài,
senz’e pònni fueddu si dda càrriada me is pàbasa e ndi lìada su crabu
po dd’arrustì.
Càrrigu de su bagàlliu de linna prezziòsu cun su preìdi aintru,
Cuccudèddu cummènzada a izzerriài, me in sa ia: - Preìdisi, a chi oi
comporài preìdisi, bèngiada a innoi!
- Cittu, cittu po caridàdi, fai su preìdi de aintru! No izzèrristi,
naramì cant’oisi e faimmìndi bessì de custa cascia!
E ddi torra Cuccudèddu: - ü preìdi costa mèda! Domàndu
cinquxèntusu scùdusu di oru.
Su pòburu preìdi, bia sa catta mabi tallàda e su momèntu ü pagu
imbarazzànti, ddi ònada su inai.
Cun is cinquxèntusu scudus di oru me in busciàcca, Cuccudèddu
piga pobìdda, e bàndada a su stazzu de is fràdisi chi fìanta mullèndu
is cràbasa. Si põidi accànta de cùssusu e a boxi atta cummènzada a
contai i monètasa di oru. - Eh, cantu scùdusu di oru! - nàranta sùbitu
is fràdisi, spantàusu e giài gellòsusu de cùss’arricchèsa de su fràdi,
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Su crabu zurpu
chi sempri credìanta pagu abìllu. - Seisi osàtrusu is màccusu, ch’eisi
offiu is cràbasa bèllasa e m’eisi lassau cussu crabu zurpu! Chi sciàisi
cantu ddus pàganta in bidda! Aicci intendèndu, is dus fràdisi, ànti
inzurpàu quàttru cràbasa sànasa, e nci funti cabàusu a bidda po ddasa
bendi. E tòrranta a fai su giru ch’iada giai fattu Cuccudèddu. Ma
s’arrisurtàu si fàidi ü poghèddu drivèssu! De su forru ndi essi su
mèri, mi ddus cùrridi a pabia de inforrài pãi e ddisi ònada üa bella
catatrìppa; de su magasîu ndi èssinti a gottèddu de boccì su proccu
is dus fràdisi e ndi ddi sèganta ü’orìga.
Aicci currèndu, po s’arrepparài de is cròppusu, nci mùccanta a
cresia. Innoi, manc’a ddu fai appòsta, si fàint’a pari cun su preìdi
ancòra allulluràu de s’imbròlliu de sa cascia, e, maccài fèssinti aintru
de cresia, su sreghestãu ndì spicca sa gruxi manna de linna de s’artàri,
e ddus accòllada a cròppusu a conca e a donnia patti capittèssidi.
Pèdriasa is quattru cràbasa senz’e guadangiài mancu ü soddu;
pedria ü orìga su mannu e cun sa conca mesu sciasciàda su mesànu,
infuriàusu, tòrranta a su corràzzu po si dda fai pagai a Cuccudèddu
sa beffa chi ddis’ ia cuncodràu!
Cuccudèddu, però, ca si dd’iada incannugàda ca is fràdi si
dd’iant’essi fàtta pagai cara, si cuada appàbasa de üa moba de
moddìzzia.
Cùstusu, ancòra prusu inchièttusu, pìganta sa pobìdda de
Cuccudèddu e dd’òccinti. Cun su prantu in su coru, Cuccudèddu,
adenòtti, si põidi sa pobìdda motta me is pàbasa, nci dda pòttad’a
cresia e dd’adi ingenugada me in su cunfessionàlli. Poi, dd’adi
accappiàu üa füi a su zugu e s’è cuau appàbasa de s’artàri, tenèndu
in mãusu su càbudu de sa füi.
Candu arrìbba su sragerstãu po serrai sa cresia e s’accàttada ca
ddoi esti üa fèmmia de cunfessài, zèrriada a su preìdi, chi muccàu
a su cunfessionàlli, cummènzada a ddi domandài is peccàusu.
A is dommàndasa de su cunfessòri, Cuccudèddu, tirà sa füi, e sa
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Bellus tempus
motta parìada chi arrespundèssidi sempri sì; ma nòn ndi ddi èssìada
mai nisciùnu fueddu. - Arrespùndi, arrespùndi cancüa cosa, - narà
su preìdi. Pedria sa passiènzia, ndi stùppada arrubisconàu e fattu e
ddi ònada üa bella spruzzigàda.
Sa mòtta nc’arrùidi a brent’a s’aria, nci sbàttid’ a terra sa conca
e si dda spàccada in dusu. Eccu sùbitu chi ndi èssidi su pobìddu, e
cummènzada a zerriài, cun tòtusu is fròzzasa chi pottàda in cròppusu:
- Agittòriu, agittòriu! Su preìdi ha boccìu a pobìdda mia! Accurrèi
a crèsia!
- Citti, citti, - ddi fai su preìdi, - narammì cant’oisi e baidìndi de
innoi!
- Eh, arreverèndu arrettòri, üa pobìdda in dì di oi no è fàzzilli a
dd’aghettài! Costa meda, ma...mèda!
- Ciccàusu de arrangiài is còsasa: ti onu su dinai, nci dda sutterràusu
me in cresia e di aicci no ddu scì nisciùnusu! Ti ònu settixèntusu
scùdusu di òru!
- Cummènti, - nàra Cuccudèddu, - settixèntus scùdusu po üa
pobìdda? Custa ndi bàllidi assummàncu milla. Pòstusu di accòdriu
po sa summa, suttèrranta a sa pobìdda e Cuccudèddu è torrau a domu.
Cun totu cussu inai in mãusu, s’accòstada a su corràzzu de is fràdisi
e cummènzada a contai: centu, duxèntusu, trexèntus fìnzasa a candu
no lòmpidi a milla.
Spantàusu de totu custu ìnai chi proccurà su fradi créttiu tontu, ddi
domàndanta it’à fattu me in bidda po ddu podi ottènni. - Ah, no dda
scièsi sa novidàdi! Deppèis bì cantu ddas pàganta me in cussu logu
is fèmmiasa mòttasa! Ddis fàinti sa imbrazzimmazziõi e poi, doppu
sèccullusu e sèccullusu, ddasa fàinti sàntasa!
Aicci intendèndu, is dus fràdisi, bòccinti is pobìddasa, e bàndanta
a ddas’a bendi a su preìdi. Custu appèna ddusu bidi intrèndu, ancòra
cun s’arregòdu in conca de su chi fia suzzèdiu sa dì primma e penzèndu
ca oramài ìanta pigau vizziu a boccì fèmmias po dinai, mànda su
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Su crabu zurpu
sreghestãu a sa caserma de is carabinnièrisi e ddus faidi arrestài.
E sa storièdda finidi cun is dus fràdisi, chi si credìanta meda
bribàntisi, in presõi po totu sa vida, e su fradi, sempri crettiu pagu
intelliggènti, mèri de su tallu de is cràbasa e de üa bella summixèdda
de inai. Ita nàrada su diciu sadru: su chi si crei meda mannu e bribbànti,
giai sempri tòrrada pittìccu.
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Su sabatteri de cruccurisi
Bellus tempus
Su sabatteri de cruccurisi
Tanti ma tàntisi annus faidi, me in sa biddixèdda de Cruccùrisi, sa
poberèsa lassàda de sa guèrra fìada su trummèntu de tòtusu is pàgusu
anziànusu chi ianta deppiu abarrài in domu insoru.
Is ommisi, genti onèsta e traballànti, bivìanta a sa giorronnàda chi
adìzziu adìzziu ddu bastàda po comporài ü mussièdd’e pãi po sa
famìllia.
Unu de is pàgusu chi tenìanta ü’atti, chi donnia dì donàda ü
poddixèddu de passallàggiu in prusu de su giorrunnadèri, fìada Ziu
Turrunnìu Tommàia, aicci nommenàu po s’abillènzia me in sa cosidùra
a spagu impixiàu de donnia arràzz’e crapìtta.
Fìada ü maist’e crapìttasa connòttu e stimmau in totu su circondàriu
e, maccai sa famìllia fèssidi abudànti (tenìada noi fìllusu
pitticchèddusu!), cun su trabàllu e sa vollontàdi, gei nc’arrennescìada
a tirai ainnàntisi.
Me in sa stessa bidda, però, bivìada ü grandu arrìccu, aicci arrìccu
chi si fia fattu fai ü magasîu mannu appòsta po stuggiài, in logu
sigùru, misùrasa e misùrasa de dinai di oru.
Ma custu mèri de sa bidda, chi ddi narànta Don Ferràndu, fìada
arrìccu scetti de dinai, ma pòburu de coru e di ànimu mau.
Chi podìada, po s’ingordìgia de arraffài de tòtusu, pagàda cun d’üa
misèria su trabàllu de is operàiusu o addirittùra no ddisi donà nùdda.
Üa bella dì, arrìbba sa notìzia de Masùddas, ca üa netta sua de
ingüi a pagu tèmpusu si deppìa coiai. Po fai bella figùra, dùncasa,
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pènsada de incingiài ü bistìri nou e üa parìgh’e crapìttasa bëi fàttasa.
E sùbitu no faid’atru che si rivòrgi a Ziu Turrunnìu chi, puru
tenèndu atrus traballèddusu promìttiusu, po su mèri don Ferràndu
làssa totu e, de bona lena, cummènzada a tallai peddi e tommàia.
Is crapìttasa nobas, po su dommìgu infàttu, funti pròntasa e su
mèri, cuntèntu ca dd’assèttianta bëi, arringràziada a Ziu Turrunnìu
e ndi ddasa lìada chen’e pagai.
No podèisi immagginài cantu su pobirìttu de sabattèri nci siada
abarràu malli! Doppu tanti trabàllu, fattu cun attenziõi e sacrifìziu,
sa famìllia abarràda, invèciasa, senz’e pappai po ü scantu disi. Doppu
su primu mommèntu de infrascadùra, si dezzìdidi e bàndada a domu
de su mèri. Custu, meravilliàu de sa faci tosta de su maìst’e crapìttasa,
non scetti no ddi ònada su inai, ma ddi scàppada is cãisi chi ddu
cùrrinti fìnzasa a sa potta de sa ia.
Ziu Turrunnìu, sciadau, disispèrau, no scidìada a calli santu si
votai. Sa famìllia tenìada abbisòngiu e su trabàllu issu dd’ia fattu e
bëi puru.
E di aicci, sperèndu chi su mèri si pentèssidi, donnia dì torràda a
domandài su inai, preghèndu don Ferràndu a tëi piedàdi de is pippìusu
chi tenìada in domu aspettèndu ü mussièddu de pãi. Ma su coru de
cust’ommi malvàggiu no intendìada improraziõisi o sùppricasa de
nèmusu, ànzisi, sù andai e torrai de su sabattèri a ddu impottunài a
donni’ora, ddu pòttada a si unfrai de prusu, tanti ca pènsada de ddi
cuncòdrai ü antra bella beffa.
Chistiònada ü scantu ammìgusu de Masùddasa e fai crei a totu sa
bidda chi sia mottu. A is ammìgusu ddis’arreccumàndada de nci ddu
pottai a campusàntu cun sà cascia de mottu abètta e de ddù lassài
diaìcci, in mòdu chi si bìanta bëi is crapìttas nòbasa chi si fia postu
po nci ddu interrài. Fadèndu di aicci, fìa sigùru ca ziu Turrunnìu,
maccai a su notti e me in campusàntu, iad’èssi andau a ndi torrai a
liai is crapìttasa de is peisi de su mottu. E di fattu, su pòburu sabattèri,
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Bellus tempus
scipiu ca su mèri nci dd’ìanta cabau a campusàntu, bistìu a festa e
cun is crapìttasa nòbasa chi dd’ia fattu proppiu issu, piga coràggiu
a dexi mãusu e nci càbada a ciccai de ndi ddi tirai is crapìttasa de
peisi.
Arribbàu cun sa tremuëa me in cròppusu ma dezzìdiu a totu, senz’e
pedri tèmpusu, ndì ddas tìrada de su fintu mottu. Custu fìada giai
strantaxendusìndi de sa cascia, candu de fòrasa s’intèndinti bòxisi
de genti chi è benèndu a s’obitòriu.
Ziu Turrunnìu, cun is crapìttasa in mãusu, accùdidi a si cuai asutt’e
su catafàrcu e su mottu (chi è biu !) si tòrrada a croccài seriu me in
sa cascia ingiriàda de arràsu e de fròrisi.
In sù mèntrisi, tres ommisi a cappèddu, cappòttu longu e fusìlli a
coddu, mùccanta in su mottuàriu cund’üa bella summa de dinai. Unu
de is tresi, chi fìada sen’e fai nudda, bièndu sa cascia abètta, pagu
timmoròsu de is mòttusu, nàrada a is ammìgus: - Custu picciòccu a
conca scrobètta e cun is ògusu sprappaddàusu, mi pàrridi ancòra biu!
Incàppasa provu a ndi ddi segai su zugu, aicci seu sigùru chi sia
mottu diadèrusu!
Appèna intèndidi aicci, Don Ferràndu, cummènt’e ü pisìttu chi
dd’àppanta pistau sa co, ndi stùppada de sa cascia de mottu e si ònada
a curri scruzzu, cichèndu sa ia chi pòttada a domu, ma me in su
trambùstu de su disispèru, gira totu su sattu de Cruccùrisis senz’e
ddoi podi inzettài prusu.
Is tres ommisi accappottàusu, chi mancu a ddu fai appòsta fìanta
is tres bandìdusu chi nd’ìanta furau totu su inai a Don Ferràndu,
bièndu su mottu pesau e currèndu me in sa strada, nci scàvuanta totu
a terra e si dd’ònanta, cussus puru, a curri cummènt’e màccusu.
Ziu Turrunnìu, chi in totu custu budrèllu fìada abarràu cuau asutt’e
su catafàrcu, doppu ü poddixèdd’e tèmpusu ndi essid’a fòrasa, ndi
sègada ü bell’arrògu de seda de sa cascia de mottu, pinnìcca totu su
dinai e cun is crappìtasa appiccàdasa me in su zugu tòrrada a domu
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Su sabatteri de cruccurisi
cuntèntu e prexiàu. E di aicci su mèri arrìccu è torrau pòburu e
iscrùzzu, mèntrisi su pòburu s’è fattu arrìccu e a crappìttas nobas
puru.
Gei no faddi su dicciu antìgu: sa poberèsa onèsta paga sempri de
prusu de s’arricchèsa disonèsta.
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Bellus tempus
Maria Xinisu
Maria Xinisu
Ci fìada ü ommi fiudu chi tenìada üa filla soba. Üa bixîa ddi naràda
a custa picciocchèdda: - Naràddi a babbu tuu chi si tòrridi a coiai!
E sa pippia: - Ha nau ca fìnzasa a candu no si sèganta is istivàllisi
nousu, no si spòsada.
Sa bixîa, ca tenìada ü poghèddu de interèssu ddi conzìllada: - Fai
cummènti ti nau deu; ghettànci is u stivàllisi a s’urìna e appiccàddusu
me in su fumu; as’a bì ca si conzùmmanta de prèssi.
Aicci fai sa picciocchèdda e dopu üa parìgh’e disi is u stivàllisi si
fàinti arrohghddèddusu. Biu su chi fia suzzèdiu, su babbu dezzìdidi
de si sposai, ma no scidìada a chi scioberài.
Sùbitu sa filla ddi proppõidi de coiai sa bixîa.
Su fiudu dda domàndada e sa coia è bell’e fatta.
Sa bixìa, però, tenìada ü antra filla femmia e pagu tèmpusu appùstis
sa coia ha cummenzàu a trattai mabi sa fillàsta e bëi sa filla: fìa
gellòsa puetta ca s’atra no tenia paragõi po sa bellèsa. Donnia dì a
sa fillàsta ddi onàda pãi ingiàbi di orxiu, po dda fai diventài leggia
e marrìda, e a sa filla pãi friscu e biancu de simbua.
Ma sa fillàsta tenìada accàntu üa vitellèdda divina chi totu su chi
ddi ponìada in bucca, diventàda arròbba prellìbada. E di aicci su pãi
di orxiu si fadìada pãi de simbua, sa lana pru maba si torràda a linu
veru e su fibau de sa fillàsta fia sempri pru bellu.
Üa dì, però, sa bidria iscobèrridi su secrètu, bièndu a sa
picciocchèdda passèndu donnia cosa me in sa bucca de sa vitèlla.
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Inchiètta e furiòsa dezzìdidi de boccì sa vitèlla, e candu bëi su pobìddu,
ddi nàrada totu su fattu e dd’obbrìgada a fai su chi oidi issa.
Is pràntusu de sa fillàsta e cùssusu de sa vitellèdda no dda
cummòvinti po nudda e diaìcci dda bòccinti.
Prima de morri, però, sa vitèlla ddi nàrada a Maria Xinìsu: - No
pràngiasta po mei e ascùtta su chi deppi fai; ndi liasa sa peddi e is
peisi e ddus põisi aintr’e cussa cascia de mamma tua e ingüi ddus
làssasa po setti mèsisi. Dopu setti mèsisi nndi oga totu e ddus tëisi
tui bëi allogàusu; üa cosa t’arracumàndu: no pàppisti pezza de mei
e no bùffisti brodu!
E di fattu, candu su babbu ddi ònada ü arrògh’e pezza, Maria
Xinìsu no ndi oidi. Biu diaìcci, sa bidria pìgada ü coccerõi e nci ddi
scùdidi a facci su brodu. Ma sùbitu i làrvasa divèntanta che cerèsia,
e is dèntisi de argèntu. Fia diventàdada pru bella ancòra de prima!
- Aicc’esti, - si fai sa bidria, - immoi ndi ettu a filla mia puru.
Ma su risurtàu è bëi divèrsu. Is làrvasa si funti fàttasa di ottìgu e
is dèntisi de canna. - Gei dd’appu fattu s’arròri! Appu struppiàu de
totu a fìlla mia! No mi dd’app’a pedronài mai! E diaicci, addollòrada
e affriggìda po tanti tèmpusu no scidìada ita mãu si onai.
In su frattèmpusu, passàusu is setti mèsisi chi dd’ia nau sa vitèlla,
appèrri sa cascia e ddoi agàttada dua parìgasa de crappìttas argentàdasa
e ü bistìri arriccamàu di oru.
Candu à biu custu bistìri aìcci bellu, nci à lassàu bessì sa bìdria a
cresia e cussa, bistìda che üa regina, nci sìghidi avàttu e si põidi
propriu in su primu bangu. E tòtusu dda castiànta e dda imbidiànta,
domandendusì chi fèssidi cussa bella picciocchèdda.
Sa bidria, candu torràda a domu, dd’aghettàda giai in coxîa sezia
in su xinìsu. - Cussa picciòcca chi fiada oi me in cresia gei fìa mellus
de tui, Maria Xinìsu - ddi naràda po dda pigai in giru.
Torrau su domìgu, Maria Xinìsu fai sa stessa cosa, scetti ca sa dì
dd’oi fìa su prìncipeddu, chi abàrrada a bucca abetta de sa bellèsa de
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Bellus tempus
cussa picciòcca. Domàndada a tòtusu chi fèssidi e de innùi benìada,
ma nisciùnusu scidìada donai ü’arrispòsta.
Su domìgu infàttu, però, su prìncipi, põidi ü poghèddu de pixi me
in terra a s’essìda de cresia e candu Maria Xinìsu pàssada dd’arrèscidi
üa crappìtta e dda làssada mè ingüi.
Su prìncipi ndi dd’arregòllidi e nci dda pòttada a cotti, me in su
castèddu chi tenìada.
Sùbitu ghèttada ü bandu prommittèndu ca sa picciòcca chi crazzà
bëi sa crappìtta aghettàda in cresia iad’èssi divèntada sa sposa sua.
Maria Xinìsu, in su frattèmpusu, rientràda a domu, si põidi s’atra
parìgh’e crappìttasa chi tenìada e aspètta chi tòrri sa bidria.
Cummènt’e sempri, custa appèna intràda, dda cummènzada a pigai
in giru narèndu ca siguramènti no iad’èssi stada cussa a crazzai sa
crappìtta aghettàda de su prìncipi.
Fattu stadi chi po tanti tèmpusu a nisciùna picciòcca de su contàdu
stadìa bëi sa crappìtta.
- Maria Xinìsu, movidì ca a nisciùnusu stai bëi cussa crappìtta,
poidi essi chi a tui… - ddi narà sa bidria po dda fai inchiettài!
Maria Xinìsu, biu ca sa bidria oramài dda pigàda in giru a donnia
momèntu, si põidi su bistìri bellu aghettàu in sa cascia de sa mamma,
si crazza cun s’atra parìgh’e crappìttasa chi tenìada e cun sa cumpàngia
de cussa chi nd’ia liau su prìncipi de s’enna de cresia bëi strinta me
in mãusu, si presèntada a sa cotti de su rei.
Appèna dda bidi, sùbitu su prìncipi, prexiàu e cuntèntu, dda faidi
intrai anch’è su rei e dezzìdinti de si sposai a su pru prestu.
Totu sa genti, candu tòrrada a domu sua, dd’acumpàngiada allìrga
e cantèndu, ca sa notti, in cussa domixèdda pobera, si deppìa fai su
fidanzamèntu.
Ma ita fai sa bìdria! Ndi tìrada su bistìri bellu a sa fillàsta e ddu
põidi a sa fìlla leggia, cuendu a Maria Xinìsu asùtta de üa carràda.
Candu arrìbada su prìncipi cun su rei, su sposu si nd’accàttada
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Maria Xinisu
sùbitu ca cussa picciòcca no è sa bella giovunèdda chi ia biu me in
sa cotti. E sezzendusì a cenai, naràda a boxi atta: - Ma custa no è sa
fidanzàda mia! Nò è cùsta! Ma sa mamma de cussa filla leggia, po
cuai is còsasa, ddi naràda: - Sì ch’è custa, pàppidi, pàppidi tranquìllu!
A ü’ certu puntu però s’intèndidi üa boxi chi parrìada de ü pillõi
stranu e chi cantàda diaìcci: - Cùccuru, cùccuru, pobìddu mìu! Deu
pottu dèntisi de canna e làrvasa di ottìgu! Cùccuru, cùccuru! Su
principi, intèndiu custu càntidu divèrsu de tott’is àtrusu, s’accòstada
a sa carràda, e tòrrada a intèndi: - Cùccuru, cùccuru... - Deu ollu bì
custu pillõi, - nàrada, e scobèrridi sa carràda!
Appèna chi bì sa bella picciocchèdda, ddi pìgada is mãusu e dda
presèntada a su Rei e a sa Regina, chi abàrranta a bucca obètta po
su splendòri de cussus ògusu e sa bellèsa de sa facci. Sùbitu ndi
tìranta su bistìri bellu a cussa leggia e impàri cun sa mamma, sèzziasa
asùb’e dùs quàddusu senz’e domai, nci ddas’accumpàngianta a su
sattu e ddasa làssanta curri in mesu de sa campànnia assobàda.
Maria Xinìsu, invèciasa, cun sa cumpangìa allìrga de totu sa
poppollaziõi e sezzia in sa carròzza reàlli, bëi pottàda a cotti e si
spòsada a su prìncipi.
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Bellus tempus
Luisa Ottighitta
Luisa Ottighitta
Custa fiada una chi ddi fia motta sa mamma e chi tenìada su babbu
scetti. Sa mamma, prima de morri, ìa lassau a su pobìddu ü bell’anèddu
di oru, narendìddi: - Candu ti tòrrasa a coiai, cussa femmia chi ddi
anda bëi s’anèddu, cussa adèssi sa sposa tua.
Intàntu sa filla si fai manna e üa dì su babbu ddi põidi s’anèddu
in su didu e ddi andà bëi!
- Ah, - nara sùbitu - tui astèssi sa sposa mia! - Ma deu seu filla tua
- si lamènta sa picciocchèdda. - No m’impòtta nùdda - ddi torra
cuss’ommi, pigau cumpretamènti de is tiàusu.
Sa filla prangìada e no si podìa donai paxi po cussu arròri chi obìa
fai su babbu, candu üa dì dda bidi üa bella fata de su xeu.
- E ita tëisi, filla mia? - ddi domànda sa fata.
- Eh, sinniòra bella, di aicci e di aicci!
-Ascùtta, - ddi nàrada sa fata - si oidi proppiu a tui, domandàddi
chi còmpridi ü bistìri de seda, arriccammàu in oru, cun su sobi e cun
sa lüa.
- Ma issu mi ddu compòrada!
- Tui fai di aicci, poi gei nc’appa penzai deu.
Torrau su babbu, subitu sa stessa storia:
- Tui s’è sa sposa mia - ddi nàrada.
- No, babbu, - ddi fai sa filla, - chi mi obèisi diadèrusu, mi deppèi
comprai ü bistìri cun su sobi e cun sa lüa.
-E di aicci adèssi.
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Bessìu a su mercàu, dòppu ü poghèdd’e tèmpusu tòrrada cun su sobi
e cun sa lüa. Sa fìlla prangìa prima, immui de prus’ancòra po sa
disperaziõi, ca su babbu dd’obìa coiai.
- No ancora - dd’assigùrada sa fata. - Immui, tui, ddi dèppisi
domandài ü bistìri chi potti pintàusu a ricàmu di argèntu tòtusu is
pìscisi de su mari.
Su babbu, dezzìdiu a sposai sa filla, ddi còmpra custu bistìri puru.
Ma sa fata, tòrrad’a donai aggiùdu a cussa giovunèdda disisperàda
e ddi nàrada: - Immui, chi ti oi coiai, ti deppi comporài ü bistìri cun
tòtusu is stèllasa de su xeu.
Compràu cussu puru, a sa fini sa fata ddi conzìllada de si fai donai
ü bistìri di ottìgu. Bistìda di aicci, sa fata ndi dda lìada avàttu su, nci
dda pòttada a sa cotti de su Rei e domàndada chi dda pòdinti pigai
maccai cummènt’e srebidòra.
- Mah, - nara su capu de su personàlli, - chi s’accuntèntada de
castiai e donai a pappai a is pùddasa.
- Eh, maccai di aicci, - arrespùndidi sa fata, - bàsta chi tèngiada
üa stanza po contu su.
Luisa puru accètada sùbitu. Si põidi su bistìri di ottìgu e po cussu
dd’anti annommingiàda: ottighìtta. Donnia dì, comùnque, tenìa su
logu totu in òrdini e bëi pulliu, sempri bistìda di ottìgu.
Su principèddu, candu bessìada a su giardìnu po si fai üa bella
passillàda, dda zerriàda: - Luisa Ottighìtta!
- Cummàndidi, su principi!
- Pottamì i su scarpõisi! E appèna nci ddusu lompìada, po si fai
bèffasa de issa, ddi onà cròppusu de stivàllisi.
- Pottamì is frëusu! Pigàda is frëusu, ndi ddi onàda ü croppu e si
ponìada arrì. - Andàusu a baddai? - ddi naràda sempri po beffa.
- Deu? Cun cùstu bistìri? Nò, non pozzu andai!
Ma Luisa Ottighìtta, a iscùsi de tòtusu si põidi su an chi ddoi fìanta
is stellasa de su xeu. Fia bella, ma bella che su splendòri de su sobi!
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Bellus tempus
Mai dd’essi bida su principinu! Si nd’è sùbitu innammoràu e baddàda
sempri cu issa e ddi domandàda: - De innüi sesi?
- Seu de ü logu meda attèsu!
- E de calli bidda?
- Seu de cussa bidda innui attrìppanta cun is crappìttasa! A custus
fuèddusu su principi si tùrbada u poghèddu. A sa fini de is bàllusu,
a su mommèntu de si salludài, Luisa si fùidi e su principi non
nc’arrennèscidi a bì an chi esti andàda.
Torrau a cotti, su principi, bièndu a Luisa Ottighìta in mes’e is
puddasa, ddi nàrada po dda pigai in giru ancòra: - Chi fèssisti benìda
oi a su ballu, iastài biu üa picciòcca chi dd’oi fìada! Gei fìa mèllusu
de tui! Ma là ca fìa bella, là! Ma no sciu proppiu de innüi esti.
De ingui a pagu tòrranta a fài is bàllusu e Luisa, cust’òtta, si põidi
su bistìri cun tòtusu is pìscisi de su mari. Su principi, biendìdda,
abàrra prusu incantàu de sa primu otta. Torràu a cotti, accostendusì
a Luisa Ottighìtta, ddi faidi: - Oi nd’à benìu ü antra chi pottàda in
su bistìri tòtusu is pìscisi de su mari. Bella, bella cant’e sa prima. Ma
candu si nd’esti andàda no appu biu a calli patti nc’è bessìda. Zettu
ca sa bellèsa sua no si pòdidi paragonài a sa tua, bistìda cummènti
sesi di ottìgu!
Infìnisi anti fattu ü antru ballu e cust’otta Luisa s’è postu cussu
cun su sobi e cun sa lüa. Bèllusu fìanta is àtrusu, ma custu fia su
mèllusu! E su principi dd’à domandàu: - De innùi sesi?
- Deu seu de sa bidda an chi attrìppanta cun is frëusu.
- Arrazz’e nommi chi tëi custa bidda, - fai su pìncipi, e dd’arregàllada
ü bell’anèddu di oru chi Luisa allògada in logu sigùru. Sa dì, candu
su prìncipi è torrau a domu, ddi nàrada a Ottighìtta: - Chi fèssisti
benìda a su ballu! Arràzza de giovunèdda s’è presentàda, bella e
cuncodràda cun d’ü bistìri pru bellu ancòra de is atrus dusu. Gei fia
mèllusu de tui! Però, muccau aintru, penzèndu a su ch’ia nau sa bella
giovunèdda po su nommi de sa bidda, ddi ëidi ü dubbiu chi fessi
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Luisa Ottighitta
proppiu Ottighìtta travestìda. Intàntu s’ammobàdiada e no tenìa gana
de pappai nudda, maccai sa mamma ddi preparèssidi cosittèddasa
chi ingruguìzzanta s’appittìtu.
E üa dì su prìncipi nàrada: - Chi obèisi chi deu pappi, sa cos’e
pappai mi dda dèppi preparai Luisa Ottighìtta.
- No mi ddu nèristi, ddi fai sa mamma, e tui òi pappài cosa coxiàda
de cussa? Ita schiffu!
- Ollu chi sia coxîàda de issa, - ddi tòrrada su principìnu. Insàrasa
sa mamma, po no bì a su fìllu mottu po su fammi, no podi fai de
mancu di andai anch’è Luisa e ddi nai ca su prìncipi òi chi sìada issa
a ddi prepparài sa cos’e pappai.
- Mah, proppiu deu! - si meravìlliada Ottighìtta.
Comùnque, preppàrada su prangiu e me’ in su vassòiu nci èttada
s’anèddu di oru. Su prìncipi cumprèndi subitu su chi fia suzzèdiu e
nàrada a sa mamma ca òidi sposai a Luisa Ottighìtta.
- Ma nimmàncu chi ti ddu sònnisti - dd’arrespùndidi! Ma Luisa
Ottighìtta si põidi su bistìri cun su sobi e cun sa lüa, chi luxìada
cummènt’e chi su sobi e sa lüa ddoi fèssinti diadèrusu, e sa mamma
puru abàrrada alluîàda de sa bellèsa de cussa picciocchèdda.
E di aicci s’avventùra de Luisa Ottighìtta, pòbera ma bella, fìnidi
in su prexiu e sa cuntentèsa.
Si còiada a su prìncipi e bìvidi po totu s’arrèstu de sa vida me in
domu de su Rei, castiàda e riverìda proppiu de cussa genti chi prima
dd’ia pigàda in giru.
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Bellus tempus
In campidànu, connòttu de totu sa genti, nci fìada unu de cùssusu
ommisi attaccàusu a su inai, chi bivìanta prestendìddu a su pròximu
abbisongiòsu, ma fadendìddu pagai a tres bòtasa o quattru òtasa puru,
in prùsu de su chi ballìada. Ü ommi, dùncas, profittadòri e strozzìnu,
chi sfruttàda is pòburusu e chi no castiàda in facci a nisciùnusu.
Üa dì, ascuttèndu is arràllasa de is operàiusu chi tenìa traballèndu
me in domu, bëidi a iscì, ca in d’üa biddixèdda accànta, ddoi èsti ü
certu Carraffîa su Beffiãu, grandu buffadòri de bîu ma de xrobèddu
allùttu e pròntu sempri a spizzuài su pròximu cun su fuèddu acùzzu,
fadèndu brùllasa di onnia callidàdi.
- Mah, - si faidi tra sì s’avàru, - gei dd’ia bolli cannòsci custu
Carraffîa su Beffiãu! Dd’ia bolli proppiu incontrài, po bì chi diadèrusu
esti aicci abìllu fadèndu giògusu. In calli logu bìvidi?
- Eh, - dd’arrespùnditi sùbitu is operàiusu, - bàndidi a talli bidda
e siguramènti dd’ad’a incontrài.
No è passau tèmpusu meda chi s’avàru, sempri cun su bibbigòrru
in conca de olli chistionài custu brullãu aicci nodìu, sàttada in gròppasa
a su quaddu pru bellu chi tenìada, cun d’üa sedda bella e luxènti,
sprõisi nòusu alluccidàusu, e totu cuncodràu cun d’ü bistìri de pannu
arrigàu, giacca de peddi de cassadòri e ü cappèddu appèna arribbàu
de Castèddu.
Parrìa proppiu ü gràndu sannòri pront’a si coiai. Si nci èssidi,
dùncasa, a quaddu e, dopu paghìssimu strada fatta, si faidi a pari cun
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Su susuncu e carraffia su beffiãu
d’ü picciocchèddu totu bruttu e cun s’arrobbittèdda scorriàda e
stirongiàda. Si frìmmada ü poghèddu dubbiòsu anànt’e su giovunèddu
e custu, bièndu totu s’ellegànzia de su cavallièri, ddi domàndada:
- A innúi andàisi, aicci bëi postu?
S’avàru, sùbitu dd’arrespùndidi: - Seu andèndu a ciccai ü brullãu
chi, m’anti nau, bìvidi a custas pàttisi. De nommini mi parri chi ddi
nèrinti Carraffîa su Beffiãu.
- Accidènti, - ddi tòrrada prontu su picciocchèddu, seisi fottunàu
diadèrusu! Carraffîa su Beffiãu seu proppiu deu!
- Eh, balla, sa sotti m’adi accumpangiàu, senz’è dèppi aspettài
meda meda. Ma, nàra, giai chi sesi innoi, mi dd’iast’a fai üa bella
brulla de cùssasa chi appu scippiu tui scisi cuncodrài in d’ü nudda?
Carraffîa nci pènzada ü poghèddu, poi, cummènt’e chi dd’essidi
allùttu üa lampadìna, si faidi: - Eh, càstidi, deu dd’ia podi fai puru,
ma non pottu is attrèzzusu chi mi srèbinti. Ddusu tengiu in domu e,
dùncasa, ia deppi andai a innì po ndi ddusu bittì pueta ca sceti cun
cùssusu pozzu attrocciài sa brulla pru bëi.
- E cumènti iasta bolli fai, insàrasa? - ddi nàrada su susùncu.
- Ah, gei è cosa fàccilli, - d’arrespùndi Carraffîa, - sa domu, leidi,
esti innoi accànta. Chi fustei mi prèstada po cinqu minùtusu su
quaddu, deu curr’a domu, ndi leu su chi mi accùrridi e ad’a bì ita
bella brulla chi ddi cuncòdru.
- E liandi su quaddu - ddi faidi s’avàru.
Carraffîa sàtta sùbitu in gròppasa a su quaddu, ma de bribbànti
cummènti fiada, craccàda is i sprõisi e tiràda is guidas in modu chi
sa bestia no camminèssidi.
- O su cavallièri, - nàra su Beffiãu, no mi cannòscidi custu quaddu
e no cammìnada chi no mi onàisi sa bistimènta puru. Cunvìntu ca fia
narèndu sa beridàdi, si spòllada e ddi ònada su bistìri nou.
Carraffîa, totu allippuzzìu, tòrrada a sattai in gròppasa a su quaddu
e fài su stessu tranèllu de primma: pungi cun is i sprõisi e tìrada is
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Bellus tempus
guìdasa. - No, nu ànda proppiu! Bisòngiada chi mi oneis su cappèddu
puru. Scetti di aicci sa bestia pòi crei chi deu seu su veru mèri e
s’ad’a pònni a camminài! S’avàru, ancòra ü’otta nc’arrùidi in
s’imbròlliu, e ddi ònada su cappèddu nou appèna arribbàu de Castèddu.
Carraffîa, bëi bistìu e a cappèddu nou, pàrtidi cun su quaddu di
arràzza, lassèndu su mèri a pei e spullìncu in mesu de sa ia.
Camminèndu camminèndu cun cussu quaddu, a ü certu puntu, bidi
üa bella cumpangìa de cassadòrisi cun d’ü tallu de cãisi di arràzza
avàttu, e sùbitu, de tesu izzèrriada: - Oh, Oh cassadòrisi, labai c’appu
biu ü bellu cõìllu appàbasa de cussa moba manna de moddìzzi!
Senz’e pedri ü mommèntu de tèmpusu, is cassadòrisi ncì scàppanta
is cãisi mesu arrabiàusu e ndi stànanta su pobirìttu, spullìncu e prëu
de timmorìa.
- E fustei, ita nci faidi aicci acconciàu me in su sattu e in dì de
cassa? - ddi domàndanta is cassadorisi.
“ Oh, nu… è nudda, - arrespùndi s’avàru; appu prestau su quaddu
e su istìri a Carraffîa su Beffìãu po andai a domu sua a ndi liai totusu
is attrèzzusu chi ddi srèbinti po mi fai üa bella brulla.
- Ehi, Ehi, ddi tòrranta is cassadòrisi, arrièndu e pighendìddu in
giru. E calli brulla pru bella de custa! Carraffîa a quaddu di arràzza,
a bistìri nou e fustei senz’è quaddu, spullìncu e a pei scruzzu e in
mesu de su sattu!
E su susùncu, castiendusìdda bëi asùba, nàrada: - Balla, gei mi
dd’à fatta cumprìda sa brullìxèdda, su picciòccu! A ùnu cummènt’e
mei! - Proppiu a ùnu cummènt’e fustei, sa lizziõi è meritàda e bëi
fatta, bruttu strozzìnu! Sa disonestàdi no paga mai!
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Su tempusu
Su tempusu
(sa stòria pagàna de sa nàscida de su mundu)
Ddu scièisi cumènti is pagànusu de is tempus andàusu, penzànta sa
nàscida de su mundu? No ddù scièisi? Chi mi sighèisi avàttu, si dda
fazzu passai deu sa crosidàdi chi tenèisi!
Dùncasa, tàntusu e tàntusu annus faidi, primm’ancòra de s’antigòriu
prus antìgu, me in su mundu accroxiobàu e prontu a si squattarài in
centu e ü arrògu, scetti su xeu e sa terra nci fianta cumprìusu e bëi
fàttusu.
Totu s’atru chi si bidìada in gìru, fìada arrogàlla de stèddusu de
fogu, chi arrumbullànta senz’e assèbiu, dì e notti, cummènt’e ü crabu
maccu chi no scidi anchì ammediài!
A su xeu e a sa terra, de nommini ddis ìanta appioppàu Uranu e
Gea cummènt’e sa callellèdda de sa levadòra chi teneiàusu in bidda.
De intelligènzia, tott’e is dusu, gei no fianta mancu cummènt’e
Micchellàngellu Bonarròda, nou! Però, sciadausu,bivèndu sòusu che
cãisi e sparafundàusu in su scuriu pru nieddu de sa notti senz’ e fini,
a frozza de si castiài a cu di ogu e in sillènziu, depint’ài dezzìdiu de
si sprazzì totu a mesapàri.
Gea (sa Terra) poi, femmîèdda bribbànta e ü poghèddu spizzècca,
arrodièndu a tott’arrodiài, a su chi pàrridi gei ia fattu sa furriàda de
accàbbu! Dd’adi imbriagàu sa conca e dd’à cunvìntu (arrazz’e pobirìttu
ammattallaffàu!) a s’accappiài po totu sa vida cun sa cadèna a doppia
mallia de sa coia. E arrazz’e coia fottunàda e cumprìda! In quatturu
e quattr’ottu nàscinti bintiquattru fillusu, a duzzîasa, cummènt’e
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Bellus tempus
canciòffa! E m’eis’a nai: - arràzz’e fìllusu! Is primus dusu, gemèllusu,
annà ca pottànta centu mãusu e cinquànta còncasa. A vollia de barrìttas
de cuncodrài, mammài! Atrusu, is cicropusu, fìanta nàsciusu invèciasa
cun d’üa conca scetti e cun d’ü ogu scetti, ma gei si ddu arreccumàndu
po ddu põi a sopprammòbilli, me in su cummodîu de sa camber’e
lettu! Ddu credèisi ca di oghixèddu fia bëi cumprìu! Nanta chi parrìada
ü far’e trattòri allùttu.
Is ùttimus doxi, pòi, sesi maschittèddusu e sesi femmîèddasa, parri
chi fèssinti mànnusu cummènt’e üa costèra de montànnia, tanti ca
ddus ianta annommingiàusu tittànusu.
Sa famìllia, dùncasa, ia fatt’a lestru a si pesai a manna e is
picciòccusu, pagu abittuàusu a is sas scàbasasa lòngasa de
s’univressidàdi, donnia tanti accostummànt’a si ghettai appàri. No
si nau s’avvabòttu, candu movvìanta a si cettai is centu mãusu!
Üa bobària furiòsa de bentu moi-moi fadìa curri izzèrriusu e pràntusu
di onni arràzza, arrìsusu a scraccàbiusu ammesturàusu a càrigasa de
sangui ammalloràu, chi si nci sbettuàd’a donnia furrungõi, e su
mundu, sciolloccàu de su budrèllu de sa battàlla, si pesàd’ìn bobàriusu!
Aìcci, a frozza de iscunvorgimmèntus sempri pru fottisi e
sanguinariusu, i làgrimmasa de su Xeu si fainti steddusu e sa Terra
si sciàsciada in mill’arrogheddèddusu. Sa Sadrinnia puru, in mes’e
cussa cunvusiõi, pàrri chi si nci sia fuìda de s’Africa, ma senz’e is
quattro murrèddusu. Inzomma, sa cata crisma univressalli è fàtta!
Su babbu Xeu, sciadau, becciu e scarrappacciàu, prëu de attròsi
e cun is cattaràttasa me in ògusu (arràzz’e friusu e ummididàdi,
bivèndu ingüi antu, spullazzîu e’ fattu!), dezzìdidi de lassai a su
primu fillu, Tittànu, totu s’eredidàdi, maccai sprappalliàda in mesu
mundu!
S’ùttimu nasciu, però, Cronu (a sa sadra tèmpusu), pru sanu, pru
bellu e meda prus abìllu e bribbànti de su fradi mannu, ddu cunvìncidi
a ddi onai su renniu, cun sa prommittènzia ca no iad’essi tentu mai
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Su tempusu
fillusu e, si puru nd’essi tentu, ddu s’iadèssi mòttusu appèna nàsciusu.
E diaìcci faidi po tòtusu is fillusu chi arrìbbanta. Po s’ùttimu, però,
sa pobìdda disisperàda ddi cuncòdrada ü fangottèddu de pedra,
affascàu a tippu pippiu e si ddu presèntada po su pastu de adenòtti!
Su babbu, me in su scuriu de su momèntu e pagu dilliccàu de
cantrèxiusu, sì ddu divvòrada che pãi lunt’in mebi, sigùru di ai
mantènniu su fuèddu donau. Ma is còsasa deppìant’andai ü poghèddu
drivessammènti.
S’ùttimu pippiu arribbàu e sarvau a fura, de nommini Zeus, crèscidi
sanu e fotti, e appèna cùmpridi dexiottànnusu (ingüi puru s’edàdi de
bessì a sou fia cussa), fai guerra a su babbu e ndi ddu scuttùllada de
sa cadìra arreggia.
No dd’òccidi, ca ndi tëidi piedàdi, ch’è giài becciu, però ddu pìgada
a frozza e nci ddu pòttada a su soggiornu obbrigau me in su Laziu,
accànta de su frummi Tevere e attèsu de sa terra sua, chi fia su monti
Ollìmpu. Ma Cronu, maccai becciu, si inzaùrrada de gana bella e cun
su trabàllu e sa cuncòdria de sa genti, de cuss’arroghèdd’e terra noba
ndi faidi ü spizzuèdd’e paradisu.
Ammòri, paxi, libbettàdi, frùmmisi prëusu de mebi, mattasa
càrrigasa de fruttu, animàbisi feròcisi chi si fainti paxiòsusu! Inzòmma,
ü renniu de fellicidàdi; cun is ommisi sempri giòvunusu e sãusu fai
nasci s’edàdi de s’oru. Ma giai de insàrasa, me in su mundu ancòra
in fàsciasa, sa imbìdia de s’ommi à cummenzàu a cresci e ponni
arrèxisi in su coru de sa genti.
Biendu su babbu fellìcci e cuntèntu, Zeusu gellòsu, maccai
fèssid’attèsu, de su monti Ollimpu, nci ddi tìrada ü lampu chi pottà
sempri in mãusu e ddu frùnmminada in cinìsu. In custu modu, po
s’ànimu mau de s’ommi, accàbbada s’edadi de s’oru e cummènzada
cùsssa de sa prata.
Nienti prusu üa staggiõi scètti (cussa bella primavera chi no cambià
mai!), ma primavera, istadi, attòngiu e ierru! Quattru staggiõisi
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Bellus tempus
(pàrridi chi in cussu perìudu, su primu nappullittãu cumpàrriu in sa
terra, àppada imbentàu sa pìzza quattrustaggioni!). Dùncasa, pò is
ommisi cummènzanta is tèmpusu de dabòrisi e zicchìrriusu de dèntisi!
Trabàllu, sudòri, mabadìasa, frìusu, basca, sidi e fammi: senz’è
trabbàllu, inzàrasa puru, no si podiada nì pappai, nì bivvi.
De cussu mommèntu, s’ommi pèdridi s’ngenuidàdi de sa primavèra,
nasci s’egoìsmu e sì nci stesia s’arregòdu bellu de su latti e de su
mebi. Aicci, senz’e mancu s’accattài de nudda, s’ommi s’agàttada
me in s’edàdi de su brunzu.
Ma sa ia de su mabi, orammài, s’è fatta totu a cabàda. Non nc’è
prus ammòri, arrispèttu po su pròximu, non nc’è pru caridàdi s’unu
cun s’atru. Finzas is bixîusu si càstiant’a cujògu. E donnia dì, no si
bid’atru che guèrrasa, cùn is mòttusu a peddi, po su dommìniu e su
podèri. Donnia ierru si fai sempri pru fridu, s’istàdi sempri pru
callènti, sa terra sempri pru pòbera e avvàra de frùttusu.
Po si proccurài su pãi tòccad’a trummentài, maccài a pagu gana,
e, cancü’ otta, a pèdri sa dinnidàdi e sa libbettàdi. Seusu arribbàusu
po cruppa nosta a s’edàdi de su ferru. Ü’edàdi, me in sa calli donniü
si bìsada de podi bivi sempri cun su gottèddu in mãusu.
Ma s’ommi, chi diadèrusu esti üa bestia intelligènti, su ferru de
s’odiu e de s’egoìsmu, ddu poidi scallai in su fogu de s’amòri e ddu
poi torrai a latti e mebi.
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E’ posta ingüi anànti, a serrai su vialli longu e derèttu po Samàssi,
sa cresièdda de Santu Mattî, cussa cresièdda pòbara, fatta po is
pòburusu, cumènti pòburu si fia fattu su Santu chi dd’ìanta dedicàu.
Est’üa cresia beccia, beccia meda, ma is annus ddus potta bëi e no
ddus cumpàrridi.
Me is tempus andàusu si fadìa sa missa donnia dommìgu, po sa
genti chi bivìada in su xiãu; poi su preìdi benedixìada is mòtusu de
su campusantu chi fiada a fiancu. Unu campusantu pitticchèddu e
arregòttu aintru de quattru mùrusu, puetta ca in cussu bixiãu morria
pagu genti.
Si còntada (ma sa storia nu è sigura sigura), ca po inaugurài su
campusàntu de Santu Mattî, su preìdi de insàrasa, ia deppiu aspettài
pru de dex’ànnusu po mancànzia de mòttusu, finzas’a candu, biu ca
non si nd’accamingià nudda cun is bixîusu, si fia fattu prestai ü mottu
de sa matt’e s’obia, logu bëi connòttu me in bidda. Ü’otta incarreràu,
però, parri chi no ia tentu prus abbisòngiu de aggiùdus torràusu foras
di omu. Sa pistillènzia, arribàd’a s’improvvìsu, gei ia bogau cos’e
fai. Is mòttusu nàranta chi fèssinti a frusa. Is vìsitasa importàntisi e
is cunvènnius de istùdiu paraffritteollògicusu no si còntanta me in
sa storia de sa cresia de Santu Mattî, assumàncu de su 1600 a su
1950: vìsitasa de vèscuvusu, munzinniòrisi, de còntisi e mrachèsusu,
de attòrisi e po finzas regìstasa. E dopu tanti vìsitasa, fu propiu in
s'’Annu santu de su 1950, chi, po mèritu de dus francèsusu
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Bellus tempus
imparentàusu in bidda, fiada stada organizzàda s’ùttima tavollarrotùnda
internazzionàlli po discùti de sa toppìnno - mastica de Seddòri.
Is dus picciòccusu, Les Frères Ballones, chi nu obia nai pallõisi
o busciùccasa de frèi a su nuncu, ma scetti scetti is fradis Ballõisi,
àttusu, brùndusu, ogus bràxiusu, sempri bistìusu a prìnzipi de gàllusu
e abituàusu a is offellerìasa de Parigi, ànti pensau, datu s’ambiènti
frequentàu po tanti tèmpusu, de svilluppài ü studiu cumènti genti
cumpetènti me in s’arràmmu de sa toppollogia.
Sa boxi s’esti spratta subitu e no s’è fatt’aspettài ü antru grandu
scienziau, studiòsu de madrònas furistèrasa, ü madronòllugu ddi
aus’a nai in dì di oi. Cussu puru, Emmanuellèddo quattro, cun arrèxisi
me in s’antìga monarchìa europèa e de s’erènzia de su gurrei Gustàvu
de Isvezia. A nài sa beridàdi, nu è chi podèssi gustai meda meda su
chi ddi adèssi praxiu..
Su cunvènniu, però, è passau a sa storia po is gràndusu arrisurtàusu
ch’ia tentu. Me in sa fiera chi si fia fatta me in su Stabi de Santu
Mattî, iant’espòstu is pègusu pru bèllusu de tòppisi e madrònasa de
totu su circondàriu. Nanta is crònacasa de s’èpuca ca s’esempràri
prus annodizzàu fiad’ü incròcciu de toppimàdro, studiàu e allevàu
de is tresi scienziàusu cun is arrèxisi nòbillisi di arrèammi crèsciasa
in tanti sèccullusu de istòria. Üa cosa mai bida e mai connòtta: mesu
metru de longària e tres chillus e mesu de pesu!
Candu, po sa disattenziõi de is guàdriasa, unu de custus pègusu si
nci fia fuiu e nci fìad’attaffàu a sa prazza de su macèllu, chi fiada
propiu a fiancu de su Stabi de Santu Mattî, su veterinnàriu dd’ia
pigau po ü cõìllu martesu e senz’e nci penzai meda meda dd’à fattu
macellài e pottai a domu sua po ddu coi arrùstu, bëi cundiu.
Òi, a sa cresièdda no ndi dd’impòtta nudda chi a su costau e allàd’e
pàbasa nci dd’anti accozzàu su macèllu. Sa cumpangìa, a nai sa
beridàdi, è pagu praxìbi e, zettu, no ddi canta su fardaròllu a gir’a
giru. Fràgusu, sõusu e animàbisi di onni’arràzza, cuncòdranta diadèrus
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pagu cun sa dillicadèsa de sa cresièdda chi tëidi abbisòngiu scetti de
paxi e de tranquillidàdi, ma sa bundàdi de sa genti à crobèttu donnia
bregùngia e donni’abbisòngiu, cumenti ia fattu santu Mattî cun su
mantellu.
E’ bèrusu ca nc’esti stau scarescimèntu e pagu divoziõi po
tant’ànnusu; è berusu puru ca custu fattu ha pottau cancu
sciarroccamèntu a is mùrusu e a sa crabetttùra, ma sa cresièdda no
s’è mai scarèscia de su santu chi dd’ia donau su nommini e dd’à
boffiu assimbillài, fadèndu bëisi a deretta e a manca.
E di aicci, maccai beccia e scarrappacciàda, cun is dèntisi andàdasa
e sa conca mesu scroccorigàda, tremmi tremmi, e ü poghèddu
accancarronàda, no à mai lassau de penzai a is àtrusu chi fianta prus
abbisongiòsusu de issa.
E si fadìada in dusu o tresi e, cancü’otta, in quàttru e cinqu puru,
po donai ü’ òra de cunfòrtu a donnia pòburu.
M’arregòdu cussu stabi, pront’a t’indarrùi a conca, accumpangiàu
de inzùnchiusu e zicchìrriusu, ma cument’e sa turri de Pisa, sempri
istrantàxiu me in su logu su.
Arbèrgu - stabi santu Mattî, narà su cartèllu turìsticu: ü arbèrgu
a tresi istèddusu o tresi...stàddasa.
Ma, in donnia modu, arregallàda, po cussus tèmpusu, servìziusu
de prima crassi, mànnusu e ariàusu, appàbas de is cresùrasa de
figheìndia de bi’e Castèddu.
Ü arbèrgu mabandàu, è bèrusu, ma cantu pòburusu ad’ai biu, in
disi de sobi o in nòttisi de intempèriasa, croccàusu in sa friscùra,
cancü’otta scallentàusu de u’ zicchèddu de mruguèu in prusu, o
riparèndu de su frìusu e sa straccìa.
Fiada, de su restu, s’arbergu pru connòttu po su seddorèsu pagu
in pottafòlliu. Nisciùnusu domandà catta de cannosciènzia pressonnàlli
o boìada arricevùta sfiscàlli. Tòttu a straccu barattu e senz’e nisciùnu
contròllu de sa guadria de finànza. De pagu, a sa cresièdda, dd’anti
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Bellus tempus
torrau a fai sa cur’e sa bellèsa e s’è torràd’a giovunèdda! In conca
sa coròna de teba antìga cabòr’e coràllu, su bistìri totu arricamàu a
pedra traballàda; orecchîusu nousu po fentànasa, imbellettàda e
allipuzzìda, ca pàrri bessìda frisca frisca de lavatriciasèccu.
E no anti scarèsciu mancu su Santu! De ü scantus ànnusu a custa
patti, sa bona volluntàdi de su bixiãu à torrau a bogai sa bella festa
de Santu Mattî. Esti üa festa po genti fatta a sa bona, senz’e grandus
pretèsasa, naràusu sa festa chi pràxidi a is seddorèsusu: missa e
brufessiõi po onnorài su Santu; pisci a collèttu po spassiài sa genti.
Pisci a collèttu a donnia manèra: a forru e poi piricciòu a bruncu,
scuppau a nou de sa carradèdda, appètta appòsta po s’ùndixi de
donniasàntu. No si narà, difàttu, ca po santu Mattîu donnia mustu
s’e’ fattu bîu?
Totu custa bellèsa de festa è callentàda de sa pampa bia de su
fogadõi, e cundìda de s’allirghìa de is pippìusu e de is mànnusu,
puètta ca Santu Mattî è sa festa de tòtusu. Però, candu cumènzad’a
muccai sa notti manna e su frischèttu de s’attòngiu si faidi intèndi,
parri chi manchi cancüa cosa po cumpretài sa cuntentèsa de sa genti.
Di fattu, castièndu sa cresièdda incannacàda de istèddusu e allùxîada
de sa pampa de su fogadõi ardènti, bëid’a sa memmòria cussu
bell’arregòdu de candu si fia picciocchèddusu: su stabi de santu
Mattî!
Ü stabi ghettau anànti de sa cresièdda cumènt’e su mantellu de su
Santu ghettau me is pàbasa de su pòburu. E sùbitu ü penzamentu: no
nc’eusu arrennèsci a ddu torrai a bì, pesau a nou, bellu po sa dì e po
sa notti, po sa basca o po su friusu e, cust’otta, po su poburu e po
s’arriccu?
Invocaziõisi sadrasa
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Bellus tempus
Gruxi santa serenada
innoi s’è prantada
po arregolli sobi e serenu
Gesu Cristu Nazzarenu.
Invocaziõisi sadrasa
Gesù Crìstu èst’û Angiõi
e Ti promittu Gesusu
de no Ti offendi prusu
in totu sa vida mia:
ddu salludeusu impari
cun Giuseppi e cun Maria.
Sa cenabara Santa
sa dì de Nosta Sinniora,
passàd’èsti innoi de bonora,
cun sa Maddallena accanta.
Ohi, ta mabasa arrispostasa
Sinniora mia chi s’appu bittiu!
A Fillu ostu cussas faccis tostasa
a crucifissai ddu pottanta, nozzenti che pippiu.
Ah, t’arrazza de novasa m’ei pottau,
ca mindi lìanta po finzas is sentidusu!
Penzai o mammasa chi teneisi unu amau
su dabori provau chi nci pedreisi is fillusu!
Benei a prangi, aggiudaimì!
A is peisi de Fillu miu totusu ghettaisì
ca malli non d’eis’aghettai
e po custa cundanna eis’a tenni de nai.
Ca tre disi innantisi de morri
ad’a bì a sa Mamma de totusu sa sorri
impari cun is apostullusu susu
su Cor’e Maria e su de Gesusu
dona sa grazia a chi à creau
a mei fradi tuu e a chi è battiau.
Angiullu miu,
apperrimì sa ia
c’ollu bì su fillu de Maria!
Ca est’allogàu in s’Artari Maggiori
aintru de Cresia cun grandu amori
aintru de Cresia cun assentu
salludi a Gesusu e a su Sacrammentu!
In sa potta dei Ballèisi
ddoi à meda sodrausu e unu incravau
ûa femmia no attobieisi
chi si domànda pei bia:
- Biu dd’eisi a Deusu fillu de Maria?
- Sì, sì, ca dd’appu biu
ca innoi è passau in mes’e sa ia.
Ave Maria, frori de lillu
sa Mamma cun su Fillu
su mundu s’è sciusciau
po unu solu de peccau.
Chi Adamu ha fattu totu
po cussu Deusu è motu
in sa gruxi incravau!
Pillàtusu dd’ìa cundannau
chen’e causa o arrexiõi.
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Bellus tempus
Su pannu miu dd’appu donau
po si strexi sa facci Sua Santa
ca sciustu fiada cun sa gruxi accanta.
Andausu e debressi andausu
ca pru trigausu andendu
e incravau dd’aghettausu
cun is obibisi chi ddu fainti pendi
cun is obibisi de ferru me in mãusu
e in conca sa corona de pena;
a chi ad’a nai tre botasa i lausu
sravada û anima sia sua che allena.
Invocaziõisi sadrasa
e s’atra me in sa menti
e passa su nozzenti
ddu biu andendu in su camminu.
Bittei a innoi ollu Santu
a battiai su Spiritu Santu.
Su lettu miu è de quattru cantusu
e ddoi cròccanta quattru Santusu
dusu a peisi
e dusu a conca:
Nosta Sinniora
è po mei pronta!
Sa campana è tocchendu,
Gesusu est’abbasciendu
cun s’Ostia cunsacrada
beni ciuetta e cummossada,
cun su latti de Maria,
Ostia Santa a s’anima mia.
Sa cammisa mi bistu
a nommi de Gesu Cristu,
a nommi de Nosta Sinniora
Gesusu e Maria mi lessinti in bonora.
Su lettu miu è de quattru peisi.
Angellu bellu chi ti ddoi sèisi,
Angellu caru Serraffinu
deu mi pongiu sa mãu in su sinu
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Bellus tempus
Is pregadoriasa
Avi maria
Is pregadoriasa
Avi Maria, prena de grazia, su Sinniori è cun tegusu.
Beneditta ses Tui intr’e totusu is femmîasa,
e beneditt’è su fruttu de is intrannias Tuas, Gèsus.
Santa Maria, Mamma de Deusu, prega po nosatrus peccadorisi,
immui e in s’ora de sa moti nostra. Aicci siada.
In nommi de su Babbu, de su Fillu
e de su Spiridu Santu. Aicci siada.
Groria a su babbu
Babbu nostu
Groria a su Babbu, a su Fillu e a su Spiridu Santu.
Cummenti fìada in prinzipiu, immui e sempri
me is secullusu de is secullusu. Aicci siada.
Babbu nostu chi seisi me is xelusu
sia santificau su nommini Tuu
bengia su renniu Tuu
sia fatta sa volluntadi Tua
cummenti in su xeu aicci in sa terra.
Su pãi nostu di onnia dì
donanosì a nos’ òi e pedronasì
is peccaus nostusu cummènti nosu
ddus pedronausu a is depidoris nostusu.
No si lessisti arrui in tentaziõi
ma liberasì de malli. Aicci siada.
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Bellus tempus
Sa domu antiga
Sa domu antiga
(e su comudu me in su...muttõi)
No è tempusu meda chi is domusu de Seddori
fattasa giai sempri a ladriri ammesturau cun palla,
in forasa parrianta bellasa, luxentisi de cabori,
ma aintru s’inginnieri ia fattu pagu galla.
I murusu de mesu o cussus de sa ia,
tirausu a susu a ogu, de unu pagu abillu,
cun gobba dd’accabbànta, chi si pedrìa pebia:
a tipu cu de forru o fund’e tistivillu.
Su scer’e s’arreggiolla obia pagu lareddu.
Sa frabbica nasciada candu nci fia s’accorru
De baccasa o de boisi me is domusu de zi’Accheddu.
Frisca si oddìa sa medra, po fai fomment’a forru.
I mãusu no accudianta a morigai s’impastu,
po nci ddu spraxi in terra e subitu allisai,
chi nu abarressi bungiusu o trass’e cancu guastu.
Su chi arribbàd’in visita no deppìa tëi de nai.
Finiu de pianellai, benia s’attrippa scova,
fatu de marmu lisu o linna fiammanti.
Su banniu andà fattu cun d’una doccia in prova,
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Bellus tempus
Su tuist’e arrellichiu
is sanitariusu biancusu e üa bella vasca ananti!
Sciadaus de nosu poburusu! Atru che vasca ananti!
Òi, po ddu nai pru craru, non nc’è chi ddu scaresciada
Cussu muttõi abettu cun gecca e cun potanti,
e ü bellu fragu mau chi sempri ndi bessiada.
S’arreccummàndu poi sa brenti chi si unfràda,
ca ti obbrigàd’a intrai cun tempus fridu o gellu!
Sa crobettura fatta de linna giai siccàda,
fadia passai su entu o s’acqua abellu abellu.
Sa tab’e s’appattai fia posta proppiu in mesu,
affottiàda pagu e poi accozzàda a ogu.
Di fattu is abbisongiusu pottànta a andai attesu,
cun is peisi a fai su dòndullu, cummènti ddu appa fogu.
Su tuist’e arrellichiu
Deu su trigu no ddu mollu,
no ddu toccu su sedazzu,
a tuìstu mi nci ammollu
e su pãi no ddu fazzu.
Babbu currid’a spongiai
sorri mia allui su forru,
gei nc’è mamma a cummossai
Su picciocchedd’i òi, mùccada me in sa stanza
E liggendu su giornalli, abètta su coccoi.
No tenni pressi mai, ca si stai bëi abbastanza:
su logu è profummau de bellu fror’e arroi.
Tui mi fai sa costeddedda,
deu ti baddu de ammengianu,
a su fogh’e sa forredda
su tuìst’americanu.
Chi a lestru no intrasta, giai prontu a ndi dda fai,
a nadia limpia e lisa e is cosas de appiccai,
ddoi fia sa puddixedda, giai pront’a ti biccai.
E ü spizzu me is sannorisi, gei fìa cos’e provai!
Turradori e muziõi
po girai me in sa scivedda,
gei ndi essi su coccoi
po sa bella picciochedda.
Su bru - ginsi fai gallosu
po sa dì e po sa notti,
sa ciumgomm’e su fadosu
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Bellus tempus
Poesias
srebi propiu a fai sa cotti.
Pappu, buffu e m’indafutu,
ca po crasi no ddu sciu,
baddu sempri scadrallutu
su tuìst’e Arrellichìu.
Trintasettista
(anno 1996)
Su domigu de sa Pramma
a sa una e cimqu in puntu,
sa cumpangia de sa bramma
faid’ü prangiu a pani luntu.
Totusu anch’è Giovanni Medda,
a prandi cun appittitu,
accùlliusu in d’üa xedda,
ma sen’e call’e crabittu.
Antipastu a serr’a serru,
pastasciutta a frocus mannusu,
bistecchedd’e procch’e ierru,
bîu nieddu de tant’annusu.
Su motivu de sa riunioni
È sa gita in continenti;
no fazzaisi üa confusioni!
Su dinai, o bona genti!
Su chi srebidi ddu scieisi.
Po donnia coppia ü millioneddu.
Pottaindeddu chi beneisi,
o s’attaccaisi a Larenzeddu!
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Bellus tempus
Poesias
Uspidalli
In mesu de üa tempesta de sa vida mia,
mi seu aghetau in d’üa lettiga scura,
prëu de daborisi po üa strana malladia,
chi s’è fatta longa e pagu che sigura.
Ma ü mengianu paràda s’esti a s’improvvisu
üa puba bella de infermiera sorridenti,
ca sceti castiendidda m’è patta sollu ü bisu,
filla de ü steddu nou de xeu arrisprendenti.
E subitu in su coru dollenti e affrigiu
si point’a pari is orasa bellasa cun cussas mabasa,
e grandu luxi nascidi in mes’e su scuriu,
po fai scaresci is penasa po tanti disi passadasa.
Andend’a innantisi in su contu de sa corsia,
tra prellievusu de sangui e misur’e callentura,
mi parriada di essi me in sa giusta bia,
po accabbai a lestru su tempus de tristura.
Ah, cant’è leggiu s’arregod’e ddu contai,
is disi chi appu fattu in s’avventura,
c’a nemmusu si dd’auguru mancu mai,
de bivi aicci tristu e tanti malli stai!
S’arreccumandu cussa sveglia, fatta sempri a crazza,
candu su cabõi ancora nu à cantau!
Sonusu s’intendinti de ferrallia di onni’arrazza,
ca su mobadiu si ndi pèsada maccai siada indrommiscau.
E gìranta luxentisi agusu e pratilliasa,
po pungi senz’e coru e sangui ndi furai,
po ponni frebusu a litrusu in buttilliasa,
ca su trumentu no teni sièr’e dd’accabbai.
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Poesias
Bellus tempus
Intristida
Intristida,
sa boxi mia,
si pèsada
a contai sa pena,
spiritu di entu
infrorau de sobi
in su mengianu.
S’arrisu bellu
de is ogus tusu,
un spizzu nou
mi tòrranta
de cussu xeu steddau,
chi pedriu
giai intendìa.
Callènta sempri
su sobi,
mancai annurrau,
chi nasci
cü amori.
(anno 1999)
No prangiasta Maria
No prangiasta, Maria,
po Fillu Tuu ingruxiau.
De Deus è su merì
cument’è su mengiãu.
Su sobi,
nasciu de sa notti,
è limpiu de pecau.
No prangiasta, Maria.
Su sangu’e su costau
currend’a s’agonia,
sa terra at cumossau.
Po cussu prim’arrori,
premitiu o cumandau,
de su Respiru Eternu
s’àbidu pru bellu
s’à lassau:
Gesusu,
luxi di onnia bia!
Ti pregu,
no prangiasta Maria.
(anno 1999)
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Bellus tempus
Poesias
In sa pott’e su Sinniori
In sa pott’e su Sinniori
cent’e tresi funti is sodrausu,
po sa tumba de dolori
ingiriàd’e cristiãusu.
Nosta Sinniora addolorada
cun is apostulus angiullus susu,
a sa genti domandàda:
biu dd’eis a Fillu Gesusu?
Biu dd’appu in sa bi’e passai,
pann’e linu dd’appu donau,
gruxi manna toccàd’a pottai,
coron’e spina dd’ant appuntau.
Currei, o genti, currei, aggiudai,
santus obibisi dd’abrùxiant’is mãusu.
Sinniori Gesusu, su cor’ascutai,
sravaus de s’inferru totus siausu!
(anno 1999)
Cussas mãusu
Cussas mãusu chi accudíanta a totu
mi ddas arregodu ancora,
dì e notti, sempr’in avabotu.
ca no teníanta sigures’i ora.
Cussus tempus no scaresciu mai
candu is mãusu accudiant’a totu,
prangiu, strexiu, pippius de castiai
e puddixeddas in s’or’e s’otu.
E cussas mãusu iscolliádasa
chi fia giustu, e ddu tengiu annotu,
accudianta puru ai nadiádasa.
Accudianta a totu, cussas mãusu!
A fai su pãi a pizzicorru,
sanziai pippiusu indrommiscausu,
a segai linna e allui su forru.
Òi, ca mamma, tui s’è mota,
deu ddu sciu, ndi seu siguru,
sezia a scannu me ingüi in susu,
siad’ a luxi, siad’a iscuru,
pénzasa sceti a fillus tusu.
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Bellus tempus
Poesias
Cussas mãusu chi accudiant’a totu,
arrasend’in s’eternu bisu
si prepàranta, beni arregotu,
unu spizzuedd’e Paradisu.
S’e’ fatta luxi
(anno 1995)
Ascutta Fillu,
ca s’ é fatta notti
e no è notti.
Fillu,
attentu,
no è prant’e maba sotti
su lamentu
de custa notti
chi no è notti.
Fillu,
ascutta,
su dabori è fotti.
ca sa genti è arrutta
in bratzus a sa motti,
in custa dì
chi s’è fatta notti.
Fillu,
castia su Sinniori.
Est’incravau
de sa genti chen’e amori.
Fillu,
sa vida s’at donau
me in sa gruxi,
fradi nostu Gesusu.
Alleluia, Fillu,
ca s’è fatta luxi
e notti no è prusu!
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(anno 1996)
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Poesias
Bellus tempus
Steddu fuiu
S’uttimu sparu,
e sa famillia
cun sa genti
a dommu,
a mãu pigàda.
Su xeu
è craru
e sa festa
è giai passada.
Üa lagrima
callenti
a su lugori
de sa notti andàda
nd’at sottiu,
basidu di amori,
a cussa mamma.
Arris’à su pipiu,
e subitu
sa lagrima
s’è fatta steddu,
stedd’e fiamma,
a curri
me in su xeu pulliu,
angiulleddu,
de su coru
fuìu!
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A luna noba
A luna noba de arris’abétu
sa notti crara faid’allirghia,
su coru bàndada cicchend’affetu
in su giardin’e sa prenda mia.
Curri silenziu in boscu incantau,
drommi sonnendu sa bella pipia
liggera sa boxi in lettu biau,
gentibi e sincera ddi fai mellodia.
De i stella potàda m’apparid’in bisu,
velludu sa mãu a istringi su coru,
ta bellu s’arcanu de cussu sorrisu
chi gira narendu: ti amu e ti adoru!
Bellu miu coru, s’è sobi po mei.
De xeu cussus’ogus ü spizzu furau.
Coru miu bellu, no trighist’a bëi,
(anno 1999)
(anno 1996)
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Bellus tempus
Incipit
Incipit
(anno 1985)
(anno 1985)
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Siguru mamma
(libera traduzione in sardo di “A mia madre”)
Mamma,
siguru in Paradisu,
momentu po momentu,
ansiosa
tui mi cástiasa,
a sospirus de rosariu
senz’e tempus,
e disi de preghiera
stendisi
me is mãusu,
luxi
domandendu,
po su viaggiu miu.
E a merì,
me in s’enna
de s’Eternu,
siguramenti
tui
m’abbrazzasa,
cun d’ü sorrisu
ch’è suspiru
de rosariu
senz’e tempusu.
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Indice
INDICE
Pag.5
Pag. 7
Pag. 14
Pag. 15
Pag. 19
Pag. 25
Pag. 30
Pag. 31
Pag. 40
Pag. 40
Pag. 42
Pag. 43
Pag. 47
Pag. 48
Pag. 51
Pag. 58
Pag. 60
“Questo libro”
Introduzione
Nota
Incipit
Arregòdusu de picciòccus de crobi
Is annommìngiusu
Sa xida
S’avventùra de sa vida
Cancü diciu
Narànta is antìgusu
Sa xida de su mandrõi
Giògusu e gioghìtusu
Is mèsisi de s’annu
Cancü diciu
Mexîasa de ü otta
Is àttisi de ü tempusu
Invocaziõi
Pag. 61
Cara mammaicella
Pag. 69
Pag. 77
Pag. 83
Pag. 89
Cara mammaicella (Segunda missiva pistollàre di Aborea)
Cara mammaicella (Atra missiva di Aborea)
Cara mammaicella (E siammo già a quattro come ammisssive)
Cara mammaicella (Missiva finalle da Aborea)
(Currispundenzia…epistullari de su spattriu a Aborea)
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INDICE
Pag. 95
Pag. 101
Pag. 102
Pag. 105
Pag. 113
Pag. 116
Pag. 119
Pag. 131
122
Pag. 133
124
Pag. 139
130
Pag. 143
134
Pag. 147
138
Pag. 151
142
Pag. 154
145
Pag. 158
149
Pag. 162
153
Pag. 167
158
Pag. 170
161
Pag. 172
163
Pag. 174
165
Pag. 175
166
Pag. 177
168
Pag. 178
169
Pag. 179
170
Pag. 180
171
Pag. 182
173
Pag. 183
174
Pag. 184
175
Pag. 186
176
182
189
Dicius sadrusu…. seddoresus
Contisceddus
Su preìdi e sa gommai
Is tres fràdisi
Sa cadrallîa
Su goppai
Su serpènti e su pastòri
Is duas connàdasa
Su crabu zurpu
Su sabattèri de Cruccùrisi
Maria Xinìsu
Luisa Ottighìtta
Su susùncu e Carrafîa su befiãu
Su tèmpusu (Sa storia pagana de su mundu)
Su stabi de Santu Mattî
Invocaziõisi sàdrasa
Is pregadoriasa
Sa domu antìga
Su tuist’e arrellichiu
Trintasettìsta
Uspidàlli
Intristìda
No pràngiasta Maria
In sa Pott’e su Sinnori
Cussas mãusu
Se’ fatta luxi
Steddu Fuiu
A Luna Noba
Siguru Mamma
Finito di stampare nel dicembre del 2011
seconda edizione