TAO . PDF - Ordine Architetti Torino
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monografia Made in Italy Architetture Rivelate 04 2010 TAO n.4/2010 www.taomag.it Direttore Responsabile Consiglio OAT Riccardo Bedrone Riccardo Bedrone, presidente Maria Rosa Cena, vicepresidente Giorgio Giani, segretario Felice De Luca, tesoriere Coordinatore Redazionale Liana Pastorin [email protected] Tel. +39 0115360513 Redazione Via Giolitti, 1 - 10123 Torino Tel +39 0115360514 Fax +39 011537447 www.to.archiworld.it Foto di copertina Italian Americans – Ralph Iodice at the San Silverio Shrine of Dover Plains, New York, USA, 2008 Carlotta Maitland Smith La mostra Italian Americans documenta una comunità di italiani provenienti dall’Isola di Ponza ed emigrati a New York negli anni ’20. Nonostante il tempo e la distanza sono ancora uniti da un incredibile amore per la loro isola e da una forte devozione al loro santo patrono San Silverio. Dopo Parigi (17 febbraio - 17 marzo 2010) la mostra sarà trasferita a Roma e allestita alla Galleria Micro. Periodico di informazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Torino n. 4/2010 Registrato presso il Tribunale di Torino con il n. 51 del 9 ottobre 2009 Le informazioni e gli articoli contenuti in TAO riflettono esclusivamente le opinioni, i giudizi e le elaborazioni degli autori e non impegnano la redazione di TAO né l’Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Torino né la Fondazione OAT Raffaella Bucci [email protected] Emilia Garda [email protected] Raffaella Lecchi [email protected] Art Director Fabio Sorano - Lorem Consiglieri Marco Giovanni Aimetti Roberto Albano Sergio Cavallo Pier Massimo Cinquetti Franco Francone Gabriella Gedda Maria Adriana Giusti Elisabetta Mazzola Gennaro Napoli Carlo Novarino Marta Santolin Direttore OAT Laura Rizzi impaginazione Davide Musmeci - Lorem Consiglio Fondazione OAT FOTOGRAFIE I materiali iconografici e le fotografie provengono dagli autori, salvo dove diversamente specificato. La Fondazione OAT è a disposizione degli aventi diritto per eventuali fonti iconografiche e fotografiche non identificate e si scusa per eventuali involontarie inesattezze e omissioni. STAMPA Unoprint Borgata Tetti Piatti, 2 - 10024 Moncalieri (TO) Pubblicità [email protected] Web version Simona Castagnotti Carlo Novarino, presidente Sergio Cavallo, vicepresidente Consiglieri Riccardo Bedrone Mario Carducci Giancarlo Faletti Emilia Garda Ivano Pomero Direttore Fondazione OAT Eleonora Gerbotto Si ringrazia Serena Pastorino Indice Contributors Comitato scientifico 5 L’Italia creativa editoriale di riccardo Bedrone 2 4 Italiani 12 14 8 10 Vivere fra due mondi erminia dell’oro L’italiano globale il sondaggio 'Luogocomunismo' e outlet color ocra davide banfo Torinesi del mondo e il mondo a Torino intervista a loredana ionita, juraj valcuha, allegra hicks, laura tonatto Capitali Italia fuori Italia riccardo bedrone Capitali italiane nel Mondo 24 Le vie dell’Oriente. Istanbul roberta ferrazza 25 Il piano regolatore di Tripoli ezio godoli 2 6 Una piccola Italia in Cina giulio machetti 7 Il teatro Colón a Buenos Aires edgardo salamano 2 8 New York e le Little Italy lorena bari 2 2 9 Berlino, nuova capitale italiana? alvise del pra' 30 Migrazioni italiane e segni italiani maddalena tirabassi 20 23 Italici 6 3 0 4 2 4 4 4 La Ferrari come modello da esportare gianni rogliatti 100% Made in Italy pasquale de angelis Una lezione di francese cristiano seganfreddo Gli italici: una nuova comunità glocale piero bassetti Roundabout Un dialogo per immagini 4 6 48 Contributors DAVIDE BANFO ERMINIA DELL’ORO ROBERTA FERRAZZA LORENA BARI ALVISE DEL PRA' EZIO GODOLI PIERO BASSETTI PASQUALE DE ANGELIS ALLEGRA HICKS Giornalista torinese, ha iniziato come professionista alla Gazzetta del Popolo. Da vent’anni è a La Repubblica, dove ha lavorato nelle redazioni di Torino, Bari e nella sede centrale di Roma. Attualmente si occupa delle edizioni locali del sito internet. Insegna tecniche e linguaggio multimediali presso il master di Giornalismo di Torino. Tra i suoi interessi l’architettura contemporanea e le trasformazioni urbane. Ha scritto alcune guide per il Touring Club Italiano dedicate al Piemonte e alla Valle d’Aosta. Giornalista televisiva. Lavora a Canale 5 e si occupa di arte, architettura, design, comunicazione. Relatrice in diverse conferenze, tiene lezioni in numerosi istituti italiani. Considera le arti come laboratorio antropologico, analizzando l’oggetto culturale in tutte le sue sfaccettature: dalla produzione alla mediazione, al consumo, per comprendere i processi di decodifica (e costruzione) da parte dell’utente. Attualmente si interessa dei meccanismi della comunicazione televisiva del costume. È presidente di Globus et Locus, associazione attenta alla dialettica tra globale e locale, e della Fondazione Giannino Bassetti, che studia la ‘responsabilità nell’innovazione’. È stato consigliere e assessore del Comune di Milano, primo presidente della Regione Lombardia e deputato al Parlamento Italiano; è stato inoltre presidente della Camera di Commercio Industria e Agricoltura di Milano, dell’Unione delle Camere di Commercio Italiane e dell’Associazione delle Camere di Commercio Italiane all’estero. È nata ad Asmara, in Eritrea, dove suo nonno paterno si stabilì nel 1896. È autrice di numerosi reportage dal suo Paese d’origine, anche come inviata durante la guerra Eritrea-Etiopia. Ha lavorato per quindici anni nella storica Libreria Einaudi di Milano. Ha scritto libri per adulti, ragazzi e bambini, affrontando anche le tematiche del colonialismo italiano, della Shoà, delle guerre e delle recenti immigrazioni; sono frequenti i suoi incontri con gli studenti delle scuole primarie e secondarie. Laureato in Storia presso l’Università degli Studi di Milano, attualmente è ricercatore presso il Centro Altreitalie della associazione Globus et Locus. In passato si è occupato di temi attinenti alle migrazioni storiche e contemporanee, ha lavorato come giornalista e traduttore a Berlino. È autore di Nuove mobilità europee e partecipazione politica. Il caso degli italiani a Berlino (Altreitalie 36-37, 2007) e di Giovani italiani a Berlino: nuove forme di mobilità europea (Altreitalie 33, 2006) Dal 1989 è amministratore delegato e responsabile commerciale della S.EL.DA. INFORMATICA, leader sul territorio nazionale nel software gestionale per fotolaboratori industriali e aziende ortoflorovivaiste. Docente in molti corsi privati di discipline informatiche e aziendali, ha acquisito un’ampia esperienza in ambito associativo e politico. Attualmente è vicepresidente dell’Istituto di Tutela dei Produttori Italiani (ITPI) e membro della Commissione Provinciale per l’Artigianato di Ascoli Piceno (CPA). In qualità di storica dell’arte e funzionaria del Ministero per i beni culturali, ha lavorato per molti anni a Firenze come curatrice e nel campo della didattica museale per bambini e per adulti. Dal 2002 al 2007 ha lavorato come addetto culturale e vicedirettrice presso l’Istituto italiano di cultura di Istanbul, dove ha avuto l’opportunità di condurre ricerche approfondite e di curare testi sulla comunità italiana di Istanbul. Dal 2007 è direttrice dell’Istituto italiano di cultura di Lubiana. Professore ordinario di Storia dell’architettura presso l’Università di Firenze dal 1987, negli ultimi anni ha partecipato a progetti di ricerca sull’opera degli architetti europei nei Paesi della riva meridionale del Mediterraneo. Dal 2008 ha organizzato tre esposizioni promosse dal Ministero italiano degli affari esteri sull’opera degli architetti italiani in Siria e Libano, in Egitto e in Marocco. Ha promosso inoltre cicli di convegni sulla presenza degli architetti italiani nei Paesi del Mediterraneo. Nata a Torino, ha studiato Design a Milano e Belle arti a Bruxelles, prima di trasferirsi negli Stati Uniti, dove ha iniziato la sua carriera nel settore dell’arte. Ormai rinomata per l’arredamento d’interni, nel 1998 ha dato vita alla prima serie di Kaftani. Attualmente vive a Londra e disegna collezioni di tappeti e tessuti, d’abbigliamento femminile e per la casa. Autrice di Design Alchemy con Ashley Hicks (Conran Octopus), pubblicherà nel 2010 En eye for design (Abrams). LOREDANA IONITA GIANNI ROGLIATTI MADDALENA TIRABASSI GIULIO MACHETTI EDGARDO SALAMANO LAURA TONATTO Claudio Mellana CRISTIANO SEGANFREDDO JURAJ VALCUHA Nata nel 1972 a Bacau (Romania), è in Italia dal 2001. Torinese ‘di adozione’, avvocato, professore all’agenzia formativa TuttoEuropa ove precedentemente ha conseguito un master in Traduzione giuridico-amministrativa per l’UE. Specializzata in mediazione culturale, ambito penale giudiziario. Nel percorso di integrazione ha svolto diverse attività lavorative (interprete, traduttrice, mediatrice culturale), prima di diventare il primo legale rumeno iscritto all’Albo forense nel capoluogo piemontese. Insegna Storia contemporanea presso l’Università degli studi di Napoli L’Orientale. Dalla fine del 2001 è consigliere di amministrazione della società partecipata S.i.re.na. cittàstorica. I suoi interessi di ricerca si sono orientati sullo studio della struttura sociale, economica e politica del Mezzogiorno d’Italia tra età crispina e fascismo e sulla mobilità sociale in epoca contemporanea. Attualmente coordina con Brunella Como una ricerca sulla storia dell’ex-concessione italiana a Tianjin. Vignettista, dalla fine degli anni ’60 pubblica su riviste underground e di controcultura alcune delle quali ha partecipato a far nascere: Ca Balà, Puzz, Gero Zoom, Pelo & Contropelo. È autore di contributi su riviste e giornali tradizionali come Paese Sera, La Stampa, Stampa Sera, l’Unità, Radiocorriere, Pianeta, ABC, Novasocietà, Gong, Il Collezionista. Nel 1991, insieme a Dino Aloi, per Feltrinelli, pubblica Un lavoro da ridere nel centenario delle Camere del Lavoro di Torino, Milano e Piacenza. Torinese del 1929, giornalista, direttore editoriale de La Manovella, ha iniziato a scrivere nel 1959 interessandosi al mondo dell’auto a 360 gradi ed in particolare alla Ferrari, grazie allo stretto rapporto instaurato sin dal 1956 con il fondatore Enzo Ferrari e successivamente con il figlio Piero e con l’attuale presidente Luca di Montezemolo. Sulla Casa di Maranello ha scritto molti libri e articoli e la storia ufficiale edita nel 2007 in occasione del 60° anniversario del primo esemplare prodotto. Laureato alla Facoltà di Architettura e Urbanistica di Buenos Aires e dottore di ricerca in Pianificazione regionale e progetto urbano presso l’Università Sorbona di Parigi, ha frequentato la scuola di specializzazione in Urbanistica a Berlino. Ha curato mostre e pubblicazioni e ha tenuto lezioni in ambito accademico; si è occupato di urbanistica e pianificazione per numerose istituzioni pubbliche. Attualmente è consulente del Ministero per lo sviluppo urbano della città di Buenos Aires. Direttore di Fuoribiennale (piattaforma di sviluppo del contemporaneo), di Innov(e)tion Valley (progetto di pianificazione strategica del Nord-Est come area al mondo con il più alto tasso di industria creativa), e amministratore di Agenzia del Contemporaneo (società di servizi dedicati all’ambito della contemporaneità, per istituzioni e brand). Curatore di eventi e mostre con una particolare attenzione alle interazioni con la moda, il design e l’architettura, in uno stretto rapporto con il tema di impresa-cultura. È direttore del Centro Altreitalie sulle Migrazioni Italiane (associazione Globus et Locus) e della rivista Altreitalie. Curatrice della mostra itinerante Migrazioni italiane esposta in numerose città italiane ed europee, è nel comitato scientifico di Italia 150 per la sezione emigrazione e fa parte del comitato scientifico del Museo dell’Emigrazione di Roma. È stata docente di letteratura angloamericana presso l’Università di Teramo. Ha pubblicato numerosi saggi su riviste italiane e straniere e alcune monografie. Torinese per nascita, ha collaborato con il maestro profumiere Hassan del Cairo e con Serge Kalouguine. Alla creazione di profumi su misura, affianca un’intensa attività divulgativa, divenendo docente nel master post-laurea in Scienza e tecnologie cosmetiche a Ferrara. Ha sviluppato numerose collaborazioni con istituzioni culturali (dal Festival del Cinema di Roma all’Hermitage di San Pietroburgo). È stata inoltre insignita di numerosi premi tra cui il Creativity Award 2008 nel Regno Unito. Nato nel 1976 a Bratislava, in Slovacchia, ha studiato al Conservatorio Nazionale a San Pietroburgo e a Parigi. Dal 2003 al 2005 è stato direttore assistente presso l’Orchestra e l’Opéra National di Montpellier, debuttando nello stesso periodo con l’Orchestre Nationale de France. Ha diretto le più importanti orchestre del mondo: Parigi, Lione, Bologna, Londra, Berlino, Pittsburgh, Lipsia, Milano. Dal novembre 2009 è direttore principale dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. Comitato scientifico Marcello Cini Professore emerito di Istituzioni di fisica teorica e di Teorie quantistiche all’Università La Sapienza di Roma, è stato vicedirettore della rivista internazionale Il Nuovo Cimento. Il suo ambito di ricerca interessa prevalentemente lo studio delle particelle elementari della meccanica quantistica e dei processi stocastici. Dagli anni ’70 ha accompagnato questa attività con studi di storia della scienza e di epistemologia, e interventi su varie riviste e sul quotidiano Il manifesto, di cui è tra i fondatori. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo l’Ape e l’Architetto (1976) scritto insieme a Giovanni Ciccotti, Michelangelo De Maria e Giovanni Jona-Lasinio, Il paradiso perduto (1994), Dialoghi di un cattivo maestro (2001). Ha ricevuto il premio Nonino 2004 “A un maestro italiano del nostro tempo”. Mario Cucinella Architetto, ha fondato lo studio Mario Cucinella Architects, a Parigi, nel 1992 e, a Bologna, nel 1999 con la socia Elizabeth Francis. I suoi progetti sono caratterizzati da innovazione tecnologica, salvaguardia ambientale e sostenibilità architettonica; tra i più significativi, il progetto di ricerca sulla casa 100K, il Sino Italian Ecological Building a Pechino e la nuova sede del Comune di Bologna. Ha partecipato a grandi concorsi internazionali, ricevendo numerosi riconoscimenti, tra cui il Mipim Green Building Award 2009 e l’Architectural Review Future Projects Award 2009 a Cannes, Francia. Si dedica inoltre alla ricerca e allo sviluppo di prodotti di design industriale e all’attività didattica, ricoprendo il ruolo di Visiting Professor all’Università di Nottingham e tenendo regolarmente conferenze in Italia e all’estero. PHILIPPE POTIÉ Architetto, è professore ordinario di Histoire et cultures architecturales a Versailles. Membro del comitato di redazione della rivista Le visiteur (Société Francaise des Architectes, SFA) dal 2007, è fondatore della rivista Dessin/Chantier in collaborazione con Cyrille Simonnet (1982). È autore di numerosi saggi e monografie sui temi dell’architettura, della storia delle tecniche costruttive e della rappresentazione di cui, fra le più significative, si segnala Le couvent Sainte Marie de la Tourette, Fondation Le Corbusier/ Birkhäuser (bilingue francese-inglese, 2001 – inglese/cinese, 2007). Responsabile nazionale di numerosi gruppi di ricerca nell’ambito della cultura costruttiva, tra cui Le Plan Urbanisme Construction Architecture, histoire et devenir d’une politique d’expérimentation, Plan Urbain Construction Architecture, 2007. CYRILLE SIMONNET Architetto e ricercatore presso il Laboratoire Dessin Chantier a Grenoble (1985-96). Dal 1997 è professore ordinario di Architettura e arti applicate presso l’Institut d’architecture de Genève, e direttore dello stesso istituto di Ginevra dal 1998 al 2002. Attualmente è professore di Storia dell’arte presso la facoltà di Lettere dell’Università de Genève. Le sue principali pubblicazioni a carattere storico e teorico riconducono ad una lettura dell’architettura come fatto costruttivo e sociale. È referente culturale di una rete di ricerca legata sia all’ambito accademico che professionale (Réseau Cultures Constructives) che organizza convegni e seminari nell’ambito del rapporto fra architettura e tecniche costruttive. È membro del comitato di redazione della rivista FACES (Ginevra). Ha al suo attivo più di cinquanta pubblicazioni oltre alle numerose partecipazioni ad opere collettive. L’Italia creativa Editoriale di Riccardo Bedrone Ma si può, oggi, parlare dell’Italia come metafora di creatività, cultura, fantasia, insomma di tutto ciò che siamo abituati a pensare di noi stessi, guardando alla nostra gloriosa storia passata? Già al termine del ‘miracolo economico’ un autorevole osservatore delle nostre attitudini, come Ennio Flaiano, non ci credeva più e scriveva amaramente “fra trent’anni l’Italia non sarà come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la televisione” e ancora “l’italiano è un tentativo della natura di smitizzare se stessa”. Questa volta TAO ha voluto provare a verificare se il pessimismo sia giustificato e condiviso, oppure se sussistano motivi di orgoglio e di speranza, almeno guardando alle testimonianze che gli italiani hanno saputo esprimere, in passato, di quella creatività che ancor oggi è indissolubilmente intrecciata con il marchio Made in Italy. Lo spunto è offerto dal progetto di mostra Capitali italiane nel Mondo che l’Ordine degli architetti di Torino ha preparato per i festeggiamenti del centocinquantenario dell’Unità d’Italia, nel 2011, e che lo ha portato a scandagliare il contributo di innovazione nei costumi, negli stili di vita, nell’ambiente urbano adattato o creato ex novo dagli italiani all’estero dal 1861 ad oggi. E dagli interventi ospitati sulla rivista sembra prevalere la fierezza di chi riconosce quanto sia stato importante il nostro contributo nel mondo e quanto anche oggi e in futuro possa esser utile e apprezzato. Certo, c’è chi (Banfo) segnala la perdita delle nostre radici architettoniche come effetto derivato della (in)cultura di massa. Ma c’è anche chi (Bassetti) propone una lettura totalmente nuova dell’italianità e della sua forza innovativa, che preferisce attribuire all’‘italicità’, come idea aggregante di una comunità allargata agli extracomunitari integrati, ai figli degli italiani all’estero, agli ‘italiofili’… E chi esalta i prodotti italiani come simbolo assoluto di supremazia creativa e tecnica – la Ferrari – e chi si impegna a tutelarli, ritenendoli più che mai valore in sé e come tale patrimonio collettivo da non disperdere. Nello stesso senso si possono intendere le interviste ai ‘nuovi creativi’ che l’Italia produce, come fucina continua di genialità, purtroppo spesso più apprezzate al di fuori dei suoi confini. Ma, soprattutto, gli interventi qui ospitati di tanti studiosi evidenziano il quadro straordinario che traspare dalle testimonianze materiali dell’architettura italiana all’estero, in ogni Paese, in ogni latitudine ove, per emigrazione o per aggressione, l’Italia abbia messo piede. Questo perché, come ben sottolinea Tirabassi, se in termini numerici i movimenti migratori presentano cifre impressionanti, gli italiani che li hanno alimentati “hanno lasciato profondi segni della loro presenza nelle diverse società. Si tratta di segni diretti, legati alle loro professionalità, architetti, ingegneri e artisti, maestranze, artigiani, scalpellini, stuccatori, intagliatori e manovali” con “influenze derivate dal continuo intreccio tra migrazioni di professionisti e migrazioni non specializzate”. Insomma, parrebbe di capire che la creatività, l’inventiva, l’estro, la genialità, come caratteristiche peculiari della gente italiana (e non solo dei suoi rappresentanti eccellenti), sopravvivano ancor oggi, nonostante tutto, alla decadenza dei costumi e della morale che ogni giorno di più le pagine di cronaca ci riferiscono tristemente. Gli abitanti dello Stivale Italiani Chi è più italiano? Chi lo è per nascita o chi lo diventa per scelta? Come è possibile veicolare l’italianità nella propria professione? Quali stereotipi ci perseguitano? Davide Banfo 'Luogocomunismo' outlet color ocra Nascono all’estero tante 'piccole Italie', caratterizzate da un modo comune di intendere i luoghi urbani Erminia Dell’Oro Vivere fra due mondi Una città descritta come una giostra di lingue, di colori, di profumi. Asmara è una città sospesa. Solo entrando nel mondo degli altri non sono più stranieri e noi stranieri a loro Quali sono i nomi a cui si riconosce maggiore italianità? Esiste un Made in Italy anche in architettura? Loredana Ionita Allegra Hicks Torinesi del mondo e il mondo a Torino Laura Tonatto Quattro storie per raccontare chi è italiano, come e dove Juraj Valcuha Ph © Carlotta Maitland Smith - Adele in her sitting room. She was born in the Bronx and has never returned to Italy, Bronx, New York, USA, 2008 L’italiano globale 8 — Italiani Vivere fra due mondi Erminia Dell’Oro Un tempo, in uno dei luoghi più magici di Asmara, il Caravanserraglio, sostavano le carovane dei cammellieri che risalivano l’altopiano. Immagino che la notte i mercanti accendessero fuochi per tenere lontane le iene, i leopardi, gli sciacalli. Per cucinare e scaldarsi nelle ore notturne sull’altopiano. Fumavano narghilè e si raccontavano storie, sotto un cielo coperto di stelle. “Vado al Caravanserraglio”, diceva talvolta mio padre. Quando ero bambina credevo che andasse in un luogo incantato, con animali fiabeschi dove soltanto gli adulti potevano entrare. Forse aveva capito che mi ero inventata una fiaba, e non rivelava l’acquisto di ferri vecchi che si trovavano soltanto in quell’immensa fucina. Mio nonno paterno lasciò la natia Lecco nel 1896, diretto in Congo Belga. Durante la tappa forzata nel porto di Massaua, avendone abbastanza di quel lungo viaggio, sbarcò. L’Eritrea era da pochi anni una colonia italiana. Il giovane e avventuroso Carlo decise di raggiungere il grande villaggio posato sull’altopiano, a duemilaquattrocento metri. Non c’erano strade, né ferrovia. Salì, immagino, con una carovana di cammellieri. Mi chiedo se anche lui, nella prima notte ad Asmara, abbia sostato al Caravanserraglio, ascoltando i racconti di altri viaggiatori, e narrando dei luoghi che aveva lasciato. Uno scambio di esperienze e culture diverse come in un bellissimo racconto di Italo Calvino ne Le città invisibili. La mia città è invece sospesa. Sospesa nel tempo, in attesa. Un balcone fiorito, attraversato da uccelli variopinti, posato sull’orlo dei precipizi. Arrivarono ad Asmara, in quel primo Novecento, gli ebrei adeniti che fuggivano dalle persecuzioni nello Yemen, arabi yemeniti, indiani, greci, armeni. Architetti italiani costruirono la sinagoga (1906), la cattedrale in stile lombardo con mattoni a vista, la grande moschea, e la bellissima chiesa copta Nda Mariam-Casa di Maria. Entravo con le amiche nei variopinti negozietti degli indiani, profumati da incensi, compravamo braccialetti di vetro, andavamo a guardare i tessuti sgargianti e le babbucce di seta nei negozi degli ebrei, compravamo datteri e biscotti al miele nelle bottega di Ahmed e lui, conoscendoci, ci regalava caramelle. Nella grande casa di Sansone Banin, con le stanze piene di voci che mescolavano parole arabe ebraiche inglesi italiane, mi affascinava la figura della nonna. Una signora anziana, vestita sempre con abiti lunghi, orientali, che fumava un lungo narghilé, sdraiata su un divano. Andavamo al mercato, dal signore dei coralli. Era un uomo dalla lunga barba bianca, seduto con le gambe incrociate, avvolto nella jallabia e con il gilè per metterci i soldi. Portava il turbante, come tutti i mercanti arabi. Ci vendeva straordinarie perline colorate, aveva tempo e pazienza, il mercante delle mille e una notte. In quel mercato delle meraviglie, accanto alle stradine delle botteghe orientali, avevo visto, sulla piazza, un fantoccio che si muoveva nel vento, appeso a uno strano congegno. La donna eritrea che mi accompagnava – ero ancora bambina – mi portò via in fretta, ma io mi voltavo a guardare quella tunica bianca, una vela nell’aria, e sentivo le urla di una povera donna. Avevano impiccato “un bandito”. Ph Anna Godio Italiani — 9 Mio padre aveva rapporti di lavoro e di amicizia con imprenditori arabi, indiani, greci, e giocava a scacchi, quasi ogni sera, con un maggiore dell’esercito britannico. Io mi dividevo fra la mia abitazione e quella della mia amica più cara, di famiglia ebraica. Andavamo spesso nella casa dei suoi nonni, parlavano spagnolo quando non volevano farsi capire da noi bambini. La nonna veniva da Cipro, il nonno dalla Spagna. C’è sempre quella casa avvolta dalle buganvillee, dove Beniamino Levi mi offriva il tè speziato e mi raccontava, affascinandomi, storie bibliche. Cultura e religioni diverse che in un microcosmo mi rendevano partecipe di un vasto mondo. Non pensavo, allora, che si potesse vivere in un mondo diverso. I bambini italiani non giocavano con i coetanei eritrei, che abitavano periferie estreme senza alberi e fiori, senz’acqua, con la polvere sollevata dal vento. Conoscevamo i bambini eritrei, che si arrangiavano nel centro della città, a guadagnarsi la sopravvivenza. Li salutavamo, ci davano informazioni preziose, c’era fra noi la complicità dell’infanzia. Ma abitavamo mondi distanti, divisi da barriere create dagli adulti. Erano i bianchi i padroni, nella terra dove da sempre abitavano i neri. Quando torno ‘a casa’ cammino, per ore, nei luoghi amati. Cammino con un senso di felicità e con un senso di angoscia per questo popolo orgoglioso, ospitale, che ha attraversato lunghi anni di guerre, di sacrifici, di infinite perdite, e ancora soffre. Li sento fratelli, gli eritrei. Cammino per le piccole strade con pareti dove si arrampicano nasturzi, buganvillee e per i viali principali. Edifici di diverse epoche e stili fanno della luminosa Asmara una città molto particolare. Vado al mercato delle granaglie, banchi colorati da frutta, verdura, piramidi di cereali, grani di sale lucente. Salgo l’Amba che porta al cimitero di Asmara, dove è narrata, fra date e fotografie sbiadite, la storia dei vecchi coloni. Il cielo blu, la terra rossa, i colori dei fiori, le lepri che corrono fra le tombe danno vita a questo luogo dei morti. Torno al mercato, passo accanto alla chiesa copta e percorrendo ‘strade mercato’ arrivo davanti al Caravanserraglio. Oltrepasso, emozionata, l’ingresso a portico. All’interno, fra le mille scintille dei fonditori, regna un magico caos. Nubi di polvere rossa avvolgono le donne che macinano il berberè, ragazzini offrono tappeti colorati, modellano ogni genere di attrezzi, espongono macinini di caffè di altre epoche. Si intrecciano cesti, si fabbricano scarpe ricavate da vecchi pneumatici. Voci, suoni, odori. Forse una notte, nel silenzio, torneranno i mercanti con i loro cammelli, carovane dei tempi lontani. E narreranno altre storie. Penso all’Italia, dove nei primi anni mi sono sentita straniera, io cittadina italiana… I bambini di oggi condividono i banchi di scuola con bambini di altri Paesi, di altre religioni. Ancora non sanno che è una grande ricchezza ‘stare insieme’. Anch’io non lo sapevo. L’ho capito negli anni vissuti in Italia. Sono stata fortunata a crescere in un Paese di culture diverse. Chissà, forse mio padre mi aveva trovato al Caravanserraglio, dove l’inimmaginabile è possibile. 10 — Italiani L’italiano globale Un sondaggio tra gli iscritti OAT (e non solo) per indagare che cos’è il Made in Italy nel linguaggio comune Il concetto di ‘italiano’ non indica esclusivamente l’appartenenza ad una nazione, ma assume un significato più ampio, descrive un vero e proprio stile di vita, rappresentato soprattutto attraverso stereotipi radicati nel tempo. E sono proprio gli stereotipi a rendersi veicoli dell’italianità nel mondo: pizza, mafia e mandolino sono tra i termini più ricorrenti per descrivere l’Italia e si sono diffusi a tal punto da entrare a far parte di un linguaggio universale. Ma esistono anche aziende e prodotti che hanno saputo guadagnarsi il favore del mercato internazionale, diventando famosi in tutto il mondo. Marchi come ‘Fiat’ e ‘Ferrero’ sono così noti all’estero da divenire simbolo dell’Italia e hanno contribuito a rendere il Made in Italy rinomato. In questo contesto viene spontaneo interrogarsi sul ruolo dell’architettura nel veicolare l’italianità fuori confine. Esiste ancora (o è mai esistito) un Made in Italy in architettura? Gli architetti di epoca romana e rinascimentale hanno contribuito a rendere famosa l’Italia nel mondo, ma è corretto parlare della loro opera come di un Made in Italy? E oggi chi ha preso il loro posto? Renzo Piano e Massimiliano Fuksas sono espressione di un modo di progettare all’‘italiana’ o esclusivamente individuale? Hanno risposto al sondaggio Federico Alzu, Barbara Biasiol, Maria Vittoria Capitanucci, Alberto Brunasso Cassinino, Giorgio Comoglio, Romina Cuda, Tommaso Delmastro, Roberto Doglio, Marco Virginio Fiorini, Francesca Gianola, Giudy Girardina, Raffaela Maglio, Enrico Maritano, Andrea Muzio, Giuseppe Pollichino, Paolo Pitone, Alberto Raimondi, Giovanni Sessa, Monica Stroscia, David Terracini, Davide Turaglio, Stefano Vellano, Silvia Zanetti, Andrea Zavattaro e molti altri anonimi. Italiani — 11 Nel campo del restauro Renzo Piano, Noumea. Nomi di archistar (Renzo Piano, Gae Aulenti, ecc). Palazzo Lascaris a Nizza. Il teatro del mondo di Aldo Rossi. Se estendiamo architettura al design soprattutto nella componentistica e finiture (rivestimenti illuminazione sanitari arredi ecc). Beaubourg. Acquedotti e costruito romano, Rinascimento e Barocco, stop Architetture locali e nei materiali. Da Palladio a Juvarra, dal Rinascimento al Barocco, un periodo di tempo a cui non corrisponde nell'era attuale un concetto di architettura così grandioso e importante se non con singoli e limitati progetti architettonici e urbanistici. Le architetture delle archistar sono a volte l'espressione di una idea che spesso è solo autocelebrazione e non un vero Made in Italy; l'architettura è una idea universale e non può essere l'espressione chiusa di una sola nazione ma di un individuo che l'ha pensata. Le opere di Giò Ponti, Ridolfi, Michelucci, Carlo Scarpa, E. Sottsass, A. Mendini Il rapporto con la storia e il territorio. Le grandi opere di Renzo Piano. Esisteva nei secoli passati, dai Romani all'800. Oggi l'Italia ha perso il primato dell'arte internazionale nel campo dell'architettura, mantenendolo ancora nel design, nel cinema, nella moda. Perché? Perché l'italiano non ha più il senso della civitas cioè della collettività (cui l'architettura è rivolta). Sopravvive il bello nel privato. Nel pubblico è morto. Renzo Piano. Purtroppo è visibile da chiunque giornalmente. Sono gli edifici comuni che si continuano a costruire diffusamente nel nostro Paese, senza alcuna qualità architettonica o tecnica. Probabilmente sono questi i rappresentanti veri del Made in Italy architettonico, e non le rare e pregevoli eccezioni, realizzate da studi che hanno passione per questo mestiere. In negativo: quello scempio fatto da più generazioni di geometri scatenati, incompetenti complici una classe politica corrotta e una popolazione sostanzialmente amorfa. In positivo: il design degli anni ’60, ’70 e '80 che ha contaminato in positivo molti architetti. Semplice... Vitruvio... solo noi abbiamo questo innato senso della proporzione, l'armonia, il bello! Difficile fare un esempio... esiste una cultura italiana che permea l'architettura e fa si che essa diventi riconoscibile e non confondibile con quella di altri Paesi. Forse ciò era più vero nei secoli passati, però qualcosa di quel genius loci ancora rimane. Isola, Rossi... Roma antica, Palladio, il Rinascimento in genere, Nervi, Rossi, Piano, le piazze disegnate. Esisteva, le opere di architetti come Terragni ne sono un esempio. 12 — Italiani 'Luogocomunismo' e outlet color ocra L’Italia perde le sue radici architettoniche Davide Banfo Un piccolo episodio, ma significativo. Un candidato alle elezioni regionali del Lazio finisce al centro di un caso politico per aver regalato dei calendari con le gesta del Duce e il banner del suo sito personale. Il politico si difende parlando di un ‘omaggio’ dei suoi sostenitori per – testuali parole – “i 70 anni dell’inaugurazione di Pomezia”. Inaugurazione? Possibile che un ex esponente di An non ricordi proprio nulla della mistica fascista. Le città si fondano, non si inaugurano come i centri commerciali. Osservando l’Italia del 2010 da lontano o, meglio ancora, dalla siderale distanza del web, si avverte una specie di cesura netta con le sue radici. Anche l’Italia del Ventennio, come dimostra il patetico aspirante consigliere regionale del Lazio, è stata cancellata. Il ‘piccone demolitore’ è confinato nei libri di storia, il quartiere dell’Eur viene difeso paradossalmente dalla Lega Nord che non vuole farsi scippare da ‘Roma ladrona’ il gran premio di Formula 1 che si vorrebbe correre usando come grande paracarro il Palazzo delle Civiltà. L’Italia del passato non esiste più. I grandi monumenti diventano delle specie di cartoline, o meglio sfondi per cartoline. Quella che prevale, e non vale citare come al solito l’antropologo Marc Augé, è un’Italia, architettonicamente parlando, del non luogo. L’unica Italia vera e riconosciuta è quella ricreata negli outlet gestiti da multinazionali. Basse costruzioni ad un piano rosa, ocra o gialline. Il resto è stato dimenticato. Prevale una specie di ‘luogocomunismo’ che tende a omogeneizzare tutto. Le periferie delle grandi città sono ormai tutte uguali. Sembrano quelle francesi con forse qualche rotonda in meno ma le stesse insegne dei centri commerciali. Il discorso non è quello di rimpiangere le città italiane degli anni ’60-’70, ma forse qualche identità locale ancora all’epoca si avvertiva. Il Nord era segnato dalle fratture tra le banlieue industriali e le campagne che tendevano ad essere occupate dai capannoni. Nelle città del Sud la campagna arrivava quasi all’improvviso, con gli ultimi palazzi che anno dopo anno venivano superati da altri agglomerati spesso abusivi. Uno scenario andato avanti con qualche modificazione per quasi vent’anni nel mito della crescita economica, della cementificazione del territorio. I capannoni degli anni ’60 sono i progenitori dei capannoni che negli anni ’90 hanno invaso tante zone pregiate come le Langhe, la campagna romagnola, le colline o le pianure toscane e venete. Una metastasi che non è stata sufficientemente combattuta, ma anzi promossa e agevolata da tante amministrazioni pubbliche. Le stesse amministrazioni che si ritrovano poi a fare i conti con le vecchie fabbriche nei centri storici, vecchie fabbriche tutte promosse a pezzi di archeologia industriale nella speranza di trasformarle in qualche museo o spazio sociale. Il problema, senza avere la presunzione di parlare di massimi sistemi, non è provare nostalgie, ma riflettere un attimo. La ricorrenza dei 150 anni dall’Unità d’Italia potrebbe essere una grande occasione. L’Italia è un Paese che ancora si ‘vende’ bene. Turisticamente parlando è in crisi da anni, ma all’estero stanno crescendo tante ‘piccole Italie’. Il web, come accennato, ne è l’esempio. Non Ph wikimedia commons - Croq Italiani — 13 ci sono solo il cibo e la moda a rendere interessante il Made in Italy. Forse c’è ancora un modo di intendere le città con la loro storia che rende questo paese unico. Firenze non è uguale a Venezia non solo perché non ci sono il mare, le gondole o l’acqua alta. Torino non assomiglia a Catania o a Palermo nonostante siano evidenti per tutte e tre le città gli influssi del Barocco. Milano ha ancora meno grattacieli di qualsiasi piccola città della Cina o degli Stati Uniti. Roma (‘fondata’ dai gemelli Romolo e Remo e non ‘inaugurata’!) resta unica e straordinaria con i suoi palazzi finalmente ripuliti e i monumenti sopravvissuti a duemila anni di angherie e devastazioni. A proposito: anche il Colosseo non si sottrae alla ignominia di certe definizioni da reality show dove il sussidiario di terza elementare è l’ultimo libro letto o sottolineato. L’Anfiteatro Flavio è stato definito da uno studente in gita scolastica che si era perso “quel muro alto, alto e pieno di buchi”. Una definizione perfetta per farsi venire a prendere da una professoressa rassegnata, precaria e mal pagata. L’Italia è un Paese che rispetto a 150 anni fa sta decisamente meglio. Grazie al sommerso ha un’economia in grado di superare crisi internazionali che hanno messo in ginocchio altre nazioni. La sua capacità di reagire alle grandi emergenze non è stata neanche scalfita dagli ultimi scandali che hanno fatto precipitare in un unico calderone eroi (civili) e faccendieri (miserabili). L’Italia resta un Paese fatto di mille piccole realtà che, nonostante il processo di unificazione sia andato avanti in modo contradditorio ma impetuoso, rimangono gelose della propria autonomia, della propria identità. Riempiamo gli outlet sparsi per il Bel Paese di pannelli per spiegare chi sono stati i grandi architetti italiani, quali sono i fondamenti della civiltà italiana. Alimentiamo qualche speranza per il 2061… 14 — Italiani Torinesi del mondo e il mondo a Torino L’Italia e gli italiani: il punto di vista di chi è appena arrivato nel nostro Paese e di chi se ne è andato da tempo e porta all’estero la sua italianità. Interviste a Loredana Ionita, Juraj Valcuha, Allegra Hicks, Laura Tonatto Loredana Ionita Loredana Ionita è un’avvocato rumeno, nata a Bacau, arrivata a Torino per ricongiungersi alla madre Viorica, già precedentemente emigrata in Italia per motivi di lavoro. Nel nuovo contesto sociale, in seguito ad un iniziale periodo di difficoltà, Loredana si è agevolmente integrata, quasi a voler testimoniare la vicinanza tra i due popoli latini. DOMANDA Quando è arrivata a Torino e quale motivazione l’ha spinta a rimanere? Risposta Ho visitato per la prima volta la città in un breve soggiorno avvenuto nel 2000. Mi sono trasferita definitivamente nel 2001, per stare vicina a mia madre, ma anche attratta dalla piacevolezza del luogo e dalla cordialità delle persone, nonché per il desiderio di inseguire il mio destino, alla stregua di un cavaliere errante che insegue ed è ad un tempo artefice della propria ‘Leggenda Personale’. D Dove ha preso avvio la sua professione di avvocato? In Italia o in Romania? R Mi sono laureata in Romania nel 1996 e ho ottenuto nel 1998 l’abilitazione alla professione forense e la titolarità del mio studio. In quel periodo la situazione economica generale del mio Paese, effetto di un’inflazione galoppante, non offriva interessanti opportunità lavorative, né di crescita professionale. Per questo motivo molte persone sono emigrate all’estero. Grazie al mio percorso di integrazione e agli studi, a luglio dell’anno scorso sono riuscita ad ottenere il riconoscimento dei miei titoli e l’iscrizione all’Albo degli Avvocati di Torino. D Quali stereotipi conosce legati all’Italia o agli italiani? R Gli stereotipi accomunano tutti i Paesi; certo bisogna conoscere le diverse realtà per avere opinioni ‘oggettive’ e non sconfinare nei pregiudizi. In Romania gli italiani erano soprannominati ironicamente ‘macaronari’ e ‘broscari’, in quanto mangiatori di maccheroni e di rane. In generale l’idea che mi ero fatta era di persone gentili e simpatiche, con uno spiccato senso degli affari. Avevo sentito parlare anche della mafia italiana, ma naturalmente non si deve fare di tutta l’erba un fascio. D Secondo lei, con quali stereotipi sono connotati i rumeni in Italia? R Le donne rumene ‘rubano’ gli uomini alle italiane, gli uomini rumeni ‘amano’ più la grappa che le loro donne, per citare stereotipi che potrebbero suscitare ilarità. Altri rasentano la calunnia o la diffamazione e questi preferisco ometterli ed esprimere così il mio dissenso. D Quali sono i suoi ricordi del regime? R Durante la dittatura di Ceausescu era garantito il minimo vitale. Pur non mancando il lavoro e la casa, la vita era fatta di sacrifici, di privazioni e tutto era subordinato al ‘bene’ dello Stato. Nelle cooperative agricole di produzione, veniva reclutata tutta la forza lavoro disponibile, inclusi gli studenti delle medie e delle superiori, che svolgevano un ‘lavoro patriottico’, raccogliendo granoturco, barbabietole ecc. Per approvvigionarsi di generi di prima necessità, occorreva avere la tessera e fare code estenuanti Italiani — 15 dalle quattro del mattino. La privazione più abominevole era quella di non poter esprimere apertamente le proprie idee, aggravata dalla presenza ovunque della securitate, la polizia segreta che si è macchiata di crimini efferati. L’unica finestra sul mondo occidentale era la stazione radio La voce dell’America, ascoltato di nascosto, con timore e circospezione. Nel 1989, la caduta di Ceausescu e della moglie Elena (considerata la vera mente delle azioni del marito) aveva suscitato speranza e disperazione. Ricordo la sensazione di terrore del Paese, le strade deserte e le porte sbarrate. Dalla televisione appresi ciò che stava accadendo, qualcosa che rasentava l’impossibile. Poi i bus pieni di ragazzi che andavano verso Bucarest e che salutavano con le due dita alzate in segno di vittoria; la guerra civile in un vortice di terrore e di crudeltà, con il sacrificio di troppe vittime innocenti; infine l’esecuzione di Ceausescu. D Quali sono i luoghi di Torino che apprezza di più? R Appena arrivata, sono rimasta colpita dal monumento emblema di Torino, la Mole Antonelliana. Successivamente ho avuto modo di ammirare ed apprezzare l’architettura dei palazzi della città, sono rimasta affascinata dal barocco torinese di Juvarra e Guarini e dai tanti musei cittadini, e non per ultimo dallo stupendo polmone verde, il Parco del Valentino. D Gli architetti hanno realizzato anche architetture giudicate orribili per la forma e per il degrado sociale e ambientale che hanno alimentato. Esiste un reato per distruzione di opere d'arte e costruzione di mostri architettonici? Che pena infliggerebbe? R Le strutture architettoniche rispecchiano la civiltà di un popolo, la sua storia e devono avere un valore simbolico in sintonia con canoni estetici raffinati; proprio per questo non credo esista una pena sufficientemente adeguata per quello che considero una grande offesa, non solo ambientale ma anche morale. D Un piatto tipico che ha assaggiato? R La conoscenza dei piatti tipici di una regione credo sia una tappa fondamentale nel processo di integrazione. Ho avuto modo di assaggiare ed apprezzare alcuni specificità della cucina piemontese, tra cui la bagna cauda, il fritto misto alla piemontese, i dessert al cioccolato. Seppure i sapori della cucina torinese si discostino da quelli tradizionali della cucina rumena, apprezzo ugualmente ambedue. D Prima di venire a Torino, dove si era fatta un’idea dell’Italia? R Attraverso i film d’autore, i documentari sul ‘Bel Paese’, che in Romania sono in lingua originale sottotitolati, e dai libri di autori italiani. D Che cosa non sopporta di Torino? R Lo smog e il traffico, ciò che mi ha indotto a trasferirmi nella tranquillità di un paesino di provincia. D Che cosa sta leggendo in questo momento e quali sono i suoi autori preferiti? R Sto leggendo un libro motivazionale, Come trattare gli altri e farseli amici di Dale Carnegie. Leggo molto, tra i miei autori preferiti ci sono i classici della letteratura italiana e della letteratura internazionale. Mi piacciono Pirandello, D’Annunzio, Svevo, Hemingway, Antoine de Saint-Exupéry, Hugo, Eminescu, ecc. D Ha un suo motto? R “Prima ci ho creduto col cervello, poi l’ho fermamente voluto con il cuore, infine mi sono semplicemente dato da fare” (Barone Bich). Juraj Valcuha Juraj Valcuha, trentatreenne, slovacco, già affermato a livello internazionale, è da novembre 2009 il nuovo direttore principale dell’Orchestra sinfonica nazionale della Rai. La sua formazione artistica è avvenuta tra Bratislava, San Pietroburgo e Parigi e la sua carriera di direttore lo sta portando in giro per il mondo. DOMANDA Che cosa conosceva dell’Italia prima della nomina della Rai? RISPOSTA Conoscevo già l´Orchestra della Rai, che avevo diretto almeno in 4 programmi diversi. Avevo già trascorso qualche settimana a Torino. Ho diretto anche a Napoli, Venezia, Bologna, Genova e Milano, tutte città affascinanti. D Le piace Torino? R È una città positiva, ha un’ottima energia. D Torino è una città antica che ha conosciuto un importante passato industriale, ora in fase di grande trasformazione. Può citare qualche edificio di Torino storico o moderno che l’abbia più colpita e perché? R Direi il Lingotto, con il suo Auditorium progettato da Renzo Piano, architetto a me familiare: abito a Parigi e vado spesso al Beaubourg, dirigo a Berlino e passo sempre nel Sony Center per andare alle prove. Il Lingotto è una fabbrica trasformata in una sala da concerti apprezzata dalle piu grandi orchestre che vi fanno tappa nelle loro tournée europee. D Secondo lei, esiste un’atmosfera torinese? Qual è l’angolo della città nel quale trascorre volentieri una pausa? R Torino ha una vera personalità: non è esuberante, non è ‘ostentatoria’, ma è accogliente, ha un certo stile. Mi piace vagare per le vie del centro, osservare le facciate orgogliose degli edifici. D Un piatto o una bevanda torinese e un esempio invece tipicamente italiano. R I marrons glacés, il bicerin, ma anche i piatti col tartufo e con un bel bicchiere di Barbaresco. D Il teatro più bello e funzionale in Italia nel quale vorrebbe o tornerebbe a dirigere un’orchestra? R Finora ho diretto alla Fenice, al San Carlo di Napoli, al Comunale di Bologna: uno più bello dell’altro. La parola funzionale non mi sembra molto in sintonia con questi prestigiosi edifici. Il fatto di trovarsi a fare musica in questi luoghi, testimoni di tanta grandezza e creatività, aiuta ad accettare la mancanza di funzionalità. Dirigo anche spesso in sale molto sofisticate che offrono soluzioni tecnologiche all’avanguardia. Entrambi gli aspetti sono interessanti. D L’ha mai affascinato il Made in Italy e a che cosa lo riconduce? Secondo lei esiste ancora? R Come non rimanere affascinato? L’estetica, la purezza delle linee, la qualità dei prodotti. Si può ancora parlare del Made in Italy e bisogna puntare sul- 16 — Italiani la qualità e l’esclusività. In poche parole: si deve resistere. D La musica usa un linguaggio universale, ma l’opera è un elemento di orgoglio italiano, che ha anche rappresentato l’unità del Paese. Lei dirige anche l’opera. Quanta italianità c’è allora nella sua arte? R L´opera è una forma d´arte italiana. Non solo l´opera è stata inventata in Italia, ma in tutte le sue manifestazioni fuori Italia deve fare i conti con la tradizione interpretativa italiana. Tutti direttori e interpreti devono cercare d´appropriarsi di un´italianità ogni volta che dirigono o interpretano l´opera (che sia tedesca, russa o francese). È ovvio che Verdi e Puccini sono i più legati all´Unità d´Italia e… l´Unità d´Italia è partita da Torino… D Un gioco per chiudere. Quali architetti italiani conosce e quale brano musicale abbinerebbe a ciascuno di essi? R Il primo che mi viene in mente è Palladio abbinato a Mozart (e Palestrina). Allegra Hicks Allegra Hicks, torinese fino a 18 anni, si trasferisce a Milano per frequentare una scuola di design e successivamente a Bruxelles, specializzandosi nel disegno tessile; inizia a lavorare a New York per un artista contemporaneo e successivamente si sposta a Londra. DOMANDA Come è iniziata ed è proseguita la sua carriera londinese? RISPOSTA Nel 1996 ho iniziato a disegnare tappeti e stoffe per interni (prodotti in 25 unità per modello) in collaborazione con diversi studi di architettura; tre dei miei tappeti sono utilizzati nel Parlamento inglese come arazzi decorativi. Recentemente ho aperto un negozio lifestyle in cui vendo i tessuti d’arredamento, i tappeti e le collezioni d’abbigliamento che disegno; la matrice della mia creatività è la produzione di stampe disegnate e questo mi consente diverse applicazioni. D Le piace Torino? Qual è il suo rapporto con la città natale? R Considero Torino una città viva e interessante da un punto di vista intellettuale. È una città bella a livello architettonico. Ma per me è soprattutto un luogo allo stesso tempo familiare e sorprendente. Ho lasciato Torino da ragazzina; non è stato difficile perché stavo per iniziare una nuova esperienza e la curiosità ha prevalso sulla nostalgia. Il posto da cui si arriva è sempre in noi e vi si può sempre fare ritorno. È diverso se invece si lascia la propria città in fuga o da emigrante: sapere di non potere più ritornare indietro avrebbe reso l’addio molto più difficile. D Come mai ha scelto Londra? R Ero attratta dal mondo anglosassone, che per me rappresentava l’eccesso, l’esotico, il diverso. Vivere prima a New York e poi a Londra mi permetteva una forte astrazione, mi consentiva di non sentirmi radicata alle mie radici. Allo stesso tempo però mi ha sempre lasciato con un piede ancora in Italia. D È stato facile integrarsi all’estero? R Gli Stati Uniti sono molto inclusivi: ci si integra facilmente e nell’arco di poco ci si sente immediatamente ‘statunitensi’. Gli inglesi sono molto diversi: non sono inclusivi, ma sono tolleranti. Non incasellano chi arriva da un altro Paese e questo consente ampia libertà. È difficile però sentirsi ‘inglesi’, si resta sempre ‘italiani’. Amano molto l’Italia (dai Grand Tour del Settecento in poi) e questo mi aiuta, come italiana, a rinsaldare le mie radici. D Ritiene che essere italiana le sia stato d’aiuto nel suo lavoro? R Torino è una città con un’eleganza incredibile: è uno ‘stile’, non una semplice ‘moda’ che dura tre mesi; il suo fascino non si esaurisce facilmente. Nel mio lavoro e nei prodotti che vendo ho cercato di portare questo senso di eleganza che caratterizza la mia città. D Esiste ancora un Made in Italy nel campo della moda? R Sì. Il Made in Italy è sinonimo di qualità e non si tratta solo di un’etichetta. In Italia esiste un know-how diffuso nel campo della moda che è impensabile in altri Paesi, ad esempio in Gran Bretagna dove non esiste nemmeno l’industria della moda. Tuttavia non sempre il concetto di ‘made in’ trasmette un’immagine positiva: ad esempio i miei ricami sono prodotti in India perché la qualità degli artigiani in questo ambito è la più alta al mondo; in India sono ancora diffuse delle abilità che noi occidentali abbiamo perso da secoli. Tuttavia se un tappeto è Made in India è automaticamente visto come un prodotto hippie, da tutti i giorni; è inimmaginabile associarlo ad un oggetto di alta qualità. D Secondo lei quanto è diverso dall’Italia vivere a Londra? R Gli inglesi non hanno la capacità di godersi la vita con la stessa naturalezza che abbiamo noi: hanno un culto della vita molto diverso dal nostro. Ad esempio noi diamo molta importanza al mangiare bene; gli inglesi molto meno. Io sono regionalista: ogni città ha le sue specificità. Torino ha il cioccolato, la Fiera del Libro, il Conservatorio; Londra il teatro e i musei. D Con quali stereotipi sono rappresentati gli italiani in Gran Bretagna? R Gli inglesi sostengono che quando vedi uno vestito da inglese è sicuramente un italiano. Gli italiani sono visti come focosi, istintivi, goduriosi, ritardatari e inaffidabili. Però se si chiede a un inglese “Dove vorresti vivere?”, la risposta è sempre “In Italia”. Se con i francesi c’è sempre un rapporto di concorrenza e competizione, gli italiani invece sono posti su un piano diverso, non confrontabile perché prevale sempre l’ammirazione. D Quale edificio torinese e quale londinese vestirebbe e come? R Se potessi scegliere ricoprirei la GAM di Torino con gigantografie che riproducano le opere esposte all’interno e la Mole Antonelliana con del muschio verde; a Londra sceglierei invece il London Bridge e lo ricoprirei di monete di cioccolato. D Se dovesse descrivere un architetto con una stoffa, chi sceglierebbe? R Guarino Guarini è per me damasco, Carlo Mollino è velluto rosso, Tadao Ando è lino grezzo e Zaha Hadid è pelle nera e voile trasparente. Italiani — 17 D Quale lingua parla il profumo? R Una e tutte. L’olfatto risiede nell’ipotalamo, sede degli istinti come la fame, il sonno e il sesso. Non è quindi un senso addomesticabile: se sento una cosa Laura Tonatto, uno dei ‘nasi’ più famosi e e sto bene, mi piace; al contrario, se mi ricercati al mondo, è stata una dei relatori procura disagio, la detesto. Nei rifugi di alla Conversazione OAT, Il naso nell'archi- Londra della seconda Guerra Mondiale, tettura. Il primo incontro è stato nella sua il diffuso profumo di lavanda ricordava ai casa-laboratorio dove crea profumi, die- sopravvissuti i cadaveri e in generale un tro le grandi vetrate che guardano i bo- senso di morte. Il profumo è un linguagschi della collina, la città e le montagne. gio universale, ma l’istinto è personale. Ognuno di noi ha una sensibilità diversa. DOMANDA Un ‘naso’ si eredita o si educa? D Quanta italianità c’è nei suoi profumi? RISPOSTA Si educa e un po’ si nasce. Il mio R Moltissima, e come italiani possiamo vanprimo ricordo olfattivo risale a quando ero tare anche capacità, che ci riconoscono in bambina e mi ero ferita il naso cadendo. tutto il mondo: gli italiani hanno lasciato un Ricordo distintamente l’odore del sangue imprinting per esempio nella rinomata (per e dell’acqua clorata del medicamento usa- i profumi) Francia, dove le coltivazioni di to da mia madre. Avevo una nonna con fiori quali la rosa, il gelsomino e la lavanda questo mio stesso istinto, che però non ne sono un’eredità di Caterina de’ Medici anaveva fatto un lavoro. Dei miei due figli, il data in sposa al re di Francia. Un campo maschio è come me, la femmina assoluta- dove gli italiani eccellono è il cibo: mangiamente no, a dimostrare che la passione da re una mozzarella di bufala è un’esperienza sola non basta. sensoriale! Così è per me l’orto botanico D Chi sono stati i suoi maestri? di Palermo, dove ho scoperto l’odore di R La prima maestra è stata la nonna, che zagara che tanto contribuì alla buona riuha rappresentato il punto di partenza, la scita del film di Luchino Visconti, che volle presa di coscienza delle mie capacità. Mi quella fragranza per Claudia Cardinale per parlava di Guerlain e di Guy Robert, oggi renderla meravigliosa e permearne il set, ultraottantenne, che ho avuto la fortuna rendendo l’atmosfera olfattiva reale. di conoscere e che mi ha molto seguita. D Caravaggio l’ha ispirata per un profuIl ‘privilegio’ che si vuole riferire ai ‘nasi’ in mo, come è nata questa idea? realtà non esiste: bastano due fragranze, R Colleziono Maddalene del periodo di cui una deve essere la rosa, e il profu- barocco romano: Maddalena è la santa mo è fatto. Ecco perché realizzo corsi: protettrice dei profumieri. Mi sono apperché chiunque può comporre un pro- passionata al periodo e ho studiato il fumo. Mi piace trasmettere la capacità di Suonatore di liuto che è ospitato all’Herusare l’olfatto soprattutto per aiutare a mitage di San Pietroburgo. Quell’opera, capire la realtà che ci circonda. “Perché commissionata a Caravaggio dal cardiil profumo”, come diceva Yves Saint Lau- nale Giustiniani, era programmaticamenrent, “è il fratello del respiro”. te multisensoriale. Ho svolto un lavoro È necessario un allenamento continuo filologico, consapevole del fatto che Cacome per la musica anche per chi crea ravaggio dipingesse dal vivo e che quindi fragranze. Le fragranze sono come i colori sentisse tutti quegli odori, anche quello per i pittori. Certo di Caravaggio ce ne fu della cera usata per incerare il liuto e il tauno soltanto… Miscelare è un istinto ed è volo di finto marmo su cui erano appoggiati gli oggetti da ritrarre. Avevo realizlo stesso che guida i migliori chef. zato quel profumo per me, ma il direttore D Qual è stata la fragranza-rivelazione? R L’ambra d’Egitto, che esiste solo nel Pa- dell’Hermitage mi propose un’esperienese che le dà il nome e che ho scoperto za interessante: far vedere il quadro agli quand’ero diciannovenne. È una costan- spettatori anche con il naso. te nelle mie esperienze olfattive. Chi ama D Lei ha prodotto profumi per personaggi famosi: quali caratteristiche l’hanno guii miei profumi ama quella fragranza. Laura Tonatto data e da dove ha tratto l’ispirazione? R Creo profumi dal 1986. Tutto è cominciato in un piccolo negozio in via Brera a Milano nel quale si affacciarono presto i primi clienti importanti che desideravano una fragranza su misura: Ornella Vanoni, Elio Fiorucci, Lucia Locatelli, Francesco Totti, Asia Argento, Ornella Muti, Giorgio Armani. Ma il cliente più importante, quello che da solo basterebbe a rendere famoso un marchio nel mondo, è Elisabetta II d’Inghilterra. Nel 2008 la Regina mi chiese una fragranza esclusiva per le candele e gli ambienti di Buckingham Palace e delle altre residenze reali. Il profumo che ho realizzato per la regina Elisabetta unisce stile inglese a creatività italiana: abbiamo investigato insieme tutto il percorso olfattivo da quando era una ragazzina ad oggi. D Per quale città creerebbe un profumo? R Sicuramente per Roma, che è la città più bella al mondo e per me fonte di relax. In particolare mi ispirano il Palazzo Doria Pamphilj e la sua collezione e Villa Giulia. Mi piacerebbe creare un profumo anche per Torino e le fonti di ispirazione sarebbero il fiume, dove amo ‘canottare’ e dal quale mi godo lo spettacolo della città, e Piazza Vittorio Veneto, che amo per la sua atmosfera magica soprattutto quando c’è la nebbia o anche quando c’è l’aria frizzantina della prima primavera. D Per quali architetti realizzerebbe un profumo e con quali essenze? R Per tre donne: per Francesca Moroso userei note di legni africani, per Paola Navone mughetti e fiori d'arancio e per Gae Aulenti rosa e ambra. D Esiste il Made in Italy? E nei profumi? R Esiste uno “Smerd in Italy”, per citare Olivero Toscani e la grandissima vergogna di cui si è coperto il nostro mercato. Ma è il pubblico che decide e alla lunga qualcuno il conto deve pur pagarlo, se le borsette vengono prodotte in Cina a due euro e rivendute in Italia a duemila… Preferisco i piccoli artigiani, sempre coerenti con il loro lavoro. La profumeria italiana è conosciuta e stimata e sicuramente rappresenta un Made in Italy di cui andare orgogliosi. D In primavera uscirà il suo nuovo profumo da donna Notte a Taif. Qual è il suo profumo meglio riuscito? R Quello che devo ancora realizzare. Made out of Italy Capitali Il mondo è pieno di un Made in Italy che non siamo abituati a riconoscere e che esiste da sempre: è quello di città o di pezzi di città immaginate, disegnate, costruite da italiani in giro per il mondo, tanto che possono considerarsi 'anche italiane' Capitali italiane nel mondo Storia e geografia di una vicenda extraterritoriale Istanbul | Roberta Ferrazza Tripoli | Ezio Godoli Tianjin | Giulio Machetti Buenos Aires | Edgardo Salamano New York | Lorena Bari Berlino | Alvise del Pra' Riccardo Bedrone Italia fuori Italia Maddalena Tirabassi Migrazioni italiane e segni italiani Sono 29 milioni gli emigrati che in un secolo e mezzo dall’Italia si sono diretti in ogni parte del mondo Ph © Carlotta Maitland Smith - Brothers Giuseppe and Biagio Rivieccio at their restaurant “Papa Joe’s”, Connecticut, New York, USA, 2008 La mappa di una storia dimenticata che illustra l’attualità delle proposte degli architetti italiani nel mondo 20 — Capitali Italia fuori Italia Un progetto di mostra Riccardo Bedrone 150 anni di emigrazione italiana corrispondono spesso, nelle grandi città del mondo, ad altrettanti valori culturali e artistici, apporti economici e professionalità che hanno lasciato segni ed esempi mai veramente indagati. Eppure essi fanno parte della storia italiana e sono particolarmente visibili nell’architettura urbana estera. Molte grandi città possono dirsi ‘anche italiane’ e non solo quelle di fondazione. Gli esempi sono numerosissimi in Albania, Etiopia, Eritrea, Grecia, Libia, oppure in Argentina, Uruguay, Brasile, Stati Uniti, Belgio, Germania, Francia, Svizzera, Turchia, fino alle recenti realizzazioni portate a compimento da imprese italiane o comunità italiane in Cina o in molti Paesi arabi. I festeggiamenti del centocinquantenario dell’Unità d’Italia sono la giusta occasione per descrivere anche questo contributo di inventiva e stile italiano nel mondo, raccontando non soltanto ‘storie’ d’architettura ma anche i modelli di comportamento esportati, le abitudini di vita che hanno implicato, le relazioni sociali alla base delle trasformazioni dei quartieri di insediamento, nonché la conformazione degli stessi. Ma non bisogna guardare solo al passato, ricostruendo le mappe di una storia dimenticata, semmai riproporre anche l’attualità delle professionalità italiane, dal disegno ai materiali, dal progetto ai nuovi criteri realizzativi, a dimostrazione della continuità della ricerca e della proposta italiana nel mondo. Questo progetto vuole valorizzare il ricco patrimonio culturale del lavoro italiano nel mondo riconnettendolo alla storia identitaria nazionale e ‘raccontandolo’ soprattutto alle giovani generazioni. Centro focale dell’azione generale è lo sviluppo della conoscenza reciproca, volta a stimolare l’avvio di azioni congiunte a respiro internazionale, nuclei iniziali di sistemi di reti e relazioni (identificazione di patrimoni culturali di riferimento, costruzione di buone pratiche, diffusione di risultati, identificazione di nuovi progetti pilota) come possibili nuove soluzioni all’integrazione culturale. Integrazione rivolta soprattutto al pubblico fruitore degli eventi di Italia 150, attraverso un forte richiamo internazionale derivante dalle tematiche progettuali (volendo significare l’Italia come nazione unitaria ma ‘diffusa’ nel mondo). Il concetto di capitale: una definizione operativa La capitale – estesamente città capitale di Stato o, in altri contesti, capitale politica – è in senso proprio la città che ospita la sede del governo di uno Stato. Pertanto l’idea di capitale racchiude in sé la funzione del potere: la capitale si definisce in quanto luogo dell’esercizio e dell’immagine del potere. Nel divenire storico il potere si caratterizza come funzione nomade e cambia sede nel tempo: da questo punto di vista si osserva che in qualche modo anche le capitali ‘emigrano’ e non sono luoghi fissi nel tempo, come ben dimostra il caso italiano con tre capitali diverse in un arco temporale di dieci anni. Oggetto del progetto sono dunque le Capitali Italiane nel Mondo. 1861-2011 ed è bene spiegare, a partire dalla sua Capitali — 21 definizione, che cosa si comprenda in questo vasto concetto. In prima analisi, queste capitali sono città, individuate come spazi fisici sui quali vengono misurate la forza e la qualità dell’impatto di un ‘innesto’ esterno, diverso e straniero, che rappresenta una discontinuità o una evidente novità. Talvolta coincidenti con la capitale politica di un Paese, sono capitali in quanto città da cui, nel periodo di tempo oggetto della ricerca, l’influenza italiana si è manifestata e irradiata con tale riconoscibilità da farle considerare – in tutto o in parte – ‘un pezzo di Italia fuori dall’Italia’. Sono capitali in quanto luoghi di ‘riproduzione’ dell’italianità, frutto della creatività di architetti, ingegneri, artisti, del lavoro di maestranze, dell’insediamento dovuto a flussi migratori che cambiano e modellano il panorama urbano attraverso gli stili di vita e le opportunità commerciali, ma talvolta attraverso l’uso delle armi e l’imposizione forzata. Il progetto, quindi, si concentra su architettura e urbanistica, sugli spazi pubblici e su quelli del potere, ma anche, inevitabilmente, su come questi spazi sono vissuti, quali processi li generano, li alimentano, li contaminano, li superano e li abbandonano, in un intreccio di relazioni che sono parte integrante degli spazi stessi. La definizione operativa di capitale considera tale attribuzione come funzione mobile nello spazio e nel tempo, che procede da una città a un’altra in luoghi lontani geograficamente e culturalmente, accomunati da fenomeni di trasformazione riconducibili a una matrice identitaria italiana che, da un lato, agisce sull’ambiente (o paesaggio) urbano e la sua identificazione, dall’altro sulla morfologia urbana. Sono fenomeni spesso intrecciati e complementari, ma in alcuni casi, l’uno prevale nettamente sull’altro. Tuttavia diversi sono gli agenti della trasformazione: nel caso dell’ambiente urbano si tratta di una comunità in grado di modificare a sua immagine lo stile di vita – e dunque lo spazio che ne è la ‘scenografia’ – di una città o di una sua porzione riconoscibile. Nel caso della morfologia urbana il cambiamento è operato da una élite, politica e tecnica in grado di imporre un disegno e una visione. Élite di potere ed emigrazione Se ci si attiene alla stretta definizione di capitale come ‘luogo dell’esercizio e dell’immagine del potere’ ne consegue che il disegno stesso della capitale, i suoi spazi e gli edifici pubblici sono costruiti per essere espressione del potere di un’élite che si serve dei migliori architetti e artisti a disposizione. Spesso gli architetti e gli urbanisti chiamati a lavorare nelle capitali sono italiani e progettano dunque ‘capitali italiane nel mondo’. In questo caso il disegno delle capitali avrà un’influenza diretta, tangibile, documentabile, essenzialmente morfologica di modelli italiani, portata all’estremo nel caso delle colonie del ventennio fascista. A questo tipo di influenza hard – dovuta alla cooperazione di un’élite di potere con un’élite intellettuale e professionale – si accompagna un’influenza più vasta e diffusa (soft), che riguarda solo occasionalmente la sfera del potere: quella della grande massa di emigranti italiani. L’emigrazione italiana non sembra infatti 22 — Capitali avere esiti eclatanti e coordinati sul piano della morfologia urbana, ma molto di più su quello del ‘paesaggio urbano’, inteso come somma di paesaggi di vita, paesaggi sonori e di gusto. È un influsso indiretto, non immediatamente visibile, ma osservabile, una sorta di semantizzazione italiana delle capitali nel mondo. Fra queste due ipotesi di indagine si estendono territori intermedi ed esplorazioni trasversali, come nel caso della particolare categoria di emigranti rappresentata da manovali e lavoratori di cantiere, importanti per l’influenza in entrambe le ipotesi, o nei casi di piccole capitali ‘culturali o morali’ piuttosto che politiche. procede per macroaree geografiche definite dall’area di influenza di una capitale leader e di altre eventuali città presenti nell’area, città correlate, che rappresentano una variante originale delle caratteristiche della capitale leader: alle macroaree geografiche corrispondono altrettante macroaree tematiche. Ciò consente di proporre una doppia chiave di lettura delle capitali, insieme semantica e morfologica e richiede, di conseguenza, di rappresentare la complessità delle capitali selezionate attraverso immagini e visioni immersive dell’ambiente urbano, con gli aspetti più immediati e sensoriali del vivere degli immigrati italiani, accanto Una narrazione ‘per capitali’ a momenti tecnici di approfondimento puntuale (interviste, selezione di proIl racconto propone le Capitali italiane nel getti e maquettes) della morfologia Mondo, ovvero le città di potere – politico, urbana, ovvero della produzione archieconomico e culturale – in cui in epoca tettonica di un’élite di professionisti itapost-unitaria si sono verificate condizioni liani incaricati dalle classi al potere. tali sia da attrarre flussi di immigrazione Il progetto, che l’Ordine degli archiitaliana, sia da consentire la realizzazione tetti di Torino ha immaginato per le di momenti puntuali di espressione archi- celebrazione del 2011, prevede una tettonica di matrice culturale italiana. E mostra di forte impatto per contenuti e tecnologie, scenografica e, appunto, ‘immersiva’, che presti particolare attenzione all’esposizione di modelli di costruzione, alla visione di documenti, immagini, reportage, disegni e progetti, alla proiezione di materiali dell’Istituto Luce ma anche filmati successivi o realizzati ex novo, alla divulgazione di tradizioni e testimonianze. Non solo per parlare di quartieri italiani ma anche per sottolineare come lo stile architettonico italiano ha costituito un modello per le città, soprattutto americane. Non solo per ricordare gli architetti ma anche i manovali italiani che hanno costruito la metropolitana o le ferrovie, i mosaicisti impiegati nella decorazione dei grattacieli, gli stuccatori che hanno lasciato un’impronta inconfondibile sugli edifici, ecc. Tutte le città selezionate andranno indagate attraverso i due filtri interpretativi, per restituirne storicamente quell’immagine prevalente, in un senso piuttosto che nell’altro, che le rende ulteriori testimonianze imperdibili dello spirito e della genialità italiana. Capitali — 23 Capitali italiane nel Mondo 1861-2011 L’Italia fuori Italia. Aggirare stereotipi e sentirsi a casa un progetto di Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Torino 28 gennaio 2010 Incontri al Circolo dei Lettori a Torino con Lorena Bari Riccardo Bedrone Mercedes Bresso Brunella Como Sergio Conti Alvise del Pra’ Erminia Dell’Oro Roberta Ferrazza Maria Adriana Giusti Ezio Godoli Giulio Machetti Gian Giacomo Migone Carlo Novarino Gianni Oliva Paolo Riani Edgardo Salamano Maddalena Tirabassi Enrica Viola con il contributo di Regione Piemonte con il patrocinio di Comitato Italia 150 Comitato preparatorio Riccardo Bedrone presidente Lorena Bari Sergio Conti Alvise del Pra’ Maria Adriana Giusti Alfredo Mela Antonio Morone Gianni Oliva Maddalena Tirabassi Domenico Vassallo Stefania Vola Coordinamento progetto Raffaella Lecchi Ufficio stampa Fondazione OAT Liana Pastorin, media-arch Raffaella Bucci Marchio e progetto grafico Lorem, Torino Si ringrazia Luigi Garretti Interviste Liana Pastorin, media-arch Riprese Visual-studio Si ringrazia Il Circolo dei Lettori, Torino 24 — Capitali Le vie dell’Oriente. Istanbul La comunità italiana di Istanbul è una delle più antiche al mondo e la sua formazione risale all’epoca delle Repubbliche Marinare. Composta inizialmente da mercanti e da famiglie dalle origini antiche, sopravvisse e si sviluppò nei secoli, grazie al modello ottomano di governo delle minoranze religiose. Nell’Ottocento una grossa ondata migratoria cambiò completamente il volto della comunità grazie ai patrioti del Risorgimento – accolti con favore sulle rive del Bosforo – al personale diplomatico e agli artisti e ai professionisti il cui contributo di idee e conoscenze tecniche favorì l’opera di modernizzazione messa in atto dall’Impero Ottomano. Tale ondata migratoria, a netta predominanza operaia, si caratterizzò per il forte patriottismo e per il senso di appartenenza, contribuendo in maniera decisiva alla diffusione dei principi di democrazia, solidarietà, identità nazionale che ispirarono gli statuti delle varie associazioni che la comunità seppe darsi (a cominciare dalla Società Operaia Italiana di Mutuo Soccorso nata nel 1863). Anche molti architetti e ingegneri italiani che operarono ad Istanbul in questi anni rispecchiarono questi valori. Tra questi Raimondo d’Aronco, chiamato a Istanbul nel 1894 per la Seconda Esposizione Nazionale Ottomana (poi annullata a causa del terremoto) e rimasto in Turchia fino al 1910 ad occuparsi (Gruppo dei Soci fondatori della Società Operaia Italiana di Mutuo Soccorso di Costantinopoli, 1863) Roberta Ferrazza dell’opera di restauro dei tanti e celebri monumenti danneggiati. I fratelli Gaspare e Giuseppe Fossati, in diverse occasioni ferventi patrioti e modello di riferimento degli architetti italiani a Istanbul. Luigi Storari, ingegnere, incaricato dal Sultano di realizzare una pianta di Istanbul nel 1855 e carbonaro emigrato da Ferrara nel 1849. Tante le ditte italiane di progettazione architettonica e di costruzioni: passarono dalle sei del 1869 alle centotrenta del 1912, occupandosi, oltre agli edifici per il Sultano e la sua corte, della collina di Pera e del quartiere di Galata, dove sorsero a ritmo sostenuto luoghi di particolare rilevanza. Capitali — 25 Il piano regolatore di Tripoli In un articolo apparso nel settembre 1929 nel quotidiano L’Avvenire di Tripoli e firmato da Maurizio Rava, segretario generale della Tripolitania, sono contenute autorevoli indicazioni per il futuro piano regolatore della città. Vi si affermano le esigenze di salvaguardare il ‘carattere’ del vecchio centro tripolino, al quale viene attribuito un “enorme valore ambientale”, elemento di attrazione per il turismo, e di tutelare le specificità delle zone verdi dell’oasi. Per le emergenze monumentali sono auspicati interventi per isolarle creando loro dintorno uno spazio “abbastanza vasto, in modo da consentire da ogni lato sufficiente ampiezza di visuali prospettiche”. La preoccupazione di tutela della medina è recepita nel piano regolatore e di ampliamento di Tripoli di cui sono incaricati nel 1931 Guido Ferrazza, Alberto Alpago Novello e Ottavio Cabiati, ma redatto solo dagli ultimi due tra il 1931 e il 1933 e integrato da successive varianti. Rispetto alla ‘fondamentale’ questione della separazione tra quartieri per indigeni e per metropolitani l’atteggiamento degli estensori del piano è improntato a pragmatismo. Più che ad una logica di separazione etnica, la differenziazione delle zone residenziali sembra corrispondere alla distinzione tra quartieri signorili e popolari comune dei piani regolatori per le città italiane: una zonizzazione più classista che etnica. Nella definizione dei caratteri architettonici della nuova Tripoli, la visione di (Sistemazione architettonica dell’imbocco del Corso Vittorio Emanuele) Ezio Godoli Alpago Novello e Cabiati si discosta invece dalle raccomandazioni dell’articolo di Rava, che invitava a ricercare nella edilizia minore locale le radici ‘latine’ di una comune identità mediterranea, oltre che un funzionalismo fondato sulla lezione del buonsenso costruttivo della tradizione autoctona. Alpago Novello e Cabiati concepiscono la nuova architettura per la colonia libica come imposizione alle popolazioni sottomesse dei modelli culturali della potenza dominante e propongono un classicismo improntato al Novecento lombardo, che, trapiantato in Libia, appare negli esterni decantato, come disseccato al sole del Mare nostrum, salvo riacquistare negli interni tutta la sua opulenza materica e ricchezza ornamentale. 26 — Capitali Una piccola Italia in Cina Quella che si affaccia in Cina agli inizi del Novecento è una piccola Italia ridimensionata sul piano politico internazionale dalla disfatta di Adua. Con questo spirito il nostro Paese partecipa alla missione militare dell’estate del 1900 per liberare le legazioni diplomatiche di stanza a Pechino dall’assedio dei boxer e accetta di aprire nella città di Tianjin una concessione con gli altri Paesi che hanno partecipato alla missione. L’Italia, l’ultima a firmare gli accordi (1902), è costretta ad accettare il più infelice lembo di terra rimasto tra quelli destinati alle potenze straniere: circa 100 ettari di terreno che si insinuano tra la concessione russa e quella austro-ungarica lungo la riva sinistra del fiume Hai-He. (Tianjin, piazza Marco Polo, direzione nord) Per poter avviare l’ambizioso progetto si procede alla stesura del piano regolatore (approvato nel 1905), all’elaborazione del regolamento edilizio (1907) e alla stesura del bando dell’asta per la vendita dei terreni. Nell’acquisto si cerca di privilegiare gli italiani, ciononostante a farsi avanti per primi sono nella maggior parte dei casi ricchi cinesi. L’immagine della concessione comincia a delinearsi: uno spazio destinato ad abitazioni signorili rappresentativo di una cultura architettonica rigorosamente italiana, ben distinta da quella locale e da quella delle altre concessioni dove primeggiano costruzioni destinate a banche, uffici, alberghi. Giulio Machetti Ampie strade che si incrociano ad angolo retto su cui si affacciano villini di due piani con piccoli giardini recintati dove si insediano circa 600 connazionali, 700 cittadini di varie nazionalità che operano nelle diverse concessioni straniere e circa 6.000 cinesi. Una comunità mista che vive ben lontana e poco partecipe dei travagli della madrepatria. La concessione, infatti, fino al 1925 è amministrata da antifascisti. Solo con la soppressione del consiglio municipale fa il suo ingresso ufficiale il fascismo che inciderà sui caratteri formali del quartiere con la costruzione secondo i canoni dell’architettura del regime del Forum e della Casa degli italiani. Ph © Secretária de turismo de la nación Capitali — 27 Il teatro Colón a Buenos Aires Buenos Aires e la sua area metropolitana contano più di 6 milioni di cittadini di discendenza italiana. Gli italiani hanno contribuito significativamente al disegno e alla costruzione della capitale argentina e il teatro Colón è sicuramente l’edificio simbolo dell’Italia in Argentina e dell’Argentina nel mondo. Progettato dall’italiano Francesco Tamburini e proseguito dal suo allievo Vittorio Meano con il finanaziamento di un altro italiano, Angelo Ferrari, il teatro fu concluso dal belga Jules Dormal dopo 18 anni di costruzione. Fu inaugurato nel maggio 1908 con la messa in scena di Aida di Giuseppe Verdi. Negli anni Trenta fu ampliato nei sotterranei per dotarlo di un atelier di (La grande sala del Teatro Colón) scenografia, ampliato nuovamente trenta anni dopo da Mario Roberto Alvarez per incorporare altri 20.000 metri quadri destinati a sale prova, produzione e aree amministrative. Il teatro Colón è un’opera fondamentale della cultura argentina, che promuove e proietta l’identità nazionale su scala mondiale. La sua notorietà deriva dall’insuperabile acustica, dall’imponente architettura eclettica, dall’ampiezza e genialità tecnica della sala e dalla capacità artigianale della produzione di spettacoli. Qui si sono esibiti musicisti, cantanti, registi e ballerini tra i più prestigiosi: da Toscanini a Stravinsky, da Nijinsky a Nureyev, alla Callas, Pavarotti, Domingo. Edgardo Salamano Oggi il Colón è nella fase conclusiva di un profondo processo di restauro conservativo e di modernizzazione tecnologica che restituirà lo sfavillio degli anni di splendore. La sfida è grande tanto quanto il prestigio del teatro e prevede l’applicazione di un metodo di gestione in grado di coordinare tutti gli attori coinvolti in questa grande opera. Un progetto che si suddivide in 60 sottoprogetti coordinati a cui lavorano più di 500 fra operai ed esperti. Tutte le aree principali del teatro Colón verranno terminate prima della sua riapertura nel maggio 2010, mentre le cosiddette ‘opere complementari’ verranno consegnate nel 2011. www.teatrocolon.org.ar Ph wikimedia commons - Haxorjoe 28 — Capitali New York e le Little Italy New York ci permette di analizzare il luogo comune, lo stereotipo dell’appartenenza: la costruzione di quell’idea di ‘italianità’ che non è mai stata data in sé e per sé ma che si è sempre modificata a seconda dei bisogni e delle opportunità. Del resto, molto spesso la tradizione procede al contrario: proietta nel passato immagini e bisogni che appartengono al presente. A New York dunque, si cerca l’architettura come costruzione delle identità, quelle identità declinate nelle Little Italy (luoghi grandi come un nucleo familiare, un paese, un ristorante, una strada); negli spazi che hanno contrassegnato il tempo del Made in Italy (boutique, ristoranti di alta cucina, showroom di design); negli oggetti culturali creati da curatori di musei, direttori di testate prestigiose, docenti universitari, artisti, designer, fino ad arrivare agli interstizi di un presente dalla complessa lettura: questo tempo che, dopo la crisi finanziaria, sembra scivolare oltre gli oggetti e declina il concetto di ‘nuovo’ non più all’interno di categorie estetiche ma temporali. Little Italy, dunque, come ‘architettura degli stereotipi’. Dall’immigrato rozzo dell’Ottocento all’Italian way of life degli anni ’80 e ’90 del Novecento, dalla costruzione dell’identità di ritorno con i suoi rituali legati a santi patroni di un’altra latitudine all’edificazione dei luoghi culturali dell’‘apolide italiano’ Renzo Piano, fino al trionfo dell’indistinto contemporaneo. Nel Duemila quasi sedici milioni di americani hanno dichiarato di avere antenati italiani. (Renzo Piano Building Workshop, The New York Times Building, New York, 2000-2007) Lorena Bari Dall’inizio del nuovo millennio però, si vanno acuendo alcune caratteristiche. Si assiste a una tendenza che il sociologo Richard Alba ha definito “crepuscolo dell’etnicità”: quella condizione di assimilazione nella quale si trovano gli italoamericani di terza generazione per cui il retroterra di immigrati è privo di un autentico significato. Si assiste a una sorta di trionfo dell’indistinto – come afferma il sociologo Giuseppe De Rita – dove le identità storiche, nazionali o ideologiche si dissolvono e si ricompongono velocemente e spesso al loro posto si insedia un insieme di comportamenti (di consumo, di comunicazione di massa, di mobilitazione emotiva) strutturalmente troppo labili e generici per garantire nuove identità. Ph Filippo Proietti Capitali — 29 Berlino, nuova capitale italiana? L’architetto vicentino Franco Stella firmerà l’ambizioso e discusso progetto della ricostruzione dell’antico castello cittadino di Berlino (Berliner Stadtschloss). L’edificio originale, rovinato dai bombardamenti, fu abbattuto dal regime della DDR perché considerato simbolo del militarismo prussiano; al suo posto fu eretto il Palast der Republik tirato giù, a sua volta, dopo il crollo del muro. Il progetto si compone di una parte conservativa – la ricostruzione secondo i piani originali di tre facciate barocche (nord, est e ovest) – e di una parte completamente innovativa: la facciata sud dell’edificio, infatti, sarà edificata secondo il progetto originale dell’architetto. Non è la prima volta che architetti italiani ‘riempiono i buchi’ della storia berlinese. (L’area del cantiere della ricostruzione dello Stadtschloss) Basti pensare a Potsdamer Platz, simbolo della divisione della città a due passi dal bunker dove si suicidò Hitler, ricostruita da zero sotto la supervisione di Renzo Piano; oppure alla riedificazione ad opera di Aldo Rossi dello Schützenquartier, area centrale accanto al Checkpoint Charlie; senza dimenticare i contributi di Giorgio Grassi, Vittorio Gregotti, Aldo Rossi e altri alla Internationale Bauausstellung (la mostra internazionale dell’edilizia) del 1984 a Berlino ovest. Ma la Berlino ‘italiana’ non si riduce a queste importanti opere. Di fatto, la capitale tedesca nell’ultimo ventennio è diventata una meta ambita di un flusso di mobilità composto da giovani italiani alla ricerca non solo di esperienze professionali, ma Alvise del Pra’ anche di studio e di vita (in merito, basti pensare che il tasso di disoccupazione nella città si aggira intorno al 17%, e, secondo alcuni studi, nella collettività italiana rasenterebbe il 30%). Le autorità tedesche calcolano che, nel 2008, gli italiani residenti a Berlino fossero 14.964, di cui oltre un quarto da meno di 5 anni, a cui ogni anno si aggiungono tra i cinquecento e i mille individui, in maggioranza giovani studenti, ricercatori, professionisti attratti anche dal basso costo degli immobili in locazione, grazie al surplus di offerta rispetto alla domanda nel mercato immobiliare. I rappresentanti di queste ‘nuove mobilità’ partecipano così, assieme ai grandi architetti italiani, nel dare alla capitale tedesca un volto sempre più ‘italiano’. 30 — Capitali Migrazioni italiane e segni italiani Grandi opere infrastrutturali e singoli edifici… Quanto è riconoscibile l’influenza che gli italiani hanno avuto sul disegno delle città in cui sono andati a vivere Maddalena Tirabassi Le migrazioni italiane sono lette in senso globale e diacronico per cominciare a esplorare il contributo architettonico, artistico, urbano e paesaggistico che gli italiani hanno apportato ai Paesi di insediamento. In termini numerici i movimenti migratori presentano cifre impressionanti. Sono 29 milioni gli emigrati che nel corso di un secolo e mezzo hanno varcato i confini italiani per poco, o per sempre, per dirigersi in ogni parte del mondo: quasi 15 milioni in Europa (2.970.040 in Germania, 4.436.965 in Francia, 4.434.113 in Svizzera), 12 milioni nelle Americhe (672.410 in Canada, 5.800.706 negli Stati Uniti, 1.476.552 in Brasile, 3.007.361 in Argentina) e attorno al mezzo milione tra Africa e Oceania. Ancora oggi si trovano nel mondo 3.734.428 cittadini italiani, per non parlare degli oriundi che si stimano in decine di milioni. Nella sola Argentina essi costituiscono la maggioranza della popolazione del Paese. Gli italiani hanno lasciato profondi segni della loro presenza nelle diverse società. Si tratta di segni diretti, legati alle loro professionalità: architetti, ingegneri e artisti, maestranze, artigiani, scalpellini, stuccatori, intagliatori e manovali. Ma non sono da trascurare le influenze derivate dal continuo intreccio tra migrazioni di professionisti e migrazioni non specializzate. Anche quando, come al momento dell’emigrazione di massa, par- è da trascurare nemmeno l’attività edilizia ‘privata’: molti degli emigrati, indipendentemente dalla loro attività lavorativa, tendevano a costruirsi la propria casa, per necessità se si trovavano nelle campagne argentine o brasiliane, per risparmiare, nelle zone urbane. Come testimonia il letterato italoamericano Fred Gardaphè nel video Segni italiani quando racconta che il nonno manovale, a Chicago, portava a casa ogni sera, come tutti i suoi compagni, un mattone ‘rubato’ dal cantiere per costruirsi la casa. L’intreccio tra cultura del risparmio e tradizione si è riflettuto anche nella creazione di orti in ogni fazzoletto di terra limitrofo all’abitazione, sia che si trattasse di una backyard o di un terreno incolto. Assieme a chiese, tivano prevalentemente i contadini, essi in cimiteri e edicole i segni italiani sul paemolti Paesi preferirono dedicarsi a lavori saggio straniero si sono così moltiplicati all’aperto piuttosto che rinchiudersi nelle nel tempo, affiancati dalle capitali italiane fabbriche. Parteciparono così alle grandi dell’Italia coloniale in cui all’architettura opere infrastrutturali dell’epoca come ufficiale si unì l’impronta della emigraferrovie, metropolitane, viadotti, dighe e zione, seppur limitata nei numeri, e quella a tutte quelle opere relative allo sviluppo dell’Italia diplomatica con ambasciate, delle grandi città. Fenomeno che si è consolati, Case italiane che si possono riproposto nel secondo dopoguerra. Non trovare in ogni grande città del mondo. Capitali — 31 Non meno importanti sono poi i mutamenti del paesaggio urbano, legati al concentrarsi delle migrazioni in quartieri poi definiti ‘etnici’: con l’arrivo degli italiani in molte città gli incroci diventano piazze, le strade, spesso teatro di processioni e feste, con ristoranti e negozi di generi italiani. Capitali italiane nel mondo, quindi, ma anche capitali degli italiani nel mondo. Il fenomeno più eclatante in questo senso è quello delle Little Italy statunitensi, in cui non erano gli edifici, preesistenti alla presenza italiana, ma lo stile di vita a segnare il quartiere, con negozi legati alle più varie attività commerciali, a conferire un aspetto particolare… ‘Piccole Italie’ che, seppur in misura e in tempi diversi, si possono trovare in tutti i continenti. Le migrazioni di professionisti sono state spesso offuscate dall’immagine dominata da una lettura pauperistica dell’emigrazione. Al contrario esse costituirono un segmento importante che trova le sue radici in epoche antecedenti di molto l’unificazione del Paese. Già ai tempi delle colonie genovesi e veneziane, gli italiani avevano lasciato la loro impronta nelle città del Mediterraneo. Si trovano quartieri e strade italiane a Salonicco, a Chio e a Creta, in Asia minore, a Costantinopoli e a Smirne, in Siria, in Palestina e in Egitto, fino all’estremo del Marocco. A partire dal Seicento, mercanti e banchieri si diressero in Europa, dove architetti e artigiani italiani parteciparono alla Seicento si costruiranno fortezze sia in Europa che nell’America spagnola. Nel Settecento in Germania si avvicendarono intere dinastie di decoratori e stuccatori contribuendo alla realizzazione di saloni e cappelle a Stoccarda e a Wurzburg. Le compagnie di lavoro costituite da gruppi familiari avevano competenze che andavano dall’architettura, alla scultura e all’intaglio, fino alla stuccatura e alla decoratura. Nella Russia degli zar architetti ticinesi e lombardi tracciarono le muraglie del Cremlino: Aristotele Fioravanti, Pietro Antonio Solari, Marco Ruffo furono tra gli italiani a cui fu commissionata l’elaborazione dello stile russo che si trova nelle cupole multicolori a smalto e oro delle cultura e alla costruzione delle grandi città cattedrali di Mosca e dintorni. Bartolomeo europee, che a Londra e a Parigi davano Rastrelli diverrà la figura centrale dell’arrispettivamente il nome a Lombard Street chitettura russa importando il Barocco. e a Rue de Lombards. Quarenghi contribuirà con lo stile neoA Vienna architetti, impresari edili e arti- classico a trasformare San Pietroburgo, sti italiani imporranno lo stile barocco, il dandole un tono italiano. teatro moderno, la musica. Ma il primato La Francia di Francesco I venne conitaliano si ha nell’architettura e nell’inge- quistata dai modelli artistici e architetgneria militare: fino alla seconda metà del tonici italiani: i palazzi-fortezza verranno 32 — Capitali rimpiazzati da edifici rinascimentali. A Parigi Fra Giocondo assieme al suo giardiniere Pacello da Mercegliano e all’ingegnere Domenico da Cortona guideranno il passaggio dallo stile gotico a quello rinascimentale. Anche negli Stati Uniti il contributo italiano alla società è stato particolarmente rilevante in campo artistico, come testimoniano le ricerche di Regina Soria, che elenca 350 artisti: scultori e pittori, ma anche scalpellini, intagliatori di marmo e legno, figurinai, stuccatori, e bronzisti, esercitarono un ruolo importante nel ‘dar forma’ all’America. Ad esempio alcune delle icone americane sono state prodotte da italiani. Da citare lo scultore del Campidoglio, Giuseppe Franzoni, autore dell’aquila americana simbolo della repubblica, Enrico Causici, scultore della prima statua di Washington e dei busti di Jefferson e Moore, Costantino Brumidi, che introdusse in America la tecnica dell’affresco Oltre alle influenze veicolate dall’immigrazione, delle masse e degli ‘artisti’, ci furono quelle indirette, costituite dai modelli architettonici italiani importati nel Paese dagli ‘scenografi’ americani del paesaggio urbano all’opera negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento. Il caso di New York offre l’esempio più interessante. I grandi cantieri che dovevano trasformare la fisionomia della metropoli: quelli dei grattacieli – Flat Iron, 1902, a modelli rinascimentali e orientali introducendo accanto ai minareti, vedute del Vesuvio, la caduta di Pompei, una ricostruzione del Canal Grande e del Palazzo Ducale di Venezia. La New York di inizio secolo si avvalse in larga misura della manodopera italiana, creativa e abile, per decorare i grattacieli e la metropolitana (1904) con stucchi, mosaici. L’Arts and Crafts Movement – che enfatizzava la figura del maestro artigiano – si avvalse ampiamente delle loro competenze. Anche in Brasile architetti e artisti italiani sono stati autori di numerosi edifici simbolici e monumenti: Tommaso Gaudenzio Bezzi (Monumento do Ipiranga a San Paolo che commemorava l’indipendenza del Brasile); Luigi Pucci, un toscano, ediWorld Tower ed Equitable Building, 1915 ficò numerose ville per la famiglia di Anto– della metropolitana inaugurata nel 1904, nio Prado e poi fu responsabile di impordei ponti (Brooklyn Bridge, 1883) oltre ad tanti cantieri edili e costruttore di canali, avvalersi del lavoro degli immigrati italiani, strade e gallerie. Un altro italiano, ingesi rifacevano a modelli architettonici euro- gnere, Bertolotti nel 1891 vinse il concorso pei, spesso italiani. Già il parco Luna, a per la direzione delle Obras Publicas di Coney Island, aperto nel 1903, creato da San Paolo. A lui venne affidato il comFrederick Thompson, considerato l’ide- pito della realizzazione del primo nucleo atore dell’utopia di Manhattan, si ispirò urbano di Piracicaba e della fabbriche di Capitali — 33 ceramica di Calmon Viana. Adolpho Josè del Vecchio diplomato al Politecnico di Rio costruì l’edificio della Dogana su un’isoletta davanti a Rio de Janeiro. In questa città nel primo Novecento in occasione dei grandi lavori di trasformazione urbana intrapresi dal governo repubblicano gli architetti e ingegneri italiani assumeranno un ruolo di primo piano diffondendo “il loro decoroso classicismo passe partout”. Ma è in alcune zone rurali del Paese che si respira, grazie all’isolamento in cui sono rimaste per decenni, un’aria italiana, come mostrano le imponenti ricerche sulla cultura vernacolare italiana nel Rio Grande Do Sul. In Argentina, l’edificazione della capitale Buenos Aires coincise con il picco dell’immigrazione e gli italiani contribuirono a tutti i livelli all’edificazione della nuova capitale. Ma anche qui, oltre ai numerosi segni lasciati da architetti come Francesco Tamburini e Giovanni Antonio Buschiazzo fu la presenza italiana a segnare profondamente la cultura del Paese. Ci troviamo di fronte a una nazione in cui è difficile rintracciare i segni italiani poiché tutto ricorda l’Italia o, per citare Luigi Einaudi, “l’ambiente argentino è saturo di italianità”. Gli italiani parteciperanno anche alla ricostruzione europea nel secondo dopoguerra. L’edilizia, assieme alle attività commerciali e di ristorazione offrì le migliori opportunità di mobilità sociale: mentre la manovalanza dei cantieri veniva reclutata fra gli immigrati della costa meridionale del Mediterraneo, gli italiani andarono progressivamente a occupare posizioni tecniche e imprenditoriali. Le migrazioni italiane attraverso i meccanismi della catena migratoria familiare e di mestiere, concentrandosi in specifici quartieri, hanno formato nel mondo tante piccole Italie che, negli Stati Uniti, a differenza di tanti altri quartieri etnici ‘euroamericani’: German, Jewish e Polish Towns, sono sopravvissute al melting pot, allo sradicamento post bellico, alla gentrificazione. Gli spostamenti degli americani di origine italiana nei sobborghi, grazie al benessere finalmente acq isito negli anni del dopoguerra hanno visto trasformarsi, ma non estinguersi le Little Italy, che divennero meta di loro visite per ritrovare i ristoranti, i negozi, le chiese. ‘Quartieri etnici’ andarono a riformarsi a Brooklyn, Long Island, Benson Hearst. Le ragioni di questo attaccamento al territorio sono da rintracciarsi nella cultura italiana: il possesso di una casa, o meglio la costruzione di una casa, rappresenta il simbolo del successo dell’esperienza migratoria. A dare continuità nel tempo sono poi i materiali utilizzati, pietre e mattoni. Questo ha fatto sì che le case degli italiani abbiano resistito meglio agli incendi che hanno in più occasioni distrutto le città americane costruite prevalentemente in legno. Fonte dati: rielaborazione a cura di Centro Altreitalie su base ISTAT, Sommario di statistiche storiche italiane, vari anni Dal cibo alle scarpe, il mito di una nazione Italici Esiste nel mondo una comunità di persone che si sentono vicine all’Italia per sensibilità e origini. È un’Italia descritta attraverso le icone, i prodotti, lo stile di vita, ma anche e soprattutto tramite l’architettura Cristiano Seganfreddo Una lezione di francese Esclusività e unicità sono gli ingredienti di un’abilità radicata nelle mani degli artigiani italiani Gianni Rogliatti La Ferrari come modello da esportare L’architettura è chiamata a promuovere il marchio più simbolico del Made in Italy all’estero Pasquale De Angelis 100% Made in Italy Piero Bassetti Gli italici: una nuova comunità glocale Immigrati, oriundi, italofoni e italofili: la rete degli italici sparsi nei cinque continenti Ph © Carlotta Maitland Smith - Sally Fuca-Scalisi, aged 9, at home in her Yankees T-shirt. She has never been to Italy and speaks little Italian, Pearl River, New York, USA, 2009 I distretti da eredi delle botteghe rinascimentali a principali artefici di un saper fare italiano 36 — Italici La Ferrari come modello da esportare I nuovi edifici dello stabilimento costruiti secondo la 'Formula uomo' Gianni Rogliatti Che la Ferrari sia il marchio automobilistico italiano più conosciuto nel mondo non ci sono dubbi, ed è forse il marchio italiano più famoso tout court, il portabandiera del Made in Italy. Sui motivi di questo successo molto è già stato detto, ma il tutto si può riassumere in una serie di concetti: c’è il carisma del fondatore Enzo Ferrari, che col passar del tempo diventa sempre più misterioso, poi la tecnica vincente che ne ha fatto delle auto leggendarie vittoriose in tutte le gare più importanti del mondo e, non ultimo, il fascino della bellezza rappresentato dalle carrozzerie Pininfarina. Si potrebbe anche aggiungere che il costo elevato ed il tempo richiesto per la consegna dei singoli esemplari conferisce loro una caratteristica di esclusività, ma questo è sicuramente l’elemento meno importante. La storia della marca raggiunge quest’anno i 70 anni dalla sua fondazione nel 1940 con il nome di Auto Avio Costruzioni e i 63 anni dalla uscita su strada della prima automobile col marchio Ferrari, la mitica 125 S del 1947. Questa storia si è sviluppata in due periodi, il primo dei quali parte dall’origine e si è concluso negli anni ’90: ha visto l’espansione della capacità produttiva che è passata dai tre esemplari del 1947 ai 3.518 del 1997 grazie al continuo ampliamento dei vecchi capannoni e la costruzione di nuovi. In questo periodo ci sono stati grandi avvenimenti, le vittorie, il diffondersi della fama internazionale della marca anche nel bel mondo dove il possesso di una Ferrari diventava sinonimo di successo personale, ma anche la scomparsa di Enzo Ferrari nel 1988 cui erano seguiti alcuni anni di assestamento per metabolizzare la perdita. Alla fine del 1991 Luca Cordero di Montezemolo veniva nominato presidente ed amministratore delegato. Scelta azzeccata in quanto conosceva bene la Ferrari essendo stato dal 1973 al 1976 assistente del presidente e direttore della squadra corse. Dopo avere risolto problemi organizzativi, come la scelta di nuovi modelli e il rilancio della squadra corse che da alcuni anni offriva risultati non all’altezza della tradizione Ferrari, Montezemolo affrontava nel 1997 un problema nuovo, dandogli un nome che ricordava il mondo delle corse e cioè ‘Formula uomo’. Si trattava di ridisegnare la fabbrica in modo che fosse sempre più efficiente dal punto di vista tecnologico, ma presentasse un’elevata qualità dell’ambiente di lavoro. Per dirla con le parole di Montezemolo: “qualità dell’ambiente significa qualità della vita e del lavoro, in spazi non coercitivi e non deprimenti, dove il lavoro non sia vissuto come un obbligo”. Era un impegno gigantesco, che richiedeva la costruzione di nuovi edifici al posto di quelli vecchi, il tutto senza interrompere la produzione, che anzi è aumentata dai citati 3.518 ‘pezzi’ del 1997 agli oltre 6.000 del 2009. Ma l’innovazione andava oltre, perché i nuovi edifici sono stati tutti ‘firmati’ da grandi architetti, in modo tale che, sono ancora parole di Montezemolo, “chi arriva a Maranello vuole soprattutto vedere delle bellissime macchine, vuole capire cosa c’è dietro la macchina e il suo successo, ma io voglio che vedano anche alberi dentro stabilimenti pulitissimi, che si Italici — 37 senta la simbiosi tra un lavoro fortemente manuale e la grandissima sofisticazione delle macchine utensili”. In realtà la ‘Formula uomo’ non consiste solo negli edifici ma anche in una serie di iniziative tese a migliorare le condizioni del personale e delle famiglie, e nei programmi per migliorare la sicurezza sul lavoro, l’uso ottimale ed il risparmio di energia nonché la cura dell’ambiente. A proposito di questi ultimi due punti va detto che la Ferrari ha già istallato molti pannelli fotovoltaici e sta costruendo una centrale di trigenerazione che la renderà praticamente autosufficiente sul piano energetico. Per l’ambiente ha piantato mille alberi nei viali interni dello stabilimento. Ma ecco il programma relativo agli edifici. Il primo, costruito secondo la nuova filosofia aziendale nel 1997 è stato quello della Galleria del vento, di Renzo Piano. La galleria del vento è, in pratica, un grosso tubo entro il quale circola l’aria mossa da un potente ventilatore ed i cui effetti sull’automobile in prova possono essere accuratamente misurati. In genere queste istallazioni vengono racchiuse entro parallelepipedi senza finestre e senza personalità. Piano ha lasciato all’aperto questo tubo, adagiandolo di sbieco contro una collinetta ed ha creato di fatto un richiamo anche paesaggistico in quanto si trova vicino alla nuova entrata della fabbrica. Grandi architetti sono stati chiamati a ridisegnare la fabbrica in modo che oltre all’efficienza tecnologica presentasse un’elevata qualità dell’ambiente di lavoro, facendo emergere la simbiosi tra un lavoro fortemente manuale e la grandissima sofisticazione delle macchine utensili Nel 2001 è entrata in funzione la Nuova meccanica, opera di Marco Visconti dove tra le macchine utensili si trovano aiuole verdi e dove la luminosità ed il basso livello di rumorosità possono trarre in inganno il visitatore circa la vera attività che si svolge nell’edificio dove si producono i pezzi delle automobili. Nel 2003 è stata la volta della Nuova logistica, una struttura che non sta nel complesso dello stabilimento, bensì accanto alla pista di prova di Fiorano: ospita i mezzi di trasporto necessari per partecipare alla gare di Formula 1 in tutto il mondo ed è stata progettata da Sturchio Architects & Designers, con una forma che ricorda chiaramente un dirigibile, quasi volesse muoversi con tutti gli autocarri dentro. Il Centro sviluppo prodotto, costruito nel 2004, è stato progettato da Massimiliano Fuksas e si potrebbe definire semplicemente come un parallelepipedo, ma la definizione, geometricamente corretta, non rispecchia la realtà di un edificio le cui pareti sono di vetro e creano effetti ottici curiosi, aiutate in questo dai solai esterni che sono piscine con 10 centimetri di acqua attraversate da camminamenti. È un ambiente arioso, atto a stimolare la creatività. Nello stesso 2004 è stato ultimato l’edificio della Nuova verniciatura, anche questo opera di Marco Visconti, con proporzioni gigantesche e con la caratteristica di possedere una balconata esterna dalla 38 — Italici quale i visitatori possono vedere come si svolgono i processi di verniciatura, totalmente automatizzati. Infine nel 2008 venivano completati altri due edifici: uno è il Ristorante aziendale strategicamente piazzato al centro del complesso industriale in modo da avere una distanza massima predefinita che i lavoratori debbano percorrere dai punti più lontani. Anche questo progetto è di Marco Visconti: la linea innovativa che ricorda un profilo alare sistemato alto da terra in modo da apparire come in volo e l’ambiente interno molto gradevole fanno da contenitore ai prodotti della cucina emiliana che sono preparati sul posto e sempre freschi. Un locale che, se non fosse riservato ai soli dipendenti, sarebbe da segnalare nelle guide gastronomiche. Infine l’ultimo della serie è quello destinato al Montaggio vetture: progettato da Jean Nouvel si sviluppa su due piani, quello terra dedicato alle automobili con motori V8 e quello superiore alle 12 cilindri. La sua lunga facciata realizzata parte in acciaio e parte in vetri riflettenti è visibile dalla Statale dell’Abetone e appare come un lungo specchio, con effetti non solo estetici ma anche di regolazione della luce e della temperatura dell’ambiente di lavoro. È stato costruito sulla traccia dell’edificio originale, di cui si conserva parte della parete esterna come elemento decorativo e monumento alle origini. Va da sé che la progettazione di ciascuno di questi edifici è avvenuta con la più stretta collaborazione tra gli architetti e i dirigenti della Ferrari, in modo che il risultato fosse proprio quello programmato e cioè la bellezza esterna unita alla funzionalità delle operazioni cui sono destinati. Come dicevano i grandi architetti greci καλòς καì αγαθòς ossia ciò che è bello è anche buono, nel senso di utile, pregevole. Il risultato è impressionante sia che lo si osservi camminando negli ampi viali interni, sia vedendo una foto aerea: il piccolo stabilimento di 10.000 metri quadri del 1947 è diventato un complesso luccicante di 209.070 metri quadri che si sviluppano sull’area complessiva di ben 551.519 metri quadri ottenuti Ph © Ferrari S.p.A. Italici — 39 con successive acquisizioni dei terreni circostanti quello originale che già Enzo Ferrari aveva previdentemente comprato abbondante rispetto alle sue esigenze di allora. Tutto ciò ha richiesto un investimento di oltre 200 milioni di euro e costituisce il fiore all’occhiello per la città che attualmente ha un sindaco architetto, Lucia Bursi. A questo va poi aggiunto lo Stabilimento Scaglietti di Modena con una superficie coperta di 15.467 metri quadri, storica sede del carrozziere principe per le auto da corsa Sergio Scaglietti, di cui si è voluto conservare il nome, (presente anche in modello in produzione il 612 Scaglietti appunto) anche questo completamente rinnovato e dove oggi sono assemblate le scocche in alluminio di cui sono dotate tutte le Ferrari stradali. È stata un’operazione in cui si rispecchia la filosofia del fondatore, il quale diceva che per fare delle buone macchine ci vogliono prima di tutto gli uomini, poi le attrezzature e infine gli edifici e con la sua ‘Formula uomo’ Montezemolo ha fatto proprio questo. Il modello naturalmente è esportabile: deciso il prodotto e il posto dove farlo si possono applicare tutti i canoni elencati all’inizio e il risultato sarà probabilmente buono e comunque sufficiente per le esigenze di mercato. Esiste però il fattore tempo di maturazione, bene esemplificato da una storia che si asserisce essere vera. Un ricco americano si era fatto costruire un castello inglese in America, del tutto uguale all’originale salvo un dettaglio: il prato di erba fitta, verde e rasata, detto appunto prato all’inglese. Chiamato un esperto ebbe come responso che, sì, il prato si poteva ottenere: bastava annaffiare e tosare regolarmente… per 400 anni. Oggi le automobili si fanno dovunque nel mondo ma una Ferrari non si potrebbe costruire in nessun altro posto che a Maranello. Non a caso esiste anche un reparto chiamato Ferrari Classiche dove qualunque automobile uscita dal portone col numero 4 di via Abetone Inferiore a partire dal 1947 può ritornarvi per essere rimessa a nuovo coi pezzi di ricambio e le istruzioni originali. 40 — Italici 100% Made in Italy L’Istituto per la Tutela dei Produttori Italiani è nato per garantire che il Made in Italy non sia realizzato solo 'prevalentemente' in Italia Pasquale De Angelis Un autorevole studioso tedesco, Jacob Burckhardt, circa un secolo e mezzo fa, parlando dell’uomo del Rinascimento italiano, lo definiva dotato di straordinaria versatilità, animato dal desiderio di allargare le sue conoscenze in tutti i campi, che poi applicava alle varie esperienze della vita operativa, dalle forme più alte dell’arte ai più comuni oggetti di squisita bellezza. Oggi ritroviamo questa nostra cultura del ‘saper fare’ e ‘fare bene’, che ci deriva dalle botteghe di arti e mestieri rinascimentali, trasformata e allargata su varie aree della nostra penisola. I nostri distretti industriali sono in chiave moderna l’evoluzione di quelle botteghe artigiane, rinascimentali. Da questa arte di prestigio antico nasce il Made in Italy. Un nome quest’ultimo che insieme a ‘pizza’ e ‘pastasciutta’ è fra i più famosi al mondo. Gli eredi di quelle intelligenze rinascimentali sono oggi i nostri artigiani che, appena hanno avuto l’opportunità, si sono imposti in tutti i mercati internazionali. Ebbene, questa grande ricchezza nazionale rischia di scomparire nell’arco di pochi anni perché la concorrenza di coloro che producono parzialmente all’estero, senza alcun rispetto per le norme e con un costo di manodopera molto basso, la sta mettendo in ginocchio. L’Istituto per la Tutela dei Produttori Italiani (ITPI) è sorto oltre 15 anni fa, senza scopo di lucro, per opporsi a ciò e ha sostenuto la battaglia per far togliere la scritta ‘sole Made in Italy’ dalle suole... e si tratta proprio di suole e non delle scarpe! Infatti le fabbriche italiane di semilavorati erano riuscite a far inserire su una legge la possibilità di scrivere Made in Italy anche sui loro prodotti. Ai loro clienti esteri interessava comperare la scritta e poi la suola. Dopo anni nel 2001 con un Decreto del 30 gennaio di Enrico Letta, che modificava il Decreto 11 aprile 1996, siamo riusciti a fare qualche passo avanti. Tutti però oggi possono ancora fregiarsi della scritta Made in Italy anche producendo il 49% all’estero. Come dire “bevo del vino con il 49% di acqua, tanto è vino comunque”. Noi estimatori del vino e del Made in Italy pensiamo che ciò sia tutto uno scherzo. Ma poi vediamo che è amara realtà. A noi questo sembra ambiguo e ingiusto. Ambiguo perché è difficile, se non impossibile, stabilire e controllare quando un prodotto è ‘prevalentemente’ fatto in Italia. Ingiusto perché così si penalizza chi produce interamente in Italia. Tuttavia, dal momento che lo stile, il buon gusto, la creatività sono caratteristiche che sui mercati internazionali vengono tradizionalmente riconosciute agli architetti italiani e alle imprese italiane, creatività e design sono le migliori leve per il rilancio competitivo del Made in Italy e dell’industria italiana. Non possiamo non considerare però quale sia il comportamento dei gruppi di forza del mercato e… dei furbi, fabbricanti che continuano a dire che producono in Italia ma poi si scopre che non è vero. Il consumatore vorrebbe comprare Made in Italy vero, ma ha sempre il dubbio di essere raggirato. Sempre più spesso sente che è vero. La ragione dell’esistenza del nostro Istituto deriva proprio da un quadro così falsato. Vogliamo fare in modo che l’autentico Made in Italy diventi logo, una firma, seppur firma collettiva, Italici — 41 di sistema e non di una sola ditta, un brand ombrello promuovendo l’immagine collettiva: selezionando i produttori che rispondono a rigidi requisiti e associandoli, sensibilizzando i negozianti, inducendo i consumatori a saper distinguere tra il vero e il falso Made in Italy. Con l’avvento della globalizzazione si è trascurato il contenuto del prodotto, valorizzandone di più l’aspetto economico: non ci preoccupiamo di come è fatto, di quali materiali vengono utilizzati, da dove proviene, ma si punta sul prezzo e sulla grande firma che supplisce all’analisi dei contenuti e della qualità. Noi però vogliamo riportare l’attenzione sui contenuti, visto che il Made in Italy è contenuto. Con la Certificazione del ‘100% Made in Italy’ vogliamo evitare ai consumatori di bere vino annacquato! Oggi la sede dell’istituto è nella città di Fermo, in uno dei più antichi opifici di questo territorio. Un edificio del Settecento nato per la raccolta del baco da seta. Nel 2003, dopo un attento restauro conservativo, è ritornato il ‘Palazzo dei produttori’, per dare continuità alle sue origini manifatturiere, in un distretto della calzatura fra i più importanti nel mondo. Vediamo in breve come avviene la certificazione ‘100% Made in Italy’. L’istituto ha realizzato un sistema di certificazione volontaria in base al quale i produttori distinguono le loro creazioni da quelle di dubbia provenienza, ridando certezza al consumatore finale sull’origine e la qualità. Alcuni requisiti indispensabili per avere il marchio 100% Made in Italy sono: innanzitutto materie prime naturali di qualità e di prima scelta. In generale sappiamo che l’Italia non ha materie prime; prendendo ad esempio il settore delle calzature, i pellami vengono dall’estero, però la conciatura deve essere rigorosamente italiana ed i pellami di prima scelta. Inoltre, fabbricazione interamente italiana, semilavorati prodotti in Italia, modelli esclusivi dell’azienda, prodotti conformi alle norme sulla sicurezza e l’igiene. L’istituto ha provveduto anche alla realizzazione di un sistema di tracciabilità per i prodotti ‘100% Made in Italy’. L’azienda certificata dovrà utilizzare i segni distintivi rilasciati dall’istituto. I prodotti sono dotati di marchio olografico anticontraffazione e di numerazione progressiva. Oggi l’istituto estende la propria certificazione a molti settori produttivi: abbigliamento, arredamento (mobili, sedie, parquet, poltrone, illuminazione), intimo, abiti da sposa, cosmetici, giocattoli, arredi e oggetti sacri, rubinetterie, ceramiche d’arte, gioielli, ecc. In sintesi: tutti quei prodotti che riguardano principalmente la casa e la persona. Le produzioni ‘100% Made in Italy’ certificabili sono anche gli accessori moda e i particolari che vengono contenuti in produzioni più complesse come borse e calzature. marchio dello stile e della creatività del lavoro italiano. Scomparirà una cultura, una tradizione, sarà mortificata l’inventiva e la capacità creativa italiana di cui invece dobbiamo essere fieri. Ma soprattutto si rischia di far diventare un giardino in un deserto, con l’espulsione di migliaia di addetti che non troveranno un lavoro in un altro settore. Eleganza e attenzione ai dettagli sono la forza dello stile italiano. In architettura gli ingredienti importanti sono creatività e materiali selezionati, un incontro vincente tra progetto e produttività. Nell’ultimo decennio anche l’architettura abbraccia i validi principi della certificazione, solo che dobbiamo distinguere i due livelli: certificazione obbligatoria per legge e certificazione volontaria. Nel primo livello troviamo la normativa antisismica, la manutenzione degli impianti, ecc. Sono tutte certificazioni obbligatorie per salvaguardare principalmente la vita delle persone. Nel secondo livello troviamo invece quelle volontarie. ICMQ (Istituto di Certificazione e Marchio Qualità per prodotti e servizi per la costruzione) che valuta e certifica il livello di soddisfacimento dei diversi requisiti cui la costruzione deve rispondere; dalla prestazione energetica al benessere termico ed acustico. Oltre ai requisiti legati al benessere luminoso ed al risparmio Obiettivo primario delle risorse idriche. Oppure il protocollo del nostro istituto è tutelare, valorizzare e SBC (Sustainable Building Council), un promuovere il ‘100% Made in Italy’ per- sistema di certificazione della sosteniché il Made in Italy è un prestigio antico, bilità delle costruzioni, che permette di che si basa sulla creatività che sposa valutare edifici di diversa destinazione qualità ed inventiva. Il Made in Italy dalla d’uso (terziario, commerciale, industriale, moda alle calzature, dall’arredamento residenziale, ospedali, musei, grattacieli, alle invenzioni e alle scoperte scientifi- ecc.) in tutte le fasi del ciclo della vita, dal che, da sempre ci distingue nel mondo. progetto all’esercizio dell’edificio. Tutte le certificazioni volontarie, in Oggi il paradosso è che si vuole trasporre il marchio di Made in Italy anche qualsiasi settore e contesto di applicasui prodotti realizzati all’estero, senza zione e diffusione, diventano di fatto lo tener conto del significato delle parole. strumento per affermare la qualità e far Chiaramente il tutto a discapito di quegli emergere le eccellenze. In generale nel imprenditori che non hanno delocalizzato definire un disciplinare di certificazione, l’importante per noi italiani è quello di stie che operano con sani principi etici. Senza una prospettiva certa, senza lare regole semplici e chiare, sul modello alcun intervento a correzione di certe anglosassone. storture, si può solo ipotizzare una rapida scomparsa del Made in Italy quale www.madeinitaly.org 42 — Italici Una lezione di francese L’artigiano italiano, da interprete di antiche pratiche sedimentate e desuete, diviene oggi il principale artefice del Made in Italy Cristiano Seganfreddo Qualche mese fa il buon signor Vuitton ha mandato in scena una nuova campagna pubblicitaria sui mezzi nazionali. Chi si aspettava Madonna o la Jolie, Gorbaciov o qualche nuova starlette planetaria deve essere rimasto profondamente deluso. Un colpo basso è stato portato a tutti i fashion victim. Convinti di trovarsi Lara Stone (la prossima modella) si sono trovati invece tre diverse immagini di tre signori intenti ad eseguire lavori manuali. ‘Piccoli gesti’, che vengono descritti come fondamentali, nel garantire quello che ognuno di noi cerca nel momento in cui acquista un prodotto di lusso: esclusività, unicità, sapore manuale, ‘imperfezione’ perfetta. Vuitton, indirettamente, forse, ha portato alla causa dell’artigianato più di tutte le azioni consociative messe assieme negli ultimi trent’anni. I difensori o i tutori dell’artigianato hanno sempre rilasciato l’idea naif e folk dell’artigiano capace di reiterare gesti che vengono letti dalla società come desueti. Come vecchi e non interessanti. Cose che spesso stanno meglio nei mestieri in piazza, la domenica, che in un negozio di design. L’immaginario dell’artigiano da noi corrisponde all’impagliatore di sedie, o al falegname vecchietto che usa lima e scalpello, davanti alla classe di scolaretti delle elementari. L’artigiano italiano è relegato a un ruolo di antico interprete di antiche pratiche che ormai non corrispondono più alla nostra vita in bilico da un’applicazione all’altra, tra iphone, ipad e infinite connessioni wireless. Il signore del lusso cosa ci dice invece? Vuitton ci racconta che i suoi artigiani sono contemporanei. Che sono fondamentali nel processo di creazione di un prodotto di altissima qualità, dove ogni dettaglio è determinante nel risultato complessivo. Vuitton ci racconta che non è solo una questione di stile o di bozzetti di uno stilista glamour (di cui ci siamo tutti più o meno stancati, come dimostra la riduzione del 30% nei fatturati anche dei grandi marchi), ma è questione di mani. Di preziosissime mani. Che permettono ai suoi ambiti prodotti di mantenere un ruolo di diversità sul mercato. Motivo per cui il colosso francese decide di imbastire un’astronave di migliaia di metri quadri a Fiesso d’Artico, in provincia di Venezia. Viene in Italia a farsi costruire le scarpe. Perché dall’altra parte delle Alpi nessuno le sa più fare. L’Italia sapeva fare, come Geppetto con il suo Pinocchio. Aveva una straordinaria padronanza manuale, diffusa e sedimentata, in secoli di tradizione artigianale, poi diventata industria. Una sapienza di controllo di materiali e idee che, inaspettatamente, diventavano oggetto. Storie. Narrazioni, come le chiamano le ultime frontiere del marketing esperenziale. Partendo dalle mani. Il progetto si fondeva con l’oggetto, grazie a quel mix impreciso, instabile e indefinibile di competenze, passione, rischio. Gusto e precisione. Di prove e tentativi andati male. Di frequentazione, quasi maniacale, di un’idea. Basi per l’innovazione di prodotto di quello che è diventato il Made in Italy nel mondo. Se da altre parti l’innovazione è stata progetto e pianificazione, l’Artificial Intelligence, da noi è stato l’artigianato industriale. Qualcosa di diverso, che non nega ricerca e tecnologia, ma che si fonde con altri saperi e modalità. Mondi mandati spesso in outsourcing o in pensione, e che dovremmo riprendere, perché quella ‘roba lì’, la nostra AI, può essere la via d’uscita, dall’impasse economica e sociale italiana. Ma solo se resa contemporanea e non, ancora una volta, folklore. Interi comparti, infatti, si sono rinchiusi nell’autarchia. Non capiscono più il mercato. Non si ritrovano più sulla cartina geografica. I cui punti cardinali, nel frattempo, sono completamente cambiati. E così molte aziende vivono in un isolamento che le sta portando alla chiusura. Dall’oro alla ceramica, dalla pelle al tessile. Realtà con una grande capacità produttiva e di lavorazione che non sanno più per chi e per cosa producono. E che così stanno deperendo quotidianamente la loro capacità ‘manuale’. Quando il mondo cerca esattamente quelle capacità. Non servono stilisti ma modellisti. Non servono art director isterici ma programmatori seri. È dunque un enorme problema di alfabetizzazione del Paese. Come fare allora? Quali politiche applicare? Togliere il mondo artigiano dagli organismi datati e politicizzati che l’hanno Ph Campagna savoir-faire Louis Vuitton Italici — 43 malamente governato. Risemantizzare integralmente la parola e il mondo che le sottostà. Creare una task force multidisciplinare che ritraduca l’artigiano con nuovi codici. Creare scuole interdisciplinari vere, che mixino cultura a tecnica. Costruire piattaforme con le imprese di innovazione. Produrre link internazionali. Mettere in rete mondi diversi... Ma prima di tutto lanciare una straor- dinaria campagna di comunicazione. A tutti i livelli. Dedicata ai giovani. Che renda orgogliosi di essere artigiani del nuovo millennio. Di essere artigiani aperti, internazionali, colti. Persone che fanno un lavoro unico e insostituibile. Che sia la sarta o il programmatore. E che ogni volta raccontano un pezzo di una storia. Un pezzo di Italia. 44 — Italici Gli italici: una nuova comunità glocale La globalizzazione non deve far paura. Le nuove organizzazioni transnazionali nascono e si sviluppano a partire da cultura, economia e tradizioni locali dando vita a global communities Piero Bassetti Per affrontare la questione dell’italicità, di cui noi di Globus et Locus ci occupiamo ormai da anni, è centrale il tema del Made in Italy, che andrebbe ripensato o quanto meno riposizionato, per scoprire che, forse, questo riposizionamento sfocia ormai in una accezione più ampia, quella del ‘fare italico’. Ma che cosa vuol dire ‘italico’? Se a questa domanda dovessi rispondere con un titolo di giornale, necessariamente sintetico e non esauriente, direi che l’italico è il passo successivo all’italiano: è il modo che ci viene offerto di affrontare ed entrare nella globalizzazione. Un passo inevitabile, pena l’esclusione dai nuovi grandi flussi sociali, economici e politici su cui – sotto gli occhi di ognuno di noi – si va riaggregando la comunità internazionale. Questa aggregazione, proprio perché è nuova, avviene utilizzando parametri nuovi. Il cui elenco è sempre più lungo. Comprende: - le aggregazioni di Stati che, dopo essersi scontrati per generazioni in guerre sanguinose ed eterne, confluiscono in nuove realtà come l’Unione europea, mettendo per ora insieme le proprie economie e poi, auspicabilmente, la propria politica estera e la propria difesa; - le alleanze politiche e/o economiche anche più ampie della Ue, sia pure meno vincolanti: Nato, Onu ma anche Asean, Unione degli Stati africani eccetera; - le macro-regioni, cioè le comunità di interessi economici sulla base di vicinanze territoriali che, per parlare ancora di Europa, non soltanto trascendono i confini elaborati circa due secoli fa con il trattato di Westfalia, ma ormai si stanno articolando secondo modalità nuove. Un esempio per tutti: l’area lombardo-ticinese. La globalizzazione fa paura o può fare paura, lo sappiamo. Tant’è che le reazioni e le chiusure a riccio, per primi dai noglobal, sono nelle cronache quotidiane. Noi di Globus et Locus, ormai da anni impegnati in ricerche e analisi in questo settore, pensiamo invece che non ci sia da avere paura. Purché si capisca che anche se si scrive ‘globalizzazione’ si deve in realtà leggere ‘glocalizzazione’. Pensare localmente, agire globalmente: è questa la risposta non intimorente a un fenomeno – la globalizzazione, appunto – che altrimenti spaventa i più. Molto in sintesi, la glocalizzazione – intuita per primi da sociologi come Zygmunt Bauman e Roland Robertson – ritiene che il fondamento della società in ogni epoca è stata ed è la comunità locale: l’interazione degli individui, organizzati in gruppi, costituisce un insieme di ‘sistemi’ che diventano ‘sottosistemi’ se relazionati a organizzazioni più complesse. Ad esempio, la famiglia è un sottosistema del sistema quartiere ma il quartiere è un sottosistema del sistema città e così via. La glocalizzazione, insomma, inizia la propria analisi dai sistemi semplici per arrivare ai più complessi: se alla base di tutte le società c’è il micro-gruppo, questo cresce, si sviluppa, interagisce con gli altri gruppi sempre più macro fino ad arrivare alle complesse realtà globalizzanti di oggi. Mantenendo, però, alcune caratteristiche locali, culturali, economiche e legate alle tradizioni, che rendono più tranquillizzante l’inevitabile confluire in un sistema gigantesco. Al contrario la globalizzazione tout court privilegia in partenza i sistemi Italici — 45 complessi e, trascurando le implicazioni dei sottosistemi, rischia di diventare un freddo e dispotico ‘regime’. Il futuro – un futuro che è già quasi il presente – sarà delle global communities. Con il progressivo venir meno dei vecchi, statici e sempre più inutili confini nazionali, a governare il mondo del Terzo millennio sarà un insieme di comunità che si vanno aggregando su quei parametri del tutto nuovi che ho già evidenziato. E in questo insieme di nuove reti, qual è il percorso riservato agli italiani? Secondo noi è quello di ‘pensare italico’, di diventare italici. Superando i confini e i limiti mediterranei dello Stivale si scopre così che nel mondo globale – o meglio: glocale – c’è una rete di persone, di interessi, di stili di vita che sta avviando una nuova aggregazione, anzi: l’ha già avviata. L’aggregazione italica, appunto. Ne fanno parte: gli abitanti dell’Italia, sia i cittadini di passaporto sia gli emigranti e i loro figli – la cosiddetta Generazione 2 o G2 – ormai diventati italiani a tutti gli effetti. Ma ne fanno parte anche: gli oriundi, gli italofoni (ticinesi, dalmati, sanmarinesi, ecc.). In più – ed è questo il vero e nuovissimo ‘valore aggiunto’ – di questa rete di persone fanno parte gli italofili: professionisti e/o amanti dello stile di vita italiano che, pur non avendo italiani tra gli antenati e i parenti acquisiti, ma, per passione o per interesse economico e professionale, hanno abbracciato l’Italian way of life. Si va dai cultori dell’arte italiana, agli operatori e imprenditori il cui core business ruota attorno a commerci e attività in stretto legame con aziende e affari italiani, agli appassionati del modo di vestire o di cucinare italiano, a quella rete radicata del mondo e delle opere cattoliche e vaticane che parla direttamente in italiano o, comunque, l’italiano lo conosce, per arrivare al mondo dello sport i cui protagonisti – non solo del calcio – parlano e anche bene la lingua di Dante. Impossibile fare un censimento. Ma, finora nessuno ci ha smentito, quando facendo un calcolo approssimativo riteniamo che della rete italica facciano parte almeno 250 milioni di persone. Sparse nei cinque continenti e operanti in tutti i settori. Una rete con i suoi leader in ogni campo: economia, cultura, politica, moda, architettura, gastronomia e, perché no, anche sport. Troppo lungo fare una lista, e si farebbe torto a chi ne restasse fuori. Ma almeno due nomi mi sento di farli: Sergio Marchionne e Mario Botta. Il primo ha tre passaporti – italiano, canadese e svizzero – il secondo solo uno, svizzero. Ma entrambi sono, sostanzialmente, italici. Ecco, questa è la sfida che ci siamo posti e che lanciamo: noi, con il think tank Globus et locus, vogliamo aggregare la comunità degli italici. Vogliamo far capire che, senza nulla togliere alle rispettive tradizioni e appartenenze di origine, ‘servire’ una sola nazione sarà sempre più un’anomalia. È quello che, faticosamente, sta avvenendo per noi europei nei confronti dell’Europa unita. E noi italiani, in particolare, per la nostra storia siamo portatori di un universalismo che nel mondo glocalizzato può realizzarsi molto più di quanto abbiano finora provato a fare le singole nazioni raffrontandosi con il contesto internazionale. roundabout Il caratteraccio di Silvana Patriarca Lusso & Autarchia. 1935-1945. Salvatore Ferragamo e gli altri calzolai italiani Mondadori, Frecce, 2009 pp. 256 | € 18,50 ISBN 978880459367 Laterza, Storia e Società, 2010 pp. 348 | € 22,00 ISBN 9788842092070 Sillabe, 2005 pp. 96 | € 17,00 ISBN 9788883472923 Perché siamo come siamo, noi italiani? Perché ci piacciamo sempre di meno e cominciamo a trovarci antipatici? Che cosa è accaduto nella nostra storia nazionale, da Porta Pia alle Veline, che ha fatto di noi quello che siamo diventati: rissosi, astiosi, perennemente ‘incazzati’ contro gli altri e sfacciatamente ipocriti, capaci di celebrare il Family Day un giorno e di tradire la stessa Family il giorno dopo? Vittorio Zucconi sceglie, fra i tanti possibili, dieci eventi chiave della storia d’Italia – dalla presa di Roma alla Grande Guerra, dal fascismo al boom economico, da Tangentopoli a Berlusconi, passando per la tv di Mike Bongiorno, i furgoncini Ape e la ‘gioiosa macchina da guerra’ post comunista – in cerca di quel ‘cromosoma storto’ che non ha permesso di ‘fare gli italiani’. Sì, perché l’homo italicus, incline a denigrarsi con passione, ha ormai maturato la certezza di non possedere un vero carattere nazionale, ma un caratteraccio. Prendendo spunto da un ciclo di ‘lezioni americane’ tenute agli studenti di una prestigiosa ed esclusiva università del Vermont, il Middlebury College, Zucconi mette da parte, rispettosamente, Boccaccio e Cavour per rivisitare, con la sua ironia affettuosa tessuta di deliziose esperienze personali e con la coscienza di rivolgersi non ad accademici, ma a chi della storia italiana sa molto poco (cioè quasi tutti), pregiudizi e cliché sul dramma pirandelliano degli italiani in cerca di se stessi. “Il carattere nazionale è stato un elemento centrale delle riflessioni di una parte importante del mondo intellettuale e politico dal Risorgimento alla Repubblica, e il discorso sui vizi degli italiani è stato anche parte integrante della lotta politica, nel senso che è stato regolarmente messo in campo e utilizzato come strumento nella battaglia per la definizione della nazione”. Dai patrioti risorgimentali che volevano che gli italiani prendessero in mano il loro destino, al fascismo che voleva trasformarli in una massa disciplinata e militarizzata, fino all’Italia postbellica, in ogni epoca il discorso sul carattere nazionale ha assunto toni e contenuti differenti. Nel corso del tempo le analisi dell’‘italianità’ hanno contribuito a richiamare l’attenzione sulla vita pubblica e la qualità della cittadinanza, ma sono anche state utilizzate dai nazionalisti per i loro scopi sciovinistici, oppure sono servite da alibi per nascondere responsabilità precise. Ricorrenti autostereotipi negativi hanno continuato a circolare anche quando si inventavano le narrazioni dei ‘primati’ o della ‘brava gente’. Ma può esserci davvero una speranza di cambiamento se il carattere di un popolo si percepisce in questo modo e se il passato ha lasciato su di esso un’impronta quasi ‘genetica’? Il volume, a cura di Natalia Aspesi, nota giornalista e studiosa di storia del costume, e di Stefania Ricci, direttrice del Museo della calzatura ‘Salvatore Ferragamo’ di Firenze, illustra uno dei periodi più interessanti della storia della calzatura italiana, dalla seconda metà degli anni ’30 fino alla Seconda Guerra Mondiale. Mussolini pronunciò la parola autarchia nel marzo 1936 come risposta alle sanzioni commerciali che la Società delle Nazioni aveva imposto all’Italia nel 1935, a causa della guerra in Etiopia. Nella realtà si ufficializzavano provvedimenti, già in atto in precedenza, destinati a potenziare la produzione interna e a limitare le importazioni alle merci non reperibili sul territorio nazionale. Nell’abbigliamento e negli accessori, la politica autarchica incoraggia il progetto di una moda italiana e, soprattutto nel settore calzature, stimola la ricerca sulle materie alternative, come le plastiche, il cellofan e il sughero, impiegato nell’invenzione più celebre del periodo, il tacco a zeppa, brevettato da Salvatore Ferragamo nel 1937. Tra alto artigianato, ricerca qualitativa e sperimentazione nei materiali, le calzature italiane cominciano a farsi conoscere fuori dei confini nazionali, maturando una propria autonomia in grado di opporsi al monopolio francese e preparando il terreno per il futuro Made in Italy anni ’50. di Vittorio Zucconi Italianità. La costruzione del carattere nazionale a cura di Natalia Aspesi e Stefania Ricci Made in Italy. Storia del design italiano Pecore nere Roma capitale senza centro di Renato De Fusco di Gabriella Kuruvilla, Ingy Mubiayi, Igiaba Scego, Laila Wadia Laterza, Grandi Opere, 2010 pp. 338 | € 30,00 ISBN 9788842082552 Laterza, Contromano, 2009 pp. 148 | € 9,50 ISBN 9788842077978 Officina Edizioni, 2007 pp. 208 | € 16,50 ISBN 9788860490346 Il liberty, il futurismo, l’art déco, il fascismo, il razionalismo, lo stile Olivetti, il neo-storico, l’high tech, il minimalismo, il radical design, fino all’era informatica: Renato De Fusco traccia la complessa evoluzione del design nel nostro paese privilegiando le continuità formali che la caratterizzano, piuttosto che la pura successione cronologica da cui è scandita. Questo volume, dopo il grande successo editoriale della Storia del design dello stesso autore, approfondisce le peculiarità proprie di una nazione come l’Italia dove mancano, o sono mancati, solidi riferimenti come risorse, grandi imprese industriali, vasta committenza: un contesto produttivo-commerciale che ha inevitabilmente influenzato la vivacissima parabola artistico-culturale del nostro design. La prima generazione di figlie di immigrati, nata o cresciuta in Italia, racconta la propria identità divisa, a cavallo tra il nuovo e la tradizione, una identità obliqua, preziosa, su misura. Quattro voci, otto storie, molte culture. L’incrocio dei mondi e delle esperienze, tra integrazione e diversità, accoglienza e rifiuto. Tra noi e loro. La raccolta è stata curata da Flavia Capitani e Emanuele Coen. La singolare anomalia riguardante Roma è quella di trovarsi ancora oggi, a più di un secolo dall’essere diventata capitale italiana, senza un nuovo ‘centro’, senza una centralità chiaramente riconoscibile come moderna, nel senso che a questo termine si può attribuire in riferimento alle altre capitali europee. Il libro intende verificare se l’‘anomalia’, le cui origini vanno ricercate nei tempi lunghi della storia urbana post-unitaria ed ancor prima, possa costituire un limite insormontabile nel giocare un ruolo di capitale di rango europeo. Si tende in ultima analisi ad interrogarsi – partendo da basi storiche, ma anche con un particolare interesse rivolto alle prospettive progettuali – se oggi, mentre la diffusione metropolitana della ‘città esplosa’ sembra ancor più allontanare la possibilità di rincorrere i tempi perduti della trasformazione moderna, la posta in gioco debba intendersi definitivamente persa. Ovvero se proprio la nuova confusa condizione ‘ambientale’ non offra un’inestimabile riserva di risorse, tale da poter prefigurare un assetto territoriale del tutto originale e, rispetto al tema trattato, alternativo ai modelli classici, europei ed occidentali. di Vieri Quilici Un dialogo per immagini Le fotografie di Carlotta Maitland Smith Per questo numero di TAO, dedicato all’influenza che gli italiani hanno avuto nei Paesi colonizzati o in cui sono immigrati, si è scelto di affiancare alle parole scritte un dialogo per immagini trasversale. Sono state proposte quattro fotografie, utilizzate nella copertina e nelle aperture di sezione, di Carlotta Maitland Smith, fotografa freelance, specializzata in reportage documentaristico e in ritratti di persone immortalate nel loro ambiente. Carlotta Maitland Smith ha studiato Fotografia presso lo SPEOS (Paris International Photographic Institute) e l’ICP (International Centre of Photography, New York). Spinta dalla sua inesauribile curiosità nei confronti di popoli e di persone distanti geograficamente e culturalmente, ha viaggiato a lungo in giro per il mondo, immortalando comunità sparse in vari angoli del pianeta. Nei mesi a cavallo tra il 2008 e il 2009, mentre si trovava a New York, Carlotta Maitland Smith ha colto l’opportunità offertale dal soggiorno negli Stati Uniti per entrare in contatto con una comunità di italoamericani emigrati nel Bronx negli anni ’20 e tutti originari dell’isola di Ponza. Il suo interesse per questa comunità si è alimentato non solo delle sue radici familiari (madre italiana di Asti, Piemonte) ma, più in particolare, dei lunghi periodi trascorsi a Ponza. Periodi nei quali ha avuto occasione di sentire spesso parlare dei ponzesi d’America, tanto da desiderare di conoscere personalmente la loro comunità. Ma non si sarebbe mai aspettata di entrare in case e ristoranti, sia nel Bronx sia altrove, con le pareti coperte di dipinti di Ponza e statue di San Silverio, il patrono dell’isola. Sebbene nei pochi mesi a disposizione abbia avuto modo di conoscere personalmente solo una componente necessariamente limitata di questa comunità, Carlotta Maitland Smith ha potuto constatare che oggi sono presenti a New York molti più ponzesi di quanti ne siano rimasti sull’isola stessa. Inoltre, è stata colpita da come, nonostante la distanza e il tempo trascorso, essi rimangano un gruppo di persone unito e fortemente caratterizzato. Ad affascinarla più di ogni altra cosa è stato il fatto di trovarsi a documentare un chiaro esempio di come, dovunque nel mondo, le culture degli immigrati stiano evolvendo rapidamente a causa del contatto con altre culture. Si è infatti imbattuta in un momento decisivo nell’equilibrio fra la devozione e l’impegno della prima generazione – ancora rappresentata dai più anziani, che cercano disperatamente di aggrapparsi alle radici e trasmetterne i valori culturali ai nipoti – e la generazione dei più giovani, che sentono i legami con l’Italia troppo allentati perché possano essere parte della loro vita. www.maitlandsmith.co.uk