Lorenzo Favero

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Lorenzo Favero
Lorenzo Favero
(1911-1974)
la memoria figurativa
edizioni aab
Provincia di Brescia
Comune di Brescia
Associazione Artisti Bresciani
la memoria figurativa - 12
Lorenzo Favero
(1911-1974)
mostra a cura di Mauro Corradini
galleria aab
vicolo delle stelle, 4 - Brescia
20 gennaio - 7 febbraio 2001
feriali e festivi 15,30 - 19,30
lunedì chiuso
edizioni aab
Sono particolarmente lieto di presentare questa mostra di Lorenzo Favero, realizzata, come sempre in modo non banale, dall’A.A.B.
È inutile ripetere ancora una volta come sia importante, anzi
fondamentale, questo sodalizio bresciano per ripercorrere le strade
della memoria, riportando alla conoscenza collettiva nomi che hanno avuto un ruolo e una influenza nel loro tempo, ma che, come
spesso accade, sono caduti nell’oblio.
È certamente questo il caso di Lorenzo Favero, pittore finissimo
e critico sensibile, il quale influenzò il gusto ed il sentire artistico
nei decenni ’40-’50-’60, incontrando una prematura fine nel 1974
a soli 63 anni.
Mi piace sottolineare il puntuale saggio critico di Mauro Corradini, che affronta i due aspetti operativi del nostro autore, ricordando le sue ascendenze artistiche, che sono gli zii Mozzoni ed Emilio
Rizzi, nonché la sua attività di critico sulle colonne della Voce del
Popolo e dell’Italia.
Queste testate connotano il quadro culturale e interpretativo all’interno del quale Lorenzo Favero si muove, dimostrando una sagacia ed una intuizione considerevoli nel capire le vicende dell’arte,
pur con qualche comprensibile difficoltà a leggere artisti di radicale
novità come Alberto Burri.
La riproposizione di un autore, che da più di 25 anni non era
presentato al pubblico (la sua ultima mostra antologica, sempre nelle sale dell’Associazione Artisti Bresciani, risale al 1973), sono certo
possa essere gradita ai cultori dell’arte ed agli estimatori della recente storia bresciana.
Alberto Cavalli
presidente della Provincia di Brescia
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Un ricordo
Lorenzo Favero fu mio insegnante nella Scuola Media “Giovanni Pascoli”, in via Tosio, dal 1953 al 1956.
Facevo parte di una classe vivace ed interessante, anche se qualche volta francamente insopportabile.
Ricordo tra i compagni Giorgio Lombardi, Flaminio Valseriati,
Antonio Favero, i fratelli Bonera, Angelo Esposito, Alfredo Margola
ed altri, i quali non me ne vogliano se non li rammento per nome.
A noi ragazzetti impauriti ed intimoriti dalla novità dell’ambiente, Lorenzo Favero apparve subito come una persona di grandissima
umanità e di inequivocabile paternità.
Era quasi più severo con suo figlio che con noi altri allievi.
Antonio peraltro lo ricambiava condividendo la stessa dose di irrequietezza del resto della classe.
In conformità al proprio personaggio amava molto le divagazioni interessanti della vita, sull’uomo, sul mondo, sull’arte, sul suo
amatissimo Giovanni Pascoli, rapportati alla mentalità di ragazzetti
irrequieti in età preadolescenziale.
Colpiva inoltre la sua esuberanza e convinzione nelle spiegazioni, accompagnate dalla realizzazione di rapidi schizzi illustrativi
tracciati alla lavagna con il gesso.
Erano talmente simpatici che si faceva fatica a cancellarli.
Lorenzo Favero era un insegnante scrupoloso che seguiva il programma, ma sapeva apprezzare negli allievi le doti di intuizione, di
intelligenza dei problemi e di accrescimento culturale, anche se non
legati alle circolari ministeriali.
Mi è sempre spiaciuto che alla sua morte il ricordo di una persona così poco banale sia rimasta legata alle conversazioni di pochi,
per cui mi sono sforzato di mettere in cantiere qualche iniziativa
per ravvivarne la memoria, simile alla bella serata presso l’Ateneo
nel corso della quale Riccardo Lonati ha tratteggiato la nobile figura del critico-pittore.
Questa mostra, curata con il solito acume critico da Mauro
Corradini, andrà a colmare un vuoto che la mancanza di memoria
aveva aperto.
Mariano Comini
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Moralità e misura:
l’opera pittorica di Lorenzo Favero
Mauro Corradini
Autoritratto, 1939
olio su tela
cm 35x25
1. Il concetto di petit-maitre, per lungo tempo utile immagine
in campo artistico, termina la sua funzione a cavallo della seconda
guerra mondiale, sepolto anch’esso, insieme a tante altre illusioni
ottocentesche; dura, forse, oltre la storia, per le ragioni cui si farà
sommario cenno, per tutta la prima metà del secolo, e indica quelle voci, pur significative e importanti, che tuttavia poco hanno inciso sulle vicende complessive dell’arte, agitate da uno stuolo di grandissimi che ne hanno rivoluzionato dalle fondamenta funzioni e sostanza. Concetto che va tuttavia ripreso -e si può riprendere tuttora- quando si entra in generi specifici, come quello dell’acquerello o
dell’incisione, dove ancora ha un senso la manualità operativa, la
competenza nella norma, anche per uscirne, per volare in alto.
Tale concetto appare idoneo, calzante, utile, a definire l’opera
di Lorenzo Favero (Brescia 1911-1974).
L’antologica voluta dall’Associazione Artisti Bresciani e dall’Assessorato alla cultura della Provincia di Brescia costituisce una sorpresa, non certo per tutti i bresciani, ma senz’altro per una grande
parte e per tutta la parte più giovane. Per una moralità e una modestia che davvero sono di un altro tempo,
Favero, insegnante nelle scuole e critico d’arte, espone pochissimo: non vuole che la posizione di critico e insegnante possano influenzare il commercio. Per questo le sue mostre
personali si contano davvero sulle dita di una
mano. Non vuole cioè che il ruolo del docente o il peso del critico possano falsare il giudizio sulla sua opera, con il sempredimoda encomio servile. Ha tuttavia estimatori e collezionisti: ma limitati nel numero, quasi selezionati.
Quanto alla sua ultima mostra antologica, anch’essa allestita nelle sale dell’Associazione Artisti Bresciani e introdotta da Luciano Spiazzi,
risale all’anno precedente la scomparsa, oltre
un quarto di secolo fa. Siamo nel 1973 e da
allora almeno due generazioni interessate all’arte sono comparse alla ribalta e cresciute.
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Anche allora, del resto, nel clima post-sessantottino, a metà strada tra il salottiero e il rivoluzionario, la pittura di Favero non può trovare adeguata attenzione: e chi scrive confessa di
non ricordare quella mostra, di averla probabilmente vista e trascurata, trascinato altrove
da altre, “magnifiche sorti progressive”, che il
tempo ha puntualmente, e brillantemente,
smentito.
In fine al catalogo, oltre una breve antologia critica, cui faremo qua e là necessario riferimento, si potranno incontrare i termini, affettuosi, relativi a una biografia, ristretta alle
quattro mura di casa: lo studio, l’approfondimento, la pittura, l’insegnamento, le vie, gli
studi degli artisti e le gallerie della città, all’interno delle quali sono cresciute e si sono
rafforzati i caratteri dell’uomo, che coincidono con le scelte dell’artista: su tutto, uno
sguardo sincero, che sembra rappresentare, nella vita come nelle
opere, quel tratto di moralità che aiuta la comprensione, e soprattutto riporta in luce una quieta dolcezza, o una dolce malinconia,
in definitiva una serena saggezza, che sembra costituire anch’essa il
sale di una vita altra, ben più lontana di quanto non dicano le date. Segno che i nostri tempi sono volati davvero troppo in fretta, e
segno anche che certi valori sembrano a chi scrive ormai del tutto
irrimediabilmente perduti.
La pittura di Favero, in questa realtà, appare come un caso fuori del tempo, un evento da
accogliere e valutare con la medesima serena
saggezza, che ha animato la vita e l’opera del
pittore bresciano.
2. Quando nel 1953 Favero scopre, attraverso la mostra realizzata all’Aab, l’opera di
Giulio Cantoni, che in quel momento conosce solo per sparsi frammenti, si entusiasma
per la pittura del bresciano, e sottolinea, recensendone l’esposizione personale, la componente “lombarda”, che gli sembra essenziale: “quel costruire insieme cielo e fronde, i
morbidi contorni quasi ad alone attorno alle
figure degli uomini e delle bestie fusi nel paesaggio e non legnosamente scolpiti a macchia
come in certe pitture ottocentesche, quel fare
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Ritratto della
moglie Anna, 1948
olio su faesite
cm 45x35
Studio, 1945
olio su faesite
cm 45x35
Studio per
“La strage degli
innocenti”, 1935/36
olio su compensato
cm 30x20
Le Georgiche, 1945
olio su tela
cm 90x130
velocissimo, concitato, quasi bozzettistico,
quelle pennellate larghissime e fortunate sono
un patrimonio del maestro Cantoni”. Non è
difficile, a distanza di quasi mezzo secolo da
quegli apprezzamenti sinceri, leggere in controluce nelle parole del critico la riflessione
del pittore.
Anche la pittura di Favero si muove su quel
crinale; e forse nella sua opera si trattiene solo da quel “fare velocissimo, concitato, quasi
bozzettistico”, che poco gli appartiene.
Favero è esponente di quella generazione di
pittori che si è formata alla scuola della cultura di Novecento: una scuola difficile, perché
sviluppata da autodidatta, dal momento che
negli studi asseconda la famiglia e frequenta
prima il ginnasio e successivamente la facoltà
di Lettere dell’Università di Pavia: l’attività
professionale segue le premesse formative, e
per trent’anni insegna presso la Scuola media “Pascoli”. In questa
scelta di vita e professione, la propensione artistica, il talento naturale e la disposizione vengono un poco compressi. Per esaltarsi subito dopo, quando, ottenuta la cattedra a soli 25 anni, può esplorare le regioni segrete del suo talento, mantenuto autonomamente
in sordina. In questo apprendimento, con la stessa serietà mostrata
in ogni altra attività praticata, il pittore si accosta inizialmente ai
fratelli Mozzoni, che gli sono zii (sua madre è una Mozzoni): e
sembra a chi scrive che certe lezioni “lombarde” (usiamo pure un
aggettivo caro al critico), che sono pur ravvisabili nei paesaggi di
Tita, alla metà degli anni trenta, giochino un ruolo importante
nell’espressione della sua
pittura. Più stimolante è
per Favero l’incontro con
Emilio Rizzi: la fama “parigina” del pittore cremonese appare garanzia sufficiente, sul finire degli
anni trenta; soprattutto è
garanzia sufficiente la distanza, naturale, che Rizzi esprime verso il trionfalismo un po’ retorico
dell’ultimo Novecento,
quello che Favero, ormai
giovane uomo, incontra
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nell’ultimo scorcio del quarto decennio
nelle sindacali bresciane, governate da
lontano dalla sagacia critica del grande
Feroldi. Anche Belli è lontano, chiamato a Milano verso altri destini, e la città
sembra voler accantonare, sospendere
nel limbo, dimenticare, quel rapido e
turbinoso passaggio.
La stagione formativa per la sua pittura è dunque radicata nella costruzione
solida, plastica, dell’ultimo classicismo;
ma cresce e si sviluppa sulla scia di voci
più tonali, meno inquadrabili in quel rigore che della cultura novecentista oltre
che costituire un pregio diviene anche limite. La predilezione per Mozzoni o
Rizzi ci aiuta a comprendere la scelta tonale, quella stessa che abbiamo letto, in
filigrana, nel suo testo su Cantoni. Il tonalismo appare come la tendenza variegata nelle sue forme e nel suo manifestarsi con cui la più giovane linea di ricerca sembra opporsi, in quegli anni, a Novecento (Favero, per intenderci, è coetaneo di Guttuso). Il suo Autoritratto del 1939 non
denuncia solo una chiara matrice fotografica, che è già un’apertura
al moderno -basti sottolineare il taglio e la disposizione del capo nel
rettangolo della tela-, ma dichiara una predilezione per la pittura
tonale. La solidità volumetrica della costruzione neoclassica non si
smentisce, ma viene come addolcita -ancora la serena saggezza?- dal
muoversi leggero e armonioso delle cromie, che disegnano il volto
di un giovane uomo, carico di fiducia e di speranze: nonostante la
temperie storica, appena contratto matrimonio, il pittore guarda
con serena certezza al mondo che viene e non avverte o non sente,
almeno nell’immagine di sé, i cupi suoni che attraversano i cieli dell’Europa.
La solidità costruttiva e il tono pittorico trasportano le prime
immagini di Favero quasi in un racconto ottocentesco, intenerito
dall’ultima pittura dell’occhio che osserva affettuosamente la
realtà; non siamo ancora a quel travaso dall’occhio al cuore che è
carattere del secolo. Forse appare opera assai difficile per la nostra
città, in quegli anni. Più facile, nel recupero del tono, superare all’indietro la vicenda poetica d’inizio del secolo, per non incontrare
né la propaganda un poco greve dello stile novecentista, né i fragori linguistici delle avanguardie, che forse nessuno ha saputo rendere riconoscibili/comprensibili alla cultura della città.
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Cappone, 1950
olio su compensato
cm 60x40
Rosa, 1955
olio su compensato
cm 40x30
Quando con il dopoguerra, dopo le iniziali apparizioni, la sua
presenza si fa più incisiva nell’universo cittadino, a partire dalla
prima mostra personale che tiene nel 1946 nella “Galleria Vittoria”, Favero viene chiamato a redigere note critiche sui giornali locali, tra cui occorre ricordare, per continuità, quelle sulle colonne
de La voce del popolo e su quelle de L’Italia.
Favero trascorre dalla pittura alla critica; scelta sicuramente
importante, se è vero che i suoi testi accompagnano la storia dell’arte bresciana per quasi vent’anni, dal 1945 al 1962; scelta tuttavia penalizzante per la sua vicenda poetica. Il pittore viene messo in sordina dal critico; espone sempre meno, e anche quando,
infine, sul finire della sua vicenda terrena, espone in una vasta
personale nelle sale dell’Associazione Artisti Bresciani, introdotto
dal critico di Bresciaoggi, Luciano Spiazzi (1973, 31 marzo-12
aprile), la selezione delle opere, ci ricorda Riccardo Lonati, nello
studio dedicato al critico-pittore in una commemorazione tenutasi all’Ateneo, avviene “fra le trecento e più che il pittore tiene
gelosamente nello studio”. Il diario pittorico rimane quasi segreto, appartato, costruito lontano dai clamori e dai riflettori della
cronaca; come se la quotidianità fosse inconciliabile con la riflessione della poesia.
Non mai lontano dalla pittura. L’attività di recensore lo ha posto di continuo a contatto con le vicende dell’arte. E la città non è
mai stata chiusa a riccio, proponendo tutte le differenti dimensioni che il secondo dopoguerra veniva portando in campo. Non
chiuso a riccio appare lo stesso Favero; pur confessando sempre la
sua predilezione per la pittura narrativo-evocativa da cui abbiamo
preso avvio, ha tuttavia il coraggio dell’analisi
libera e disponibile verso il nuovo che prorompe; scrive giudizi, non pregiudizi.
Siamo nel 1953; al “Garden bar” espongono
tre giovani (D’Angelo, Colombo e Baj); il critico (6 novembre 1953, quotidiano L’Italia)
scrive: “Se potessi tagliare il funicolo che mi
tien legato alla dolce tradizione romantica,
trasvolerei Picasso e Kandinsky, per naufragare dolcemente nel mare della pittura nucleare”. Affermazione che ha più di un merito, riletta con il senno di poi: allo spunto leopardiano del dolce naufragio -carattere proprio
dell’uomo, oltre che memoria letteraria di un
docente di italiano-, si affiancano due indicazioni preziose: la contemporaneità è Picasso
più Kandinsky; la sua personale scelta poetica
è legata, con un cordone ombelicale non reci11
dibile, alla “dolce tradizione romantica”, a quell’Ottocento che scivola verso il nostro secolo, evocando immagini che non saltano
l’occhio, pur volendo valorizzare il sentimento.
La cultura dello sguardo che domina il secolo XIX non è superata; per questo possono sussistere i petits-maitres; la cultura del
sentimento, che domina la prima metà del Nostro, è ben delineata
e leggibile, ma non può essere accolta in toto dal pittore. Sono la
sua storia, la sua cultura, i suoi legami con i maetsri indicati ad impedirglielo; e quella scelta d’impegno, per cui l’arte deve pur riflettere sulla vita e sui sentimenti dell’uomo, e non perdersi nei vuoti
formalismi di una vicenda solo intellettuale, mentale. La critica
che parla di “torre d’avorio” per certe elaborazioni poetiche non è
lontana, di pochi anni precedente il tempo in cui Favero scrive le
sue analisi critiche e soprattutto in cui Favero dipinge.
3. Il percorso di Favero è legato alla poesia che viene dalle cose.
La poesia è per Favero quel sottile equilibrio tra sguardo e sentimento, si colloca in quella terra di nessuno dove ancora sopravvive la luce dell’occhio e tuttavia già prepotentemente emerge il vibrare dell’emozione. Emozione contenuta, non mai gridata espressionisticamente e non mai di superficie; non piccolo gioco fine a se stesso,
rintracciabile anche negli scarabocchi infantili, tracciati sui muri.
La scelta poetica del pittore rimane costante nel corso della sua
vita; per questo con difficoltà si possono distinguere tracce di
difformi tensioni. La mancanza di una datazione rende ancor più
ostica la cronologia, ricostruita attraverso il
ricordo diretto dei familiari, con approssimazioni, che tuttavia poco spostano i termini
complessivi dell’insieme. Le stesse tematiche
cui Favero si dedica di preferenza sono limitate: il paesaggio, leit-motiv di una vita, i volti
ad occhi sognanti dei fanciulli, qualche scena
di vita, e alcune immagini sacre, con una costanza nella presenza alle mostre collettive sul
sacro, unica esposizione di sé continuativa.
Se un’evoluzione si vuole rintracciare,
può essere letta nel progressivo distacco da
quell’Ottocento da cui era partito; la frequentazione continua delle nuove tendenze
che il mercato e l’attenzione espositiva portano in campo, sicuramente incide sull’opera: e una maggior larghezza nella pennellata,
un distendersi dei toni, specie nell’acquerello, dove diviene insuperabile maestro tra il
sessanta e il settanta, appaiono come i carat12
Meditazione, 1955
acquerello
cm 40x30
teri evolutivi di un occhio, che si riposa nelle cose, senza tradire
la sua emozione.
Nella sua mostra personale del 1952, Favero espone numerosi
pastelli in cui ritrae i volti dei bimbi; una immagine che quasi naturalmente si caratterizza nel duplice binario di occhio e cuore.
Fors’anche per questo, genere tanto amato dal critico-pittore. Su
questi ritratti si è formata (ed è cresciuta) una fama particolare, che
ha in parte falsato il giudizio complessivo, facendo trascurare l’indagine su quel sentimento della natura, espresso attraverso il paesaggio. I bambini di Favero hanno grandi occhi pieni di stupore,
hanno forse l’energia interiore del “fanciullino” pascoliano, cui dona un respiro particolare l’uso del pastello. Uno stile morbido e
pittorico, che riporta al Settecento, a maestrie inesistenti sotto i
cieli recenti della ricerca pittorica.
Il riferimento alla classicità rimane anche nelle opere di carattere sacro, dove Favero si attiene agli schemi consolidati della tradizione.
Più significativo è il percorso nel paesaggio. Inizialmente il suo
paesaggio appare costruito con una attenzione minuziosa alla
realtà, costruito per pennellate brevi, per luminosità diffuse, che
sembrano emergere dalle cose stesse. Si direbbe un paesaggio creato per accogliere la scena di genere: i piani ben definiti e delineati,
su quella scansione tradizionale, che vede nel ritratto di paese un
ritmo che va ad ampliarsi, a mano a mano ci si allontana dall’intensità del primo piano. Si tratta di paesaggi legati al territorio, in
cui vive; più avanti negli anni, il paesaggio documenta i riposi estivi, il muoversi della famiglia, per le vacanze, quando forse la lontananza dal giornale consente a Favero una maggior continuità nel
lavoro pittorico.
Il paesaggio è dunque inizialmente il recupero della tradizione
novecentesca, senza mai scivolare in quella dimensione bozzettistica, che non gli appartiene. La misura gli viene dalla cultura di Novecento, una misura classica, solida, razionale nella disposizione
delle cose; il tono gli deriva tuttavia da quelle ricerche nuove, più
espressive, che hanno attraversato la pittura italiana, e Favero fa
sue, in quella declinazione lombarda (e Tosi diviene inevitabile riferimento) che tanto lo appassiona: sintesi formale, ritmo compositivo, emozione cromatica appaiono come i termini di una conquista espressiva. Poi, con gli anni, anche il paesaggio -forse lo
sguardo- muta; la luce si fa più interna alle cose e scompare ogni
riferimento esterno. Rimane, preciso, retaggio della trascrizione
dell’istante, carattere proprio della sua vicenda pittorica, il punto
di vista, la fedeltà ad un “qui e ora”, che ne definisce i termini. Attento a non cadere in quel virtuosismo “da spadaccino”, che pure
apprezzava, diffuso nell’ultimo impressionismo, che ha dominato
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nella nostra città; certo che l’immagine d’arte è una costruzione rigorosa, che parte dalla rappresentazione e giunge al sentimento.
In quest’opera di scavo nella realtà naturale, il pittore è consapevole che l’approdo nuovo è la visione, dove oggetto e soggetto si
fondono, e trovano un punto di superiore contatto.
Nello sciogliersi della materia, specie nell’acquerello, Favero si
direbbe schiarire i suoi toni, aprire l’immagine ad una dimensione
che nella fedeltà delle forme manifesta un volo della fantasia; come
se solo la pittura potesse consentirsi quei gesti di libertà, che la vita non sempre concede.
Per troppo tempo, occorre confessarlo con chiarezza, siamo stati trascinati altrove, verso altri apprezzamenti, da una idea di cultura che si è rivelata assai fragile; per troppo tempo abbiamo rifiutato la gioia degli occhi, l’emozione tattile della pittura, come “roba
vecchia”; abbiamo guardato con sospetto questa pittura, con le sue
immagini che costituiscono quel luogo di riposo dell’occhio e di
profondo respiro dell’animo, che solo l’arte può concedere. Una
antologica che riporta alla luce un pittore segreto deve essere occasione di riflessione sui valori della pittura; senza prevenzioni, e senza esaltazioni, che poco si addicono alle qualità dell’autore.
Quando Brescia pittorica, quasi mezzo secolo orsono, si divide
tra innovatori e tradizionalisti, Favero, ben consapevole delle proprie scelte, ma altrettanto consapevole di come si stava evolvendo
la storia dell’arte, non si schiera né con gli uni, né con gli altri, ma
rimane tra gli indipendenti: e forse non si lega strettamente nemmeno con quelli. Quando a Brescia giungono i sacchi e le bruciature di Burri, nel 1958 nella galleria “Alberti”, il critico Favero
confessa sotterraneamente la sua difficoltà a leggere un artista che
opera con materiali non convenzionali (“i sacchi bruciacchiati e
sozzi, gli stracci di vecchie lenzuola non di bucato, il catrame e la
fuliggine”); ma non ha dubbi nel coglierne fino in fondo il messaggio, nel sottolineare, nella continuità storica di una ricerca che
ha radici nella cultura e nelle avanguardie del nostro secolo in particolare, l’afflato emozionale: “qui c’è l’esasperazione, la disperazione, l’acme della spregiudicatezza e della cattiveria interpretativa.
Insomma, anche Burri ha qualcosa da dire e da distruggere; è evidente la presenza di un’anima inquieta e di una intellettualità rabida e perversa. Forse Burri ha patito molto”. E nel coglierne l’animo disvelato dalle forme magmatiche rapprese sul supporto, non
manca di annotarne, a dispetto di tante probabili derisioni e contro i superficiali scherni, le qualità formali: “Non c’è tutto di gratuito, qui. Colui che ha combinato questi terribili guai non è analfabeta, non è barbaro, non è incolto. Anzi! Abbiamo pensato persino a Morandi per via di certi accostamenti preziosi ottenuti con
delle cuciture a punto cappone”.
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Le opere
Ritratto di fanciulla,
1952
pastello, cm 47x39
Ritratto di fanciulla,
1953
pastello, cm 44x34
17
Ritratto del figlio
Antonio, 1951
olio su compensato
cm 40x30
Sonno della figlia
Paola, 1949
olio su compensato
cm 25x35
18
Studio per un bambino, 1948
acquerello, cm 66x47
19
Perdita di un amico caro, 1955
acquerello, cm 53x36
Spazzacamino, 1960
acquerello, cm 50x35
20
Entroterra ligure, 1968 - acquerello, cm 48x67
Ulivi sul Garda, 1955 - acquerello, cm 20x29
21
Verso Sulzano, 1954 - acquerello, cm 23x31
Valtenesi, 1965 - acquerello, cm 33x44
22
Bordighera, 1961
acquerello, cm 35x50
23
Cattolica, 1948
olio su compensato
cm 24x34
Faro del Sile, 1955
olio su compensato
cm 20x26
Pilzone, 1949
olio su compensato
cm 30x41
24
Riccione, 1948
olio su compensato
cm 24x33
25
Chioggia, 1955
olio su compensato
cm 24x36
26
Faro del Sile, 1955
olio su compensato
cm 31x40
Liguria, 1952
olio su compensato
cm 28x38
Alto Adriatico, 1948
olio su compensato
cm 24x34
27
Laguna veneta, 1955
acquerello
cm 33x48
Laguna veneta, 1955
acquerello
cm 33x48
Venezia, 1950
olio su compensato
cm 20x25
28
Peschiera Maraglio, 1968
olio su compensato, cm 50x60
29
Nevitata a Mompiano, 1960
acquerello, cm 70x50
30
Alta Valle Camonica, 1953
olio su compensato
cm 35x47
Ronchi di Brescia, 1958
olio su compensato
cm 27x34
Iseo, 1955
acquerello
cm 20x30
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LORENZO FAVERO
(Brescia, 24 maggio 1911 - 26 giugno 1974)
Laureatosi in lettere a Pavia, ha insegnato per trentasette anni
in scuole medie. La sua prima vocazione tuttavia è stata la pittura.
Critico d’arte per fogli locali: La Voce del Popolo, Il popolo,
L’Italia, Il Cittadino, come pittore era conosciuto come ritrattista
dei bimbi.
Dopo anni di studio, di copie dagli antichi maestri (veneti in
particolare), dopo lunga frequentazione di musei, fra i quali Brera,
l’Accademia di Venezia e il palazzo Chiericati di Vicenza, e la vicinanza degli zii Giuseppe e Tita Mozzoni, nonché la scuola di Emilio Rizzi, venne formandosi un gusto suo.
L’orientamento scelto gli ha procurato l’affettuosa accoglienza
del pubblico che ha guardato le sue “testine” eseguite a pastello
apprezzandole per le “soavi stesure dei toni, d’una raffinata lucentezza”.
Fin dal 1941 presente sulla scena artistica bresciana, nel 1948
ha tenuto una personale a Buenos Aires. Nel 1952 la sua prima
personale a Brescia. Seguita poi da numerose partecipazioni in
campo regionale contrassegnate da segnalazioni e premi.
Più di vent’anni dovettero trascorrere per rivedere riunite in
mostra sue opere rappresentative, e fu nel 1973, alla A.A.B. […]
Da rammentare anche l’attività di illustratore, autore di centinaia di tavolette per diapositive storiche.
Accanto all’attività di ritrattista dell’infanzia capace di rendere
d’ogni fanciullo, “secondo che nei suoi occhioni limpidi fiorisca il
languore o la mestizia, s’apra un incantesimo o un brio”, il casto
stupore o l’amoroso slancio, il sopimento o la fragilità, val ricordare il paesaggista attento ad ogni aspetto della natura: marina, declivi, architettura di caratteristici luoghi…
Colori tenui, scanditi, dedicati anche alle prode dei nostri laghi, l’Iseo soprattutto, a rimeditare aspetti meno appariscenti, ma
suscitatori di profonda emozione.
Una staticità significativa, come carico di umanità era l’uomo
che recava evidente nello sguardo penetrante, nel tratto contenuto frutto di costante disciplina interiore riversata dall’animo nelle opere.
RICCARDO LONATI, da: Dizionario dei pittori bresciani,
Brescia 1980, Zanolli editore, vol. 2°, pagg. 14-15, con ricca bibliografia.
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Lorenzo Favero
Recensioni critiche
a cura di Giuseppina Ragusini
La mostra degli undici
IL POPOLO, 23 maggio 1946, pag. 2
In via Gramsci, alla Sede “Arte e Cultura”
espongono le loro opere i seguenti pittori:
Botticini, Canevari, Cattaneo, Cavellini, Corbellini, Dolci, Ghelfi, Lancini, Pedrali, Pescatori, Simoni.
L’improvvisazione, la familiarità di questa
mostra, messa insieme alla casalinga, a dispetto di ogni sussiego e di ogni convenzionalismo ufficiale, hanno dato il felice risultato di una schietta, fresca e simpatica manifestazione artistica. Gli espositori, nel numero
di undici, hanno dichiarato di non costituire
un “gruppo”, cioè una conventicola chiusa.
La lealtà di tale premessa non ci vieta di pensare a una brigata di giovani, i quali, accordatisi lì per lì, hanno genialmente concepito
e deciso la mostra del “piccolo quadro”.
Al disopra di ogni fatto polemico, relativo
alle correnti estetiche, plaudiamo a questo
spirito di solidarietà, al superamento di individualismi e personalismi inutili, alla maturata coscienza democratica fra gli artisti.
Questi undici pittori, provenienti dalle più
diverse condizioni sociali, dall’operaio al laureato, dal decoratore al commerciante, dal
benestante al povero in canna, insegnino finalmente a molti dei loro colleghi che è nell’affiatamento, nella fraternità degli animi e
nell’umiltà che si lavora e si conclude qualche cosa. Anche il pubblico si è avvicinato
con simpatia ai nostri. Il giorno stesso dell’apertura della mostra fu notato l’acquisto di
un notevole numero di opere.
Abbiamo parlato di “improvvisazione”: per
non essere fraintesi, diremo che gli undici
improvvisarono l’esposizione delle opere,
non le opere stesse.
L’originalità della mostra sta tutta qui. Ogni
pittore, raccolti dallo studio i dipinti, i bozzetti, i disegni a lui più cari e dalle dimensio-
ni più modeste, li ha racchiusi in cornici, più
o meno rustiche, portandoli poi alla sede
dell’associazione “Arte e Cultura”. Così sarà
dato ai visitatori di fare un’esperienza nuova:
di conoscere gli artisti nella fase più intima,
e forse più preziosa, della loro attività, nelle
cose che essi avevano dipinto per sé, per
un’intima loro esigenza, per un appunto da
sviluppare un giorno nel grande quadro; e
mentre nel grande quadro vien meno, talvolta, l’energia dell’uomo a che tutta l’intera
opera spiri unità di stile, potenza e intensità
di colore e d’espressione, una tela di piccola
dimensione conserva il fuoco della creazione,
concentra il valore dell’invenzione cromatica
e talvolta meglio racchiude l’evidenza di una
personalità rimanendo la prima e più fresca
impronta sigillata dallo stato di grazia.
Numerosi artisti anziani si sono avvicinati
con deferenza a queste “prove” manifestando
ai giovani il loro cordiale, fraterno interessamento. A questo proposito noi ci auguriamo
che, in Italia, l’eterno dissidio fra conservatori e innovatori, dissidio non sempre costretto
nell’ambito sereno delle discussioni teoricoestetiche, si componga in un generoso compromesso; tale incontro risolverebbe anche
l’eterno malinteso che da oltre trent’anni
corre tra gli artisti e il gran pubblico, per il
quale, siamo sinceri, l’arte non si è sempre
prodigata nell’umanità dei suoi doni.
Mostra degli artisti del “Bruttanome”
IL CITTADINO, 2 marzo 1952, pag. 4
L’apostolo San Giovanni, decrepito e cieco, a
chi gli chiedeva di Gesù, per il Quale egli era
stato il beniamino, ripeteva soltanto queste
parole del Maestro divino: “Amatevi come
fratelli” e tracciava nell’aria tremule croci
con la mano risecchita. La fioca voce dell’A35
postolo risuona oggi nel deserto come quella
del primo Giovanni. Chi l’ode?
La presentazione dura e un poco sdegnosa
che abbiamo letta nel Catalogo della Mostra
alla “Loggetta” degli artisti del “Bruttanome”
è vivacissimo indice di questa nostra epoca
governata dal mal volere fra gli uomini. Ed
ecco qui otto amici che tentano, da un paio
d’anni, in poca brigata, in una scialuppa che
porta il titolo del “Bruttanome” di salvarsi
dall’imperversare delle inimicizie.
Così abbiamo, in una città di provincia come
la nostra, L’Associazione Artistica Bresciana,
praticamente divisa in due partiti, conservatori e innovatori; gli associati del “Bruttanome”; il gruppo degli “Indipendenti” e, tra pochi giorni, nei pressi della Chiesa di San Clemente, l’associazione detta “La Sorgente”.
C’è anche un Comitato di assistenza istituito
per gli artisti, un comitato che al di sopra di
ogni corrente è cristianamente inteso al beneficio di tutti i più bisognosi.
Ed ora due parole sulla mostra del “Bruttanome”, dall’impronta tipicamente bresciana
per il geniale accordo fra gli artisti di presentare individualmente, fra le altre opere, una
interpretazione sul nostro Mella.
Ricordiamo Cattaneo, delicatissimo nelle tonalità dei suoi affreschi, e profondo nel paesaggio; Cominelli, affreschista che dimostra
il valore della sua tecnica nelle “Bagnanti”
composizione piena di impegno; Guarnieri
con incantate sculture e nervose e sottili acqueforti; Lancini, il più polemico e perciò il
più discusso, il quale con sculture da troglodita sogna un’epoca non vissuta, forse quella
dell’uomo-fiera. Piccoli spettri del color della ghisa fanno pensare persino, nell’inversione dei piani, a frammenti di grosse chiavi inglesi o di macchinari bombardati. Nel paesaggio Lancini sembra vagheggiare un mondo paleozoico, frantumato, in una girandola
di colorazioni tragiche.
Lancini è pittore di forti possibilità: uscito da
questo periodo, che riteniamo ancora sperimentale, darà presto la misura del suo ingegno.
Ricordiamo Pescatori per le visioni del Mella
e per lo studio di una figura ricca di stile; di
Roggero alcuni palpitanti, felpati disegni con
36
acquerello, lievi come una carezza; di Simoni
i paesaggi e la caratteristica pittura casta e
canterina, tutta poesia nel pulviscolo di colori gentili.
Di Vecchia, che può considerarsi il decano e
l’organizzatore della compagnia, abbiamo osservato il ritratto di un amico, modernissimo
nel taglio, pacato nel tono e nobile di fattura;
ricordiamo, del medesimo autore, una interpretazione bucolica del Mella ed una composizione sui Patroni di Brescia, dove il pittore
conserva la personalità del suo stile pur rievocando il caro rinascimento lombardo.
La Mostra rimarrà aperta fino al 2 marzo.
“I nucleari” al Garden Bar
L’ITALIA, 6 novembre 1953, pag. 6
“Se non fossi prete mi farei esistenzialista”
diceva un giorno, lo ricordo bene, un grande
predicatore: evidentemente egli si riferiva all’esistenzialismo cristiano. Vorrei trasferire il
discorso nell’arte figurativa per dire: “Se potessi tagliare il funicolo che mi tien legato alla dolce tradizione romantica, trasvolerei Picasso e Kandinsky, per naufragare dolcemente nel mare della pittura nucleare”.
Non conosco la storia di questa corrente, anche perché io credo che tale corrente non abbia storia. Salvator Dalì aveva tentato, nel
surrealismo, qualche cosa che preludeva il
nuclearismo, nella riproduzione ancor troppo da “reporter” della bomba atomica all’atto dello scoppio: pittura eccessivamente legata alla realtà episodica.
I “nucleari” si collegano alla fisica nucleare,
ma non la ripetono che simbolicamente,
non per accezione foto-documentativa. C’è
qualche cosa di profetico e di apocalittico in
loro, che mi interessa e mi preoccupa. Un
commento a tale pittura lo trovo in un vecchio brano di Joergensen. Sentite. “Non si
sente parlare che di assassini e di delitti, di
dinamite e di rivoluzione, di guerre e di rumori di guerre. Quando la terra s’aprirà,
quando le fiamme dell’abisso saliranno fino
alle stelle, il sole sparirà, la luna diventerà come il sangue, il mare si solleverà e l’uragano,
passando sulla terra, distruggerà tutto; quando infine, in mezzo al rombo del tuono, il
Figliol dell’Uomo apparirà fra le nubi, allora
gli umili di questo mondo saranno esaltati
ed abbassati coloro che occuparono posti
privilegiati”.
Credono, dunque, questi pittori-filosofi alla
distruzione e sperano alla catarsi per un
mondo migliore? Avalliamo con tutto il cuore questa nota di ottimismo. Ad ogni modo
io credo che tale pittura, dal punto di vista
ideografico ed anzi profondamente concettuale, corra molto più in là dell’eclettismo
picassiano (congerie impudica e impunita di
scoperte altrui) e dell’astrattismo (arte inutile, lo dice il nome stesso, dal punto di vista
figurativo ed etico-sociale).
I tre giovani artisti che mi piacerebbe di conoscere si chiamano: D’Angelo, Colombo, Bai.
Mostre d’arte
Giulio Cantoni all’A.A.B.
L’ITALIA, 11 novembre 1953, pag. 6
Alla Galleria dell’Associazione Artistica Bresciana espone il pittore Giulio Cantoni. Di
lui avevamo sentito parlare molte volte da
persone amiche di Verolanuova dove il Cantoni risiede: sapevamo quindi della sua tecnica e della sua scuola, ma non ci aspettavamo, sinceramente, una “personale” di tanto
valore. Permettano, i pittori moderni (cioè
di moda), che, senza illazioni polemiche e
tendenziose, e con un trasferimento del discorso su di una storia dell’arte ancor vivida
e valida, noi dichiariamo che, rientrando
nella sostanza della tecnica, degli impasti, del
buon disegno, del “fiato” alla forte composizione, questa è la prima mostra di “pittura”
alla Galleria di via Gramsci, dopo anni di
lunga e tediosa attesa. Non si offenda nessuno, ripetiamo. Ci riferiamo ai valori sopraindicati e spostiamo la questione dall’estetica
di moda all’estetica eterna, sempre accetta,
non offensiva, universale, datrice di bene
spirituale all’uomo di cultura e all’umile
operaio, tutti e due in cerca di riposo agli occhi e all’anima. In una prefazione al discorso
sull’arte, Giovanni Papini affermava che l’artista ha il dolce e meraviglioso impegno di
far credere all’umanità che non tutto su questa melanconica terra è stato perduto dell’Eden, luogo di delizia dei nostri progenitori,
facendo precedere a questa affermazione il
monito che ognuno di noi deve sentire la responsabilità del benessere o del malessere
dell’immediato prossimo. Quando vediamo
gente che esce malcontenta da una sala di
concerto, da una galleria, abbiamo il diritto
di considerare che il compositore, l’esecutore, l’autore drammatico, l’attore ed il pittore
non sono stati datori di bene, non hanno
sentito la responsabilità del benessere dei
propri simili. Il pubblico capisce e collauda!
Abbiamo un concetto ancor troppo dittatoriale del pubblico, che taluno chiama ancora
“massa”. Il pubblico non ascolta le chiacchiere dei critici, non è né conservatore né progressista, è Umanità che applaude o fischia,
secondo che l’opera è riuscita o meno: i casi
sporadici di errori di giudizio (Butterfly,
Carmen, Olimpia di Manet, ecc.) non sono
attribuibili al pubblico, ma ad una stretta
cricca borghese; è sciocco affermare che occorrono cinquant’anni per comprendere
un’opera: il pubblico, e non i pennivendoli
della critica, ha onorato Giotto; Tiziano non
deve a quel cialtrone dell’Aretino la propria
immortalità. Gli aretini moderni non riusciranno a puntellare la già ammosciata gloria
di certi volgari assi della pittura odierna perché l’Umanità ha dato il suo verdetto. Ad
uno scultore che lo interrogava sul “dove va
l’arte” il pittore De Pisis rispondeva: “Tra
quattro anni siamo di nuovo a Canova!”.
Motto di spirito che andrebbe meditato!
La nevicatuccia dei vari “ismi” non riesce a
celare che in minima parte lo smeraldino
splendore dei prati del paesismo lombardo.
Vero, egregio pittore Giulio Cantoni?
Noi ci siamo deliziati a questa sua pittura
così vibrata, così fragorosa di pennellate date
a giusto segno, sia nella tessitura delle rocce,
sia nel frascar delle piante solenni come
un’ode carducciana, sia nella ambientazione
calda di certi tardi meriggi estivi. Volete proprio che si facciano nomi di Gola, di Tallo37
ne, di Bazzaro e di Gignous e magari anche
di Filippini a proposito di questa bella pittura? Ma in Cantoni c’è qualche cosa che segna la personalità e pertanto la differenziazione della “Scuola lombarda”. Quel costruire insieme cielo e fronde, i morbidi contorni
quasi ad alone intorno alle figure degli uomini e delle bestie fusi nel paesaggio e non
legnosamente scolpiti a macchia come in
certe pitture ottocentesche, quel fare velocissimo, concitato, quasi bozzettistico, quelle
pennellate larghissime e fortunate sono un
patrimonio del maestro Cantoni. I paesaggi
d’Ischia dànno in mano al pittore uno strumento a corde più dolci cosicché, senza neppur saperlo, egli ci ricorda la bella scuola di
Giacinto Gigante. Chi scrive queste poche
righe di recensione ha ritrovato tutta la atmosfera di quei luoghi, dove regina, nella
sua luminosità, è la roccia candida sul cielo
tanto cupo da sembrar foriero di tempesta,
in un’allucinata aura di cielo e mare, che dà
al poeta lo stato d’animo di chi ha perduto
improvvisamente il peso degli anni e si trova
stranamente leggero, come un bimbo.
I nostri pittori
Rina Soldo espone all’A.A.B.
LA VOCE DEL POPOLO, 18 dicembre
1954, pag. 9
La pittrice Rina Soldo è assai nota al pubblico bresciano. Nativa di Chiari, ma residente
sul Lago di Garda, possiede le peculiarità
pittoriche degli artisti della nostra terra. I toni argentini alternati ad ombre bruciate, con
qualche rara e vaga compiacenza di squarci
d’azzurro, percorrono il grande arco della
storia della pittura bresciana, sarei per dire
dagli sfondi di certe pale morettiane, dove il
paesaggio non è del tutto complementare alla figura, alla tavolozza severa del grande
Francesco Filippini. Rina Soldo può considerarsi, per l’austerità della sua tavolozza, appartenente a quella spiritualità tonale.
Ho l’impressione che prima la sua pittura
fosse più aerea, consistendo in tocchi quasi a
farfalla, in preziosismi di chiarità languescen38
ti, che la forma fosse sfatta per servire a finalità liriche, dalle quali non era escluso l’intento illustrativo. Oggi la forma ha preso più
consistenza e organicità, l’impegno al blocco
e alle masse si è fatto più vivo ed il pigmento
dei colori, dati generosamente e asciutti, appaga colui che alla letteratura preferisce, nell’arte del paesaggio, la pittura per la pittura.
La Soldo si dichiara con semplice fermezza
di sentirsi esclusivamente paesaggista: mi
piace questa determinazione ad una sola
espressione d’arte. Anziché fare del decorativismo, come certi pittori infranciosati alla
Utrillo, essa, anche nel paese di Annecy, dove recentemente ha sostato a lungo, non ricusa i suoi mezzi e resta italiana, anzi lombarda; ma la sua pittura non è preconcetta:
la neve che è la più grande ispiratrice di Rina Soldo, quella neve marezzata di viola e
di giallo limone e di grigi preziosissimi, non
perseguita tuttavia l’artista quando, alla bella stagione, la costa azzurra e la costa ligure
donano canto nuovo alla tavolozza illeggiadrita dal sole e dalla carezzevoli, glauche
profondità marine. Pittura dunque serena e
sincera, sorgiva da quel tanto di tormento
che occorre per dare coscienza e intelligenza
e controllo alle virtù istintive, pittura eletta,
scevra di arbitrii e di sterili polemismi, arte
che trova concordi nel plauso, pubblico,
critici ed artisti.
Intensa attivitá dei nostri pittori.
Benevelli, Livio, Repossi, RomaniAdami alla Galleria di Piazza Vecchia
LA VOCE DEL POPOLO, 3 marzo 1956,
pag. 7
Instancabile ed ormai unica, la Galleria della
Piazza Vecchia continua nel tener cordialmente aperta la porta della notorietà e della speranza e la luce delle sue linde salette: ieri a un
veterano, oggi a quattro giovanotti (uno scultore emiliano, Benevelli, un pittore mantovano, Livio, un clarense, Repossi, ed un bolognese, Romani Adami, pittori essi pure). Il più
vecchio ha varcato non da molto la trentina, il
più giovane ha ventun anni: “Beata gioventù!”.
La prima considerazione generale che ci impone lo sguardo all’insieme delle opere è che
i giovani, dei quali importante è il messaggio
relativo all’arte di un prossimo domani, non
guardano ormai più all’“astrattismo” che sta
entrando nella storia dopo un insegnamento
di cui indiscutibile è la validità; i pittori dell’ultima leva sembrano invece riprendere
vecchi schemi, nutrendo (ecco il buon apporto della pittura tonale) di maggior luce e
colore le loro composizioni, rispettando la
forma per un pacato espressionismo, che
non risente di isterismi teutonici, ma ripiega
naturalmente e felicemente sull’eterna classicità della nostra gente latina. Ci sembra di
notare che anche la Francia incombe meno,
ossessiona meno di quanto per il passato. I
giovanissimi, informati dall’accademia, ritentano, infine, la buona pittura nostrana,
con bel colore e respiro negli spazi delle
composizioni serene e quiete.
Il giovanissimo Valerio Romani Adami è un
patrizio bolognese votato alla pittura. Egli
prende le mosse, così ci sembra, dal momento
più importante della pittura di Felice Carena,
prima che questi compromettesse la propria
personalità e la propria coerenza, per disperdersi in compagnia di Casorati e di Severini nella
dubbia giovenilità di un pseudo-astrattismo.
Una bella natura morta con caraffa; una modella seduta su di una rozza sedia (argomento casoratiano) di buon disegno, sorvegliato
nel colore da una insistente e ben girata terra
d’ombra, una composizione più ricca di colore nel “coro” ed in fine l’opera che ci sembra più felice dal punto di vista pittorico, “la
buona madre”: ecco dei pezzi di bravura, di
gagliardia esecutiva, di padronanza della forma e del colore.
Il pittore Silvio Livio è un autentico colorista, non lontano dall’indole di uno Scipione
e d’un Mafai. Mantovano d’origine egli offre
una pittura più vicina ai romani che ai lombardi; fatta eccezione per l’autoritario
verd’azzurro, troverete ovunque amore per le
note calde e per atmosfere fonde. Ricordiamo un ritratto virile, e due nature morte (essenziale e preziosa quella della conchiglia).
Piacevolissimo il “laghetto” dove l’eco della
lezione di Cezanne non ha risonanze vane.
Ed eccoci al nostro Repossi, già noto per le
belle acqueforti. La pittura di Repossi è sana,
a larga stesura, luminosa. Due paesaggi sull’Oglio dicono il temperamento di questo
artista aperto, privo di timidezze. Uno di
quei paesaggi è coraggioso e solare come un
Van Gogh (ma Van Gogh non c’entra!), l’altro, più tradizionale e più lombardo, sarebbe
piaciuto anche a Tallone il vecchio. Non dimenticheremo l’ineffabile ottimismo dell’artista per una originale inquadratura in cui
egli squaderna candidamente in primo piano
un …cimitero di montagna. O dolce concezione della Morte vegliata dal monte, ridente
di garrule note!
Giacomo Benevelli, scultore, ci fa sperare in
un’arte neo-romanica, da pochi “sentita” come da questo giovane artista. Se la “maternità” costringe la memoria alla meno cinquecentesca delle opere di Michelangelo,
cioè alla “Pietà di Palestrina”, per via di un’ascensionalità esasperata e chiusa, il torso di
“Crocefisso” rende la spiritualità medioevale
del Cristo morto del Giotto al Tempio Malatestiano. È chiaro, nel Benevelli, l’intento di
“castigare” i piani, di deprimerli, di spiritualizzarli, come se attorno alle figure si esercitasse, continua, una pressione orizzontale di
forze contrastanti. Il bozzetto del “pastore” è
una commovente opera; vengono in mente
persino le tragiche matrici che offrirono i
calchi dei sepolti di Ercolano antica.
Sino a venerdí sera erano 14 mila.
In crescendo i visitatori alla mostra del Filippini
LA VOCE DEL POPOLO, 22 settembre
1956, pag. 6
Dal lembo della veste di un frate Morettiano
Francesco Filippini ha utilizzato il “bigello”
per la malinconia dei suoi cieli. Dal bitume
ha cavato la “costante” per rendere l’umor
nero della terra nell’ora che, al morire del
marcescente autunno, scocca sulla prima neve che rode come brina le zolle.
39
In tutta l’opera di Francesco Filippini è un
leopardiano paesaggio di morte vicina. “E
naufragar m’è dolce …”: Leopardi cerca il
conforto supremo nell’Infinito oltre la siepe
di un colle, Francesco Filippini s’acqueta
“naufragando” nel bosco grigio e sterputo, in
un crepuscolo senz’ora, dove nel confondersi
di una luce d’alba o di ultima sera è il silenzio di sempre e di mai, che favorisce la dolcezza dell’abbandono a un grande spirito
chiuso in un povero corpo malato.
Penso ad un musicante in miseria, straricco
di genio, che, servendosi di uno strumentaccio logoro e fornito di una corda sola, riesce
tuttavia, per incantesimo o per magia, a trarne sovrano contrappunto. Penso a Delacroix
che diceva: “Datemi del fango e vi darò il
più splendente incarnato”. Francesco Filippini dall’asfalto stempera la gamma infinita dei
suoi grigi […] e intreccia sulla tela bruna le
spinose pennellate terribilmente sicure. Nella
pittura di Filippini vi è qualche cosa che segna e ferisce come la punta di un ferro rovente, che incide come il diamante, che scalfisce come l’unghia del leone.
Non è più attuabile, d’accordo, una pittura
siffatta. Rispondo agli amici, non pittori,
che mi hanno manifestato la loro perplessità
dinanzi al tenebroso artista. Bisogna imparare a voler bene a Filippini inquadrandolo
storicamente in un periodo non certo felicissimo della nostra pittura (l’impressionismo
francese stava liberando l’arte nel “plein air”
ed era deriso). Bisogna comparare Filippini
con i suoi contemporanei, avvertirne la sua
tanto maggior gagliardia, soffermarsi più a
lungo dinanzi ad opere come “il maglio” ch’è
da ritenersi uno dei più grandi capolavori
dell’ottocento italiano; bisogna rendersi conto della conoscenza profonda dell’anatomia,
della prospettiva, della composizione e guardare non solamente alle opere di grandi dimensioni, ma alle “gemme” veneziane […].
Spettacolo grande e commovente questa mostra! Sembran tornare a noi le ombre di
quattro magnifici “moschettieri” bresciani:
coetanei eppure morti in diversa età.
Quello che avrà sempre quarantadue anni
incoraggia ancora gli ultrasettantenni com40
pagni. Ecco le lettere palpitanti di fede nell’arte e nell’amicizia, ecco gli autoritratti, ecco in fuse, affettuose sequenze le opere. Luigi Lombardi è presente con i suoi paesi che
ricordano il ciottolame toscano di Telemaco
Signorini; (ho discusso di filosofia, trent’anni or sono, con Lombardi, amico di casa
Mozzoni; il bel vecchio era tenace nella difesa dell’opinione. Tita Mozzoni ha ritratto in
quel tempo, mirabilmente, il maestro …).
Francesco Rovetta fa tener il fiato sospeso
per certe sue cose arieggianti Toulouse e Manet. Nelle promesse di un quadro storico è
invece più vicino a Faruffini.
Arnaldo Zuccari più di tutti capisce e subisce la grandezza di Filippini quando non
giocherella da gran signore nei bozzetti romantici alla Domenico Morelli.
Cesare Bertolotti è paesaggista solenne; nelle
sue tele è la “voce” del silenzio. Qui è rappresentato nelle opere meno recenti.
Prima che i battenti chiudano improrogabilmente e irreparabilmente l’eccezionale esposizione, recatevi almeno una sola volta al
Vanvitelliano. I grandi spettacoli hanno anche il vantaggio di non costare nulla, come
lo spettacolo che l’Ente Provinciale per il Turismo e l’associazione Pro Brescia regalano
oggi, con umanistica liberalità, ai cittadini di
Brescia e ai forestieri.
Quattro pittori espongono
alla A.A.B.
LA VOCE DEL POPOLO, 22 settembre
1956, pag. 6
Oreste Rodini, Nino Boccato, Giacomo Olini ed Eligio Agriconi espongono alla Galleria
A.A.B. in via Gramsci il complesso di una
quarantina di opere, dieci quadri ciascuno.
Non possiamo visitare la mostra, ma non vogliamo dimenticare i quattro amici.
Li presentiamo. Circa trent’anni or sono Rodini mi divertiva con i suoi disegni-giocattolo
a scherzo ottico, quando, su di un giornale
per ragazzi, si firmava “Stereo”. Rodini ha
sempre alternato la sua vita fra il cartellone
pubblicitario e la pittura. Ha sentito il fasci-
no dell’astrattismo senza mai, per altro, convertirsi totalmente ad esso. Il suo colore preferito è stato per molti anni il bleu di Prussia.
Boccato è pittore e liutaio; pittura e musica
fanno il giro tondo ed egli è felice; pare che
abbia deciso di non invecchiare; pare che ci
riesca con la fortuna degli occhi cilestrini,
della capigliatura folta e del personale asciutto e svelto. La sua pittura tende a spiritualizzarsi sempre più; nel paesaggio e nella composizione Boccato è sempre gentile.
Olini è l’uomo della campagna; non è inconscio del mondo arcadico al quale Dio lo ha destinato. Interpreta e rende quel mondo con
delicate note; dipinge i buoi “bianchi negli occhi, nivei” con mitezza e con vigoria virgiliana.
Agriconi lo ricordo in divisa di soldato ai
tempi della guerra del ’15 … Ha conservato
il suo sorriso malinconico e lo guardo dolce
di allora. Vedo sempre volentieri lui e le sue
nature morte. Agriconi ha qualità superiori:
talune sue opere sono destinate a resistere e a
sopravvivere a tante di pittori che oggi fanno
la voce più grossa.
Questa mostra resterà aperta sino al 27 settembre, tutti i giorni, dalle 10 alle 12, dalle
16 alle 19.
lità del pseudo critico di “raffinatissimo gusto” l’atteggiamento pensoso e rapito come
di chi è davanti al Giudizio universale di Michelangelo.
Non tutto c’è di gratuito, qui. Colui che ha
combinato questi terribili guai non è analfabeta, non è barbaro, non è incolto. Anzi! Abbiamo pensato persino a Morandi, per via di
certi accostamenti preziosi ottenuti con delle
cuciture a punto cappone …
Non è neppure un innovatore: Picasso, Braque e compagni hanno fatto man bassa, a loro tempo, e con maggior genialità, di tele di
sacco, di sabbia, eccetera. Qui c’è l’esasperazione, la disperazione, l’acme della spregiudicatezza e della cattiveria interpretativa.
Insomma, anche Burri ha qualche cosa da
dire e da distruggere: è evidente la presenza
di un’anima inquieta e di una intellettualità
rabida e perversa. Forse Burri ha patito molto, molto …
Per dovere di cronaca aggiungiamo che la
mostra ha impegnato fortemente gli allestitori: il materiale proviene dall’America del
Nord, ove il Burri risiede.
Pittura bresciana alla Galleria Alberti
La rassegna dei pittori
A. Burri all’Alberti
LA VOCE DEL POPOLO, 18 gennaio 1958,
pag. 9
Non ho affatto reagito all’anti-igienica pittura del medico Alberto Burri. L’allergia alla
polvere ed allo sporco, soverchiata dallo “spirito speculativo” dell’estetica, mi ha permesso questa volta di guardare i sacchi bruciacchiati e sozzi, gli stracci di vecchie lenzuola
non di bucato, il catrame e la fuliggine, e
frammenti di pareti di canne fumarie che
non conobbero la raspa dello spazzacamino,
le stesure di materie grasse come la sugna e
nere come l’antracite e rosse come il minio
dei carrozzieri, il tutto intriso di sabbia.
Non siamo tanto provinciali da levar gli occhi ai santi numi con melodrammatica cheirotonia e lasciamo, d’altro canto, all’imbecil-
LA VOCE DEL POPOLO, 7 giugno 1958,
pag. 9
La Galleria Alberti apre una nuova mostra con
il catalogo dal titolo “Aspetti (e non rassegna)
della pittura Bresciana d’oggi”. L’avvedutezza
eloquente della parentesi non ci è sfuggita.
L’avvocato Gaudio naviga sempre fra Scilla e
Cariddi; qualche volta pare sfiduciato, ma infine non cede, perché la passionaccia per la pittura, quando vi abbia punto, è come la malaria che si combatte, ma non è più possibile
guarire. Anche lo scrivente ne sa qualche cosa.
Aspetti di avanguardia, ma neppure!, in questa mostra, dove la presenza dei più conosciuti e dei più anziani, come Di Prata e Pedrali,
non indica, certo, coordinazione di intenti;
neppure i più giovani offrono un panorama
unitario del loro programma, altalenanti essi
pure fra l’astrattismo puro ed un espressioni41
smo cui va dato soltanto il valore di uno sfogo
transeunte per via di quell’atteggiamento che
non può compromettere, nell’interesse costante soggettivo e oggettivo, tutta la biografia artistica di un pittore (qui mi voglio riferire soprattutto a Iros Marpicati che mi sembra troppo padrone del disegno per non desiderare di
uscire dal viluppo tenebroso dell’attuale sua
pittura, nella quale, per un substrato culturale
certo e fattivo, si impone a molti coetanei).
Ma procediamo con ordine. Valeria Basso
Carati espone due opere intonate e profonde,
in una pittura compatta e decisa, priva anche
tecnicamente di quel travaglio che abbiamo
altrove notato come piuttosto scoperto; Bellotti, naturale in lui, bergamasco, è tutto immerso in quel caratteristico impressionismo
equilibrato su note melanconiche e fragili;
Castelverde copia il Pisanello, trasferendo nel
disegno colorazioni intense, tolte ai primi veneziani autentici (un gioco, infine, che vale
più della “testina” a fianco, genuina, sì, ma
scialba). Anna Coccoli presenta due vigorose
figure muliebri, delle quali un poco Sironiana
la seconda; non è facile, per una donna, raggiungere tali valori di sintesi! Di Prata ha accolto l’invito inviando due pitture girate magistralmente su poche note scabre; Fasser
Fausto, che ricordo affettuosamente sui banchi della scuola e del quale conservo un cancelletto sui ronchi, dipinto a undici anni, è
qui con due opere astratte di pregio, una in
chiave di giallo cromo, l’altra modulata su castigate colorazioni grigio-azzurre attraversate
da stupendi rossi. Poco lontano da lui è il
“terribilissimo” fratello Gigi Fasser in una
sconvolgente tavolozza di preziosi viola marcescenti alternati a bagliori di biacche e modulati in sorprendenti gamme; il quadro vicino è una matassa corallina volteggiante nel
caos di segni un po’ troppo in “libertà”; Forgioli presenta una figura grottesca e un paesaggio poco risolto nei piani, ma denso di calore. Luigi Ghelfi è qui con due opere piaciute anche a Birolli: Luigi Ghelfi sembra dipingere nel sale, in quel gioco di garze sovrapposte e intrise di calore, e sapido, invero, è il
gioco; Franca Ghitti dipinge con molta attenzione a pigmento alto e steso con calma:
42
le figure acquistano valore decorativo fra la
ceramica opaca e l’intarsio nel linoleum.
Adriano Grasso Caprioli è sempre alla ricerca di squisitezze tonali, ora in luce, ora nella
penombra. Don Renato Laffranchi travolge
con una candida spregiudicatezza, di cui lui
solo è capace, ogni barriera di tradizione per
raggiungere quell’essenzialità ch’è il suo più
grande tormento. Ma, un pochino, non esagera? Il tono della Crocifissione è aristocratico e il mordente dell’oro all’ingiro impreziosisce questa sconcertante microscopica pala.
Sergio Pagiaro è alla sua prima comparizione
(un altro ex-alunno!). Forza Sergio! Il primo
quadro, soprattutto nella parte alta, è buono.
Un poco alla volta gli amori per Carrà, per
Rosai, e fors’anche per Tomea lasceranno il
posto ad una più personale visione. Pagiaro è
un giovane insegnante di disegno.
Matteo Pedrali, pittore che va segnalato per la
sua bella carriera di artista percorsa invero più
vicino ai Bergamaschi che ai Bresciani, ha
schiarito talmente la sua tavolozza da renderla
diafana, mistica. Repossi espone una Franciacorta “calliente”, torrida come un altipiano
castigliano o come un brano di terra di Sicilia.
Stagnoli va avanti e va bene: attento e tenace
raggiunge colorazioni sempre più intense. Enzo Vicentini rimane avvinto ai suoi fortilizi
popolari, alle sue costruzioni babeliche; sempre più cupo e più povero nel tono Giuseppe
Gallizioli sembra voler continuare la malinconica salmodia dei neorealisti antiprogrammatici, tanto per tener in allenamento… le pareti della Galleria. Ma l’esperienza val la pena
d’esser vissuta; e le attitudini non mancano.
In definitiva dobbiamo concludere dichiarando una crisi, un disorientamento? Ognuno fa
quel che vuole, anche questo è un indice di
libertà, né vi sembri ottimistica a oltranza
questa chiusa. In un momento gravido di
eventi politici che importanza assume l’arte
figurativa? Oggi l’umanità guarda ai geni della tecnica ed, ahimè! piega le ginocchia solamente al cospetto dei terribili maghi della
scienza nucleare. L’arte è rimasta un piccolo
hobby privato, con qualche “prestabilito”
premiuccio durante la stagione balneare.
Ecco tutto, purtroppo!
La rassegna dei pittori
Arte astratta alla Galleria
del Portico
LA VOCE DEL POPOLO, 15 novembre
1958, pag. 9
Un vecchio e angusto magazzino di mercerie
riattato a galleria d’arte. Vi espongono Augusto, Luigi e Giovanni Ghelfi, Enrico Ragni e Pierka; Domenico Lusetti scultore.
Una mostra intima, quasi familiare.
Si tratta, è inutile dirlo, degli esponenti dell’astrattismo bresciano e, poiché qualcuno di essi è stato ammesso a mostre d’importanza nazionale, potremmo dire di esponenti dell’astrattismo italiano. Non siamo riusciti tuttavia a comprendere se le opere presentate siano
frutto di un nuovo puntamento a più rischiosi approdi o se i quadri, dipinti in epoche più
remote, tolti ai diversi ateliers con intelligente
criterio di cernita, siano serviti occasionalmente a mettere insieme una collettiva abbastanza organica di “tendenza” per il “via” a un
nuovo negozio di mobili antichi.
Enrico Ragni presenta, fra le sue opere più
astratte, che vogliono tuttavia tener presente
la prerogativa di pittore “sottomarino”, un
quadro suggestivo di “rocce al sole”.
La tavolozza di Augusto Ghelfi è come una
navicella ancorata a un porticciolo tranquillo: accordi melodiosi, ma… è sempre quel
concertino , anche se le composizioni variano: una identica musica applicata a diversi
libretti d’opera…
Gianni Ghelfi, dopo una convincente e determinata pittura nella quale mi dichiarava il
suo proposito di non fare dell’astrattismo
puro, qui delude con esercitazioni in schemi
compositivi orizzontali: intonazioni morbide, pittoriche, ma non fuori del comune, nel
confronto dei più personali pastelli su fondo
nero. Luigi Ghelfi si è fatto delicato ritagliatore di garze colorate, con le quali combina,
per sovrapposizione, delle interessanti e movimentate composizioni, che vanno oltre il
mero campo decorativo. Pierka è la più ardita: non più planimetrie romantiche di Mazzorbo e isole vicine, ma fondi color ceralacca
con nere incisioni ritmiche ad arco alonate
di biacca e di azzurro oltremare.
Il nostro Lusetti presenta una donna “accoccolata”: un sasso che lievita in forma umana.
Maillol e Viani non sono vissuti invano per
la nascita di questa “accoccolata”! Ma l’opera
è bella.
La mostra, in definitiva, ci si presenta, pur
nella sua dignità e nella sua disciplina, pervasa di stanchezza. I sunnominati artisti sono
da quindici anni i tenaci assertori di una corrente che dilagò oltre ogni confine e non rimase fatto provinciale e regionalistico come
il movimento dei “macchiaioli”, dei “divisionisti”, ecc. Noi insistiamo tuttavia nell’affermare che tale corrente fu ed è immeritevole
d’essere chiamata arte assoluta e totale.
Non neghiamo e non negheremo la validità
di certi sforzi, apprezzando la costanza di
una fede artistica; ma io chiedo di scusarmi
se manco del coraggio di critici illustri, veri
acrobati dell’estetica in equilibrio perfetto fra
l’ieri e l’oggi, e provo la vertigine per questo
esercizio pericoloso anche per il “dubbio”
che suscita sulle nostre pretese verità e moralità estetiche di uomini moderni.
È certamente l’arte più libera questa, che ha
segnato il tentativo più arduo della manifestazione “non” delle cose, ma della reazione
psichica dinnanzi alla realtà oggettiva. Noi
riconosciamo tutto il valore di questa inafferrabile e ineffabile espressione d’arte (quale
antitesi fra i due termini, “ineffabile” ed
“espressione”!), ma quest’arte ci ha fatto paura come la disgregazione dell’atomo che può
significare distruzione, annientamento.
La rassegna dei pittori
Fasser, Pescatori e Gallizioli
all’Alberti
LA VOCE DEL POPOLO, 30 maggio 1959,
pag. 6
Non è facile stabilire il grado di validità o
l’importanza dell’impostazione di questa pittura: siamo sempre in periodo di transizione,
ecco la sorte di questo inquieto ultimo mezzo secolo! Dal cubismo al futurismo, dal
43
“novecento” alla pittura propagandistica di
un regime; dalla reazione astrattista con deviazioni neo-realistiche a quest’ultimo, ma
non nuovo, programma estetico che vorrebbe indicare la posizione per cui all’“informale” si contrappone una figurazione narrativa
che, per suggerire l’emotività, riprende in
adozione i vecchi temi sociali. Dalla retorica
dell’“Erede” del Patini torniamo dunque all’atteggiamento dell’indagine sociale che termina purtroppo, come sempre, nel limite di
una constatazione, di un crudo e facile atto
di accusa che non risolve, non costruisce: il
che, se fosse tradotto per iscritto, apparterrebbe a una mera libellistica.
C’è un pericolo, in questo ripiegamento (perché, diciamo la verità, questa non è una innovazione, ma un ritorno, soprattutto dal punto
di vista teoretico), ed il pericolo è quello della
contaminazione fra letteratura ed arte figurativa. Che l’arte figurativa abbia a rivolgersi,
come umano messaggio, al cervello e al cuore
è giusto, e noi lo abbiamo sempre accoratamente chiesto a quei pittori che imponevano
il “nulla” come sostanza e si beffavano, con
dubbia morale, della disapprovazione del
prossimo; ma dobbiamo anche ricordarci che
il filosofo filosofeggia e il pittore dipinge.
Chiediamo quindi al pittore di dipingere e di
dipingere bene, affidando al linguaggio dell’arte sua la responsabilità e la felicità della sua
comunicazione. Parlando di Segantini, l’anno
scorso, dubitammo del grande artista proprio
là dove lui, povero di cultura, volle fare dell’allegoria. Ora: noi sappiamo che i tre pittori
che allineano oggi davanti a noi le loro opere,
sono universitari o professionisti; ciò non può
che avvalorare, dal punto di vista concettuale
e programmatico, i loro tentativi e le loro prime esperienze, ma non aggiunge molto a
quella autenticità che noi chiediamo alla vera
pittura: composizione-colore.
Giorgio Morandi non ha fatto che dipingere
bottiglie ed è considerato un maestro per
aver trasfuso un’ineffabile narrativa, una spiritualità intima, per aver creato un’ambientazione poetica intorno agli oggetti che, pur
sempre i medesimi, variati nelle disposizioni
e modulati in chiave tonale diversa, intesso44
no l’opera completa di Morandi, per un mirabile concerto, per la nobile astrazione di
un racconto umano, che non ha scomodato
il mondo dei cenciosi o quello altrettanto
misero dei viveurs…
Ad ogni modo… noi abbiamo notato in una
natura morta di Gigi Fasser la rimembranza
di Morandi e di Carrà con una nota gozzaniana (ecco l’insidia!) nella cornice ovale a
destra della composizione. In altre composizioni abbiamo ripensato ad Ensor (sarcastico
presentatore di una umanità macabra, tragica o mascherata); in altre ancora abbiamo
ravvisato Sironi, il quale, accanto alle composizioni monumentali pose quadri di miseria e di straccioni campiti sui fondi di muri e
di fabbriche di periferia. Anche le “case di
città” di Pescatori, con una grande cancellata
davanti (che abbiamo notato per un certo
spasmo espressionistico) non sono che il ripensamento di cose viste; più originale, del
medesimo autore, la baita in mezzo a due
piante nere.
Gallizioli ci ha colpito non soltanto per la
sua satira alla vita notturna dei vitaioli, ma
per gli “uomini in camice”. Gallizioli è il più
tenebroso e ricorda la tristezza di Adami, di
Luperini, persino certe “combustioni” di
Burri. Anche Marpicati fa parte di questa
corrente. Fasser già così splendido, così prodigo nelle composizioni astratte esplosive di
colore, ha tutta l’aria di voler far dimenticare
quelle sue avventure; pare che abbia dipinto
sé stesso nello studio mentre guarda con distacco un vecchio quadro… Una bella cosa
questo “interno”, solida e sobria nell’impianto e profonda nel colore. Noi abbiamo avvertito che in questi tre giovani artisti si agitano dubbi, crisi. Sono in una fase di travaglio: hanno avuto il coraggio di opporre il
loro giudizio obiettivo all’astrattismo, dopo
averne studiata l’importanza e la resistenza
storica. Chi scrive queste semplici note non
vuol fare il cattivo scherzo, ai tre giovani artisti, di un giudizio altosonante che li porti
troppo presto su di un piano di responsabilità; chi scrive conosce qualche pittore di
“mezza età” che si sta ancora chiedendo,
amaramente, perché mai, quand’era ragazzo,
qualcuno aveva sentenziato che egli era un
genio; chi scrive queste semplici note vuole
anzi mettere in guardia questi giovani amici,
dagli sparafucile della critica, soprattutto
quando costoro li stordiscono di lodi.
La rassegna dei pittori
Gasparini all’Alberti
LA VOCE DEL POPOLO, 10 dicembre
1960, pag. 6
La mostra di Gasparini, di cui ci siamo interessati due anni or sono, è una mostra a “tema”, o piuttosto a “tesi”. Strano momento
questo, nell’arte!
Siamo sballottati fra due correnti: fra un residuo astrattismo che ci lascia indifferenti come
tutte le cose vecchie cadute in disuso ed un
espressionismo velleitario per l’aggettivazione
di “informale” portata come etichetta, e che altro non sembra se non il ti vedo e non ti vedo
di stantie forme goticizzanti e trionfatrici nel
periodo liberty (Martini, Klimt, Wildt, Romolo Romani e compagni); simbolismo, allusione, letteratura, critica sociale vaga, più o meno
libertaria e qualche volta di costume. Niente di
nuovo, amici, sotto le stelle; semmai corsi e…
ricorsi: ricorsi mascherati e camuffati come le
canzonette nuove che non di rado fanno cilecca (accuse di plagio, grane processuali e finanziarie). E i critici hanno la loro parte di responsabilità, trovando tutto buono soprattutto nelle stravaganze che definiscono “evasioni” (come ha scritto recentemente Ansaldo), salvando
con l’eufemismo tutto ciò che si può salvare.
Ci sarebbe da chiedersi, non con il candore del
neofita, ma con intenzione polemica e riformatrice: “Cos’è, dove va l’arte?”.
Qualcuno, ripetiamo, non vuol dire nulla e
ci offende con le solite casacche di Arlecchino, sempre più sudice e vomitose; altri ha
la pretesa di essere suggestivo, ostentando
l’accanimento di Catone e dissimulando il
subdolo compiacimento di Boccaccio.
Guardate ai cineasti e ai romanzieri le cui
opere sono intese più allo scandalismo di
cassetta che a una disinteressata e convinta
opera di ripulitura morale!
Ma questa, di Gasparini, dopo un preambolo che potrebbe nuocergli e che lo tocca sì e
no, è, in fondo, una mostra che vorremmo
salvare dalla nostra diffidenza. Qui non sappiamo, per la verità, se prevalgono la cronaca
e la critica sociale, e dove abbia inizio la “pittura” che pure ci interessa trattandosi di tele
e di colori. Ma un fatto positivo, sotto certi
aspetti, è il disinteresse dell’opera di Gasparini. Difficile trovare chi si porti fra i muri domestici dipinti così ossessivi, tanto più che i
mecenati (salvo qualche rara eccezione in cui
il mecenate diventa mercante d’arte) sono
gente quieta, amante del tradizionale “bello,
buono, vero”, un poco edonisti e simpatizzanti per tutto ciò che si aggiunge di piacevole al decoro della loro casa. Eppure, queste
opere, noi le faremmo vedere a molti e persino ai giovani (perdonate l’audacia): sì, perché Gasparini riesce davvero (e non come
Fellini regista che vi squaderna sotto le luci
donne procaci e vere) a far nascere tutto lo
schifo verso la nostra sempre più fetida società. I tre argomenti sui quali Gasparini dipana la difficile e scabrosa matassa del suo
discorso sono gli ambienti equivovi, l’asfalto
bagnato dal sangue umano, ed i piaceri della
miserabile fisiologia umana. Gasparini alterna queste sue elucubrazioni rosate e rossigne
a pezzi di autentica macelleria osservati nello
squallido mattatoio o sul marmo del beccaio.
L’autista è al volante e non ha volto umano,
ma di rapace; oppure è il teschio insanguinato e deforme schiacciato contro il parabrezza, mentre una macabra e fioca luce, interna
alla macchina, commenta il dramma come
una torcia funeraria. La ballerina che toglie
con gesto di laido trionfo l’ultima difesa al
corpo rosso come le carni di un coniglio
spellato e difficilmente individuabile, rende
tutto lo schifo e il distacco dell’autore per
questa ignobile e compassionevole esibizione. È chiaro, dunque, l’assunto di Gasparini,
pittore anti-borghese spietato che lascia il visitatore con sapor di forte agrume, pittore
che schiaffeggia lo sguardo di chi troppo ha
lasciato accarezzare la vista da rappresentazioni stupide e corruttrici. Dobbiamo dare
torto, per questo, a Gasparini? Anzi!…
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Indice
pag. 13 Alberto Cavalli
Presentazione
pag. 15 Mariano Comini
Un ricordo
pag. 17 Mauro Corradini
Moralità e misura: l’opera pittorica di Lorenzo Favero
pag. 15 Le opere
pag. 33 Riccardo Lonati
Biografia
pag. 35 Lorenzo Favero
Recensioni critiche
a cura di Giuseppina Ragusini
La memoria figurativa 12
Lorenzo Favero
(1911-1974)
20 gennaio - 7 febbraio 2001
Mostra organizzata dall’AAB
Cura della mostra:
Mauro Corradini
Comitato organizzatore:
Mariano Comini, Mauro Corradini, Vasco Frati,
Martino Gerevini, Giuseppina Ragusini
Cura del catalogo
Vasco Frati e Giuseppina Ragusini
Progetto grafico:
Martino Gerevini
Commissione per l’allestimento delle mostre:
Pierangelo Arbosti, Ermete Botticini, Roberto Formigoni,
Giuseppe Gallizioli, Giusi Lazzari, Alessandra Pelizzari, Carlo Zani
Referenze fotografiche:
Giambelli - Fotogramma, Brescia
Direzione
Giuseppina Ragusini
Segreteria
Gianluca Gallinari e Fabrizio Marelli
L’Associazione Artisti Bresciani ringrazia per la cortese collaborazione
i figli dell’artista, Antonio e Paola Favero, e lo storico dell’arte Riccardo Lonati.
Fotocomposizione e stampa:
Arti Grafiche Apollonio - Brescia
Finito di stampare nel mese di gennaio 2001.
Di questo catalogo sono state stampate 300 copie.