L`età del moderno - Università degli studi di Bergamo
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L`età del moderno - Università degli studi di Bergamo
Letteratura tedesca II – MOD1 L'età del moderno: Itinerari storico-letterari attraverso Vienna, Berlino e Praga del primo Novecento Prof. Raul Calzoni Anno Accademico 2015/2016 1 VIENNA Stefan Zweig: Die Welt von gestern. Erinnerungen eines Europäers (1944) Si viveva bene, si viveva con facilità e spensieratezza in quella vecchia Vienna e i tedeschi del nord guardavano noi vicini del Danubio con un poco d'irritazione e di disprezzo, perché invece di essere «attivi» e di tenere un rigido ordine, godevamo la vita, mangiavamo bene, ci divertivamo a feste e teatri e per di più facevamo ottima musica. Invece della famosa abilità ed attività tedesca, che ha finito per amareggiare e per turbare l'esistenza di tutti gli altri paesi, invece di questa cupida smania di sorpassare tutti gli' altri e di correre avanti, a Vienna si amavano le placide chiacchierate, i comodi incontri, lasciando che ognuno vivesse a modo suo, con indulgenza bonaria e forse un po' pigra. «Vivere e lasciar vivere» era il celebre motto viennese, una massima che ancor oggi mi sembra più umana di tutti gli imperativi categorici e che si diffuse irresistibilmente in tutti gli ambienti. Poveri e ricchi, slavi e tedeschi, ebrei e cristiani vivevano insieme, pur punzecchiandosi all'occasione, in buona pace e persino i movimenti politici e sociali eran privi di quell'animosità crudele che è penetrata nella circolazione sanguigna del mondo come un sedimento velenoso rimasto dalla prima guerra mondiale. Nella vecchia Austria ci si combatteva ancora cavallerescamente, ci si insultava nei giornali o alla Camera, ma dopo le concioni ciceroniane gli stessi deputati sedevano in compagnia bevendo la birra o il caffè e dandosi del tu. Persino quando Lueger, capo del partito antisemita, divenne borgomastro di Vienna, nulla si mutò nei rapporti privati e io personalmente debbo dichiarare di non avere mai come ebreo incontrato il più piccolo ostacolo o segno di dispregio, né nella scuola né all'università né nella mia vita letteraria. L'odio da paese a paese, da popolo a popolo, da tavola a tavola non balzava fuori ogni giorno da ogni giornale, non staccava uomo da uomo e nazione da nazione. Il senso di massa e di gregge non aveva raggiunto nella vita pubblica la repugnante potenza che ha oggi; la libertà dell'agire privato era considerata - cosa oggi appena concepibile legittima e sottintesa, la tolleranza non veniva come oggi disprezzata, e ritenuta debolezza, ma esaltata quale energia morale. Non fu un secolo di passione quello in cui io nacqui e fui educato. Era un mondo ordinato, con chiare stratificazioni e comodi passaggi, era un mondo senza fretta. Il ritmo della nuova velocità non si era ancora propagato dalle macchine, dall'automobile, dal telefono, dalla radio e dall'aeroplano sino all'uomo: il tempo e l'età avevano altre misure. Si viveva più comodamente e se io tento di rievocare nella loro precisa immagine le figure degli adulti che circondarono la mia infanzia, constato con stupore che moltissimi fra di essi erano precocemente corpulenti. Mio padre, gli zii, i maestri, i commessi dei negozi, i suonatori d'orchestra, tutti a quarant'anni erano uomini già piuttosto pingui e dignitosi. Camminavano lenti, parlavano pacati e discutendo si accarezzavano le barbe ben curate e spesso già volte al grigio. I capelli grigi del resto erano un segno di dignità ed un uomo «posato» evitava di proposito, come sconvenienti, i gesti e la baldanza della gioventù. Anche nella più remota infanzia, quando mio padre non aveva ancora quarant'anni, non posso rammentarmi di averlo mai visto correre frettoloso su e giù per una scala o comunque far qualcosa con visibile fretta. La fretta non solo era considerata inelegante, ma era in realtà superflua, giacché in quel saldo mondo borghese, con le sue innumerevoli cautele e previdenze, non accadeva mai nulla di improvviso e se catastrofi si verificavano lontano, alla periferia del mondo, nulla penetrava attraverso la parete ben imbottita della vita «sicura». La guerra contro i Boeri, quella russogiapponese, persino quella balcanica, non scalfirono neppure l'esistenza dei miei genitori. Questi saltavano le notizie di battaglie nel giornale con la stessa indifferenza con cui non leggevano la rubrica sportiva. Che cosa in fondo importava a loro di quel che accadeva fuor dell'Austria? Quali mutamenti ne derivavano alla loro vita? Nella loro Austria durante quell'epoca di bonaccia non vi furono colpi di Stato né improvvisi sbalzi di valori; se le azioni perdevano in borsa quattro o cinque punti, si parlava già di un crac e si aggrottava la fronte sulla «catastrofe». Ci si lagnava più per 2 consuetudine che per convinzione delle forti tasse, che in realtà, paragonate a quelle del dopoguerra, non eran che una specie di piccola mancia allo Stato. Si stabiliva nei testamenti con la massima precisione il modo di proteggere nipoti e pronipoti da ogni perdita finanziaria, come se la sicurezza fosse garantita con una invisibile cambiale dalle potenze eterne e nel frattempo si viveva a proprio agio, accarezzando le piccole preoccupazioni come bravi e docili animali domestici che in fondo non fanno paura. Debbo sempre involontariamente ridere quando il caso mi mette tra mano un vecchio giornale di quei tempi e io leggo gli articoli eccitati a proposito di una elezione al consiglio comunale, oppure se cerco di ricostruire nel ricordo i drammi del Burgtheater con i loro minuscoli problemi o se ripenso all'ardore sproporzionato delle nostre discussioni giovanili su argomenti in fondo senza importanza. Come erano lillipuziane le nostre cure, che bonaccia regnava in quel tempo. Ha avuto fortuna la generazione dei miei genitori e dei miei nonni, ha vissuto la propria vita da cima a fondo tranquilla, diritta e limpida, ma non so tuttavia se di ciò li invidio. Essi infatti hanno vissuto al di là di ogni vera amarezza, delle perfidie e delle forze del destino, son passati quasi dormendo accanto a quelle crisi e a quei problemi che torturano, ma insieme grandiosamente allargano il cuore. Hanno ignorato, adagiati nella sicurezza, nell'agiatezza e nella comodità, che la vita può essere anche eccesso e tensione, eterna sorpresa e sconvolgimento; essi nel loro commovente liberalismo e ottimismo non intuirono mai che ogni giorno che albeggia alla finestra può sconvolgere la nostra vita. Anche nelle notti più nere non concepirono mai sino a qual punto l'uomo possa divenir pericoloso, ma neppure quanta forza sia in lui per superare pericoli e prove. Noi, trascinati dalle cateratte della vita, divelti da ogni vincolo di fraternità, noi che dobbiamo ricominciare appena sospinti verso una fine, noi vittime e insieme servitori volonterosi di ignote forze mistiche, noi per cui ogni serenità è leggenda e ogni sicurezza sogno puerile, noi abbiamo sentito in ogni fibra del nostro corpo la tensione da un polo all'altro e il brivido dell'eterno rinnovamento. Ogni ora di questi nostri anni fu legata alla sorte del mondo. Con dolore e con gioia abbiamo vissuto il tempo e la storia al di là della nostra piccola esistenza personale, mentre quei vecchi erano limite a se tessi. Per questo ognuno di noi, anche il più modesto della generazione, conosce la realtà mille volte meglio che i più saggi fra i nostri progenitori. Nulla però ci fu donato; ne abbiamo dovuto pagare l'intero prezzo. (S. Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, Milano, Mondadori, 1994, pp. 26-27) Ø Impero austriaco e Regno d’Ungheria dopo il 1867 (Ausgleich) 3 Ø Hermann Broch, Hofmannsthal und seine Zeit (1947-48) In tutto ciò vi era anche molta saggezza (cordialità e saggezza fioriscono sempre l'una accanto all'altra), la saggezza di un'anima che presagisce la caduta e l'accetta. Era una saggezza da operetta, però, e sotto l'ombra della caduta incombente essa divenne a poco a poco sempre più spettrale portando appunto alla gaia apocalisse di Vienna. Il fenomeno della copertura della miseria con una vernice di ricchezza si presentò a Vienna, specie durante la sua ultima spettrale fioritura, con maggiore chiarezza che in qualsiasi altro luogo e in qualsiasi altro momento. Un minimo di valori etici doveva essere ricoperto con un massimo di valori estetici, i quali non erano più e non potevano più essere tali perché un valore estetico che non si sviluppi su una base etica è esattamente il proprio contrario e cioè artificio, paccottiglia, sofisticazione: in una parola Kitsch. Come capitale del Kitsch, Vienna divenne anche la capitale del vuoto-di-valori dell'epoca. (H. Broch, Hofmannsthal e il suo tempo, Roma, Editori Riuniti, 1981, pp. 93-94) Ø Hugo von Hofmannsthal, E neppure posso definire in altro modo che assai congruente, molto giusto, il fatto che le teorie del dottor Freud si siano fatte strada nel mondo a partire da qui - proprio come le melodie leggere, un po' banali, ma duttili e accattivanti, delle operette, con cui esse hanno così poco in comune. Vienna è la città della musica europea: essa è la porta Orientis anche per quel misterioso Oriente che è il regno dell'inconscio. Le interpretazioni e le ipotesi del dottor Freud sono le escursioni di un consapevole spirito del tempo verso i lidi di quel regno. [...] La forza interiore che possiamo chiamare genius loci è attiva in molteplici modi ed è avvincente ricollegare l'uno all'altro i suoi vari modi di esprimersi. (H. von Hofmannsthal, L’Austria e l’Europa: saggi 1914-1928, Marietti, Casale Monferrato 1983, 92-93). 4 Stefan Zweig (1881-‐1942) Hugo von Hofmannsthal (1874-1929 Hermann Broch (1886-‐1951) Hermann Bahr (1863-‐1934) 5 Ringstraße (inaugurazione: 1 maggio 1865) 1- Alte Börse (Vecchia borsa) Schottenring 16 La borsa di Vienna che esiste dal 1771 si trasferì in questo edificio classicista nel 1877. 6 2 - Votivkirche Rooseveltplatz Dopo il fallito attentato all'imperatore Francesco Giuseppe nel 1853, suo fratello Massimiliano fece costruire questa chiesa in segno di ringraziamento. 3 - Universität Dr.-Karl-Lueger-Ring 1 L'università di Vienna fu fondata nel 1365 e ospita oggi circa 60.000 studenti. L'edificio principale in stile rinascimentale fu inaugurata nel 1884. 4 - Neues Rathaus (Nuovo Municipio) Rathausplatz L'edificio in stile neogotico con più di 1.500 sale interne fu terminato nel 1883. Nella piazza davanti al municipio ci sono spesso degli spettacoli e altri eventi, come per esempio il mercatino di Natale. Di notte la sua facciata è illuminata in modo spettacolare. 7 5 - Burgtheater Dr.-Karl-Lueger-Ring 2 L'attuale sede del Burgtheater (1874-1888) fu costruito secondo il modello della "Semperoper" di Dresda. Distrutto completamente due mesi prima della fine della seconda guerra mondiale fu ricostruito nel 1955. 6 - Parlament Dr.-Karl-Renner-Ring In questo edificio in stile greco-classico (1873-1883) fu proclamata, nell'ottobre del 1918, la prima Repubblica austriaca. 7 - Naturhistorisches Museum (Museo di Storia naturale) Maria Theresien-Platz I due musei "Naturhistorisches Museum" e "Kunsthistorisches Museum" si trovano uno di fronte all'altro e formano una copia molto armoniosa. Questo museo, inaugurato nel 1889, ospita affascinanti collezioni di storia naturale, geologia e archeologia. 8 - Kunsthistorisches Museum (Museo di Storia dell'Arte) Maria Theresien-Platz Aperto nel 1891 il museo ospita tutti i tesori artistici raccolti dagli Asburgo. È tra i musei d'arte più importanti e belli del mondo. 8 9 - Neue Burg (Residenza imperiale) Heldenplatz Questa sezione della "Hofburg" è forse architettonicamente la più spettacolare della sontuosa residenza imperiale di Vienna. Oggi ospita vari musei e gli appartamrenti di Stato, aperti al pubblico. 10 - Staatsoper (Opera di Stato) Opernring 2 Costruita 1861-1869, quasi completamente distrutta durante la seconda guerra mondiale, ricostruita nel 1955. Il più importante appuntamento è il "Ballo dell'Opera", ogni anno l'ultimo giovedì di Carnevale. 11 - Postsparkasse (Cassa di risparmio delle Poste) Georg-Coch-Platz 2 Il palazzo della Postsparkasse fu costruito tra il 1904 e il 1912 su progetto di Otto Wagner, uno dei maggiori architetti (stile liberty) del primo Novecento. Anche gli interni, l'arredamento e i mobili sono di Otto Wagner. HANS MAKART (1840-1884) 9 Palazzo della Secessione Gustav Klimt, Manifesto per Ver sacrum, 1898 Fregio per il Palazzo Stoclet L'albero della vita 1905-1909 10 Sigmund Freud (1856-‐1939) Arthur Schnitzler (1862-1931) 11 Stefan George [Komm in den totgesagten park und schau] Komm in den totgesagten park und schau: Der schimmer ferner lächelnder gestade · Der reinen wolken unverhofftes blau Erhellt die weiher und die bunten pfade. 5 Dort nimm das tiefe gelb · das weiche grau Von birken und von buchs · der wind ist lau · Die späten rosen welkten noch nicht ganz · Erlese küsse sie und flicht den kranz · 10 Vergiss auch diese lezten astern nicht · Den purpur um die ranken wilder reben Und auch was übrig blieb von grünem leben Verwinde leicht im herbstlichen gesicht. Entstehungsjahr: 1895 Erscheinungsjahr: 1982 Aus: Das Jahr der Seele / Nach der Lese Referenzausgabe: Ohne Herausgeber: Stefan George. Sämtliche Werke in 18 Bänden, Bd. 4. Klett-Cotta, Stuttgart: 1982ff., S. 12. 12 Hugo von Hofmannsthal Über Vergänglichkeit Noch spür ich ihren Atem auf den Wangen: Wie kann das sein, daß diese nahen Tage Fort sind, für immer fort, und ganz vergangen? 5 Dies ist ein Ding, das keiner voll aussinnt, Und viel zu grauenvoll, als daß man klage: Daß alles gleitet und vorüberrinnt. Und daß mein eigenes Ich, durch nichts gehemmt, Herüberglitt aus einem kleinen Kind, Mir wie ein Hund unheimlich stumm und fremd. 10 Dann: daß ich auch vor hundert Jahren war Und meine Ahnen, die im Totenhemd, Mit mir verwandt sind wie mein eigenes Haar, So eins mit mir als wie mein eignes Haar. Entstehungsjahr: 1894 Erscheinungsjahr: 1984 Referenzausgabe: Eugene Weber (Bd. 1): Sämtliche Werke. Kritische Ausgabe, Bd. 1. S. Fischer Verlag, Frankfurt a. Main: 1984, S. 45. Bemerkungen Erstdruck in »Blätter für die Kunst« im März 1896. In anderen Ausgaben gerne als Teil I des Zyklus »Terzinen« bezeichnet 13 Robert Musil L’uomo senza qualità, 1930-1933 Erstes Buch - Kapitel 9 8 CACANIA Nell’età in cui sarti e barbieri han-no ancora un’enorme importanza e ci si guarda con piacere allo spec-chio, s’immagina anche sovente un luogo dove si vorrebbe passare la vita, o almeno un luogo dove sarebbe di stile vivere, pur sentendo magari che non ci si starebbe vo-lentieri. Così da tempo si è giunti necessariamente al concetto di una specie di città super-americana, dove tutti corrono o s’arrestano col cronometro in mano. Aria e terra costituiscono un formicaio, attra-versato dai vari piani delle strade di comunicazione. Treni aerei, treni sulla terra, treni sotto terra, posta pneumatica, catene di automo-bili sfrecciano orizzontalmente, ascensori velocissimi pompano in senso verticale masse di uomini dall’uno all’altro piano di traffico; nei punti di congiunzione si salta da un mezzo di trasporto all’altro, e il loro ritmo che tra due velocità lanciate e rombanti ha una pausa, una sincope, una piccola fessura di venti secondi, succhia e inghiotte senza considerazione la gente, che negli intervalli di quel ritmo uni-versale riesce appena a scambiare in fretta due parole. Domande e risposte ingranano come i pezzi di una macchina, ogni individuo ha soltanto compiti precisi, le professioni sono raggruppate in luoghi determinati, si mangia mentre si è in moto, i divertimenti sono radunati in altre zone della città, e in altre ancora sorgono le torri che contengono moglie, famiglia, grammofono e anima. Tensione e disten-sione, attività e amore son ben di-visi nel tempo e misurati secondo esaurienti ricerche di laboratorio. Se svolgendo una qualsiasi funzio-ne s’incontrano difficoltà, si desi-ste subito, perché si trova un’altra cosa, oppure un metodo migliore, o ancora vi sarà un altro che s’inca-richerà di scoprire la strada giusta; e questo non porta danno, perché il massimo sperpero delle forze co-muni è causato dalla presunzione di esser chiamati a compiere la propria opera fino in fondo. In una collettività ogni strada porta a una meta buona. La meta è posta a bre-ve distanza; ma anche la vita è bre-ve, e così si ottiene un massimo di buoni successi; di più non occorre all’uomo per essere felice, perché il successo conseguito foggia l’ani-ma, mentre quello a cui si aspira senza ottenerlo la storce soltanto; per essere felici non ha importanza lo scopo prefisso, ma solo il fatto di raggiungerlo. E inoltre la zoologia insegna che da una somma di indi-vidui limitati può benissimo risul-tare un insieme geniale. Non è certo che avverrà proprio così. Ma simili immaginazioni sono affini ai sogni di viaggi, in cui si ri-specchia il senso dell’incessante movimento che ci trascina con sé. Sono superficiali, irrequiete e brevi. Sa Iddio quale sarà veramente il futuro. Si direbbe che ad ogni istante noi abbiamo in mano gli elementi, e la possibilità di fare un progetto per tutti. Se non ci piace la faccenda delle velocità, inventia-mo qualche altra cosa! Per esempio, una cosa molto lenta, con una felicità fluttuante come un velo, misteriosa come una chiocciola marina, e con quel profondo occhio bovino di cui già s’estasiavano i greci. Ma purtroppo non è affatto così. Siamo noi, invece, in balia della cosa. Giorno e notte viaggia-mo dentro ad essa e vi svolgiamo ogni nostra attività; ci si rade, si mangia, si ama, si leggono libri, si esercita la propria professione, co-me se le quattro pareti stessero fer-me, e l’inquietante è che le quattro pareti viaggiano, senza che ce ne accorgiamo, e proiettano innanzi le loro rotaie come lunghi fili adunchi e brancolanti, senza che noi sap-piamo verso qual meta. E per di più si vorrebbe possibilmente far parte delle forze che menano il treno del tempo. È un compito assai indefi-nito, e quando si guarda fuori dopo un lungo intervallo si ha l’impressione che il paesaggio sia mutato; ciò che fugge davanti ai finestrini, fugge perché non può essere altrimenti, ma sebbene noi siamo sotto-messi e rassegnati ci domina sempre più l’impressione sgradevole di aver già oltrepassato la 14 meta o di aver imboccato la linea sbagliata. E un bel giorno ecco il bisogno frenetico: scendere! Saltar giù! Un desiderio di esser ostacolati, di non più evolversi, di restar fermi, di tornare indietro al punto che precede la diramazione sbagliata. E nel buon tempo antico, quando c’era ancora l’impero austriaco, si po-teva in quel caso scendere dal tre-no del tempo, salire su un treno co-mune d’una ferrovia comune e ritornare in patria. Là, in Cacania – quella nazione incompresa e ormai scomparsa che in tante cose fu un modello non ab-bastanza apprezzato – c’era anche velocità, ma non troppa. Se trovan-dosi all’estero si pensava al paese, ecco fluttuava davanti agli occhi il ricordo di quelle strade bianche, larghe e comode del tempo delle marce a piedi e delle diligenze a cavalli, che si snodavano in tutte le direzioni come canali di un ordine stabilito, come nastri di quel tra-liccio chiaro usato per le uniformi, e cingevano le province col braccio cartaceo dell’amministrazione. E quali contrade! C’eran mari e ghiacciai, il Carso e i campi di gra-no della Boemia, notti sull’Adriati-co con stridio di grilli inquieti, e villaggi slovacchi dove il fumo usciva dai camini come dalle nari-ci di un naso camuso e il villaggio stava accovacciato fra due piccole colline come se la terra avesse dischiuso un poco le labbra per riscaldare la sua creatura. Natural-mente su quelle strade viaggiavano anche automobili; ma non troppe! Si preparava anche là la conquista dell’aria; ma non troppo assidua-mente. Ogni tanto si faceva partire una nave per l’America Latina o per l’Asia Orientale; ma non trop-po spesso. Non si avevano ambi-zioni imperialistiche; si era nel punto centrale dell’Europa, dove s’intersecano gli antichi assi del mondo; le parole «colonia» e «ol-tremare» giungevano all’orecchio come cose lontane e non sperimen-tate. Si faceva lusso; ma non così raffinato come in Francia. Si face-va sport; ma non così accanito co-me in Inghilterra. Si spendevano somme enormi per l’esercito; ma solo quanto bastava per rimanere la penultima delle grandi potenze. Anche la capitale era un po’ più piccola di tutte le altre metropoli del mondo, ma un po’ più grande di quel che non fossero di solito le grandi città. E il paese era ammi-nistrato — con oculatezza, discre-zione e abilità a smussare cauta-mente ogni punta — dalla migliore burocrazia d’Europa, alla quale si poteva rimproverare un solo difet-to: per essa genio e spirito d’inizia-tiva nelle persone non autorizzate a ciò da alti natali o da incarico go-vernativo erano impertinenza e presunzione. A nessuno del resto piace farsi dettar legge da chi non vi è autorizzato! E poi in Cacania un genio era sempre scambiato per un babbeo, mai però, come succedeva altrove, un babbeo per un genio. In verità, quante cose curiose ci sarebbero da dire sul tramontato im-pero di Cacania! Per esempio, esso era imperial-regio, ed era imperia-le e regio; uno dei due segni «i.r.» oppure «i. e r.» era impresso su ogni cosa e su ogni persona, tutta-via occorreva una scienza segreta e occulta per poter distinguere con sicurezza quali istituzioni e indivi-dui fossero da considerarsi imperial-regi e quali imperiali e regi. Per iscritto si chiamava Monarchia Austro-Ungarica, ma a voce si chiamava Austria, termine a cui il paese aveva abdicato con solenne giuramento statale ma che conser-vava in tutte le questioni sentimentali, a prova che i sentimenti sono importanti quanto il diritto costitu-zionale e che i decreti non sono la cosa più seria del mondo. Secondo la costituzione era uno stato libera-le, ma aveva un governo clericale. Il governo era clericale, ma lo spi-rito liberale regnava nel paese. Davanti alla legge tutti i cittadini era-no uguali, non tutti però erano cit-tadini. C’era un Parlamento, il qua-le faceva un uso così eccessivo del-la propria libertà che lo si teneva quasi sempre chiuso; ma c’era anche un paragrafo per gli stati di emergenza che serviva a far senza del Parlamento, e ogni volta che tutti si rallegravano per il ritorno dell’assolutismo la corona ordina-va che si ricominciasse a governa-re democraticamente. Di tali vi-cende ne capitavano molte in Ca-cania, e fra le altre vi furono anche quei conflitti nazionali che attira-rono giustamente la curiosità dell’Europa e oggi son presentati in modo del tutto falso. Furono così violenti che per cagion loro la macchina dello stato s’inceppava e s’arrestava parecchie volte all’an-no, ma nei periodi intermedi e nelle pause di governo l’armonia era mirabile e tutti facevan vista di nulla. E infatti non c’era stato nul-la di reale. Soltanto l’ostilità di ogni uomo contro le aspirazioni d’ogni altro uomo, che oggi ci trova tutti unanimi, nello stato di Cacania aveva precorso i tempi e s’era perfezionato in un raffinatissimo cerimoniale, che avrebbe potuto ancora avere grandi conseguenze se il suo sviluppo non fosse stato 15 troncato anzitempo da una catastrofe. Infatti non soltanto l’avversione per il concittadino s’era accresciuta fino a diventare un sentimento collettivo, ma anche la diffidenza verso se stessi e il proprio destino aveva preso un carattere di profonda protervia. Si agiva in quel paese – e talvolta fino ai supremi gradi della pas-sione e alle sue conseguenze – sempre diversamente da quel che si pensava, oppure si pensava in un modo e si agiva in un altro. Osservatori sprovveduti hanno scambiato ciò per cortesia o anche per una debolezza di quello che essi considerano il carattere austriaco. Ma si sono sbagliati; ed è sempre uno sbaglio spiegare le manifestazioni di un paese semplicemente con il carattere dei suoi abitanti. Perché l’abitante di un paese ha almeno nove caratteri: carattere professionale, carattere nazionale, carattere statale, carattere di classe, carattere geografico, carattere sessuale, carattere conscio, carattere inconscio, e forse anche carattere privato; li riunisce tutti in sè, ma essi scompongono lui, ed egli non è in fondo che una piccola conca dilavata da tutti quei rivoli, che v’entran dentro e poi tornano a sgorgarne fuori per riempire assieme ad altri ruscelletti una conca nuova. Perciò ogni abitante della terra ha ancora un decimo carattere, e questo altro non è se non la fantasia passiva degli spazi non riempiti; esso permette all’uomo tutte le cose meno una: prender sul serio ciò che fanno i suoi altri nove caratteri e ciò che accade di loro; vale a dire, con altre parole, che gli vieta precisamente ciò che lo potrebbe riempire. Questo spazio che, bisogna ammetterlo, è difficile a descriversi, in Italia ha un colore e una forma diversi che in Inghilterra, perché ciò che ne risalta ha un’altra forma e un altro colore, e tuttavia è uguale nell’uno e nell’altro luogo, appunto un vuoto spazio invisibile, entro il quale sta la realtà, come una piccola città d’un gioco di costruzioni abbandonata dalla fantasia”. Così era accaduto in Cacania, per quel che può apparir visibile agli occhi di tutti, e in questo la Cacania era lo stato più progredito del mondo, benché il mondo non lo sapesse ancora; era lo stato che ormai si limitava a seguire se stesso, vi si viveva in una libertà negativa, sempre con la sensazione che la propria esistenza non ha ragioni sufficienti, e cinti dalla grande fan-tasia del non avvenuto o almeno del non irrevocabilmente avvenu-to, come dall’umido soffio degli oceani onde l’umanità è sorta. «E capitato che…» si diceva in Cacania, mentre l’altra gente in altri luoghi credeva che si fosse prodotto un avvenimento mirabolante; era un’espressione alla buona per cui eventi e colpi del destino diventavano lievi come piume e pensieri. Sì; benché molte cose sembrino indicare il contrario, la Cacania era forse un paese di geni; e probabilmente fu questa la causa della sua rovina. 16 Thomas Mann Buddenbrooks. Verfall einer Familie, 1901 Erster Teil Erstes Kapitel "Com'è...? com'è...?" "Eh, diavolo, c'est la question, ma très chère demoiselle!" La moglie del console Buddenbrook, seduta accanto alla suocera sul sofà rettilineo laccato di bianco e adorno di una testa di leone dorata, con i cuscini ricoperti di stoffa giallo-chiara, gettò un'occhiata al marito nella poltrona al suo fianco e venne in aiuto alla figlioletta, che il nonno teneva sulle ginocchia, presso la finestra. "Tony!" disse. "Io credo che Dio..." E la piccola Antonie, una bimba di otto anni dalle membra delicate, vestita di un abitino di leggerissima seta cangiante, la graziosa testa bionda un po' discosta dal viso del nonno, fissò verso il centro della stanza gli occhi grigio-azzurri sforzandosi di riflettere e, senza veder nulla, ripeté ancora una volta: "Com'è?" poi disse adagio: "Io credo che Dio..." E tutto d'un fiato, rischiarandosi in viso, continuò: "...mi ha creata insieme con tutte le creature." Di colpo si trovò in carreggiata e snocciolò ormai, raggiante e inarrestabile, tutti gli articoli del credo, secondo il catechismo riveduto e corretto, uscito in quell'anno di grazia 1835 con l'approvazione dell'illustre e saggio Senato. Una volta lanciati, pensò la bimba, era come filar giú in slitta dal monte Jerusalem con i fratelli; i pensieri si perdevano, e non si poteva fermarsi, neanche volendo. "E i vestiti e le scarpe," disse, "il mangiare e il bere, la casa e i terreni, la moglie e i figli, i campi e il bestiame..." A queste parole il vecchio Johann Buddenbrook scoppiò in un'aperta risata, quella risata limpida e maliziosa, che teneva già pronta da un poco. Rideva per la gioia di potersi burlare del catechismo, e solo a tale scopo, probabilmente, aveva intrapreso il piccolo esame. S'informò dei campi e del bestiame di Tony, chiese quanto faceva pagare per un sacco di grano, e le propose di concludere affari con lei. La sua faccia rotonda, bonaria e rosata, alla quale con la migliore volontà non riusciva a dare un'espressione maligna, era incorniciata di capelli incipriati bianchi come la neve, e una specie di codino, appena accennato cadeva sul largo colletto della sua giubba color grigio-topo. A settant'anni, egli restava fedele alla moda della sua gioventú; aveva rinunziato soltanto agli alamari fra i bottoni e alle grandi tasche, mai però in vita sua aveva portato calzoni lunghi. La sua vasta pappagorgia era comodamente adagiata sul jabot di pizzo bianco. Tutti avevano fatto coro alla sua risata, soprattutto per ossequio al capo della famiglia. Madame Antoinette Buddenbrook nata Duchamps rise esattamente come suo marito. Era una signora corpulenta, con spessi boccoli bianchi sugli orecchi, un vestito a righe nere e grigio-chiare senza guarnizioni, indizio di semplicità e di modestia; le mani ancora bianche e belle posavano sul grembo, stringendo una piccola borsa pompadour di velluto. Con gli anni i suoi lineamenti s'erano fatti stranamente simili a quelli del marito. Solamente il taglio e la vivacità dei suoi occhi scuri tradivano un poco la sua origine mezzo latina: da parte del nonno ella discendeva da una famiglia della Svizzera francese, ma era amburghese di nascita. Sua nuora, Elisabeth Buddenbrook nata Kröger, rideva alla maniera dei Kröger, incominciando con uno scoppiettio delle labbra e premendo il mento sul petto. Come tutti i Kröger aveva una figura estremamente elegante; e se anche non la si poteva dire una bellezza, la sua voce limpida e pacata, i suoi movimenti tranquilli, dolci e sicuri davano a tutti un senso di chiarezza e di confidenza. Ai capelli rossicci, intrecciati in una piccola corona a sommo del capo e scendenti in larghi boccoli sugli orecchi, s'intonava la pelle bianchissima e delicata cosparsa di piccole efelidi. La caratteristica 17 di quel volto dal naso un po' troppo lungo e dalla bocca minuta era che fra il labbro inferiore e il mento non c'era nessun incavo. Il corpetto corto dalle maniche rigonfie in alto, al quale era attaccata una gonna stretta di vaporosa seta a fiori chiari, lasciava libero un collo di perfetta bellezza, ornato d'un nastro di raso su cui scintillava un gioiello di grossi brillanti. Il console si piegò in avanti sulla poltrona, con un movimento un po' nervoso. Portava una giacca color cannella con larghi risvolti e maniche a clava, che al disotto del polso si stringevano intorno alla mano. I pantaloni attillati di stoffa bianca lavabile erano guerniti all'esterno di pistagne nere. Intorno al collettone rigido in cui s'annidava il suo mento era ravvolta una cravatta di seta larga e spessa, che riempiva tutta la scollatura del panciotto multicolore. Egli aveva gli stessi occhi un po' incavati, azzurri e intenti, di suo padre, se pur con un'espressione forse un po' piú sognante; ma i suoi lineamenti erano piú severi e piú netti, il naso campeggiava forte e ricurvo, e le guance a metà coperte da basette bionde e ricciute erano assai meno piene che quelle del vecchio. Madame Buddenbrook si volse verso la nuora, con una mano le strinse il braccio, le guardò in grembo facendo una risatina e disse: "Incorreggibile, mon vieux, eh Bethsy...?" Pronunziava l'i come u. La consolessa, senza parlare, accennò minacciosa con la mano delicata, facendo tintinnare il braccialetto d'oro; poi terminò il gesto, secondo un suo vezzo, portando la mano dall'angolo della bocca all'acconciatura, come per tirar su una ciocca che si fosse sciolta. Il console invece disse in un tono misto di sorridente cortesia e di rimprovero: "Ma, babbo, lei si burla sempre delle cose piú sacre!..." Erano nella "sala dei paesaggi", al primo piano della grande vecchia casa della Mengstrasse, acquistata qualche tempo prima dalla ditta Johann Buddenbrook e che la famiglia abitava da poco. Le tappezzerie spesse e morbide, che un'intercapedine divideva dal muro, rappresentavano ampi paesaggi a colori tenui come il tappeto sottile steso sul pavimento: idilli nel gusto del diciottesimo secolo, con allegri vignaiuoli, contadini operosi, pastorelle infiocchettate che tenevano in grembo candidi agnelli sul margine di acque specchianti, o si lasciavan baciare da pastori innamorati... Un tramonto giallastro illuminava quasi tutte quelle scene, in armonia con la stoffa gialla dei mobili laccati di bianco e con le tende di seta gialla alle due finestre. In proporzione con la vastità della stanza i mobili non erano numerosi. Il tavolo rotondo con le gambe diritte, sottili e sobriamente filettate d'oro, non stava davanti al sofà, ma alla parete opposta, simmetricamente al piccolo harmonium su cui era posato l'astuccio d'un flauto. Oltre le rigide sedie a braccioli regolarmente distribuite lungo le pareti non c'era che un tavolino da lavoro accanto alla finestra, e, di fronte al sofà, una fragile scrivania di lusso coperta di ninnoli. Attraverso una porta a vetri, che si apriva di faccia alle finestre, si intravvedeva in penombra una galleria a colonne, mentre a sinistra di chi entrava una porta a due battenti, alta e bianca, conduceva in sala da pranzo. All'altra parete, in una nicchia semicircolare, dietro un artistico portello traforato di lucido ferro battuto, scoppiettava la stufa. Il freddo infatti era venuto presto. Si era a mezzo ottobre, e già, dall'altra parte della strada, le fronde dei piccoli tigli che contornavano il cimitero di Santa Maria erano ingiallite, e il vento sibilava intorno ai profondi anfratti della chiesa gotica, mentre cadeva una pioggia fredda e sottile. Per riguardo alla vecchia Madame Buddenbrook avevano già messo alle finestre le impannate doppie. Era giovedí, giorno in cui la famiglia si riuniva, regolarmente, ogni due settimane; ma quel giorno, oltre ai membri della famiglia residenti in città, erano invitati per un pranzo alla buona anche due o tre amici di casa, e ora, verso le quattro del pomeriggio, al cader del crepuscolo, si aspettavano gli ospiti... La piccola Antonie non s'era lasciata interrompere dal nonno nella sua corsa in slitta; aveva soltanto allungato ancor piú, in un piccolo broncio, il labbro superiore già un poco sporgente. Adesso era arrivata in fondo al monte Jerusalem; ma, incapace di arrestarsi bruscamente in quella discesa senza ostacoli, oltrepassò di un poco il traguardo... "Amen," disse, "so un'altra cosa, nonno!" 18 "Tiens! Sa un'altra cosa!" esclamò il vecchio signore, e finse di esser torturato dalla curiosità. "Hai sentito, mamma? Sa un'altra cosa! Qualcuno mi potrebbe dire..." "Quando c'è uno scoppio a caldo," disse Tony, sottolineando con la testa ogni parola, "allora cade il fulmine. Quando invece c'è uno scoppio a freddo, allora cade il tuono!" Poi incrociò le braccia e guardò i visi ridenti, come chi è sicuro del proprio successo. Il signor Buddenbrook invece si irritò e volle assolutamente sapere chi avesse insegnato alla bimba quelle scempiaggini, e quando scoprí che era stata Ida Jungmann di Marienwerder, la governante assunta recentemente per i bambini, il console dovette intervenire e assumerne la difesa. "Lei è troppo severo, babbo. Perché a quell'età non si dovrebbe avere un proprio strano concetto di certe cose?..." "Excusez, mon cher!... Mais c'est une folie! Lo sai che detesto questo modo di confondere il cervello ai bambini! Cosa, il tuono che cade? Vorrei proprio vederlo cadere! Andate là, con la vostra prussiana..." Fatto sta che il vecchio signore era poco tenero verso Ida Jungmann. Non già ch'egli avesse vedute ristrette. Era stato in tiro a quattro nella Germania meridionale a comprar grano per la Prussia come fornitore dell'esercito. Aveva viaggiato un po' il mondo, nell'anno '13 s'era recato ad Amsterdam e a Parigi, e, da uomo evoluto, non riteneva certo condannabile tutto ciò che stava fuori delle porte di quella sua città dai tetti aguzzi. Ma, prescindendo dai rapporti d'affari, nelle relazioni sociali era piú incline di suo figlio, il console, a tracciare inesorabili confini e a diffidare dei forestieri. Perciò quando un bel giorno i suoi figli, di ritorno da un viaggio nella Prussia occidentale, avevano portato a casa, come una specie di Gesú bambino, quella ragazza (solo adesso aveva compiuto i vent'anni) orfana di un locandiere di Marienwerder morto il [...] 19 BERLINO 1. Berlino è una giovane e sfortunata città rivolta al futuro. La sua tradizione ha un carattere frammentario. Il suo sviluppo, spesso interrotto e ancora più di frequente sviato e deviato, viene inibito e contemporaneamente promosso da errori involontari e programmate tendenze maligne – in un certo senso promosso tramite impedimenti. [...] I risultati – perché questa città possiede un numero a tal punto elevato e velocemente mutevole di fisionomie da non poter parlare di un unico risultato – sono un penoso agglomerato di piazze, strade, alveari cubici, chiese e palazzi. Una confusione ordinata; un arbitrio perfettamente regolamentato; un’assenza di meta finalizzata al fulgido aspetto.1 2. La velocità, o “Tempo”, è il concetto chiave che Berlino ha di sé durante la Repubblica di Weimar. La velocità è un articolo di fede generato prevalentemente dai media “veloci”: i grandi giornali e le riviste, più tardi il cinema e la radio, dei quali Berlino costituiva il centro economico e istituzionale. In letteratura, il mito di Berlino venne creato dalla poesia e dalla musica, dai racconti brevi e dalla saggistica, dai resoconti e dalle cronache brevi, dagli aneddoti, dai pamphlet, dai programmi, dai compendi, dalle polemiche. Tali testi veloci e moderni aggiunsero dettagli e smalto all’immagine di Berlino intesa come metropoli della velocità.2 3. Berlino può in certi momenti dare l’impressione della solidità e della sicurezza, ma la sua storia è la testimonianza di quanto sia insidioso prendere per buona quest’immagine. Berlino è una città incostante, come molti hanno scoperto a proprie spese: la patina di normalità può svanire con la stessa rapidità con cui scivola fra le dita la sabbia gialla della Marca di Brandeburgo.3 4. Il Kurfürstendamm è l’arteria più pulsante di traffico dell’Ovest di Berlino, su di essa si può, come si confà veramente ad una vena [sic!], provare il polso della città, alla città il polso. [...] Il Kurfürstendamm inizia presso la Gedächtniskirche e non termina mai.4 5. Esso è contemporaneamente fascio muscolare che lavora e fascio nervoso che soffre, vaso sanguigno pulsante fra i tessuti e arto che afferra della città Berlino. In esso non si esprime solamente l’Ovest, questo accadeva una volta, ma anche il Nord, l’Est ed il Sud di Berlino. Qui la città si incontra.5 6. La strada per questo labirinto, cui non è mancata la sua Arianna, passava sul ponte Bendler, il cui dolce arco fu per me la prima volta di collina. Non lungi di lì era la meta: Federico Guglielmo e la regina Luisa. [...] Fra le cariatidi e gli atlanti, fra i putti e le pomone, però, che una volta mi avevano fissato, ora mi erano più care quelle polverose figure della famiglia dei numi tutelari che proteggono l’ingresso nella vita e nella casa. Poiché esse ben sapevano cosa significa attendere. E così per loro era lo stesso aspettare uno straniero, il ritorno delle antiche divinità, o il bambino che trent’anni prima, con la sua cartella, era 1 J. ROTH, “Das steinerne Berlin”, in Das Tagebuch, 05/07/1930, rist. in M. BIENERT (a cura di), Joseph Roth in Berlin, Köln 1996, p. 163. 2 E. SCHÜTZ, “Beyond Glittering Reflections of Asphalt: Changing Images of Berlin in Weimar Journalism”, in T. W. KNIESCHE – S. BROCKMANN (a cura di), Dancing on the Volcano. Essays on the Culture of the Weimar Republic, Columbia 1994, p. 120. 3 A. RICHIE, Berlino. Storia di una metropoli, Milano 2003, pp. 5-6. 4 A. POLGAR, “Kurfürstendamm”, in ID., Kleine Schriften, Reinbek 1983, Vol. II, p. 462. 5 H. SINSHEIMER, “Mitten im Kurfürstendamm”, in Berliner Tageblatt, 21/11/1930. 20 scivolato davanti ad esse. [...] E di nuovo l’idra e il leone di Lerna trovarono, come nella mia fanciullezza, il loro posto nella selvaggia vegetazione intorno al Großer Stern.6 7. prese la direzione dell’Ostkreuz, qui salì sul treno che portava alla Friedrichstraße via Warschauerstraße, Hauptbahnhof, Jannowitzbrücke, e rimase seduto col suo denaro nel portafoglio fino alla stazione Bellevue, già all’Ovest. Da qui filò in direzione del Kleiner Stern, poi al Rosengarten e cercò, passando accanto al monumento a Lortzing, il suo posto prediletto con vista sull’isola di Rousseau. Era tale la determinazione con cui barattò la Bundesbank per una panca del Tiergarten da indurci a credere che unicamente qui si sentisse sicuro, unicamente qui potesse starsene da solo con i suoi soldi, nonostante i turchi che in grandi gruppi famigliari si erano accampati sui prati del Tiergarten sciorinando le ricchezze della cultura anatolica: aleggiava un lieve odore di saslik.7 8. Bruna colonna o tu della Vittoria Tu che sorgi dai giorni dell’infanzia Biscotto inzuccherato dall’inverno.8 6 W. BENJAMIN, “Tiergarten”, in Berliner Kindheit um Neunzehnhundert: Fassung letzter Hand [1950], Frankfurt a. M. 1987, pp. 23-25; trad. it. di M. Bertolini Peruzzi, “Tiergarten”, in Infanzia Berlinese, Torino 1973. 7 G. GRASS, È una lunga storia, Torino 1999, p. 129. 8 W. BENJAMIN, Berliner Kindheit um Neunzehnhundert. Fassung Letzter Hand, op. cit., p. 5; trad. it., Infanzia Berlinese, cit., p. 7. 21 9. Nelle stazioni di scambio come Ostkreuz si può ancora avvertire l’antico flusso della metropoli del traffico. Anche Alexanderplatz è così: un gigantesco ingranaggio per lo svolgimento senza difficoltà del massimo traffico sulla massima superficie. Così i progettisti degli anni Venti si immaginano una moderna piazza metropolitana.9 10 Durante la costruzione, Alexanderplatz era uno spazio aperto e senza forma, attraverso il quale il vento soffiava da ogni lato, oggi è un modello di organizzazione. [...] Il meccanismo è quello di una perfezione artificiale, che deride l’intervento improvvisato e si rende comprensibile soltanto dopo un lungo studio.10 11 Ci sedemmo in un treno, in una stazione luminosa. Questo partì, attraverso la notte, viaggiò alcuni minuti, quindi si fermò, e noi fummo nuovamente alla stessa stazione. Credetti di sbagliarmi. Ma il gioco si ripeté due, tre volte... Le stazioni alla sera sembravano tutte uguali 9 M. BIENERT, Vorwort, in ID., Joseph Roth in Berlin. S. KRACAUER, “Der Neue Alexanderplatz”, in Frankfurter Zeitung, 18/11/1932 10 22 a Berlino, in particolare se si proveniva da Stettino. Avevamo viaggiato dalla Friedrichstraße verso Jannowitzbrücke. Ma fu per me un’esperienza indimenticabile.11 12 I tram a cavalli scomparivano, sopra le strade furono tirati fili elettrici, la città soggiaceva ad un’oscillante, fitta rete. [...] Alexanderplatz mutava, Wittenbergplatz diventava qualcos’altro; cresceva, cresceva! Su Leipziger Platz l’incantevole costruzione di Wertheim, una facciata, come l’irrilevante Herrenhaus che vi stava di rimpetto. [...] Su Schiffbauerdamm in Brunnenstraße, la AEG: un piacere! E più avanti, in campagna, in Tegel Borsig, e in Oberschöneweide, un’altra volta la AEG.12 13 Da quarant’anni vado in giro qui, sempre curioso, pensoso, su come si muove e su come repentino si sviluppò.[...] L’arte, i quadri, le sculture [...] non mi avevano mai interessato, questi oggetti languidi, miti, preziosi, anche agghindati [...] da guardare, per procurare diletto. Io non sono per il piacere “il divertimento involgarisce”: questo è press’a poco giusto.13 14 Ci sono grandi magazzini, schematiche confezioni per i più poveri, anche molto ciarpame. [...] io [un giovane miserabile] devo fare i mie affari come tutti gli altri. Il lavoratore non mi dà nulla, non ha nulla. [...] Un oste mi [a Döblin] dice ciò che già so: i prezzi alti, e una fabbrica di birra dovette vendere parte dei suoi cavalli e convertirsi ai generi alimentari. Non fu un peccato: il pane è meglio della birra.14 15 Un flusso di gente, di mezzi: Alexanderplatz è vicino. Fra molte signore povere, cercando fra le persone che si affrettano, si aggirano individui lenti e particolari che evidentemente si conoscono, si riconoscono, camminano in disparte e portano valigette di vestiti. Un via vai [...] Giunge l’Alexanderkaserne con i poliziotti e l’interminabile lunga costruzione dei grandi magazzini Tietz. Quindi l’ampia apertura, un verde prato, Alexanderplatz, le cucine da campo dell’esercito della salvezza, circondate da curiosi e cordoni di poveri e vecchi, l’oscuro rosso presidio della polizia.15 16 Anzi, anni or sono, mi era stato affidato un reparto d’osservazione criminologico. […] E praticando questi uomini, e molti altri simili a loro, liberi, potei rilevare un aspetto caratteristico della società in cui viviamo: l’assenza di un confine nettamente definito fra criminali e non criminali, e il fatto che la società, o almeno la parte che ne potevo vedere, era minata dalla criminalità. E questa era una già di per sé una prospettiva singolare.16 17 Il reparto criminale si trova in aperta campagna e acqua e pioggia e neve e freddo, giorno e notte, avvolgono l’edificio con tutta la loro forza e la loro violenza. […] Vum vum, e il vento allarga il petto e tira il respiro, poi lo mette fuori come una botte, ogni respiro pesa come una montagna, la montagna si avanza, crac, e si rovescia sulla casa, si rovescia un contrabbasso. Vum vum, e alberi si dondolano, non riescono a tenere il tempo, lui va a destra e loro, li trova piegati a sinistra, li fa scricchiolare. Bolidi precipitano, aria che 11 A. DÖBLIN, Erster Rückblick, in ID., Die Vertreibung der Gespenster. Autobiographische Schriften. Betrachtungen zur Zeit. Aufsätze zur Kunst und Literatur, , p. 12. 12 A. DÖBLIN, Die Zeitlupe. Kleine Prosa, p. 59. 13 In Vossische Zeitung, 16/11/1922. 14 LINKE POOT [alias A. DÖBLIN], “Östlich um den Alexanderplatz”, in Berliner Tageblatt, 29/09/1923 15 Ibidem 16 A. DÖBLIN, “Il mio libro”, in Berlin Alexanderplatz, p. 504. 23 martella, strepiti, schianti, vieni, vieni, sono tua, vieni, presto siamo arrivati, vum, notte, notte.17 18 In Alexanderplatz buttano all’aria il marciapiede per costruire la metropolitana. Bisogna camminare sulle passerelle. I tram traversano la piazza, risalgono Alexanderstraße, per la Münzstraße fino al Rosenthaler Tor. […] Bar, ristoranti, negozi di frutta e verdura, drogherie, dolciumi, trasporti, decorazioni, confezioni per signora, farina e prodotti macinati, garage, assicurazioni contro l’incendio.18 19 Brum, brum: davanti a Aschinger sull’Alex strepita il battipalo a vapore. È alto quanto il piano di una casa e come niente infila i pali di ferro per terra. […] Brum brum, pesta il battipalo in Alexanderplatz [...] Zac e il palo si piglia un colpo sulla testa. Alla fine diventa piccolo come la punta di un dito ed ecco che gli arriva un altro colpo e adesso può fare quel che vuole: sparito sottoterra. Perbacco, l’hanno combinato bene. E la gente se ne va soddisfatta.19 20 In riva all’acqua c’è la grande Babilonia, la madre di tutte le impurità e di tutti gli orrori della terra. Essa siede su un animale di colore scarlatto, e ha sette teste e dieci corna, bisognerebbe che tu la vedessi. Ogni tuo passo la rallegra. Essa è ebbra del sangue dei santi che ha divorato. Queste sono le corna con cui ti si getta contro, essa viene su dall’abisso e ti conduce verso la maledizione. Guardala, le perle, lo scarlatto, la porpora, i denti, come li digrigna, e quelle labbra grosse e carnose su cui è passato il sangue, con quelle ha bevuto. La puttana Babilonia! Occhi velenosi giallo-oro, collo di vampiro! E come ti ride in faccia!20 21 „Sul Potsdamer Platz corrono, come folli, gli autobus nelle curve. Le insegne pubblicitarie luminose scattano come serpenti, si illuminano, in alto, si illuminano, in alto. Si va a fare i propri acquisti. Natale è vicino. Lì c’è il pentolone e la fanciulla dell’esercito della salvezza, accanto, invoca: considerate la pentola quando cucinate. E se ci mettessi dentro mille marchi? Meglio di niente, ma non va bene.”21 22 „A livello della strada e del marciapiede facevano luce le vetrine dei negozi, i caffè e i ristoranti, i fanali di posizione delle carrozze, i fari delle prime automobili. Questa superficie di luce, quasi una stanza simile ad un salotto intimo, era l’eredità del XIX Secolo. Il XX Secolo forzò il tetto di questa stanza verso l’alto. Piano dopo piano la pubblicità luminosa guadagnò spazio, fino ad approdare al comignolo.”22 17 A. DÖBLIN, Berlin Alexanderplatz, pp. 462-463. Döblin, Berlin Alexanderplatz, op. cit., p. 137. 19 Ibidem, p. 179; trad. it., ibidem, p. 183: 20 Ibidem, p. 260, trad. it., ibidem, p. 323. 21 B. von Brentano : Wo in Europa ist Berlin. Bilder aus den zwanziger Jahren,, p.189: 22 W. Schivelbusch : Licht, Schein und Wahn. Auftritte der elektrischen Beleuchtung im 20. Jahrhundert, Berlin, 1992. 18 24 Paul Boldt Auf der Terrasse des Cafés Josty Der Potsdamer Platz in ewigem Gebrüll Vergletschert alle hallenden Lawinen Der Straßentranke: Trams auf Eisenschienen, Automobile und den Menschenmüll. Die Menschen rinnen über den Asphalt, Ameisenemsig wie Eidechsen flink. Stirnen und Hände, von Gedanken blink, Schwimmen wie Sonnenlicht durch dunklen Wald. Nachtregen hüllt den Platz in eine Höhle, Wo Fledermäuse, weiß, mit Flügeln schlagen Und lila Quallen liegen – bunte Öle; Die mehren sich, zerschnitten von den Wagen. Auf spritzt Berlin, des Tages glitzernd Nest, Vom Rauch der Nacht wie Eiter einer Pest.23 23 P. Boldt : Auf der Terrasse des Cafés Josty in Junge Pferde! Junge Pferde!, Zürich/Düsseldorf, 1979, p. 70, trad. it. in P. Chiarini/A. Gargano: La Berlino dell’espressionismo, p.121: “Il Potsdamer Platz in un mugghio ininterrotto/ congela tutte le valanghe rimbombanti delle strade: tram su rotaie di ferro,/ automobili e rifiuti umani./ I passanti scivolano sull’asfalto,/ Intancabili come formiche, guizzanti come lucertole./ Fronti e mani lucenti di pensieri,/ nuotano come luce del sole attraverso un bosco scuro./ Una pioggia notturna avvolge la piazza in una caverna,/ dove pipistrelli, bianchi sbattono le ali/ e nuotano meduse violacee – olii colorati;/ si moltiplicano, tagliate dalle automobili. -/ Schizza Berlino, di giorno rifugio scintillante, dal fumo della notte come suppurazione di una pestilenza. 25 Arno Holz Buch der Zeit (1886) Ein Bild Ein Andres Aus Sandstein ist das gelbliche Portal, Die rothen Säulen aus Granit gehauen, Und seitwärts in ein weißes Piedestal Vergräbt ein Löwe seine Marmorklauen. Doch schwarz verhängt sind alle Fenster heut Und Lichter brennen nur im Erdgeschosse, Der Straßendamm ist hoch mit Stroh bestreut Und lautlos drüberhin rollt die Karosse. Fünf wurmzernagte Stiegen geht's hinauf Ins letzte Stockwerk einer Miethskaserne; Hier hält der Nordwind sich am liebsten auf, Und durch das Dachwerk schaun des Himmels Sterne. Was sie erspähn, o, es ist grad genug, um mit dem Elend brüderlich zu weinen: Ein Stückchen Schwarzbrod und ein Wasserkrug, Ein Werktisch und ein Schemel mit drei Beinen. Das Treppenhaus vertheidigt der Portier Und schüttelt grimmig seine graue Mähne, Und naht gar Einer aus der Haute volée, Dann fletscht er cerberusgleich seine Zähne. Im Prunksaal trauern hinter Flor und Tafft Die bunten Inderstoffe aus Lahore, Auch schleicht die goldbetreßte Dienerschaft Nur auf Spitzzehen durch die Corridore. Das Fenster ist vernagelt durch ein Brett Und doch durchpfeift der Wind es hin und wieder Und dort auf jenem strohgestopften Bett Liegt fieberkrank ein junges Weib darnieder. Drei kleine Kinder stehn um sie herum, Die stieren Blicks an ihren Zügen hangen, Vor vielem Weinen ward ihr Mündlein stumm Und keine Thräne mehr netzt ihre Wangen. Der hochgeborne Hausherr, Excellenz, Schwankt wie ein Rohr umher auf bleicher Düne, Die erste Redekraft des Parlaments Fehlt heute abermals auf der Tribüne. Zwar trat man gestern erst in den Etat, Doch hat sein Fehlen diesmal gute Gründe: Schon viermal war der greise Hausarzt da Und meinte, daß es sehr bedenklich stünde. Ein Stümpfchen Talglicht giebt nur trüben Schein, Doch horch, es klopft, was mag das nur bedeuten? Es klopft und durch die Thür tritt nun herein Ein junger Herr, geführt von Nachbarsleuten. Der Armenhilfsarzt ist's aus dem Revier, Den sie geholt aus Mitleid mit der Kranken, Indeß ihr Mann bei Branntwein oder Bier Sich selbst betäubt und seine Wuthgedanken. Nach Eis und Himbeer wird gar oft geschellt, Doch mäuschenstill ist es im Krankenzimmer, Und seine düstre Teppichpracht erhellt Nur einer Ampel röthliches Geflimmer. Weit offen steht die Thür zum Vestibul Und wie im Traum nur plätschert die Fontäne, Die Luft umher ist wie gewitterschwül, Denn ach, die "gnä'ge Fraa" hat heut - Migräne! Der junge Doctor aber nimmt das Licht Und tritt mit ihm ans Bett des armen Weibes, Doch gelb wie Wachs und spitz ist ihr Gesicht Und kalt und starr die Glieder ihres Leibes. Da schluchzt sein Herz, indeß das Licht verkohlt, Von nie gekannter Wehmuth überschlichen: Weint, Kinder, weint! ich bin zu spät geholt, Denn eure Mutter ist bereits - verblichen! 26 Jakob van Hoddis Weltende 4 10 Dem Bürger fliegt vom spitzen Kopf der Hut, in allen Lüften hallt es wie Geschrei. Dachdecker stürzen ab und gehn entzwei und an den Küsten - liest man - steigt die Flut Der Sturm ist da, die wilden Meere hupfen an Land, um dicke Dämme zu zerdrücken. Die meisten Menschen haben einen Schnupfen. Die Eisenbahnen fallen von den Brücken 27 Alfred Lichtenstein Die Dämmerung Ein dicker Junge spielt mit einem Teich. Der Wind hat sich in einem Baum gefangen. Der Himmel sieht verbummelt aus und bleich, Als wäre ihm die Schminke ausgegangen. 5 Auf lange Krücken schief herabgebückt. Und schwatzend kriechen auf dem Feld zwei Lahme. Ein blonder Dichter wird vielleicht verrückt. Ein Pferdchen stolpert über eine Dame. 10 An einem Fenster klebt ein fetter Mann. Ein Jüngling will ein weiches Weib besuchen. Ein grauer Clown zieht sich die Stiefel an. Ein Kinderwagen schreit und Hunde fluchen. Entstehungsjahr: 1911 Erscheinungsjahr: 1989 Aus: Gedichte / Die Dämmerung Referenzausgabe: Klaus Kanzog / Hatmut Vollmer: Alfred Lichtenstein. Dichtungen. Arche Verlag, Zürich: 1989, S. 43. Bemerkungen Erstdruck 1915 in »Der Sturm« I, Nr. 55, 18.3.1911, S. 439 Dem Gedicht gegenübergestellt ist auf Seite 42 die Handschrift des Gedichtes aus Alfred Lichtensteins Gedichtheften. 28 Georg Heym Der Gott der Stadt Auf einem Häuserblocke sitzt er breit. Die Winde lagern schwarz um seine Stirn. Er schaut voll Wut, wo fern in Einsamkeit Die letzten Häuser in das Land verirrn. 5 Vom Abend glänzt der rote Bauch dem Baal, Die großen Städte knien um ihn her. Der Kirchenglocken ungeheure Zahl Wogt auf zu ihm aus schwarzer Türme Meer. 10 15 20 Wie Korybanten-Tanz dröhnt die Musik Der Millionen durch die Straßen laut. Der Schlote Rauch, die Wolken der Fabrik Ziehn auf zu ihm, wie Duft von Weihrauch blaut. Das Wetter schwelt in seinen Augenbrauen. Der dunkle Abend wird in Nacht betäubt. Die Stürme flattern, die wie Geier schauen Von seinem Haupthaar, das im Zorne sträubt. Er streckt ins Dunkel seine Fleischerfaust. Er schüttelt sie. Ein Meer von Feuer jagt Durch eine Straße. Und der Glutqualm braust Und frißt sie auf, bis spät der Morgen tagt. Entstehungsjahr: 1910 Erscheinungsjahr: 1964 Aus: Gedichte aus den Jahren 1910 bis 1912 Referenzausgabe: Karl Ludwig Schneider / Gunter Martens: Georg Heym. Dichtungen und Schriften. Gesamtausgabe, Bd. 1. Verlag Heinrich Ellermann,: 1962ff., S. 192. Erstdruck in »Der ewige Tag«, Leipzig 1911 29 Gottfried Benn Schöne Jugend Der Mund eines Mädchens, das lange im Schilf gelegen hatte, sah so angeknabbert aus. Als man die Brust aufbrach, war die Speiseröhre so löcherig. Schließlich in einer Laube unter dem Zwerchfell 5 fand man ein Nest von jungen Ratten. Ein kleines Schwesterchen lag tot. Die andern lebten von Leber und Niere, tranken das kalte Blut und hatten hier eine schöne Jugend verlebt. 10 Und schön und schnell kam auch ihr Tod: Man warf sie allesamt ins Wasser. Ach, wie die kleinen Schnauzen quietschten! Entstehungsjahr: Ca. 1912 Erscheinungsjahr: 1912 Aus: Morgue 30 Kleine Aster 5 Ein ersoffener Bierfahrer1 wurde auf den Tisch gestemmt. Irgendeiner hatte ihm eine dunkelhelllila Aster2 zwischen die Zähne geklemmt Als ich von der Brust aus unter der Haut mit einem langen Messer Zunge und Gaumen herausschnitt, 10 muss ich sie angestoßen haben, denn sie glitt in das nebenliegende Gehirn. Ich packte sie ihm in die Brusthöhle zwischen die Holzwolle3, als man zunähte. Trinke dich satt in deiner Vase! 15 Ruhe sanft, kleine Aster! Entstehungsjahr: Ca. 1912 Erscheinungsjahr: 1912 Aus: Morgue Anmerkungen: 1 Als „Bierfahrer“ würde man heutzutage LKW-Fahrer bezeichnen, die Bier transportieren. Damals wurde dies mit Karren gemacht. 2 Die Aster ist eine winterfeste Pflanze. Sie ist hauptsächlich in Amerika beheimatet, es gibt sie jedoch auch auf fast allen anderen Kontinenten. Sie blüt in weiß, rosa, rot, blau und lila und hat eine strahlenförmige Anordnung der Blütenblätter. Benn hat die Aster in seinem Gedicht „Kleine Aster“ literarisch unsterblich gemacht. 3 Holzwolle ist ein Baustoff, der zur Wärmeisolierung beim Hausbau verwendet wird. Wurde früher auch in Stofftieren verwendet. Holzwolle kann Wasser aufsaugen und wurde daher wahrscheinlich für Obduktionen benutzt. 31 PRAGA Rainer Maria Rilke Archaïscher Torso Apollos Wir kannten nicht sein unerhörtes Haupt, darin die Augenäpfel reiften. Aber sein Torso glüht noch wie ein Kandelaber, in dem sein Schauen, nur zurückgeschraubt, 5 sich hält und glänzt. Sonst könnte nicht der Bug der Brust dich blenden, und im leisen Drehen der Lenden könnte nicht ein Lächeln gehen zu jener Mitte, die die Zeugung trug. 10 Sonst stünde dieser Stein entstellt und kurz unter der Schultern durchsichtigem Sturz und flimmerte nicht so wie Raubtierfelle; und bräche nicht aus allen seinen Rändern aus wie ein Stern: denn da ist keine Stelle, die dich nicht sieht. Du mußt dein Leben ändern Entstehungsjahr: vor 1908 Erscheinungsjahr: 1986 Aus: Der neuen Gedichte anderer Teil Referenzausgabe: Ernst Zinn: Rainer Maria Rilke. Die Gedichte. Insel Verlag, Frankfurt: 1986, S. 503. 32 Rainer'Maria'Rilke'' (187501926)' ' ! Die$Aufzeichnungen$des$ Malte$Laurids$Brigge$ (1910)$ $ ! Duineser$Elegien$(1923)$ ! Sone@en$an$Orpheus$ (1923)$ Scuola' fantas,ca 'di'Praga' • Gustav'Meyrink' (1968=1935),'Der$Golem$ (1915)'' • Leo'Perutz'(1882=1957)' • Max'Brod'(1884=1968)' • Alfred'Kubin'(1887=1959),' Die$andere$Seite$(1909)' 33 • “E’ come se i morti richiamassero noi viventi in quei posti dove un tempo trascorsero la loro esistenza per sussurrarci che non per nulla il nome di Praga significa ‘la soglia’, poiché in verità essa è una soglia tra ‘l’al di qua e l’al di là’, una soglia molto più sottile che altrove” (G. Meyrink, Die geheimnisvolle Stadt, 1928) • “Sono fatto di letteratura, non sono altro e non posso essere altro” (F. Kafka, Lettera a Felice Bauer) Franz&Ka(a&& (1883-1924)& • • • • • • • • • • • • 1904-1910 - Beschreibung eines Kampfes 1913 – Das Urteil 1913 – Der Heizer (Erstes Kapitel des Romanfragments Der Verschollene) 1914-1915 - Der Proceß 1915 – Die Verwandlung 1915 – Vor dem Gesetz Bestandteil des Romanfragments Der Proceß 1918 – Ein Landarzt (Erzählung von 1918 und Titel des Buches mit 13 weiteren Prosatexten) 1919 – Brief an den Vater 1919 – In der Strafkolonie 1919 – Ein Landarzt 1922 - Das Schloß 1924 – Ein Hungerkünstler 34 • Io ho potentemente assunto il negativo del mio tempo che mi è certo assai vicino e che io non ho il diritto di combattere, ma, in certa misura di rappresentare. Né al pochissimo di positivo né al negativo estremo che si rovescia in positivo, io ho partecipato in alcun modo. Io non sono stato introdotto nella vita dalla mano già cadente del cristianesimo, e neppure ho afferrato, come i sionisti, l’ultimo lembo del mantello ebraico da preghiera che già volava via. Io sono una fine o un principio” (Franz Kafka, Diari) • “Arricchire artificialmente questo tedesco di carta, gonfiarlo di tutte le risorse di un simbolismo, di un onirismo, di un senso esoterico, di un significante nascosto – e avremo così la scuola di Praga, Gustav Meyrink e molti altri, fra cui Max Brod. Ma questo tentativo implica uno sforzo disperato di riterritorializzazione simbolica, a base di archetipi, di Kabbala e di alchimia, che accentua il distacco dal popolo e non può trovare altro sbocco politico che il sionismo come ‘sogno di Sion’. Kafka prenderà presto l’altra via, anzi l’inventerà” (G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, 1975) • “Hofmannsthal ha rinunciato al compito che compare nella lettera di Chandos. Il suo mutismo era una sorta di punizione. La lingua di cui Hofmannsthal si è privato, potrebbe essere proprio quella che all’incirca nello stesso momento venne data a Kafka. Kafka si è assunto infatti il compito di cui Hofmannsthal si è mostrato moralmente e anche poeticamente incapace” (W. Benjamin, Lettera a Th. W. Adorno, 1940) • Yiddisch: „vive di vocaboli rubati, immobilizzati, emigrati, divenuti nomadi“ (F. Kafka, Rede über die jiddische Sprache, 1912) • Mauscheln: “una combinazione organica di tedesco cartaceo e linguaggio dei segni” (F. Kafka, Lettera a Max Brod, 1921) • “Erkrankung der Tradition” (W. Benjamin, Lettera a Gershom Scholem, 1938) 35