17_dossier_OK_web
Transcription
17_dossier_OK_web
INDIA E CINA: LA DIGA TIENE ANCORA di Stefano Chiarlone LA TIGRE E L’ELEFANTE AL BANCO DI PROVA di Maria Weber A PECHINO MANCA UN PO’ DI STRATEGIA di Giovanni Andornino L’ANNO DEL BUE PARTE CON MOLTA INCERTEZZA di Alessandro Arduino e Cristina Bombelli CONTRORDINE COMPAGNI: LA CRISI C’È di Claudia Astarita INDIA: UN MODELLO DA RIPENSARE di Marco Masciaga Test Asia Grazia Neri_/AFP DOSSIER DOSSIER Sembrava che la chiave per la sostenibilità globale risiedesse in un rallentamento della Cina e dell’India. Il deflagrare della crisi economica mondiale ha cambiato rapidamente lo scenario: ai giganti asiatici non si chiede più di frenare la crescita per ridurre l’inflazione DOSSIER India e Cina: la diga tiene ancora di Stefano Chiarlone Grazia Neri_B. Sacha Sembra ragionevole pensare che Cina e India manterranno una crescita economica sostenuta. Questo consentirà ai due Paesi di accrescere il proprio ruolo nella governance mondiale. Analogamente aumenterà il peso delle aziende cinesi e indiane nell’economia mondiale. Tuttavia, in linea teorica, non si può escludere che la diga asiatica non possa subire cedimenti. E questo aprirebbe scenari molto inquietanti per l’economia mondiale Dall’inizio degli anni Ottanta, India e Cina hanno intrapreso un ampio percorso di riforme economiche finalizzato a guadagnare in competitività e a ridurre la povertà1. Caratteristica comune è stato un ripensamento del ruolo dello Stato nell’economia e una forte crescita del ruolo dell’imprenditoria privata. Pur fra le molte ombre relative alla crescente ineguaglianza e al permanere di situazioni di povertà, aggravate da sistemi di welfare inadeguati, la crescita ha offerto nuove opportunità alle popolazioni e ha contribuito alla nascita ed espansione di gruppi multinazionali cinesi e indiani di rilievo globale, affermando la ritrovata centralità globale di questi Paesi, secoli dopo l’isolamento innescato dalla prima rivoluzione industriale. Dal punto di vista domestico, il successo delle riforme e il costante incremento del reddito pro-capite e del potere d’acquisto ha accresciuto la fiducia della popolazione, favorendo gli investimenti e innescando meccanismi di spesa di stampo simile a quelli occidentali, sebbene il crescente benessere non abbia beneficiato i milioni di famiglie rurali, accentuando la discrasia fra l’India e la Cina moderne e urbane e quelle rurali e agricole. A livello internazionale, la crescita economica cinese e indiana ha favorito quella mondiale, e le delocalizzazioni che hanno attratto quote importanti di manifattura (Cina) e servizi (India) hanno consentito un riduzione dell’inflazione mondiale che ha favorito la lunga fase di politica monetaria accomodante della prima metà degli anni Duemila. Dalla seconda metà del decennio corrente, gli squilibri cinesi (inflazione da materie prime e forte avanzo commerciale dovuto all’inflessibilità del renminbi) hanno iniziato ad affliggere (insieme a quelli statunitensi) la sostenibilità dell’economia internazionale. Sembrava che la chiave per la sostenibilità globale risiedesse, anche e in misura non secondaria, in un rallentamento cinese (e indiano). Il deflagrare della crisi economica mondiale ha cambiato rapidamente lo scenario: a India e Cina non si chiede più di frenare la crescita per ridurre l’inflazione mondiale ma, piuttosto, di agire per mantenerla elevata e sostituire la locomotiva americana. Al contempo, Cina e India devono fronteggiare gli impatti della crisi sulle loro imprese e le reazioni di una popolazione che, in molti casi, rischia di scoprire sulla propria pelle la fragilità di modelli di crescita fortemente collegati alla domanda estera nel settore manifatturiero e dei servizi commerciabili. La stabilità politica di Cina e India non sarà indipendente dalla capacità dei governanti di attenuare l’impatto della crisi sulla popolazione, dato che in Cina la crescita economica è un fattore importante della tenuta del Partito comunista, e in India la frammentazione del sistema partitico si presta a una crescita del populismo. Non sembra difficile, quindi, prevedere interventi monetari e fiscali protratti e sostanziosi, probabilmente più in Cina che in India per le maggiori risorse disponibili. Dal successo di queste misure dipenderà l’impatto della crisi sulla fiducia della popolazione nell’affermazione internazionale del Paese e nel governo e la forza delle imprese. Sembra ragionevole pensare che se manterranno una crescita economica sostenuta, il ruolo di Cina e India nella governance mondiale e delle loro imprese nell’economia globale crescerà con ovvi impatti benefici sulla ricchezza nazionale. Al contrario un rallentamento profondo e un aumento significativo della povertà oltre ad aggravare la crisi mondiale, potrebbe rimettere in discussione molti dei successi della lunga fase espansiva e riportare indietro le lancette del tempo per ciò che concerne la loro apertura internazionale. 1 Per una analisi dettagliata dei percorsi di riforma e crescita economica di Cina e India si vedano: S. Chiarlone, L’Economia dell’India, Carocci Editore, Roma 2008 e S. Chiarlone e A. Amighini, L’Economia della Cina: dalla pianificazione al mercato, Carocci Editore, Roma 2007. Grazia Neri_R. Raveendran/AFP Corbis_Construction Photography mondiale, ma piuttosto di agire per mantenerla elevata e sostituire così la locomotiva americana. Senonché Cina e India devono anche fare i conti con le conseguenze della crisi sulle proprie economie. Conseguenze che evidenziano la fragilità dei loro modelli di sviluppo Contrasto_D.Dainelli La Tigre e l’Elefante al banco di prova di Maria Weber Come si ripercuote la crisi mondiale sulle due locomotive asiatiche, la Tigre cinese e l’Elefante indiano? Le cifre indicano un rallentamento della crescita, che resta pur sempre sostenuta. In alcuni settori, per esempio quello dell’informatica, che pesa significativamente sul Pil dell’India, la decelerazione desta qualche preoccupazione supplementare. Ma le incognite non si fermano all’economia. Nei due Paesi, infatti, la crisi pesa su assetti politici e sociali che… Nel secondo semestre del 2008, lo scenario entro il quale la Cina stava perseguendo i suoi programmi di sviluppo accelerato è drammaticamente mutato. Durante i primi sei mesi del 2008, l’economia cinese aveva continuato a crescere a un tasso superiore all’11%, nonostante la battuta d’arresto dovuta al “disastro della neve e del ghiaccio”, la terribile ondata di maltempo che all’inizio di febbraio aveva paralizzato le regioni industriali del Sud-est. In particolare, nei primi tre mesi del 2008 la produzione industriale della Cina era cresciuta del 16% su base annua, nonostante i fattori congiunturali negativi, come il costante aumento di valore del renminbi rispetto al dollaro, il rallentamento dei consumi negli Usa e la stagnazione in Europa. Con anticipo sulle previsioni più ottimiste, la Cina si avviava a diventare la seconda economia del pianeta scavalcando il Giappone, subito alle spalle degli Stati Uniti. Nel nuovo scenario che si profila all’inizio del 2009 in seguito alla 100 crisi dei mercati finanziari internazionali, anche la Cina è costretta a rivedere al ribasso tutti i parametri economico-finanziari di riferimento. Le previsioni di crescita del Pil sono scese intorno al 7-8%, i consumi energetici hanno smesso di crescere, le esportazioni regrediscono di qualche punto percentuale. Il fatto che l’attivo commerciale cinese continui ad aumentare, nonostante l’accentuarsi della recessione globale e la diminuzione dei consumi nei mercati occidentali, trova spiegazione nella netta contrazione delle importazioni di materie prime e di energia. Anche il crollo dell’inflazione, scesa dal 10% al 2% in meno di sei mesi, deve essere interpretato come il segnale non di un funzionamento più efficiente dell’economia cinese, ma di un suo brusco rallentamento. Il governo cinese, nel 2009, riuscirà a salvaguardare la crescita della propria economia reale? In tal caso, riuscirà la Cina anche nell’impresa di “salvare il mondo dalla recessione”? Se lo chiedeva nel novembre 2008 un articolo dell’«Economist», Can China Save the World? (November 15th-21st, 2008). Appena un mese dopo l’«Economist» era meno ottimista: dedicando il numero di metà dicembre al tema China and India. A Tale of two Vulnerable Economies (December 13th-19th, 2008), la rivista metteva sì in evidenza i risultati ottenuti in trent’anni di “politica della porta aperta” (1978-2008), ma sottolineava anche il fatto che l’evoluzione delle riforme economiche cinesi lascia irrisolti numerosi problemi. Molti di essi sono dovuti alla sopravvivenza di strategie e politiche impostate con una mentalità da “economia socialista a pianificazione centralizzata” che è poco compatibile con uno scenario globale avviato alla recessione, per affrontare il quale sono necessarie flessibilità, iniziativa e capacità di adattamento ai cambiamenti dei mercati. Ecco alcuni dei punti critici. 1) Le aziende statali (State Owned Enterprises, Soes) costituiscono ancora il 60% della produzione industriale. Le Soes sono in costante ridimensionamento, come si può dedurre dalla graduale diminuzione del numero degli addetti (nel 2002 hanno dato lavoro solamente al 28% degli operai delle aree urbane, a fronte del 69% nel 1992), ma sono ancora determinanti per il raggiungimento degli obiettivi di crescita del Pil. Purtroppo, in quasi tutti i settori merceologici rappresentano la parte meno efficiente e più rigida dell’apparato produttivo cinese, quella più lenta ad adeguarsi alle tendenze evolutive dei mercati, sia a livello nazionale che internazionale. 2) Il sistema bancario e finanziario, controllato ancora in massima parte dallo Stato, è appesantito da percentuali molto elevate di crediti inesigibili (Non Performing Loans, Npl), in gran parte imputabili alla inefficienza delle aziende statali e alla loro mancata riorganizzazione, prevista entro il 2002, ma non ancora ultimata a inizio 2009. Corbis_A.Hofford/epa 3) Nonostante i continui richiami ufficiali alla necessità di estendere le iniziative di sviluppo industriale a zone sempre più ampie del Paese (la cosiddetta Go West Policy) e a un numero maggiore di settori industriali, la Open Door Policy è rimasta sostanzialmente limitata alle aree costiere dell’Est della Cina. 4) Molta parte degli investimenti esteri (Foreign Direct Investments, Fdi) si è concentrata nella creazione e nello sviluppo di aziende di medie e piccole dimensioni, con una limitata autonomia operativa locale e una 101 DOSSIER notevole dipendenza dalle scelte strategiche di decisori spesso molto lontani dalla realtà cinese, sia come mentalità che come collocazione fisica. 5) In molte province cinesi, certe tipologie di impresa non riescono a fornire un livello di output industriale significativamente superiore a quello raggiunto negli anni Novanta, per carenza di competenze manageriali o per un mancato adeguamento delle tecnologie produttive. Ricadono in questa categoria molte aziende private ma soprattutto le Tves (Township and Village Enterprises), assai diffuse nelle zone rurali, e le Fies (Foreign Invested Enterprises), agevolate e ampiamente finanziate dai governi provinciali. Quelle elencate sono caratteristiche strutturali del sistema produttivo cinese che non possono certo venir modificate rapidamente. Per rimediare sul breve termine ai contraccolpi della crisi finanziaria mondiale, il governo cinese ha deciso di sostenere l’economia reale con misure non molto dissimili da quelle dei governi capitalisti occidentali. Facilitazioni a favore dell’acquisto di automobili, per cercare di limitare il crollo nelle immatricolazioni. Sgravi fiscali all’export di acciaio, in controtendenza a quanto deciso proprio all’inizio del 2008. Quasi 600 miliardi di dollari di investimenti in infrastrutture: autostrade, porti, aeroporti, canali. I provvedimenti adottati con rapidità e determinazione dal governo cinese non sembrano però aver fatto cambiare idea a quattro tra le principali banche occidentali presenti da alcuni anni sul mercato cinese (Bank of America, Citigroup, Royal Bank of Scotland, Ubs), che nel mese di gennaio 2009 hanno deciso di liquidare le partecipazioni a suo tempo acquisite in banche cinesi. Resta il dubbio se si tratti di una manifestazione di sfiducia nelle prospettive di sviluppo del mercato finanziario cinese o più semplicemente di una decisione obbligata, vista la necessità di queste banche di porre rimedio alle loro difficoltà di bilancio anche mediante dismissione di asset strategici. In una prospettiva di lungo periodo la Cina sta cercando di porre rimedio all’arretratezza tecnologica di molta parte delle proprie industrie: le università e gli istituti di ricerca ricevono crescenti investimenti, alle imprese vengono concessi incentivi e sgravi fiscali. La protezione brevettuale si va diffondendo, al punto che si prevede che entro il 2012 la Cina diventerà leader mondiale per numero di brevetti internazionali depositati. Corbis_S.Touhig Per la Cina che si affaccia al secondo decennio del nuovo secolo, salvaguardare lo sviluppo dell’economia non è però soltanto un problema di organizzazione produttiva o di corretta allocazione delle risorse finanziarie. È l’evoluzione stessa del sistema-Paese che comporta grandi cambiamenti e provoca squilibri che richiedono una ricomposizione. 102 1) Il reddito medio degli abitanti delle zone urbane è pari a tre-cinque volte il reddito medio degli abitanti delle zone rurali. Si tratta di un differenziale persino superiore a quello di alcuni Paesi dell’America Latina, come il Brasile. In queste condizioni, non può stupire che un contadino su cinque vada a ingrossare le fila dei migrant workers, la manodopera non qualificata che nelle città si fa carico di tutti i lavori più pesanti e pericolosi. Secondo fonti governative, il loro numero può essere valutato intorno ai 150 milioni. 2) Il drastico miglioramento nella speranza di vita, salita da meno di 40 anni negli anni Cinquanta a 73 anni nel 2008, sta rendendo indispensabile la costruzione di un efficiente sistema di welfare: una popolazione in rapido invecchiamento richiede una più ampia assistenza pensionistica e sanitaria. Negli ultimi anni, la Cina ha adottato per pensioni e sanità un insieme di schemi basati su una combinazione di pagamenti individuali e collettivi. Si tratta di una soluzione che può risultare efficace per creare un soddisfacente sistema sanitario, ma non sembra adatta alla creazione di un valido sistema pensionistico: le pensioni necessitano di una condivisione intragenerazionale e comportano un rischio intergenerazionale. Se si considera la scala demografica cinese e le ridotte capacità finanziarie della popolazione rurale (che ammonta al 60% del totale), gli schemi di finanziamento del welfare attualmente adottati nella maggior parte delle province cinesi sembrano comportare un alto rischio economico e bassi benefici per la popolazione. Ai tanti problemi irrisolti dopo trent’anni di riforme economiche e sociali, si aggiungono ora le conseguenze della crisi finanziaria internazionale. Il difficile compito di traghettare la Cina fuori dalla crisi spetterà ai componenti della cosiddetta “generazione dei cinquantenni”. Il primo cinquantenne al potere che si appresta a occupare posizioni chiave nel governo del Paese è Xi Jingping, 54 anni, nominato vicepresidente della Commissione Militare Centrale. Le altre nomine previste all’interno del Consiglio di Stato (il principale organo governativo cinese) sono quelle dei nuovi vice primo ministro: Li Keqiang, che nel 2013 potrebbe succedere al premier Wen Jiabao, l’ex sindaco della capitale Wang Qishan (di qualche anno più anziano degli altri) e Zhang Dejiang, l’ex capo del Partito comunista nella provincia meridionale del Guangdong, la più industrializzata del Paese. Come sempre, l’arrivo di personaggi relativamente nuovi ai posti di comando di un sistema a partito unico porta con sé promesse di approfondimento delle riforme e in particolare della “riforma politica”, cioè l’introduzione di elementi di democrazia in un sistema che è rimasto autoritario e centralizzato nonostante il liberismo estremo adottato in alcuni settori dell’economia. Per ora le riforme annunciate sono principalmente organizzative: riguardano una serie di accorpamenti e la creazione di tre nuovi ministeri. Uno di questi è il ministero dell’Energia, osteggiato dalle lobby che controllano la politica energetica, come la Commissione Nazionale per lo Sviluppo e le Riforme, la compagnia petrolifera PetroChina e quella elettrica State Grid. Numerosi erano già stati i tentativi di riorganizzare il framework istituzionale del settore dell’energia nel tentativo di renderlo Grazia Neri_DE TORQUAT Catherine 3) Anche l’introduzione, all’inizio del 2008, della tanto attesa legislazione per la regolamentazione del mercato del lavoro costituisce un insieme di opportunità ma anche di minacce. Una delle novità più rilevanti è l’imposizione del pagamento di contributi sociali da parte dei datori di lavoro pari al 12-18 % dello stipendio base, destinati a finanziare i programmi di welfare. Le resistenze non sono mancate, sia da parte degli imprenditori (che mal sopportano la riduzione del vantaggio competitivo garantito dal basso costo del lavoro), sia da parte dei lavoratori (molti dei quali avrebbero preferito veder comparire quei denari nella loro busta paga). Un’altra conseguenza della nuova legislazione è la creazione di rappresentanze sindacali nei posti di lavoro, che però di fatto risultano essere una ramificazione locale della struttura del Partito. 103 Contrasto_Jonkmanns/Leif più efficiente. Cosciente dei costi che la vulnerabilità energetica può avere per lo sviluppo economico, il governo cinese ha adottato, dalla fine degli anni Novanta, una serie di provvedimenti e di misure per migliorare la sicurezza degli approvvigionamenti. In particolare, al fine di limitare la dipendenza dalle importazioni di petrolio, Pechino ha deciso di incentivare le esplorazioni nazionali, diversificare i fornitori di petrolio, estendere l’influenza della Cina verso i Paesi produttori e avviare la creazione di riserve strategiche di petrolio. L’attuale direttore dell’Ente di Stato per l’Energia, Zhang Guobao, ha dichiarato che la Cina deve trarre beneficio dalla riduzione dei consumi energetici mondiali, per aumentare le sue riserve. Tuttavia la dipendenza dalle importazioni di petrolio rimane forte, anche se maggiormente diversificata, così che i blackout di energia elettrica, dopo un periodo di relativa calma, sono oggi tornati ad essere fonte di preoccupazione. Il programma annunciato di costruzione di un numero imponente di nuove centrali nucleari non sembra tale da poter cambiare significativamente i termini della questione. Neppure l’aumento dei ritmi di estrazione del carbone, che entro il 2012 dovrebbe portare il dato annuale da 2,2 miliardi a 3 miliardi di tonnellate, sembra una soluzione convincente, visto che se da un lato accrescerà la disponibilità di energia a basso prezzo, dall’altra innalzerà drammaticamente l’inquinamento già elevatissimo dell’aria e del suolo. La strada che la Cina deve percorrere per far fronte ai fabbisogni energetici è in realtà ancora lunga e tortuosa, anche se non devono essere sottovalutati gli sforzi di Pechino per trovare una risposta positiva al simultaneo profilarsi delle sfide energetiche, ambientali e istituzionali. MIGLIORI RELAZIONI CON L’INDIA… L’inizio degli attuali problemi della Cina con l’India può essere fatto risalire al 1962, quando New Delhi cercò di reagire all’annessione del Tibet da parte della Cina. Poco dopo, Pechino cominciò a sostenere la 104 posizione del Pakistan nella disputa relativa al Kashmir. Il problema del Kashmir ha bloccato ogni possibilità di creare un clima di fiducia in cui negoziare accordi di pace: mentre l’India non può permettere la secessione di uno Stato a maggioranza musulmano (pena il rischio di incoraggiare altre secessioni), il Pakistan non può abbandonare il Kashmir, non tanto perché costituisce una parte del suo territorio, ma perché è una componente fondamentale della sua identità. Né l’India né il Pakistan hanno firmato il trattato contro la proliferazione delle armi nucleari (Nuclear Non-Proliferation Treaty, Npt): mentre l’India giustifica la sua opposizione con la natura discriminatoria dell’Npt, il Pakistan motiva la sua posizione con la difesa dell’Islam (da cui il concetto di “bomba islamica”) e come reazione alla natura egemonica del presente ordine mondiale. Sul piano geopolitico, le consolidate relazioni politiche e militari tra Pakistan e Cina, che da decenni inquietano New Delhi, sono state in parte compensate da legami più stretti che l’India ha di recente intrecciato con gli Stati Uniti, compresa una inattesa collaborazione nel campo dell’energia nucleare. La diplomazia statunitense ha negli ultimi anni conseguito un risultato di rilievo, in Asia meridionale, ottenendo di intrattenere contemporaneamente buoni rapporti sia con l’India sia con il Pakistan. L’India non potrebbe ovviamente essere soddisfatta di lasciare al Pakistan il monopolio di un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, tanto più in un momento nel quale si tenta di riannodare il dialogo sul Kashmir. …E CON LA “PROVINCIA RIBELLE” DI TAIWAN… Dal dicembre 2008 si è avuta una conferma molto concreta del fatto che i passi di avvicinamento tra Cina e Taiwan costituivano un processo difficilmente reversibile: sono iniziati i collegamenti aerei diretti tra la terraferma e l’isola, con sedici voli e un cargo non stop al giorno, senza dover più passare per Hong Kong o altri scali. È ripresa anche la navigazione mercantile: evidentemente entrambe le controparti si sono convinte che in tempi di crisi è meglio mettere da parte i contrasti tra investitori e produttori, ovvero tra fornitori e clienti, e collaborare per ridurre i costi e sfruttare insieme ogni opportunità. Grazia Neri_A. Digaetano/Polaris Molto interessante l’evoluzione delle relazioni tra Cina e Taiwan. Nelle elezioni presidenziali del 22 marzo scorso, la vittoria del partito Kuomintang, nella persona di Ma Ying-jeou e del suo vice Vincent Siew, ha messo fine ad un periodo teso nei rapporti tra le cosiddette “due sponde dello Stretto di Taiwan”. Durante tutti gli otto anni precedenti, nell’isola secessionista erano stati al potere gli indipendentisti del Partito democratico progressista. Nel discorso tenuto in occasione del suo insediamento, il presidente Ma Ying-jeou si è impegnato a non dichiarare l’indipendenza nel corso del suo mandato che dura quattro anni. Però ha aggiunto che Taiwan chiede di essere ammessa in alcuni organismi internazionali, cosa che non ha certo tranquillizzato i dirigenti della Cina Popolare, che hanno sempre interpretato queste intenzioni come un passo verso la separazione definitiva. Taiwan, ha detto il neopresidente, non vuole solo sicurezza e prosperità ma anche dignità. A coronamento di questa serie di mosse tattiche, il 28 maggio 2008 il presidente cinese Hu Jintao ha ricevuto il presidente del Kuomintang, Wu Poh-hsiung, nel corso di una cerimonia a Pechino. Wu era arrivato in Cina per una visita di sei giorni, che è stata subito interpretata come una riapertura dei colloqui tra Pechino e Taiwan dopo oltre dieci anni di interruzione. 105 DOSSIER Quote di Cina e India sulla produzione industriale mondiale, 1975-2003 25% 20% CINA INDIA 15% 10% 5% 0% 1975 1978 1981 1984 1987 1990 1993 1996 1999 2002 Fonte: elaborazione su dati contenutu in World Bank Indicators, vari anni …E UNA NUOVA DISPONIBILITA’ NEI CONFRONTI DEL GIAPPONE Olycom_ SIPA PRESS I rapporti istituzionali tra Cina e Giappone si possono ben definire “rarefatti”: l’ultima visita in Cina dell’imperatore Akihito e della imperatrice Michiko risale al 1992. D’altra parte, è pur vero che il presidente Hu Jintao ha visitato il Giappone agli inizi di maggio 2008, ma si trattava soltanto della seconda visita di un capo di Stato cinese dal 1972, anno della ripresa dei rapporti diplomatici tra Cina e Giappone, dopo quella di Jiang Zemin del 1998. Le relazioni tra le due grandi potenze asiatiche hanno avuto momenti di tensione in particolare durante il mandato del primo ministro giapponese Junichiro Koizumi (2001-2006) che aveva, con le sue prese di posizione e con le sue visite al tempio scintoista di Yasukuni, riaperto le ferite dell’occupazione nipponica in Cina negli anni Trenta e Quaranta. 106 Su un piano non istituzionale ma pragmatico, una possibile collaborazione si profila oggi dopo lo scoppio della crisi finanziaria internazionale: Cina e Giappone, con il coinvolgimento della Corea del Sud, hanno recentemente formulato un’ipotesi congiunta per la creazione di un comune argine alla crisi. Si tratta della Tripartite Partnership, varata il 13 dicembre 2008 in seguito al primo vertice tra Giappone, Cina e Corea del Sud tenuto a Fukuoka in Giappone. Il premier giapponese Taro Aso, il premier cinese Wen Jiabao e il presidente sudcoreano Lee Myng-bak si sono mostrati disposti a mettere da parte le tensioni passate per sostenere la ripresa della crescita dell’economia, e si sono ripromessi di fare il punto della situazione con cadenza annuale. I tre paesi asiatici intendono giocare “un ruolo di centro della crescita al fine di invertire il trend globale e far tornare l’economia mondiale sul sentiero della crescita sostenibile” (I tre grandi dell’Asia insieme contro la crisi, in «Il Sole 24ore», 14 dicembre 2008). È stato siglato un accordo di collaborazione finanziaria per scoraggiare attacchi speculativi alle principali monete del Sud-est asiatico e per ridurre le fughe di capitali. È stato anche messo a punto un piano di azione per promuovere la cooperazione trilaterale, che invita a portare a conclusione il Doha Round, ad approfondire gli studi su un possibile Free Trade Agreement a partire dal 2009, e a chiudere il tavolo negoziale con Pyongyang sul nucleare. I colloqui a sei (Usa, Russia, Corea del Nord, Corea del Sud, Cina e Giappone) avevano prodotto a febbraio del 2007 un accordo con il quale Pyongyang si impegnava a rendere noti i suoi programmi nucleari in cambio di assistenza e aiuti a titolo di compensazione, ma i negoziati multilaterali erano entrati in stallo dalla fine del 2007, dopo il mancato rispetto della scadenza che impegnava la Corea del Nord a compilare un inventario completo dei propri programmi nucleari. L’INDIA: UN ELEFANTE, NON UNA TIGRE L’economia indiana, definita da «The Economist» “un elefante, non una tigre”, ha avuto nell’ultimo decennio una crescita costante, anche se non così accentuata come la crescita cinese, mantenendosi su una media del 6% e raggiungendo per brevi periodi livelli del 9%. Il reddito pro-capite è aumentato, anche se rimane ancora basso in valore assoluto (meno di 1000 dollari l’anno). Più alti rispetto alla Cina sono stati sia il tasso di inflazione (6,1% nel 2007), sia il tasso ufficiale di disoccupazione (7,8%). L’economia indiana non è ancora fortemente orientata all’esportazione, anzi negli ultimi due anni ha riportato un deficit della bilancia dei pagamenti, stimato nel 2007 pari a 23 miliardi di dollari. Le riforme economiche sembravano soffrire dei primi segnali di crisi economica già nell’ultimo biennio. Sul fronte delle acciaierie, il gruppo Tata cominciava ad avere il fiato grosso, dopo l’ondata di acquisizioni internazionali degli anni ???. La filiale siderurgica Tata Steel ha chiesto aiuti governativi a Gran Bretagna e Olanda per affrontare la ristrutturazione delle acciaierie Corus. Colpita da un calo di produzione del 30%, licenzierà 1100 dipendenti sugli 11.000 che ha in Olanda. Ma la crisi finanziaria internazionale si accanisce ora sul fiore all’occhiello dell’economia indiana: i servizi informatici. Dopo lo scandalo dei bilanci truccati alla Satyam, un buco di un miliardo di dollari, causato da manipolazioni di utili e attivi di bilancio, il 13 gennaio 2009 è toccato alla Wipro essere messa al bando dalla World Bank per corruzione, avendo offerto a un alto funzionario della Banca degli stock option a prezzo di favore in cambio di vendita di contratti in outsourcing. All’inizio di gennaio 2009, New Delhi si cimenta ora annunciando il suo New Deal antirecessione. Il governo indiano intende raddoppiare gli investimenti pubblici in infrastrutture nell’arco di un quinquennio, con un investimento complessivo di 500 miliardi di dollari americani. Sulla base di esperienze passate, molti osservatori indiani esprimono scetticismo sulla capacità del governo di realizzare il piano di investimenti nei tempi stabiliti. Il vero problema indiano è da sempre un’eccessiva instabilità politica: le tendenze centripete e scissioniste approfittano delle tensioni tra le diverse religioni in perenne conflitto, mentre corruzione e corruttibilità dei politici alimentano la frammentazione partitica, che a sua volta incrementa l’instabilità politica. L’India appare governabile solo da coalizioni multipartitiche guidate dal Partito del Congresso (il partito “panindiano” fondato dal padre dell’indipendenza indiana, il presidente Nehru), e composte da un coacervo di partiti regionali e castali. Il Partito del Congresso ha governato il Paese per molte legislature e si considera Grazia Neri_/AFP INSTABILITA’ POLITICA, MASSIMO VINCOLO ALLA RIPRESE ECONOMICA 107 DOSSIER INCIDENZA DELLA POVERTÀ Linea di povertà % di popolazione che vive al di sotto di 2 dollari al giorno 100 80 60 40 20 1981 1984 1987 1990 1993 1996 1999 2002 2004 CINA INDIA Est Asia ex Cina Sud Asia ex Cina Africa Sub-Sahariana depositario dell’eredità politica e intellettuale di Nehru; punto di riferimento resta l’italiana Sonia Ghandi, vedova del figlio di Indira Gandhi, Rajiv. I partiti regionali, sempre più determinanti nel sistema di alleanze e di coalizioni a causa della frammentazione sociale, castale e religiosa del Paese, possono diventare facilmente strumenti di potere di clan locali o addirittura di mafie. Corbis_F.Hoffmann Il recupero politico del Partito del Congresso, tornato al potere nella scorsa legislatura dopo un periodo dominato dalla presenza sulla scena politica del Partito fondamentalista indù (Bjp), non deve illudere sulle sue possibilità di successo nelle ormai imminenti elezioni nazionali. I temi dell'inflazione, della crisi economica, del terrorismo renderanno assai complessa la campagna elettorale del Partito del Congresso e della Upa, la United Progressive Alliance guidata dal partito di Sonia. L’attuale Parlamento è stato a lungo contestato: almeno un terzo dei suoi componenti sono stati inquisiti per corruzione e già condannati, e un sesto di essi è attualmente indagato. La situazione non è nuova: nel 1995 un rapporto ufficiale dell’ex ministro dell'Interno parlava di un “sistema mafioso parallelo di governo che indebolisce gli apparati dello Stato”. Un politologo della Jnu di Delhi (Jawaharlal Nehru University), la più prestigiosa università in materia di scienze sociali dell'intero subcontinente indiano, ha recentemente affermato in un’intervista che il problema della corruzione (quella che alcuni commentatori indiani definiscono ormai la “criminalizzazione della politica”) è collegato all'affermazione e al ruolo crescente dei partiti regionali. All’interno dello schieramento politico, la destra nazionalista risulta 108 Corbis_Z. Ming/Xinhua Press divisa in due correnti: da un lato coloro che continuano a ritenere il tema sicurezza e lotta al terrorismo assolutamente prioritario nell'agenda elettorale; dall'altro lato, coloro che vorrebbero puntare a un’agenda “di sviluppo”, comprendente temi economici, sociali, infrastrutturali, di governance. Questa seconda impostazione prende come esempio i risultati elettorali ottenuti nel dicembre 2008 dal Partito del Congresso, che ha vinto negli Stati dove i governi locali si erano impegnati proprio su questo terreno. La scelta di una delle due strategie alternative ha una forte importanza per la destra nazionalista indù: privilegiare il tema del terrorismo significherebbe ovviamente rilanciare in chiave estremista il fondamentalismo indù. Insistere sul tema sicurezza e terrorismo riporta al delicatissimo rapporto fra India e Pakistan. Gli attacchi dei terroristi islamici estremisti rinfocolano le tensioni indo-pakistane e portano acqua al mulino della destra indù più estremista, aggravando ulteriormente la tensione e condizionando gli atteggiamenti del governo laico di Manmohan Singh, che ovviamente non può apparire debole con il Pakistan. Ciò crea nuove tensioni e favorisce nuovi attentati in un cortocircuito potenzialmente molto pericoloso fra due potenze nucleari. Dopo i recenti attentati a Mumbay, il capo della diplomazia indiana ha annunciato di aver fatto pervenire a Islamabad le prove della “pista pakistana”. Il governo pakistano ha subito fatto sapere che “esaminerà le prove” indiane, ma lo ha fatto sapere tramite un canale significativo, cioè tramite il vicesegretario di Stato americano per la regione, Richard Boucher, in missione nella capitale pakistana. 109 Corbis_R.Pyle Notizie interessanti arrivano dal fronte più conteso del confine indopakistano: il Kashmir, dove lo scorso dicembre si sono tenute le elezioni per il rinnovo della locale Assemblea legislativa. Omar Abdullah, leader del partito regionale National Conference alleato del Partito del Congresso, è stato infatti designato primo ministro e ora si prepara a costituire il suo gabinetto, dichiarando l’intenzione di “aprire colloqui con i leader separatisti”. Su un altro fronte, la diplomazia indiana ha chiesto alla diplomazia cinese di fare pressioni su Islamabad affinché il Pakistan cooperi nella lotta al terrorismo internazionale. L'incontro sinoindiano è durato, secondo la stampa indiana, due ore: il viceministro cinese degli Esteri ha suggerito a Delhi e Islamabad di parlarsi per “risolvere il problema”. Il miglior meccanismo disponibile per neutralizzare l’esplosiva situazione nel Kashmir è il perseguimento di forme di integrazione regionale. Un approccio di questo tipo facilita gli scambi e permette la redistribuzione dei costi e dei vantaggi della cooperazione economica. Esso inoltre offre un’utile cornice di riferimento nell'ambito della quale concedere reale autonomia e democrazia agli abitanti delle due parti – Valle del Kashmir e Azad Kashmir – ora separate dalla linea del cessate il fuoco imposta dall’Onu. Su questo tema l’India ha maggiori margini di manovra e potrebbe essere interessata ad accettare un compromesso riguardante il Kashmir per due importanti ragioni: in primo luogo, il Kashmir assorbe risorse militari ed economiche che sarebbero meglio utilizzate altrove; in secondo luogo una pacificazione del Kashmir e migliori relazioni con il Pakistan rafforzerebbero il potere negoziale dell'India e permetterebbero una maggiore espansione dell’influenza indiana in Asia centrale. 110 A Pechino manca un po’ di strategia L’inizio del 2009 in Occidente è stato contrassegnato dal richiamo a due virtù che nel recente passato sembravano essere tanto fuori moda da apparire anti-patriottiche: l’umiltà e la lungimiranza. La crisi finanziaria, ormai maturata in aperta recessione dell’economia reale, obbliga a fare i conti con una verità tanto più difficile da accettare quanto più la precedente epoca di continua espansione appariva inarrestabile. I Paesi occidentali si trovano oggi privi della componente più immediatamente persuasiva (benché certamente non l’unica, e a ben guardare neanche la più importante) del proprio “modello” di vita: la prospettiva che la mano invisibile del mercato consentisse ipso facto la crescita del Pil e del tenore di vita della popolazione. Ne consegue che insieme con l’inevitabile ridefinizione dell’orizzonte di sviluppo dell’Occidente viene meno anche la legittimità di quel “pensiero unico” di matrice reaganiana, incarnatosi progressivamente nei vari Washington consensus e post-Washington consensus. Verrebbe da commentare come anche l’ultimo bastione che contrastava il multiculturalismo imperante nel nome di una superiore omogeneità globale delle regole del libero mercato sia crollato rovinosamente. Improvvisamente, Paesi come l’Italia, fino a ieri indicati come esempi di capitalismo arretrato, se non deviante, appaiono posizionati meglio di altri grazie a una struttura produttiva ancora fortemente innervata da partecipazioni pubbliche e a istituti finanziari ben radicati sul territorio. Finché l’esempio è l’Italia, peraltro, simili argomentazioni hanno più che altro il sapore di una pur amara rivincita “interna” ai ranghi di un Occidente che continua a riconoscersi in un ampio catalogo di valori condivisi. Ma cosa accade quando a osservare il declino della credibilità economica dei campioni del “modello occidentale”, Stati Uniti in testa, è un Paese come la Cina, efficace artefice di una formula alternativa di capitalismo di Stato? Gli esiti immediati sono subito almeno due: l’aumento della stima per la leadership cinese – da sempre fautrice del controllo statale sull’economia nazionale, ricetta che oggi viene invocata da Washington a Berlino, passando per Londra e Parigi – e il corrispettivo arretramento dell’Occidente dal moral high ground che tradizionalmente occupava e che è peraltro già stato ampiamente compromesso dalle politiche dell’amministrazione di George W. Bush. Viene quindi da domandarsi se il gioco dei modelli di sviluppo e di quelle che potremmo chiamare le odierne “ideologie deboli”, in consonanza con lo zeitgeist contemporaneo, non sia a somma zero. Di fronte al declino della visione del mondo (e del ruolo dell’uomo nel mondo) proposta dall’Occidente, assumono una rinnovata Corbis_A.Hofford/epa di Giovanni Andornino E’ la considerazione avanzata da alcuni osservatori autorevoli. Che notano come, al di là dei dati sulla tenuta o meno dell’economia, dopo le Olimpiadi il gruppo dirigente cinese si sia trovato unito soltanto nell’allentare i cordoni della borsa fiscale. Al contrario, su una serie di terreni strategici… 111 DOSSIER PER TENERSI AGGIORNATI TheChinaCompanion (Tcc) è a livello internazionale il più completo portale di ricerca dedicato a politica, relazioni internazionali ed economia politica della Cina contemporanea. Creato per rispondere all’esigenza di accesso rapido ed efficiente a informazioni rilevanti e affidabili, Tcc è il frutto di un progetto del Centro di Ricerca “L. Einaudi” di Torino con il sostegno della Fondazione Crt e della Camera di Commercio di Torino. Il cuore di Tcc è costituito da un sofisticato database integrato, che permette agli utenti di: - ricercare e consultare migliaia di notizie relative alla Cina diffuse dai più importanti media internazionali in inglese, francese e spagnolo. La sezione viene aggiornata ogni ora, ventiquattro ore al giorno; - ricercare e consultare rapporti, studi e analisi prodotti dai più influenti think-tanks al mondo, senza dover scandagliare decine di diversi siti web; - individuare e cercare i riferimenti e gli abstract degli articoli accademici pubblicati sulle più importanti riviste scientifiche al mondo in inglese, francese, tedesco, spagnolo e italiano dal 1999 a oggi; - archiviare i documenti di interesse in un portafoglio virtuale personale: gli utenti possono salvare e caratterizzare ogni documento utilizzando parole di loro scelta per una successiva più facile navigazione tra gli oggetti salvati. Oltre all’infrastruttura di ricerca, Tcc offre una serie di servizi aggiuntivi, pensati 112 plausibilità le proposte altrui, a partire da quelle del Paese che da anni cresce a ritmi superiori al 10% annuo, costituendo in sé il più efficace programma contro la povertà che l’umanità abbia mai conosciuto. Nel suo piccolo, il fatto che la Mongolia abbia recentemente rivolto a Pechino – e non ad altri – la richiesta di un prestito di tre miliardi di dollari per infondere liquidità nelle proprie banche e realizzare infrastrutture che favoriscano il commercio transfrontaliero, attesta un significativo riassetto dell’orientamento strategico di un Paese già “vassallo” dell’Unione Sovietica. Né dovrebbero passare sotto silenzio notizie come il fatto che il sindaco di Shanghai Han Zheng abbia affermato che la città offrirà a professionisti di alto livello la possibilità di trasformare il proprio status di residente temporaneo in permanente, con l’obiettivo di fare della città un “centro di talenti globale”. Nel momento in cui le procedure di mero ingresso negli Stati Uniti e in Paesi come l’Italia restano incredibilmente restrittive, la Cina si candida a battere la strada opposta. Secondo il proprio calendario, il 26 gennaio 2009 la Cina festeggia l’inizio dell’anno del Bue, un segno zodiacale che simboleggia la prosperità ottenuta attraverso la perseveranza e il duro lavoro, oltre a indicare stabilità di carattere e tolleranza. La coincidenza è singolarmente appropriata per chi voglia cogliere le due dimensioni insite nell’idea cinese di crisi, weiji. Come ricorda Remo Bodei nell’ultimo domenicale de «il Sole 24 Ore» del 2008, wei indica il pericolo, mentre ji sta per “punto/momento cruciale”. Ebbene, per Pechino il biennio 2009-2010 sarà quello del pericolo, in termini strettamente economici, con la necessità di preservare i fondamentali dell’economia dall’effetto domino dovuto al disastro della finanza speculativa. Ma sarà anche un frangente politico cruciale per la leadership del Paese, chiamata a interpretare il proprio slogan a favore di una “società armoniosa” nel quadro di uno scenario in rapida – e critica – evoluzione. Il Piano quinquennale varato nel 2006 era stato concepito per facilitare un soft landing dell’economia nazionale, anche in vista di una crescita del Pil di oltre il 12% nel 2007. Nell’arco di appena due anni la situazione si è capovolta, con Banca centrale e governo impegnati a difendere “quota 8%” per il 2009. Wen Jiabao, il dinamico premier cinese, ha pubblicamente ammesso la necessità di procedere a nuovi e più ampi interventi statali nell’economia, indicando come il modello di crescita fondato sull’export perseguito negli ultimi trent’anni sia ormai desueto. D’altronde, i dati sulle importazioni statunitensi rilasciati dal Dipartimento del Commercio Usa per il mese di novembre segnano il calo più repentino dal 1942, passando dai 208 miliardi di dollari di controvalore per il mese di ottobre ai 183 miliardi di novembre. Per quanto riguarda la sola Cina, il calo delle importazioni negli Stati Uniti è stato di 5,5 miliardi di dollari, da 33,8 a 28,3 miliardi. E questo mentre l’Unione Europea, il primo partner commerciale di Pechino, valuta con crescente attenzione l’opinione di quanti auspicano l’imposizione di restrizioni sull’import dal colosso asiatico. Non mancano le voci, anche autorevoli, che pongono l’enfasi sulle enormi risorse che la Cina può mobilizzare per far fronte alla crisi. Mentre gli Stati Uniti sono costretti a tentare il rilancio economico gonfiando un debito che rischia di toccare la cifra astronomica di 2500 miliardi di dollari (qualora il pacchetto di stimolo del neopresidente Obama venisse approvato dal Congresso), la Repubblica Grazia Neri_H. Bredehorst _Il Premier cinese Wen Jabao si trova ad affrontare un biennio critico per l'economia Popolare ha dentro di sé la forza per uscire dal tunnel. Sarebbe sufficiente mobilizzare il mercato interno, stimolando la domanda domestica e incentivando la riduzione degli elevati tassi di risparmio propri di famiglie e imprese. In una parola, occorrerebbe passare a un modello di sviluppo più equilibrato di quello attuale, con rilevantissime ricadute sociali e politiche. Come è stato più volte notato, l’istituzione di una forma pur blanda di welfare rappresenterebbe un passaggio cruciale in questa direzione. Secondo altri economisti, invece, vale l’opposto, per cui Stati Uniti ed Europa possono riorganizzare il proprio sistema economico in tempi relativamente brevi, stimolando il risparmio e riducendo quindi il debito. La Cina invece non sarebbe in grado di sostituire il repentino calo dell’export facendo leva sul mercato interno, per stimolare il quale occorrerebbero interventi massicci almeno sui fronti delle pensioni e dell’assistenza sanitaria, operazioni che richiedono anni di aggiustamenti. Il problema, poi, è che una simile scelta implicherebbe per la dirigenza cinese una transizione pressoché “cieca”. Dal momento che i trent’anni di politica della “porta aperta” sono stati incentrati intorno a un paradigma di export-led growth, e che prima di allora vigeva il socialismo reale di stampo maoista, non si può dire che il Partito comunista cinese abbia molti esempi cui riferirsi nella storia recente. Né devono apparire rassicuranti le esperienze di paesi “affini” come Taiwan e Corea del Sud, dove l’incremento della qualità media della vita oltre certi livelli ha condotto all’erosione o all’abbattimento dei regimi a partito unico. D’altra parte, un’eccessiva riduzione della crescita economica avrebbe effetti altrettanto deleteri per il sostegno interno alla leadership del presidente Hu Jintao e del Politburo che egli presiede. per rendere più efficiente il lavoro di chi interagisce con la Cina: - TheChinaCalendar: un calendario dinamico, ideale per mantenersi aggiornati su conferenze, seminari ed eventi relativi alla Cina organizzati nelle principali città del mondo; - TheChinaCommunity: un forum per docenti, studenti e appassionati che desiderano interagire in un ambiente dedicato; - TheChinaConnoisseur: un “localizzatore di esperti” per trovare al volo persone e istituzioni che si occupano di Cina nel mondo (in corso di implementazione). 113 DOSSIER Grazia Neri_L.manqing/Imaginechina Non a caso i massimi dirigenti, sui quali Hu esercita un’influenza molto meno pervasiva del predecessore Jiang Zemin (per non parlare di Deng Xiaoping), si sono trovati concordi nell’approvare il piano di stimolo senza precedenti (580 miliardi di dollari) varato nei mesi scorsi. L’orizzonte perseguito dal governo è stato additato con chiarezza da Wen: tornare a una crescita sostenuta già nella seconda metà del 2009, portando la Cina fuori dalla crisi prima di ogni altro Paese del mondo. È probabilmente in relazione a questo auspicio che il «Guardian» di Londra ha indicato Cina (e India) come i potenziali “vincitori” all’indomani della crisi. In realtà, le prospettive sono assai meno definite. Ad esempio, non è chiaro come il piano di rilancio cinese sarà finanziato. Sembra che la formula sia 1:1:2, ossia un quarto a carico del governo centrale, un quarto a spese delle amministrazioni provinciali e metà da segnare sui libri contabili di altri attori, verosimilmente le banche. Secondo diversi economisti, però, molti governi provinciali non si trovano in disponibilità di liquidità sufficienti. Ancor più delicata la situazione delle banche cinesi: dopo una fase acuta di corsa all’acquisto, gli investitori occidentali stanno cedendo importanti partecipazioni nel settore bancario della Repubblica Popolare. C’è chi considera queste mosse come un semplice tentativo di rastrellare liquidità, ma viene il sospetto che siano accelerate dal timore che le banche cinesi siano costrette a contrarre grandi quantità di bad loans for good friends nell’ambito del piano di stimolo varato da Pechino. Quel che appare certo è che la ritirata dell’Occidente dal settore bancario cinese rischia di privare quest’ultimo di importanti risorse umane e annesso know-how per il proprio sviluppo interno. Al di là delle considerazioni strettamente economiche, resta il severo giudizio di osservatori come Yongnian Zheng, direttore dell’East Asian Institute di Singapore, che denuncia la carenza di visione strategica da parte della dirigenza cinese. Abbandonate le pur contraddittorie aperture che avevano caratterizzato il periodo olimpico, il Partito sembra aver trovato vera compattezza soltanto intorno alla ben nota equazione che vuole l’allentamento dei cordoni fiscali a sostegno dell’economia e il restringimento dei margini di manifestazione del dissenso politico. Non è un caso che Jia Qinglin, il quarto esponente politico in ordine di importanza nella Rpc, abbia recentemente scritto un saggio sulla principale rivista del Partito in cui chiede a tutti i funzionari dello stato di sostenere il Pcc senza sbandamenti. Al contempo molti attivisti vengono incarcerati in modo più o meno silenzioso (ad esempio diversi firmatari della Charta 08), mentre un gran numero di blog, tra cui Bullog.cn, forse il più influente blog liberale in Cina, sono stati oscurati senza spiegazione. La scelta è chiaramente quella della deterrenza, tanto a livello interno, quanto sulla scena internazionale. La cancellazione del summit Ue-Cina a seguito dell’incontro del presidente francese Sarkozy con il Dalai Lama è un chiaro indicatore in questo senso. Anche la proclamazione di una “Giornata della liberazione dalla schiavitù”, da celebrarsi in Tibet il 28 marzo in memoria della dissoluzione del governo di Lhasa nel 1959, va in questa direzione ed è stata interpretata dal governo tibetano in esilio come un segno del timore di manifestazioni violente in occasione della ricorrenza. Il Dalai Lama ha per la prima volta ammesso di aver 114 Corbis_M.Reynolds/epa perso la speranza di una composizione pacifica della controversia con Pechino. Si tratta di uno sviluppo preoccupante in quanto potrebbe lasciare campo libero alle frange più estreme di un movimento per la liberazione del Tibet finora mantenuto entro i confini di rivendicazioni di autonomia tutto sommato ragionevoli. Vi è poi tutto il catalogo di problematiche strutturali collegate alla crescita cinese e ora destinate a essere nuovamente spostate in posizione secondaria, a partire dal tema dell’inquinamento. Anche intorno a questo snodo si giocherà una partita cruciale, a cominciare proprio dall’altipiano tibetano. China Dialogue, un’organizzazione londinese impegnata su temi ambientali, ha posto l’accento sul rapido contrarsi delle superfici occupate dai ghiacciai himalayani. Le ricadute anche in termini di sicurezza internazionale sono destinate a essere pesanti, considerando che è da questi ghiacciai che traggono sostentamento tutti i principali sistemi fluviali dell’Asia, da cui a sua volta dipende circa il 40% della popolazione mondiale, localizzata in India settentrionale, Bhutan, Nepal, Pakistan, Bangladesh, Cina, Cambogia, Thailandia e Vietnam. Il problema è di rilevanza globale, ma le responsabilità vanno assunte a livello nazionale e quella di essere esentato dall’azione in quanto Paese tuttora “in via di sviluppo” comincia ad apparire come una scusante piuttosto logora da parte di Pechino. I nati sotto il segno del Bue credono nel successo attraverso la perseveranza e la costanza nel lavoro. Non cullano sogni di arricchimento repentino. È forse il miglior augurio che si possa formulare alla Cina all’inizio del suo nuovo anno: che sappia rinnovarsi evitando scelte di breve periodo dettate da mediocri istinti di sopravvivenza, a favore di una visione di effettivo progresso, magari più graduale ma senz’altro umanamente e materialmente più sostenibile. 115 Corbis_A. Martane L’anno del Bue parte con molta incertezza di Alessandro Arduino e M. Cristina Bombelli Per molti lavoratori cinesi, soprattutto nelle campagne, l’anno del Bue, iniziato il 26 di gennaio, presenta numerose e inquietanti incognite. Ritorna lo spettro di una fame da poco sconfitta e di una indigenza che si riteneva superata. Se gli investimenti promessi si trasformeranno rapidamente in posti di lavoro, i loro problemi potranno avere una risposta. Ma gli sviluppi infrastrutturali… Il clima d’incertezza è ormai una costante: esperti, professionisti, ma soprattutto la gente comune si chiedono quale sarà lo svolgimento della crisi, la profondità della recessione e le ricadute reali sul tenore di vita, l’occupazione e in ultima analisi la qualità del futuro. Le domande che s’intrecciano e le relative preoccupazioni sono però diverse a seconda dei punti d’osservazione del globo e se gli operai di Detroit aspettano il risultato del sostegno governativo, nella Cina del grande sviluppo non è facile formarsi un’idea precisa di quanto stia accadendo e, conseguentemente, di quali possano essere gli impatti sulla realtà quotidiana. Gli stessi dipendenti della General Motors di Shanghai sono fieri da qualche mese or sono del loro status cinese tanto da fregiarsene per differenziarsi dalla casa madre, come se la sola dicitura Shanghai dopo il logo Gm li schermasse dalla crisi del settore automobilistico e dell’economia in 116 CONTRORDINE COMPAGNI: LA CRISI C’E di Claudia Astarita Grazia Neri_L.junfeng/Imaginechina Per mesi la crisi internazionale è stata ignorata dalla stampa cinese. Ma da settembre tutto è cambiato. Il governo di Pechino non poteva continuare a sostenere che tutto va bene quando i primi effetti della crisi cominciavano ad essere percepiti dalla popolazione. Così, per non perdere autorevolezza e credibilità, dal Partito è arrivato l’input a…. generale. La differenza di base è proprio nella fiducia riposta nel governo centrale e nella locomotiva del socialismo di mercato che da trent’anni traina lo sviluppo della Repubblica Popolare di Cina. Fiducia ora messa a seria prova nelle campagne e nelle aree costiere ove la crisi del tessile è già arrivata allo stadio terminale. Anche da Occidente, le idee che circolano su quale sarà il ruolo delle economie asiatiche sul futuro globale, sono disparate: si va dall’attesa messianica che esse salveranno il sistema con le loro riserve di liquidità e di consumi ancora in ascesa, fino al catastrofismo di un crollo legato a un indebitamento estero, soprattutto americano, difficilmente solvibile. In questa situazione magmatica si possono rintracciare alcuni spunti legati ai dati economici e agli stimoli governativi già in essere o in progetto, legandoli alla percezione di alcuni osservatori privilegiati, ma anche della gente comune. Se, come si sostiene, l’economia reale è anche il risultato della somma degli atteggiamenti psicologici individuali diffusi, può essere utile avere traccia di come in Cina le persone, di differenti età ed estrazione, vedono il loro futuro. Vi sono due aspetti preliminari da considerare quando si pensa alla Repubblica Popolare di Cina: la prima è la capacità di sviluppare progetti a lungo termine, molto più dilatati di quanto l’Occidente possa immaginare. È importante considerare questo elemento in un momento storico in cui gli Usa pagano un prezzo enorme per la sopravvalutazione generale dei tempi brevi se non addirittura brevissimi, un atteggiamento che ha portato migliaia di operatori, spesso non in buona fede, a non alzare lo sguardo oltre l’orizzonte Da settembre a oggi, i toni con cui la stampa cinese ha descritto la crisi economica internazionale sono progressivamente mutati. Citando solo alcuni titoli, gli incoraggianti “Wen [Jiabao] è certo di poter superare le difficoltà, L’economia cinese è in forma nonostante il caos finanziario globale” di settembre si sono trasformati nei più cauti “La crisi economica fa soffrire le regioni centrali e occidentali del Paese”, pur ribadendo che La Cina è in grado di uscire dalla morsa della crisi di novembre e dicembre, sfociando poi negli allarmistici ma mai catastrofici “Wen [Jiabao] esorta l’approvazione di misure che possano porre fine al rallentamento dell’economia”, “La Cina può farcela nonostante Il 2009 sarà l’anno più duro del decennio” di gennaio. Cosa è cambiato? Per quale ragione la stampa, che in Cina è la voce del partito, ha cambiato prospettiva? È possibile immaginare che fino a qualche mese fa la classe dirigente non si fosse ancora resa conto che la crisi finanziaria internazionale avrebbe avuto forti ripercussioni anche in Oriente? Secondo il premier Wen Jiabao, la Cina non avrebbe avuto problemi con la crisi visto che “un partito e un governo forte [sarebbero stati] in grado di prendere le scelte migliori per la Nazione”. La Repubblica Popolare, infatti, non solo sarebbe riuscita a mantenere una crescita annuale del Pil superiore al 9%, ma si sarebbe anche assunta l’onere (e l’onore) di diventare il nuovo leader dell’economia mondiale. È evidente che dichiarazioni tanto altisonanti erano orientate a intensificare il legame di fiducia incondizionata tra classe dirigente e popolazione e allo stesso tempo a rafforzare l’orgoglio nazionale cinese. E va riconosciuto che in un primo momento la popolazione ha effettivamente creduto o quanto meno sperato che il Partito fosse in grado di gestire la crisi rendendo la Repubblica Popolare il più impermeabile possibile alle sue ripercussioni. D’altronde, agli occhi dei cinesi nel 2008 Pechino era già riuscita a gestire in maniera impeccabile una lunga serie di situazioni delicate: la crisi tibetana di marzo, il tragico terremoto 117 Grazia Neri_A. Digaetano/Polaris che ha colpito il Sichuan in maggio e le Olimpiadi di agosto. Tuttavia, mentre la popolazione leggeva con una malcelata soddisfazione che la crisi finanziaria stava creando non pochi problemi alle economie americane ed europee e che la Repubblica Popolare non ne sarebbe stata quasi neppure sfiorata, gli intellettuali orientali sono stati i primi a mettere in dubbio la proiezione troppo ottimista del governo. Ritrovandosi, come ogni dicembre, a scegliere il carattere che meglio riassume i dodici mesi dell’anno appena concluso, nel 2008 hanno optato per luan (caos). I letterati cinesi si sono trovati d’accordo su questo ideogramma perché ritengono che le questioni di Tibet, Sichuan e Olimpiadi avrebbero potuto essere gestite meglio, visto che nell’anno in cui la Cina avrebbe dovuto dimostrare al mondo intero di essere una grande potenza pacifica, tollerante e matura, il Partito non ha fatto altro che stringere ulteriormente la morsa repressiva sulla popolazione, lasciandola nel caos più completo. Del resto, la fiducia nel sistema e nel Partito sottolineata in così tante occasioni da Wen Jiabao è stata messa a dura prova anche negli ultimi mesi del 2008. Dallo scandalo del latte alla melamina, dalle polemiche legate a una nuova ondata di repressione che sta colpendo la stampa, internet, e gli attivisti politici in generale, ma soprattutto dalla crisi economica, temuta dal Partito per le sue ripercussioni sociali. Persino il «China Daily», la voce del partito, riportando la notizia delle difficoltà eonomiche che si trovano a dover affrontare le regioni centrali e occidentali del 118 del profitto in pochi giorni, con la conseguenza di non riuscire a prevedere l’effetto sistemico dei singoli comportamenti irrazionalmente “ego riferiti”. Il secondo aspetto, ancorato ad una situazione politica contingente, ma molto presente nella cultura collettiva, è la dimensione dirigista, ovvero la possibilità di prendere decisioni anche di natura molto ampia, in tempi brevi e di far seguire a una moltitudine di persone, i comportamenti conseguenti. Un’idea estranea ai contesti democratici nei momenti di sviluppo economico, ma che in questo frangente di crisi sta tornando in auge con particolare riferimento alla tendenza keynesiana nella nuova politica economica americana rispetto al puro liberismo dei ragazzi di Chicago, dominante durante la presidenza di Alan Greenspan alla Fed. Da un punto di vista macroeconomico i segnali di crisi sono evidenti: l’onda lunga della caduta dei mercati azionari non ha risparmiato la Cina; le borse di Shanghai e Shenzhen hanno subito un drastico ridimensionamento passando dalla vetta dei 6000 punti dell’indice di Shanghai nel terzo trimestre 2007 ai 1800 del quarto trimestre 2008. Per la seconda volta dopo lo scoppio della bolla speculativa del 1999, il mercato immobiliare si rivela in lento ma costante calo. Inoltre rimane l’incognita della situazione dei crediti non riscossi (bad loans) delle banche cinesi non solo verso i singoli, ma anche nei confronti delle società costruttrici, fortemente esposte ad un riassestamento del mercato. Un tema, quello dei crediti inesigibili, sempre presente ma di cui nessuno degli attori in gioco ha mai quantificato la reale entità poiché permette la sopravvivenza delle Soes , società statali, che occupano ancora una parte non indifferente dei lavoratori cinesi. La risposta centrale alla crisi non si è fatta attendere e dopo un triennio di tendenza a calmierare l’afflusso di liquidità per contenere uno sviluppo eccessivamente tumultuoso e non governabile attraverso l’innalzamento del costo del denaro, la Banca centrale cinese ha tagliato i tassi d’interesse riportando l’indice al 5,31% su base annua, decisamente più basso del precedente 7,47%, ma molto distante dallo 0% giapponese e dal vicino 0,5% attualmente deciso dalla Fed. La contrazione dei consumi a livello mondiale ha evidentemente l’aspetto di un siluro lanciato nella fabbrica del mondo: molte aziende cinesi sono costrette a ridimensionare i propri piani, iniziano – anche in questo caso per la prima volta dagli anni Ottanta – i licenziamenti collettivi. Precursore di questa tendenza, il settore tessile, che già dalla fine del 2007 ha visto un effetto domino nella chiusura di fabbriche nella provincia del Guangdong e in quella dello Jiangsu. Il settore dell’acciaio segue di pari passo con la chiusura di molti dei piccoli stabilimenti nati durante lo scorso decennio del boom edilizio cui si assomma la tendenza governativa alla fusione dei maggiori produttori per razionalizzare il settore, il tutto con un impatto negativo sull’occupazione. Per il 2009 le maggiori nubi all’orizzonte si concentrano sul settore aereo e delle commodities, mentre solo nell’Ict con l’apertura delle licenze 3G e il boom dei nuovi media (online advertising, Iptv, etc.) vi è ancora uno sprazzo di sole. Una situazione nuova che preoccupa le persone e gli imprenditori ma in cui si possono vedere due sbocchi, considerando la situazione su tempi medio-lunghi. La prima risposta possibile è il sostegno al mercato interno e allo sviluppo dei consumi dei molti che ancora vivono sotto la soglia di povertà. La Cina, in questi ultimi tre decenni, si è resa protagonista di un fenomeno unico nella storia: l’uscita dall’indigenza di una quantità di persone non immaginabile da ogni previsione. È questo un tema che spesso gli occidentali, nei loro sguardi tendenzialmente radicati più nelle loro preoccupazioni che affrancati in una visione obiettiva, tendono a sottovalutare. Un elemento di indubitabile successo di una classe dirigente e di una politica, benché distante dai principi di liberismo economico che l’occidente propugna come universali. Contemporaneamente non va sottovalutata la tendenza cinese a giocare secondo le proprie regole non soltanto in ambiente domestico, ma anche nel mercato comune dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. A partire dal suo ingresso nel 2001 nell’Omc, la Cina ha sviluppato un sistema da molti definito di barriere non tariffarie, atte a discriminare le aziende straniere che tentano di inserirsi nel mercato e nel contempo favorire le esportazioni mediante la detassazione di quote per l’export e sussidi ad hoc, come nel caso delle società tessili del Guangdong. Si definisce barriera non tariffaria una trafila burocratica complessa che richiede di produrre innumerevoli certificazioni, da quelle tecniche a quelle fitosanitarie, attraverso un iter volutamente cavilloso e ridondante. Nel contempo molte delle aziende statali continuano a ricevere in maniera diretta e indiretta sussidi e linee di credito preferenziali in netto contrasto con quanto previsto dagli Paese, riconosce quanto meno come insolito il fatto che Pechino abbia iniziato a parlare della crisi con toni allarmistici. L’obiettivo del governo resta quello di evitare che la popolazione metta in dubbio la propria autorità. Di conseguenza, “prendendo spunto dagli errori compiuti nella gestione delle crisi precedenti”, il Partito ha scelto di dimostrare il proprio impegno a risolvere quella economica parlandone apertamente. In realtà, sembra più realistico immaginare che la classe dirigente sia talmente preoccupata per le ripercussioni che la turbolenza finanziaria internazionale sta creando nel Paese da scegliere di parlarne quotidianamente tramite la stampa per evitare che i cittadini possano sentirsi abbandonati in un momento di profonda incertezza. Per quanto Pechino stia facendo del suo meglio per dare speranza e stabilità al Paese, l’approvazione frenetica, talvolta irrazionale, di manovre ad ampio raggio nasconde i tentennamenti e le indecisioni del Partito stesso. Quasi ogni giorno i quotidiani cinesi ricordano che è stato approvato un finanziamento di 400 miliardi di euro per stimolare l’economia nazionale, dall’agricoltura ai servizi, dalle industrie alle infrastrutture. Il calo delle esportazioni e degli investimenti diretti esteri ha portato alla chiusura di 670mila fabbriche e alla cancellazione di 6,7 milioni di posti di lavoro, ma secondo il governo si tratterebbe di una ristrutturazione necessaria a trasformare la costa dal paradiso delle produzioni economiche e a basso valore aggiunto a quello delle lavorazioni sofisticate e tecnologicamente avanzate. Dal momento che la maggior parte delle materie prime per le produzioni più semplici vengono dalle regioni interne, sarebbe opportuno che gli stabilimenti che hanno chiuso sulla costa si trasferissero in queste aree. In questo modo, il crollo del prezzo delle materie prime verrebbe bilanciato dalla riduzione dei costi di trasporto permettendo alle nuove aziende di rimanere competitive. Contemporaneamente, gli operai non specializzati che hanno perso il lavoro e che non riusciranno ad essere riassorbiti nel settore agricolo potranno essere facilmente assunti in questi nuovi stabilimenti, e magari anche riavvicinarsi a casa, visto che la manodopera cinese proviene soprattutto dalle regioni meno sviluppate dell’interno. I dirigenti di Pechino hanno trovato una soluzione anche per i sei milioni di laureati che nel 2009 entreranno nel mercato del lavoro. A molti di loro è stato chiesto di tornare nelle campagne, per mettersi al servizio dello sviluppo del Paese come insegnanti o come consulenti delle unità locali del Partito. Infine, convinto che la ricetta migliore per uscire rapidamente dalla crisi sia quella di stimolare la domanda interna, il governo ha approvato una serie di sussidi per stimolare l’acquisto degli elettrodomestici nella Cina rurale, in grado di 119 DOSSIER migliorare, contemporaneamente, la qualità della vita della stessa (elettricità permettendo). Sfogliando la stampa cinese è quindi facile farsi convincere che la classe dirigente sia in grado di offrire una soluzione per tutto e tutti. Il bombardamento di informazioni ottimiste e incoraggianti orchestrato da Pechino è certamente ideale per instillare fiducia, ma quello che ci si chiede oggi, di fronte a previsioni di disoccupazione in rapidissimo aumento e di crescita economica in continuo ribasso, è se sia sufficiente a frenare la delusione, la rabbia e l’eventuale disperazione di milioni di cinesi per i quali la perdita del lavoro cancella definitivamente la speranza in un futuro migliore. Ecco perché è interessante, al di là della stampa, cercare di capire come stiano effettivamente reagendo i cinesi. Per farlo, è opportuno distinguerli in due categorie: colletti bianchi e colletti blu. Al di là di ogni aspettativa, i primi sembrano non essere stati neppure sfiorati dalla recessione. Si tratta di cittadini urbani regolari (ovvero non emigrati dalle campagne dell’interno), in genere molto giovani e con un livello di istruzione medio alto. Quasi tutti impiegati nel terziario con stipendi decisamente al di sopra della media nazionale, non hanno nessuna intenzione di risparmiare per far fronte alla crisi poiché convinti che la loro posizione lavorativa non sia in alcun modo minacciata. «In caso di difficoltà – aggiungono un paio di intervistati – potremo sempre fare ricorso alle carte di credito, per dilazionare i pagamenti nel tempo». Nei distretti industriali, invece, settimana dopo settimana i colletti blu stanno raccogliendo i loro averi per poi ritornare in campagna. Sono almeno dieci milioni (e purtroppo il numero è destinato ad aumentare) gli operai-emigranti cinesi che, a causa della turbolenza finanziaria, hanno perso la capacità di provvedere al sostentamento economico del proprio nucleo familiare. Progressivamente, la delusione lascia spazio alla frustrazione e a nuove incertezze per il futuro. Prima della crisi, gli stabilimenti lavoravano a ciclo continuo, ma con il crollo delle esportazioni sono stati cancellati gli straordinari di tutti gli operai. Successivamente, i titolari delle fabbriche sono stati costretti a ridurre i salari, anche del 50%, e a tagliare i posti di lavoro. In alcuni casi le municipalità locali sono intervenute direttamente per pagare gli insoluti delle aziende, ma quando non si sono più potute permettere di farlo hanno suggerito ai datori di lavoro di concedere ai dipendenti ferie non pagate. Decisione che ha alimentato nella forza lavoro la convinzione che il Partito e le aziende vogliano ridurli alla fame. Quando descrive il controesodo dalla città alla campagna, la stampa occidentale mette in risalto le storie più tragiche, come quella di Song Guiying, diciannovenne che, dopo essere stata licenziata, passa 120 accordi di accesso all’Omc e alla possibilità di Pechino di essere riconosciuta come economia di mercato in tempi brevi dalla Comunità Europea. Una seconda risposta alla crisi viene dal consolidamento delle imprese ritenute strategiche e dalla gestione dei flussi migratori. Dopo il consolidamento nel settore dell’acciaio che ha visto nel 2008 un calo vertiginoso del valore delle azioni e delle materie prime, seguirà l’accorpamento delle linee aeree. Nel primo caso si è trattato di uno scambio azionario all’interno dei tre maggiori produttori, Tangshan Iron & Steel Co., Handan Iron & Steel Co. e Xinxin Vanadium & Titanium Co., teso all’ottimizzazione del mercato sia in termini di efficienza che in chiave ambientalista con la chiusura degli impianti più obsoleti e inquinanti. La Cina come primo consumatore al mondo di acciaio, grazie anche allo sviluppo della cantieristica edile, ha visto nascere più di un migliaio di piccoli produttori che adesso si trovano a fronteggiare un eccesso di capacità produttiva a seguito del rallentamento della costruzione di nuovi edifici. Nel solo 2008 il consumo di acciaio è calato quasi del 13% e il gruppo Baoshan Steel & Iron ha visto le proprie azioni perdere più della metà del loro valore raggiunto nel 2007. Queste tipologie di consolidamento affiancate alla chiusura quasi giornaliera di centinaia di piccole e medie imprese del tessile e al rallentamento dei lavori nei cantieri edili, hanno obbligato una fiumana di lavoratori migranti a ritornare alle loro città di origine che, pure delle dimensioni di qualche milione di abitanti, vivono principalmente sulle rimesse mensili dei lavoratori migranti che costituiscono la fonte primaria di reddito per le famiglie di giovani e anziani rimaste in loco. Le autorità si trovano oggi a gestire una situazione non facile, in quanto molti di coloro che desiderano ritornare non trovano più lavoro in agricoltura. I terreni sono stati utilizzati per lo sviluppo edile e industriale o quelli rimasti a uso agricolo vengono ottimizzati per evitare una frammentazione improduttiva e con meno necessità di braccianti. Secondo un recente rapporto del ministero dell’Agricoltura la cifra dei lavoratori ritornati alle proprie famiglie supera gli otto milioni di unità, mentre secondo cifre non ufficiali del ministero dell’Industria, dalle 660mila piccole e medie imprese che hanno chiuso nel 2008 si è generato un eccesso di dieci milioni di lavoratori. Come appare evidente la situazione non si presenta di facile lettura e, di conseguenza, contraddittori sono i sentimenti con cui i cinesi si preparano al futuro. Da un lato la storia prima dell’apertura al socialismo di mercato ha abituato ai capovolgimenti rapidi e a reazioni inattese, ma dall’altro, lo sviluppo accelerato di questi ultimi anni, la presenza di un gruppo dirigente tecnocratico, in grado di gestire apparentemente con consapevolezza un cambiamento epocale, favorisce la fiducia nella capacità di utilizzare le strategie descritte in modo consono. In linea con l’azione di altri Paesi, anche il governo cinese è corso ai ripari promettendo un’iniezione di quattro trilioni di yuan (585 miliardi di dollari) da impiegarsi essenzialmente in progetti infrastrutturali nel prossimo biennio, accompagnati da una riduzione del costo del denaro e un abbassamento sui dazi per il gasolio. Grazia Neri_K. Nogi Questo fa sperare che il richiamo del presidente Hu per uno sviluppo sostenibile non sia solo una dichiarazione di principio, ma che venga perseguita in termini concreti. Contemporaneamente vi sono milioni di lavoratori che non hanno una percezione di sicurezza del loro immediato futuro. È tradizione per i lavoratori migranti ritornare dalle proprie famiglie per il capodanno lunare cinese colmi di doni e con i risparmi accumulati durante un anno di turni massacranti presso lontani cantieri. Per il nuovo anno del Bue che ha inizio il 26 di gennaio non si paventa un facile rientro. Per molti di loro, se il viaggio sarà di sola andata, rappresenterà una sconfitta e, soprattutto, la paura che a breve non vi sarà nessuna soluzione all’orizzonte. Ritorna lo spettro di una fame da poco sconfitta e di una indigenza che si riteneva superata. Se gli investimenti promessi si trasformeranno rapidamente in posti di lavoro, le loro domande potranno avere una risposta, ma gli sviluppi infrastrutturali, che peraltro la Cina ha già sistematicamente prodotto negli anni passati, possono costituire un volano in attesa del rilancio di una domanda complessiva. L’ondata d’incertezza sul futuro non ha ancora toccato le grandi città ove i giovani perdurano in richieste professionali sovradimensionate cambiando più impieghi nel corso dello stesso anno alla ricerca di aumenti salariali immediati. Una prima avvisaglia dei tempi in arrivo è recepita essenzialmente dai neolaureati che a differenza dei loro predecessori abituati a essere corteggiati dalle aziende straniere trovano un’offerta di impiego limitata e indifferente alle loro aspettative. Le incognite, per concludere, rimangono e stanno minando un patrimonio intangibile di cui la Rpc aveva goduto ampiamente in questi anni, la fiducia che lo sviluppo sarebbe stato progressivo e si sarebbe esteso dalle zone costiere più ricche, via via verso le aree interne più remote. Oggi, questa attesa, è tutta da dimostrare. il tempo a guardare la televisione visto che nessuna delle aziende in cui si è presentata sembra intenzionata ad assumerla, o quella di Chen Xiaohong che è stato costretto a rientrare a Beiya, nel Sichuan, con la moglie e una mezza dozzina di parenti, tutti impiegati nella stessa fabbrica (oggi chiusa) di lettori dvd, con la consapevolezza che coltivando riso, mais e patate dolci in un minuscolo appezzamento di terra non riuscirà nemmeno a sfamare tutti i familiari. I quotidiani cinesi, al contrario, preferiscono continuare a trasmettere un messaggio di speranza. Raccontano di Zhou Xiong, classe 1986, che ha abbandonato Canton per ritornare nel Sichuan, dove ha deciso di iscriversi a una scuola professionale. «Dopo quattro anni trascorsi nel Guangdong, vedo il ritorno a casa come l’inizio di una nuova fase della mia vita. Voglio imparare a riparare macchinari per le industrie, in modo da poter aprire un’attività tutta mia a Mianyang, la mia città». Anche Wang Shanjian, trentacinque anni, tornerà a lavorare in campagna. «Una serie di tasse sui raccolti agricoli sono state eliminate, quindi sarà più facile ricavare un profitto più alto. Se si parla di salario nominale, per me e mia moglie sarebbe comunque più conveniente rimanere in città, ma tira una brutta aria e il costo della vita sta aumentando, quindi meglio rifugiarsi in campagna: si guadagna di meno, ma almeno le spese sono ridotte a zero». A sentire il Partito, i milioni di operai che torneranno nelle campagne dove verranno guidati dai dirigenti locali, che a loro volta potranno avvalersi della consulenza di primissimo livello di migliaia di laureati, permetteranno al Paese di uscire vincitore da una crisi economica che anziché metterlo in ginocchio, ne sta ridisegnando la geografia dello sviluppo economico coinvolgendo, questa volta, l’intera nazione. Fino ad oggi il governo cinese ha ancorato la propria legittimità alla crescita economica del Paese ed è evidente che se quest’ultima continuerà a rallentare le basi del consenso verranno a mancare. Ecco perchè la stampa deve trasmettere ai lettori la convinzione che una nuova strategia di sviluppo economico sia stata studiata dalla classe dirigente e alla popolazione spetti ora il compito di contribuire alla sua attuazione. Senza mai eccedere in trionfalismi sempre meno credibili, nelle ultime settimane Wen Jiabao non si è mai stancato di ripetere che le misure anti-crisi approvate fino ad oggi sono state utili ed efficaci tanto da gettare le basi per “un buon inizio nel 2009”. Tuttavia non è detto che i salariati senza lavoro o con paghe dimezzate e i laureati che dopo anni di sacrifici per avere un buon contratto dovranno fare ritorno nelle campagne condividano l’opinione del premier. Ma per Pechino l’importante è che il Paese non perda la speranza in un futuro migliore, perché, se succedesse, diventerebbe fin troppo facile attizzare la miccia dell’instabilità sociale. 121 Olycom_M. Macsweeney/Rex Features India: un modello da ripensare di Marco Masciaga Prima l’attacco terroristico di Mumbay, poi lo scandalo Satyam hanno calamitato l’attenzione. Così l’opinione pubblica ha tardato ad accorgersi della gravità e dell’estensione della crisi. Il richiamo alla realtà è venuto quando le previsioni sull’economia indiana hanno cominciato a registrare una riduzione del Pil del 2%. La crisi rappresenta tuttavia una grande opportunità per affrontare alcuni nodi strutturali del modello di sviluppo indiano Negli ultimi anni, all’incirca a partire dalla pubblicazione negli Stati Uniti nel 2005 del saggio The World is Flat di Thomas L. Friedman, l’India e la sua economia hanno goduto di buona stampa. Anzi, di ottima stampa. Nonostante i tassi di scolarità reali continuassero a essere estremamente bassi, a dispetto del tasso di malnutrizione infantile più alto del mondo, nonostante il fatto che mezzo miliardo di indiani continuassero a vivere con meno di 1,25 dollari al giorno, e nonostante la società fosse ancora attraversata da spaccature etniche, religiose e castali profonde, nel giro di pochi anni l’immagine dell’India è cambiata in maniera radicale. L’idea di trovarsi di fronte a una sconfinata popolazione umile e istruita, capace di fornire assistenza a noi occidentali, grazie un mondo “appiattito” dalla banda larga, era talmente seducente da spingere più di un osservatore allo strabismo. Come quel ministro 122 XINHUA / Gamma / Eyedea Presse / europeo che, in visita a Delhi, parlò commosso “di quei bambini che pur vivendo negli slum danno ripetizioni di matematica ai loro ricchi coetanei americani dall’altra parte del pianeta”. Un’immagine talmente stereotipata e poco rappresentativa dalla realtà vissuta dalle decine di milioni di indiani che vivono nelle migliaia di baraccopoli del Paese che da sola dava la misura di quanto fosse ubriacante l’idea di un popolo riscattatosi da decenni di miseria grazie a ingegno e tecnologia. Nelle ultime settimane, complici una serie di avvenimenti slegati gli uni dagli altri – il diffondersi anche nei Paesi in via di sviluppo degli effetti della recessione mondiale, l’attacco terroristico che per due giorni e tre notti ha paralizzato Mumbay e lo scandalo Satyam (un buco di bilancio di un miliardo di dollari nella quarta società indiana dell’information technology) – quell’immagine sembra essere andata in pezzi. Sostituita da una altrettanto emotiva che sembra prefigurare una tempesta perfetta prossima ad abbattersi sul miracolo economico indiano. La verità è un po’ più complessa. L’India dell’ultimo quinquennio non era, sotto più di un punto di vista, un modello di sviluppo praticabile per larghissimi strati della sua popolazione e non è una tigre di carta oggi. L’impatto sulla società indiana delle ultime drammatiche vicende si annuncia senza dubbio traumatico, ma in ultima analisi potrebbe non essere privo di ricadute positive. «L’India funziona così, attraverso processi di management by crisis» – mi spiegava a fine novembre Rajiv Kumar, direttore dell’Indian Council of Research in International Economic Relations mentre dalle guglie dall’hotel Taj Mahal di Mumbay continuavano ad alzarsi delle tristi colonne di fumo nero. Stavamo parlando di terrorismo, di come il mondo avrebbe reagito al più spettacolare e ambizioso attacco mai lanciato contro l’India e di come il ceto politico di New Delhi avrebbe risposto. Il succo della sua risposta era il seguente: non tutto il male di questi giorni sarà venuto per nuocere e Mumbay potrebbe essere la tardiva presa di coscienza di un pericolo reale. La conferma della bontà dell’intuizione di Kumar è venuta nei giorni successivi alla strage. Quando poco alla volta sono emerse le spaventose inadeguatezze che hanno messo in condizione un commando di dieci uomini di tenere in scacco per sessanta ore la capitale finanziaria della terza potenza economica asiatica. Il susseguirsi delle rivelazioni e la rabbia crescente di quei ceti abbienti che per la prima volta sono stati presi apertamente di mira dagli attentatori hanno scatenato una reazione che non ha precedenti nei quindici anni in cui il terrorismo ha ripetutamente colpito il Paese. Il fatto che le vittime fossero anche influenti imprenditori, professionisti e banchieri (e non i soliti pendolari e frequentatori dei mercati popolari) ha fatto sì che questa volta il ceto politico indiano fosse brutalmente chiamato a interrogarsi sulla catena di errori che ha reso possibile l’umiliazione di un intero Paese. E ha ricordato a una parte minoritaria e influente del Paese, ma spesso restia all’impegno politico nel senso più alto del termine, che l’idea di poter vivere nel più completo isolamento dai drammi attraversati dal resto della popolazione non è più possibile. La stampa indiana in lingua inglese, solitamente schierata compatta in difesa dell’onore nazionale, non ha potuto che intercettare i sentimenti dei propri lettori, chiedendo e ottenendo la testa di 123 Contrasto_Zuder / laif _Le difficoltà e gli scandali che negli ultimi mesi hanno colpito l'economia e penalizzato le esportazioni potrebbero contribuire alla crescita della classe dirigente post liberalizzazione. Nella pagina accanto Ratan N. Tata, dal 1991 presidente di Tata Group 124 amministratori a livello nazionale e locale. I tanti canali all news nati negli ultimi anni si sono rivolti a un ceto politico avvezzo a domande mansuete e ritratti accomodanti con toni mai così aspri. Lo sfregio alla più popolosa, affascinante e contraddittoria città del Subcontinente è destinato a lasciare segni profondi nell’immagine del Paese, ma almeno il tema della sicurezza nazionale, troppo a lungo trascurato, è finalmente al centro del dibattito politico. Trarre nell’immediato delle conclusioni altrettanto ottimistiche dagli altri due colpi assestati all’immagine del Paese – il brusco rallentamento dei fortissimi ritmi di crescita dell’ultimo triennio e lo scandalo che ha travolto la Satyam – non è facile. Ma al di là delle ovvie ricadute negative per le aziende esportatrici (siano esse fornitrici di prodotti tessili destinati ai supermercati occidentali o di software per aziende) le difficoltà di questi ultimi mesi potrebbero contribuire alla maturazione di quella classe dirigente postliberalizzazioni economiche che è cresciuta nel mito dell’inevitabilità del successo indiano. È passato circa un anno da quando i titolisti dell’«Economic Times», il più venduto e sopra le righe dei quotidiani finanziari indiani, giorno dopo giorno si superavano nel trovare nuove spericolate metafore per raccontare l’inarrestabile crescita del Sensex, l’indice dei trenta titoli guida del Bombay Stock Exchange, allora vicino ai 20mila punti. Parlare di bolle e sopravvalutazioni all’epoca non era neppure contemplato. Significava venire tacciati di disfattismo, sentirsi rispondere cose tipo “il futuro è nostro e voi europei dovete farvene una ragione”, forse addirittura venire sospettati di rimpiangere segretamente l’India povera e perdente di un tempo. Ed è passato ancora meno da quando con una buona dose di chest thumping l’India degli affari ha celebrato l’acquisizione di Contrasto_G.Boutin/Hoa-qui/Eyede Olycom_SIPA PRESS Jaguar e Land Rover, due prestigiose quanto poco redditizie case automobilistiche britanniche, da parte di Tata Motors. Oggi che il Sensex si stiracchia sotto i 10mila punti e il colosso automobilistico di Mumbay, stretto tra il credit crunch e un brusco calo delle vendite sul mercato domestico, è alla ricerca dei fondi per rifinanziare i debiti contratti per le acquisizioni, l’inascoltato partito dei prudenti può prendersi qualche amara rivincita. Se l’attacco terroristico di Mumbay, come pare ormai certo, è stato progettato in Pakistan e la crisi economica mondiale è originata dagli Stati Uniti, gli indiani, nel caso dello scandalo Satyam, non sembrano avere nessun altro da biasimare se non loro stessi. L’ammissione da parte del fondatore della società, Ramalinga Raju, di avere contraffatto i bilanci della quarta impresa indiana nel settore dell’outsourcing per circa un miliardo di dollari non poteva giungere in un momento meno opportuno. In una fase in cui la fiducia nel Paese e nel suo boom sono per la prima volta messe in dubbio, il più grande scandalo finanziario della storia indiana ha gettato un’ombra proprio sul settore simbolo della rinascita del Paese, l’It. È bene che gli organismi incaricati di vigilare sulla trasparenza delle società di capitali traggano rapidamente una lezione dalla caduta di uno degli dei dell’outsourcing indiano. Cercando di scoprire se Satyam è un caso isolato o se gli standard di corporate governance praticati nel Subcontinente non abbiano tenuto il passo della crescita economica degli ultimi due decenni. In una fase in cui i mercati e gli investitori sono più che mai risk averse, le ombre gettate dal caso Satyam su India Inc. vanno spazzate via nel più breve tempo possibile. Per queste ragioni, le scelte che attendono il governo uscente e quello che s’insedierà dopo le elezioni di aprile non sono semplici. 125 Grazia Neri_P. Menzel L’esecutivo (che nei mesi trascorsi dalla fine dell’alleanza con i partiti comunisti che lo hanno appoggiato per quattro anni non ha introdotto le liberalizzazioni che sarebbe stato lecito attendersi) si trova di fronte alla necessità di stimolare un’economia che, nell’anno fiscale in corso, rischia di perdere almeno due punti in termini di crescita del Pil. E l’operazione di rilancio non potrà avvenire semplicemente pompando capitali nel sistema sul modello cinese. Il deficit fiscale, complici i generosi aumenti concessi ai dipendenti statali e la cancellazione dei debiti a milioni di contadini, decisi con l’approssimarsi delle elezioni, è destinato a raggiungere livelli che, pur senza creare le precondizioni per una crisi, limiteranno i margini di manovra. Senza contare che, nella congiuntura attuale, l’ipotesi di liberalizzare gli scambi con il resto del mondo (per via delle ovvie implicazioni negative per gli introiti fiscali in un momento in cui le entrate sul fronte delle corporate tax stanno crescendo meno rapidamente del previsto) rischia di risultare impraticabile. Le sfide sono quindi complesse e i paletti che limiteranno le scelte a livello di politica economica non mancano. Eppure l’asprezza dell’attuale fase di crisi potrebbe convincere la classe dirigente dell’urgenza di compiere alcune di quelle scelte politicamente rischiose che gli ultimi anni di crescita forsennata hanno contribuito troppo spesso a fare percepire come differibili. Parallelamente la presa di coscienza da parte di imprenditori e investitori che successo e crescita non possono essere date per scontate, neppure in una democrazia di 1,2 miliardi di persone all’alba del secolo asiatico, non potrà che essere salutare alla crescita di un’India conscia sia della propria centralità nell’economia mondiale che delle responsabilità che il suo nuovo status comporta. 126