Narrativa - Aracne editrice

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Narrativa - Aracne editrice
Narrativa Aracne
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Si ringrazia la casa editrice Garzanti per l’autorizzazione a
pubblicare il breve brano tratto da I giorni in fuga, di Geno
Pampaloni (Milano, Garzanti, 1994), citato a pagina 64 del presente volume.
Si ringrazia il professor Luigi De Marchi per la gentile autorizzazione all’uso di diverse citazioni dal suo Sesso e civiltà (Bari,
Laterza, 1959).
Glauco Romeo
Redacinta
g
Memorie
di un giovane scapestrato
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Glauco Romeo
Fremont, California
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***
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88–548–0841–9
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di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
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senza il permesso scritto dell’Autore o dell’Editore.
I edizione: novembre 2006
E non potrebbe darsi, continuò Austerlitz,
che noi si abbia pure appuntamenti da rispettare
nel passato, in ciò che è avvenuto prima ed è in
maggior parte estinto; e là ci si debba recare in
cerca di posti e persone che hanno qualche nesso
con noi all’estremo lato del tempo, per così dire?
W.G. Sebald, Austerlitz
Tutti i loro atti sono nei Nostri libri;
ogni azione, piccola o grande, vi è scritta
Corano, Sura della Luna (Al Qamar, 54, 53)
INDICE
Premessa..................................................................................XI
Ringraziamenti......................................................................XII
PREAMBOLO.......................................................................1
MESSINA...............................................................................5
Nasce il feto – L’asse del cesso preriscaldata – Storie del
Muricello – Il terremoto – Marchesi, sì o no?– Alla spiaggia La lettera divina – Escursioni sopra e sott’ acqua – I fatti della
vita - La Vara
VERSO IL NORD..............................................................23
Infanzia a Roma – Colonie marine e montane – Uva e letame A Como – Fascisti e partigiani – Un’estate a Bellagio – Pioggia
di caramelle – La casa di Rivoli
BELLAGIO.......................................................................... 39
Pipe fatte in casa e attacchi di diarrea – I fantasmi del cimitero Piaceri e crudeltà – Mark Twain a Bellagio – Lo zio Pasquale – Il
nuovo pisciatoio – Soprannomi – Il tuffo dal battipalo – Il maestro
Bobby O’Silber – Rizzino in barca – Marilù, contessa DeViel
INTERLUDIO IN ALTO ADIGE................................ 57
A Bressanone – Boschi, sentieri e laghetti – I frati tedeschi
– Al liceo-ginnasio “Dante Alighieri” – Madonne pellegrine Partenza per il sud – Un infortunio di viaggio
APPRODO A BOLZANO...............................................61
Sfollati e alluvionati – Il Liceo Carducci – Classi miste o monosex
– Gite scolastiche – Primo giorno di scuola – Preside, professori
e studenti – Memorie di un maestro – Regie benedizioni
– Conflitti matematici – Al cesso il miscredente! – Zia Flora e
zia Hilde – Cronache medioevali – Franchir la frontière – Vassalli
e valvassori – Sciare a buon mercato – Il foglio di via
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ANCORA A BOLZANO..................................................75
Danze in montagna – L’avvinazzato in Lambretta – Vita dai
Mumelter e in Via Cesare Battisti – Fascisti o comunisti? –
Braghella & Testina – Di fronte al Navarro – Caste sociali – La
terza liceo
DA BOLZANO A PADOVA...........................................83
Il collegio universitario Don Mazza – La Casa dello Studente
Arnaldo Fusinato – L’arte della coprofilia – Al calduccio dei
postriboli – L’Istituto Chimico di Via Loredan – Sandonnini e
Croatto – La Casa dello Studente Ippolito Nievo – Il custode Dario
– Il gioco del bagolotto – Lino, Linetto... – Il bombarolo –Amici
vari – La Latteria Pajaro – La Carlona – Ernesto e Pasquale – Zio
Getulio e Saturnino – Le avventure di Giorgio Amoretti – Padua,
ich muss dich lassen...
JAZZ E AUTOSTOP.......................................................105
Jazz, passione giovanile – Il concerto di Coltrane e Miles Davis
– Pernottamento e colazione in Casa Jucker – Con Luca e Carlo
verso la Svezia – Sesso e Civiltà – Il Giardino del Re – Gazzelle e
leopardi – Ritorno a casa
TRANSFUGA A FERRARA.........................................117
La fuga da Padova – Nebbia e galline – Schifanoia – Il cuculo
ozioso – Crisi letteraria – Angeli custodi – Un bel casino – Il
lamento del marmittone – Naja tripudians – Neve, whisky e 7Up
– Di guardia ai patrii confini – Ritorno a Ferrara – Amore e
termodinamica
AMARCORD DI FERRARA........................................129
Veronica e Liliana – Ninuzzo e Nunziante – Pendenza – Librai
ambulanti e sognatori
STORIE FERRARESI (CON LICENZA DI BASSANI).......135
Veliki Yuri! – È Lombardi il vero buon brodo – La tragica fine
della povera Ortensia – Il Macrocefalo e l’Agricola – Piume,
baciatemi! – Rognoni arrosto – Il Metodo Carezza – ”Hai
guardato la signorina!”– Passa il Santissimo – L’azzurra visïon
– Il fedele maharatto
LA TRADUZIONE E ALTRE STORIE.....................149
Il “mal de l’asen” – Boca de Puta – La morte del Direttore
– L’Incantevole – Schifanoia – Il Montagnone – Aurora
principessa
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NUOVE METE..................................................................165
Il miraggio della cattedra – Le damigiane di acqua
distillata – Vita di commissionato – Panni da risciacquare
in Tamigi – La tapa del delco – Il fatale coup-de-foudre
VITA IN INGHILTERRA..............................................177
Prigioni e biscotti – Un appartamento su tre piani –
I cigni della regina – Bianchi e neri – Hippies e figli dei fiori –
Incontro con Yoko – Dimostrazioni a Trafalgar Square – Il Greek
Pig – Meneghello e Strickland – Il Dipartimento di Chimica
– Le mele dei porci – Il prof. Pruitt – Ricerche e frustrazioni – Le
palline d’argento
PASSAGGIO A NORD-OVEST.................................195
Rose sotto la luna – Traversata atlantica – Al Vice-consolato di
Hamilton – Parolacce internazionali – I megapolli – Elefanti alla
monta – Puntando a sud – Spaghetti e polpette – Premi Nobel
– Gerarchie e gabinetti di decenza
ESOTICA............................................................................213
L’Anaconda – Rio de Janeiro – Mulatte, tagliaborse e macumba
– La schiava Anastasia – Padre Geronimo – Il santero Jorge
– Bahia – Monsieur Haiti – Il munifico Monsieur Avakian
– Nel mare de La Sirène – I riti del vudù – Ritorno nel Paese di
Bengodi
EPILOGO............................................................................241
Illustrazioni
La Vara.....................................................................................19
Mata.........................................................................................20
Grifone.....................................................................................21
La Vasca...................................................................................65
Il Giardino delle Rose............................................................81
Prato della Valle.....................................................................87
Il Modern Jazz Quartet................................................108-109
Schifanoia..............................................................................159
La Schiava Anastasia...........................................................223
Iemanjá..................................................................................225
Vévé per Ezilì.......................................................................237
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A Emmegì, senza la cui affettuosa presenza
la vita non sarebbe stata così facile.
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PREMESSA
Spesso fisionomie di persone diverse possono
apparire tanto simili da parlarne come di sosia. Nel caso
di Elvis Presley, per esempio, a Las Vegas i suoi sosia
hanno creato una vera industria dell’imitazione, al punto
da far credere che “cloni” umani siano già stati creati da
qualche scienziato ribelle. Così i personaggi di un racconto
possono richiamare alla mente persone esistenti o esistite.
Se il lettore di queste memorie dovesse ravvisare nella
narrazione persone di sua conoscenza, tenga presente che
i caratteri di uomini e donne, come le fisionomie, possono
sembrare quasi identici, ma non per questo corrispondono
necessariamente a persone reali. Con l’eccezione di
personaggi storici, protagonisti ed eventi di queste memorie
sono in gran parte frutto della fantasia di Guelfo Torrazzi,
indimenticabile amico.
Il lettore deve rendersi conto del fatto che questo
è un romanzo a fumetti privo – per ora – di vignette con
le nuvolette parlanti. In attesa dei fumetti reali, provveda
il lettore a creare con la sua immaginazione i fumetti
virtuali.
XI
RINGRAZIAMENTI
Devo anzitutto dar credito agli scritti di Piero
Chiara, Luciano De Crescenzo e Kurt Vonnegut per aver
ispirato la stesura di queste memorie, con un umile inchino
a Boccaccio e all’Aretino.
Alcuni vecchi amici di Guelfo Torrazzi mi son
stati prodighi di suggerimenti e aneddoti: da un lato
dell’Atlantico Mario Bolognani, Ian Delderfield, Lia Fedeli
(indimenticabile bellagina), Ettore Frangipane, Giampaolo
Guasti, Giorgio Jellici, Mariano Mazzoni, il comandante
Vittorio Marsiglio, pilota dell’Alitalia, e il prof. Fernando
Secco dell’Università di Pisa; dall’altro lato dell’Atlantico
il prof. James D. Livingston del Massachusetts Institute of
Technology e il dr. Marcus P. Borom, scienziato, subacqueo
e aviatore. Ringrazio pure l’avvocato Gaia Carofiglio e
la prof. Gabriella Salinetti dell’Università di Roma-La
Sapienza per una attenta ed efficace revisione del testo.
Emmegì, da sempre mia compagna e consigliera,
ha sfoltito la prima stesura del manoscritto e creato non
solo grafica e illustrazioni, ma anche un’atmosfera di
serenità ideale per chiunque, sia grande scrittore che oscuro
scrivano come me, dia mano alla penna o alla tastiera del
computer.
Glauco Romeo
XII
PREAMBOLO
Sul finire degli anni Ottanta la società per cui lavoravo
mi aveva inviato come consulente presso una centrale nucleare di
nuova costruzione ai bordi del lago Ontario, al nord dello stato
di New York. Il mio compito era quello di organizzare i laboratori
di analisi chimica e radiologica e di stilare procedure ad uso dei
tecnici. La cittadina di Oswego ospitava tre reattori che fornivano
energia elettrica a una vasta porzione dello stato e lavoro a un
buon numero di abitanti.
A Oswego incontrai un italiano, un chimico che
lavorava in una delle altre centrali. Diventammo subito amici,
sia per reciproca congenialità che per la lontananza dalle nostre
famiglie impostaci dall’incarico ricevuto. Finimmo per affittare
insieme un villino ai bordi della città, con vista su un fiume che
la tagliava a mezzo prima di fluire nel lago.
Guelfo Torrazzi era un uomo di una cinquantina d’anni,
alto e di taglia atletica, di carnagione scura, capelli neri brizzolati
alle tempie, e occhi grigio-azzurri. Mi diceva: ”Sono un misto
di arabi e di normanni, come se ne trova in Sicilia.” Era nato
infatti nell’isola, da un siciliano e da una milanese. “Sono per
tre quarti siciliano con qualche goccia di sangue austriaco”, mi
diceva, alludendo a un lontano ascendente germanico, la cui
presenza nella sua famiglia risaliva ai tempi dell’occupazione
austro-ungarica della Lombardia durante il Risorgimento.”Mio
padre,” mi diceva Guelfo, “era un siciliano biondo e con gli occhi
chiari.” Sua madre era invece di pelle scura come un’araba, figlia
di un siciliano discendente dai mori e di una lombarda. Guelfo
mi aveva mostrato una fotografia della madre, fatta in gioventù
durante una gita al Marocco. Drappeggiata nel costume locale,
sua madre era indistinguibile dalle donne arabe.
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Le estati di Oswego erano luminose. Il lago abbagliante
sotto il sole e l’aria pulita, senza traccia di inquinamento per
l’assenza di industrie, ci invogliavano a lunghe passeggiate in
cui Guelfo mi raccontava le peripezie della sua vita movimentata.
Erano storie picaresche, forse in parte inventate, che Guelfo
infarciva di citazioni letterarie e poetiche. Leggeva di tutto,
Guelfo: dai fumetti alle vite dei santi. E da questa sua cultura
eclettica e arruffata estraeva frasi ed esclamazioni che io trovavo
buffe e al tempo stesso m’ intimidivano – io di quello di cui Guelfo
parlava sapevo poco. Ad esempio: « Hé Dieu ! si j’eusse étudié
au temps de ma jeunesse folle! ». Io lo guardavo senza capire e
lui mi spiegava “Villon, François Villon. Criminale e gran poeta
del tardo medio evo.” Oppure mi chiedeva “Sai tu che effetti fa
amore?”, e continuava “quelli del tartufo, che ai giovani fa rizzar
la ventura e ai vecchi tirar coregge.”
La sera le nostre conversazioni continuavano nelle
trattorie locali dove spesso andavamo insieme a cenare. Io trovavo
questi suoi discorsi affascinanti, avendo vissuto da adolescente
in modo ben poco avventuroso in un piccolo paese della Venezia
Giulia. Guelfo aveva l’estro del narratore e condiva i suoi racconti
di un tono sardonico e auto-deprecatorio che spesso mi faceva
ridere. Mai prendersi troppo sul serio, mi ammoniva. Per la sua
propensità a dissacrare miti e tabù io, di scarsa immaginazione,
l’avevo soprannominato “Guelfo l’Iconoclasta”.
Fin da giovane avevo preso l’abitudine di registrare in
un mio diario le impressioni della giornata, e molte delle storie di
Guelfo trovavano posto nelle sue pagine. Fatta eccezione per le
periodiche visite alle nostre famiglie, lontane molte centinaia di
chilometri, Guelfo ed io vivemmo insieme per più di due anni prima
di doverci separare per perseguire nuovi incarichi. Restammo
però in contatto per molti anni, per telefono e scrivendoci lettere,
le sue piene di cronache e commenti riportati sempre tra il serio
e il faceto, mai lamentando le asperità che ognuno incontra nel
corso dell’esistenza.
Fui colpito e addolorato nel ricevere una telefonata di sua
moglie: Guelfo era scomparso, vittima di un incidente di aereo.
Ritiratosi dalla sua attività di consulente, non si era rassegnato
alla placida vita del pensionato, ma sempre in cerca di avventure e
di nuovi interessi, si era aggregato a un gruppo internazionale di
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entomologi che si occupava di ricerche su insetti esotici. Durante
un viaggio di studi sulle falene della Papua Nuova Guinea, un
piccolo aeroplano che lo portava verso Port Moresby dopo aver
segnalato per radio un’avaria al motore era precipitato nel fitto
della giungla, in una zona scarsamente esplorata che pare sia
ancora abitata da cannibali. Intense ricerche erano state fatte
per rintracciare l’aereo e i suoi occupanti, con la collaborazione
dell’aviazione militare australiana; ma nessuna traccia fu
rinvenuta, e dopo alcuni anni dalla loro scomparsa Guelfo e i
suoi compagni di sventura furono dichiarati deceduti dal punto
di vista legale.
Anni dopo, rileggendo i miei diari e la nostra
corrispondenza, decisi di mettere ordine nei ricordi di Guelfo.
Lui mi diceva: “La storia non è fatta solo di battaglie vinte o
perse da questo o quel generale, ma è la risultante di miriadi
di storie di gente comune come me.” In omaggio a questa sua
convinzione e alla sua memoria, pensai di aggiungere come
minuscolo contributo alla storia dell’umanità le storie di Guelfo,
con il titolo “REDACINTA”, un termine coniato da Torrazzi di
sua derivazione dal dialetto siciliano. “Redacinta” significa
“oltre la cinta delle mura”, un titolo emblematico della natura
di Guelfo, che avrebbe voluto vivere al di là delle muraglie di
convenzioni sociali. E poiché il mio amico a volte sospirava “Ah,
che scapestrato ero da giovane…”, decisi di dare alle sue memorie
il sottotitolo “Memorie di un giovane scapestrato”.
Nel far parlare Guelfo di persona mi è sembrato di
sentirlo di nuovo vicino. Spero che il suo “spirito allegro” come
il personaggio di Noel Coward, nel leggere le sue parole ne
sorrida.
G. R.
1˚ aprile 2005
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Deh, come è gran pietate
de le donne di Messina,
veggendole scarmigliate
caricar pietre e calcina
(Anon., secolo XIII)
MESSINA
Nasce il feto – L’asse del cesso preriscaldata – Storie del Muricello
– Il terremoto – Marchesi, sì o no?– Alla spiaggia – La lettera
divina – Escursioni sopra e sott’ acqua – I fatti della vita – La
Vara
“E vediamo questo feto!”
Con queste parole il prozio Nannino, in visita di
prammatica alla famiglia del neonato, annunciò il suo
ingresso. Il feto ero io, nato solo da poche ore, e quindi
solo di recente non meritevole della qualifica. Bettina, la
mia nonna paterna, prontamente rimbeccò: “E intanto noi
di questi feti ne abbiamo già due!”, ricordando a Nannino
con orgoglio l’esistenza di una mia cugina, un’altra nipote
nata l’anno precedente dalla figlia Camilla, Milla, come
era chiamata in famiglia. Raccontano che al momento
della mia nascita la levatrice emise un gridolino strozzato:
”Oddiomio!...”. Mia madre era convinta di aver messo al
mondo un mostro, e solo dopo alcune ore le fu consentito
di ispezionarmi e accertare che se da mostruosità ero
afflitto, lo ero solo nella fantasia della levatrice che si era
spaventata nel vedere il cordone ombelicale arrotolato
intorno alla mia testa mentre sbucavo dal quieto ambiente
dell’utero materno.
Il prozio, capitano di lungo corso a riposo, con un
viso austero cinto da una barba bianca e sulle spalle una
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mezza redingote (così appare nelle vecchie foto di famiglia),
era seguito dalla moglie, una donnetta minuscola vestita di
nero, in lutto permanente come si addiceva ad un’anziana
siciliana, e dalla figlia, una donna alta e di taglia massiccia.
Anche la figlia di Nannino si chiamava Camilla, ma per
distinguerla da Milla, veniva detta “la Millona”. Era afflitta
da una disfunzione ormonale, la Millona, che le aveva fatto
raggiungere limiti inverosimili di pinguedine, e benché in
possesso di un marito, le aveva impedito di produrre prole
per la soddisfazione della famiglia. Quindi la freccia di mia
nonna aveva colto il prozio nel suo tallone d’Achille. A
causa della disfunzione di cui soffriva, la Millona era anche
pigrissima. Non faceva mai niente, ma amava le comodità
al punto che prima di andare al gabinetto obbligava la
cameriera a sedersi sull’asse per riscaldargliela. Venni
quindi al mondo circondato da questo bizzarro corteggio
di parenti.
L’appartamento di mia nonna, in cui grazie alle
cure di una levatrice ero venuto alla luce, stava in un grande
caseggiato del Muricello, un rumoroso quartiere della zona
nord di Messina con strade fitte di negozi e di bancarelle da
cui si poteva comprare sia pesce che fichi d’India, entrambi
i generi conservati su ghiaccio; i fichi d’India sbucciati dal
venditore venivano squartati e serviti al cliente per essere
consumati sul posto o portati a casa su un piatto. Una
delicatezza siciliana.
L’origine del nome Muricello si perde nel passato,
ma forse il “muretto” poteva essere un parapetto del
torrente Trapani che di lì passava, e ci passa ancora, ma
sottoterra. L’appartamento della nonna stava al quinto
piano, l’ultimo di un grande caseggiato sopravvissuto al
terremoto del 1908 e in seguito rinforzato in accordo alle
procedure antisismiche. Dai balconi si calavano panieri
fino alla strada, con soldi e bicchieri vuoti che venivano
riempiti dai venditori di granite al limone, che dalla strada
urlavano la loro presenza. Dal lato opposto del cortile del
caseggiato c’era l’appartamento di zia Milla. Con la scusa
di ospitare la mia partoriente madre mia nonna aveva
convinto il marito ad affittare casa dove avrebbe potuto
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vivere a pochissima distanza dalla figlia.
Nonna Bettina era una donna alta, bionda,
imponente, con una grinta che intimidiva. Era la figlia
di una donna del nord e di un siciliano. Giovanissima,
aveva sposato il nonno, un uomo di temperamento mite,
di molti anni piu anziano di lei, direttore delle dogane
locali. Un onesto funzionario statale con cui aveva messo al
mondo quattro figli, tre maschi e una femmina. Lei aveva
approfittato del carattere accomodante del marito per fare
il bello e il cattivo tempo in famiglia, con risultati a volte
disastrosi. Una vittima dei pregiudizi di mia nonna e delle
balorde idee della società del tempo fu la figlia Milla.
La zia Milla fin da giovanissima era una pianista di
non comune talento. Frequentando sia il conservatorio che
le scuole medie, a sedici anni aveva conseguito il diploma
di pianoforte al Conservatorio di Palermo e iniziato una
carriera di concertista di cui i critici musicali tessevano le
lodi, ma che aveva esacerbato la pazienza dei vicini di casa,
costretti a sorbirsi interminabili ore di pratica sui concerti di
Liszt e di Rachmaninoff. Nel frattempo la cugina Millona si
era fidanzata, e questo era un rospo che mia nonna aveva
inghiottito a fatica. Per le donne del tempo il principale
obiettivo era assicurarsi un marito. Una corsa verso una
meta dove era importante arrivare per prime. Durante
l’estate, in spiaggia mia nonna e Milla avevano conosciuto
un giovane uomo, Michele. Di bell’aspetto, elegante,
benestante, di una diecina d’anni più anziano di Milla.
Possedeva una barca a motore e aveva invitato madre e
figlia a gite in mare. Le carte erano tutte in regola, eccetto
una. Il giovane era un orefice, un artigiano, insomma. A
causa di rovesci familiari aveva dovuto interrompere gli
studi dopo le elementari e imparare un mestiere. Nell’Italia
inguaribilmente umbertina come la famiglia De Tappetti
e stratificata in classi – anzi caste – sociali, la mancanza
di un titolo di studio avrebbe precluso l’ingresso nelle
famiglie di professionisti se non a prezzo di conflitti
familiari. Tuttavia Michele, dotato di buona volontà, di
notevole acume finanziario e di un particolare aspetto del
carattere, sulla base di prestiti sulla parola, ripagati al più
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presto, aveva aperto un negozio di grande successo nel
centro di Messina e accumulato una fortuna. Ciò aveva
abbagliato mia nonna, che ad onta delle obiezioni del resto
della famiglia spinse la figlia a sposare l’intraprendente
giovane. Maggiormente contrario al matrimonio della
sorella era il fratello maggiore di Milla, mio padre, che
essendo andato all’università non trangugiava l’idea di un
cognato non altrettanto istruito. La carriera di concertista
finì alle ortiche, perché il marito, avendo dichiarato
“Io non accetto il ruolo di principe consorte”, relegò
Milla tra le pareti domestiche facendole fare cinque figli.
Lavoratore indefesso, buon marito e buon padre
dal punto di vista dei canoni sociali, Michele purtroppo
aveva un lato del carattere micidiale: era di un’avarizia
allucinante. Elegantemente abbigliato, ogni giorno
andava nel suo negozio sul Viale San Martino in sella a
una scassatissima Lambretta. Il talento della moglie non
gli interessava se non per pretendere che Milla desse
lezioni ai ragazzini e coi soldi guadagnati provvedesse
alle necessità della famiglia. Lui i soldi guadagnati con
la gioielleria li metteva in banca, e alla nascita di ogni
figlio correva a depositare una grossa somma a nome del
neonato. Ma in casa i figli facevano la fame e se andavano
in visita dai parenti si buttavano sui vassoi di frutta e di
dolci, ingozzandosi come se non ci fosse un domani. La
situazione aveva raggiunto estremi tali che in occasione
di un Natale un fratello di Milla convinse malignamente i
ragazzi a scrivere una lettera a Gesù Bambino chiedendo
come strenna una nuova asse per la tazza del gabinetto.
Una richiesta commovente che convinse Michele ad
allentare i cordoni della borsa.
Povera Milla… La ricordo con indosso una
vestaglietta sdruscita, intenta a insegnare a qualche
ragazzina i rudimenti della tastiera, con i figli vocianti
nelle stanze del modesto appartamento in cui vivevano.
Una volta mi confidò: “Ho cinque figli, ma l’unico che
capisca qualcosa di musica è mio nipote Guelfo.”
g
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Avevo tre anni quando la mia famiglia si trasferì a
Roma. Naturalmente di quei primi anni di vita a Messina
non ricordo niente, se non le storie udite in casa. I ricordi di
famiglia arrivano sino all’anno del catastrofico terremoto
del 1908 che ridusse Messina a un cumulo di macerie
e provocò circa 150.000 morti nelle zone di Messina e di
Reggio Calabria. Un terremoto che creò molti più lutti
e distruzione di quello di San Francisco che lo aveva
preceduto di un paio d’anni.
Che Messina avesse una storia di antichi disastri
lo mostrano i versi di Anonimo che precedono questo
capitolo. Mio padre, nato da pochi mesi, sopravvisse al
terremoto insieme ai genitori. Ma la famiglia di suo padre
fu quasi completamente decimata. Il mio bisnonno si
sarebbe salvato, ma raccolto dai marinai di una nave russa
alla fonda nel porto, completamente inebetito e incapace
di spiccicar parola, fu buttato a mare dai russi insieme ai
morti e ai feriti gravi dati per persi. Una cruda selezione
dettata dalla scarsità dei viveri a disposizione della nave
che sarebbero stati sciupati per un vegliardo incoerente.
Il terremoto avvenne nel pieno della notte. La gente
scappava nelle strade seminuda, strappata dal letto dalle
scosse che si ripetevano, a volte aprendo baratri in cui alcuni
sfortunati cadevano. Era la fine di dicembre, anche in Sicilia
faceva freddo. Mio nonno, il cav. Egidio Torrazzi, era uscito
per cercare i suoi familiari indossando giacca e cappotto,
ma tornò a casa in camicia e mutande per aver dato i suoi
panni a chi non aveva indosso indumenti. Gli orrori visti da
Egidio nelle strade lo fecero incanutire prematuramente. La
famiglia Torrazzi era numerosa, ma il terremoto ne uccise
sedici membri: genitori, fratelli, cognati, e nipoti. Si salvò
solo un fratello di mio nonno, quel Nannino che avrebbe
salutato la mia nascita appioppandomi la qualifica di feto.
Vantavano ascendenze aristocratiche, i Torrazzi. In
famiglia si parlava di un marchesato delle Torrazze, di cui
io sarei stato l’ultimo rampollo. Un mio zio, fratello minore
di mio padre, lo stesso che aveva suggerito come strenna
una nuova asse per il gabinetto, si era fatto stampare
– serissimo - biglietti da visita col titolo “Marchese delle
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Torrazze” e uno stemma di sua invenzione: uno scudo con
tre torri rosse in campo azzurro tripartito, sormontato da
corona marchionale con fioroni d’oro alternati a gruppi di
perle. A rigore di Consulta Araldica, essendo un cadetto
lo zio avrebbe dovuto dichiararsi “dei marchesi delle
Torrazze”, non usurpando il legittimo titolo di marchese
che sarebbe spettato a me come primogenito del casato. Ma
essendo io di tendenze proletarie, della patente di nobiltà
avrei fatto miglior uso se stampata su carta igienica.
Adolescente, tornai a Messina in una estate
dell’immediato dopoguerra, ospite della nonna. Un’estate
di sole e di mare, ubriacante come sono le estati siciliane.
Le notti erano caldissime, soffocanti. Spesso dormivo sul
pavimento di coccio perché i nodosi materassi di lana erano
insopportabili. A volte soffiava lo scirocco, portando con sé
dal Sahara veli di sabbia finissima. Sui tetti, a terrazza come
nelle costruzioni nordafricane, passavo ore arrostendomi
al sole, leggendo e fantasticando.
Si andava in spiaggia al mattino, quando il sole
era ancora amico, non un leone ruggente. Lasciavamo nel
capanno in affitto i vestiti e qualcosa da mangiare prima di
tornare a casa nel primo pomeriggio, scacciati dalla calura.
Gli altoparlanti installati dalla gestione dello stabilimento
balneare ci elargivano le canzonette del dopoguerra, in
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gran parte un lascito delle truppe americane: “Angiolina”,
“Io t’ho incontrata a Napoli – bella dagli occhioni blu”,
“Ehi babariba”, la versione italianizzata di “bo-bo-rebop”;
e i bughibughi del jazz, la musica “barbara” del nemico
bandita dai fascisti ma ascoltata e praticata in segreto dai
figli di Mussolini.
Le giornate passate in spiaggia erano piene di
scoperte. Davanti ai Bagni Vittoria era arenato un enorme
piroscafo, il Principe di Piemonte. A pochi metri dalla
spiaggia, inclinato su un fianco nella sabbia, era in parte
immerso nell’acqua. Non so come la nave fosse finita a
così breve distanza dalla riva. Forse era stata affondata dai
tedeschi in previsione dell’invasione alleata. Noi ragazzi
vi andavamo a nuoto e ci calavamo dentro ai suoi anfratti
arrugginiti, affascinati dalla fauna che vi aveva trovato
alloggio: pesciolini multicolori sguazzanti tra alghe
oscillanti nella marea, incrostazioni di conchiglie. L’acqua,
lambendo il metallo, risuonava di ritmi remoti.
Lo zio Sam ci aveva iniziati alla gomma da
masticare, il chewing-gum da noi ribattezzato “la ciunga”;
ci aveva fatto scoprire le prime penne biro, che per lungo
tempo avrebbero fatto colare inchiostro indelebile nei
nostri taschini. Ma soprattutto ci aveva inondato di Coca
Cola, simbolo dell’America più popolare della bandiera
a stelle e strisce, elisir che avrebbe soppiantato le nostre
orzate e limonate paesane. Al cinema il regime fascista ci
aveva consentito di vedere solo “Biancaneve e i Sette Nani”
e altri cartoni animati di Walt Disney. Per il resto, il nemico
doveva essere tenuto a bada dal Minculpop impedendo
che subdola propaganda ci contaminasse colando dagli
schermi cinematografici. A guerra finita, la gente aveva
voglia di dimenticare quel periodo funesto e di divertirsi.
La produzione di Hollywood era finalmente approdata
alle soglie di casa nostra. Film come “Il Sergente York”
ci mostravano le virtù del pio americano, impersonato
da Gary Cooper, che durante la Grande Guerra per amor
patrio si era trasformato da pacifista in guerriero, mettendo
a buon uso la sua abilità di cecchino - cui si era allenato
sparando ai tacchini selvatici nei boschi del Tennessee - e
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producendo da solo una mini-ecatombe di tedeschi. Altri
film erano meno eroici ma più divertenti. In “Serenata a
Vallechiara”, Sonja Henie sgambettava allegramente sul
ghiaccio, mentre il trenino di Ciattanuga faceva ciù-ciù con
l’orchestra di Glenn Miller.
g
Alla fine di quella estate dovetti tornare nelle
nebbie del nord. Ma due anni dopo fui di nuovo rispedito a
Messina, questa volta per un intero anno scolastico. Avevo
quindici anni, e cominciavo a capire qualcosa del mondo
intorno a me. Ai miei occhi Messina era una splendida
città. A volte andavo a camminare sul lungomare, dalla
zona della Fiera Campionaria fino al porto, per il piacere
di osservare le onde che scintillavano sotto al sole prima
d’infrangersi sugli scogli. La statua della Madonna della
Lettera, patrona della città, stava appollaiata in cima a
una colonna, all’estremità del molo che cingeva una vasta
distesa d’acqua protetta dai marosi.
La leggenda narra che nei primi anni dell’era cristiana una delegazione di messinesi si recò a Gerusalemme
per rendere visita alla Madonna e impetrarne la protezione.
La Vergine, commossa dalla devozione dei messinesi, si
impegnò per scritto a garantire il suo soccorso in casi di
necessità, e a tal fine consegnò ai postulanti una pergamena
arrotolata e legata con alcuni dei suoi capelli. Da allora
sembra che Messina abbia ricevuto aiuti miracolosi nei
momenti di crisi, come carestie, pestilenze, o guerre. Tutto
merito della Madonna della Lettera, la cui venerazione è
più che giustificata. Il nome “Letterio” è tipico messinese.
Io stesso lo porto: Guelfo Maria Letterio.
Dalla piazza del Muricello si snodava ViaPalermo,
una lunga strada che saliva verso i monti Peloritani. Lungo
la strada le edicole dei giornali esibivano in quegli anni
le prime pagine dei rotocalchi con le storie romanzate del
bandito Giuliano, considerato da molti una specie di Robin
Hood, ma alla fine fatto fuori dal cugino Gaspare Pisciotta,
probabilmente in combutta con le autorità. Erano i tempi in
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cui Finocchiaro Aprile, un politico siciliano, aveva proposto
al governo degli Stati Uniti la secessione della Sicilia
dall’Italia e l’annessione come stato americano distaccato
nel Mediterraneo. Al Dipartimento di Stato americano la
Sicilia era ben nota, da quando Lucky Luciano, il pezzoda-novanta di Cosa Nostra negli Stati Uniti, aveva favorito
nel ’43 lo sbarco delle truppe del generale Patton in Sicilia
tramite i suoi agganci con la mafia locale. La Sicilia come
parte degli Stati Uniti sarebbe stata una enorme portaerei,
ma grazieadio non se ne fece nulla. All’idea le ossa di
Garibaldi e dei Mille si sarebbero rivoltate nella tomba.
Alla Villa Mazzini, il parco sulla via Garibaldi
non distante da casa mia, andavo a sedermi con i bambini
davanti al teatrino dei pupi, il teatro di marionette in cui
venivano evocate per la delizia del pubblico infantile le
gesta dei paladini di Francia in lotta con i mori. I guerrieri
paludati in armature variopinte ed elmi di latta si davano
botte da orbi, salutate da urla di soddisfazione dei ragazzini
ogni volta che una piattonata raggiungeva il segno e
un saraceno spariva sotto la tenda. Grande emozione
procurava la morte di Orlando a Roncisvalle, tradito dal
perfido Gano di Maganza. Come vuole la leggenda, prima
di morire Orlando soffiava nel corno Olifante impugnando
Durlindana, la fida spada. Le storie dei paladini sono
ancora dipinte sui bordi dei tradizionali carretti siciliani,
ormai solo un’attrazione per i turisti.
Talvolta noi ragazzi, tutti maschi, organizzavamo
gite che culminavano in picnic nei boschi di conifere dei
Peloritani, freschi e profumati. Salivamo per sentieri
rocciosi fiancheggiati da enormi piante di fichidindia e
agavi fiorite di zammare e circondate da sciami di insetti
ronzanti. Alla vista delle zammare, enormi steli ritti verso
il cielo, i ragazzi cominciavano a cantare versi ribaldi
sull’aria di “Ciuri, ciuri, ciuri di tuttu l’annu - l’amuri ca mi
dasti ti lu tornu”:
Tina, Tina, jarrusa e zumpettara
apri li cosci e pigghia ‘sta zammara.
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Più spesso si andava al mare, che su di noi giovani
esercitava una irresistibile attrazione. Avevo conosciuto
un ragazzo di un paio d’anni più anziano di me. Vittorio
abitava nelle vicinanze dell’antico bar Sciarrone, nella parte
della via Garibaldi a nord della città. Aveva il bernoccolo
dell’ingegneria meccanica, e invece di studiare latino e
greco al liceo aveva preferito iscriversi a un istituto tecnico
industriale, dove poteva imparare disegno e costruzione di
macchine. Sfortunatamente questa mancanza di interesse
per aoristi e spondei gli aveva precluso l’accesso all’università. Nell’arcaico, asfittico sistema d’istruzione superiore di quegli anni lontani l’unica facoltà aperta a chi non
avesse un diploma di maturità era Economia e Commercio.
Un tipo di studi cui Vittorio non era affatto interessato. Invece passava lunghe ore costruendo complicati marchingegni,
come, ad esempio, snodi cardanici per modelli di elicotteri;
e per verificare alcune sue teorie basate su simili studi di
Leonardo da Vinci, costruiva accurati modellini di carta che
mollava dalla cima della tromba delle scale per studiarne
velocità e caratteristiche di discesa.
Un’altra passione di Vittorio, alla quale io mi ero
subito accodato, era il nascente sport della pesca subacquea.
Una ditta italiana, la Cressi, era tra le prime industrie che
fornivano equipaggiamento ai subacquei: pinne, maschere
e fucili. Nessuno di noi ragazzi aveva i mezzi per acquistare
quegli aggeggi meravigliosi, ma ciò non era un deterrente
per Vittorio: costruiva molle avvolgendo con un tornio filo
d’acciaio su una bacchetta. I meccanismi di scatto erano
limati a regola d’arte e montati su tubi d’alluminio di
scarto. Senza spendere più di poche lire, il ragazzo si era
costruito un paio di fucili che funzionavano perfettamente.
Pinne e maschere erano ricavate da vecchie camere d’aria
d’automobile.
Superando i laghi di Ganzirri e di Granatari,
andavamo in bicicletta fino alla Punta Faro, dove dal Capo
Peloro la notte brillava una luce sullo stretto ad evitare
che Scilla e Cariddi, quei mitici mostri, combinassero più
malanni di quanto avevano fatto in un remoto passato.
Immergendoci in un mare dove una volta vivevano sirene
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e tritoni, scendevamo in apnea a caccia di cernie che, non
ancora disturbate da masse di subacquei, si potevano
trovare entro pochi metri di fondale. L’acqua era cristallina,
la visibilità perfetta. Sulla sabbia giacevano decine di
proiettili inesplosi, un residuo delle battaglie degli anni
di poco precedenti. La sera, stanchi, tornavamo a casa
per mostrare con orgoglio ai genitori i frutti della nostra
pesca.
Vittorio aveva conosciuto per caso Masino
Manunza, l’operatore subacqueo di Folco Quilici, scrittore,
giornalista e regista di film e documentari di avventure sul
mare. Manunza era di passaggio a Messina, diretto verso
qualche ripresa nel Mar Rosso. Un omone con un viso
largo e capelli incolti, una specie di gorilla irsuto. Jacques
Cousteau aveva inventato solo di recente l’aqualung, il
sistema di emissione controllata di aria compressa variabile
con la pressione esercitata dall’acqua a diverse profondità.
Manunza aveva dato a Vittorio della calce sodata, usata
in primitivi sistemi di rimozione dell’anidride carbonica
dall’aria respirata. Il ragazzo aveva trovato nei magazzini
di residuati di guerra dei sacchi-polmone a calce sodata
usati in emergenza dai sommergibilisti per raggiungere
la superficie, e li aveva adattati per immersioni di
lunga durata. Ma conscio del pericolo inerente all’uso
dell’aggeggio, si immergeva legato con una sagola a un
altro ragazzo che, nuotando in superficie, al primo segno
di problemi lo avrebbe tirato su. Il giovane era ardito ma
prudente.
Di Vittorio mi piaceva una certa poliedricità. I suoi
interessi non si limitavano alla meccanica. Ricordo che il
bolero di Ravel lo affascinava per il fraseggio ripetitivo e
ipnotico; e mentre costruiva le sue macchine fantastiche
lo sentivo canticchiare la vecchia conga sudamericana El
Cumbanchero: “A cumba, cumba, cumba, cumbanchero
– a bongo, bongo, bongo, bongosero…”. Al cinema aveva
visto “Hellzapoppin’ ”, una farsa caotica di Hollywood, e
molto impressionato ne discuteva con me i pregi. Sempre
convinto delle sue opinioni, si ostinava a dirmi del titolo
di un altro film, “A Sud di Pago Pago”, che Pago Pago si
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pronuncia pengo pengo. E forse aveva ragione.
La differenza di quei due anni di età consentiva a
Vittorio di trattarmi con lieve superiorità, e a volte di burlarsi
di me, ancora ignaro dei fatti della vita. Spesso sentivo i
ragazzi del nostro gruppo nominare una misteriosa località
di Messina, che alle mie orecchie di ragazzo cresciuto al nord
suonava come “redacinta”. Alle mie richieste di spiegazioni
si rifiutavano di darmene, ridacchiando. Un giorno in cui,
camminando per strada, avevo chiesto loro per un’ennesima
volta il significato dell’oscuro nome, mi dissero “Chiedilo a
Mimmo, lui senza dubbio te lo saprà dire”. Mimmo era un
giovane di una ventina d’anni che avanzava nella nostra
direzione con al braccio la fidanzata Adalgisa. Appena
giunto al livello del nostro gruppo lo fermai e gli chiesi:
“Mimmo, cos’è redacinta?”. PAM! Come risposta alla mia
innocente domanda Mimmo mi appioppò uno schiaffone,
e indignato si allontanò senza una parola, trascinandosi
dietro Adalgisa, allibita e ancora appesa al suo braccio. Tra
un coro di risate mi fu finalmente spiegato dai miei amici che
“redacinta” significava in dialetto “arret’a cinta”, “dietro
la cinta” delle antiche mura cittadine. Ma non parlando
il dialetto messinese, “arret’a cinta” a me suonava come
“a Redacinta”. Era il nome popolare del quartiere delle luci
rosse, un innominabile tabù della buona società messinese.
La sola menzione di quella sentina di peccati in presenza
della fidanzata aveva suscitato le ire di Mimmo.
In quella estate, mi fu concessa una più chiara
visione dei fatti della vita grazie a due sorelle che abitavano
nella zona del Muricello. Spesso le due ragazze uscivano la
sera per incontrare dei loro spasimanti, ai quali avevano
dato appuntamento in spiaggia. I miei amici avevano
scoperto questi convegni e in loro compagnia potei
assistere ai ludi di Eros. Sdraiate sulla sabbia, seminascoste
dalle barche dei pescatori arenate sulla spiaggia, le ragazze
offrivano ai loro uomini un conforto più romantico (ed
economico) di quello che avrebbero trovato a Redacinta.
Una sera una delle sorelle mi sorprese a scrutare, molto
interessato, le loro ginnastiche. Il partner, chino su di lei,
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ansimava mugolando, dimentico del mondo circostante.
Per nulla imbarazzata e senza perdere una battuta del
ritmo, la ragazza mi strizzò l’occhio, come a dirmi “Hai
visto quanto son brava?”
g
L’agosto è torrido a Messina, ma è proprio il mese
in cui la città celebra i suoi fasti. L’Agosto Messinese, come
viene chiamata la serie di eventi, concerti e funzioni, rende
la città più vibrante del solito. La Fiera Campionaria, una
manifestazione al cui inizio negli anni Trenta contribuì
anche mio padre, era un grande emporio di prodotti e
macchinari, una mostra di cose nuove affascinante per
noi ragazzi. Alla sua chiusura assistevamo incantati a una
fantastica esibizione di fuochi artificiali, che esplodendo
nel blu cupo della notte ricadevano scintillando nel mare.
Al 15 del mese, Ferragosto, si celebrava la grande
processione religiosa della “Vara” (la Bara), una “macchina”
devozionale come se ne trovano ancora in alcune cittadine
del meridione, consistente in una struttura alta più di
dieci metri, contornata da simulacri vari, e sormontata da
una statua della Madonna Assunta in Cielo. La Vara era
piazzata su un’enorme slitta trascinata con grosse funi
sul lastricato di lava spruzzato d’acqua da una folla di
devoti a piedi scalzi. In moto, le varie sezioni della Vara
giravano e oscillavano come una specie di teatro mobile.
La tradizione risale a parecchi secoli fa. All’inizio, invece
di statue sulla struttura si sistemavano persone vive. Ma
due incidenti, nel 1681 e nel 1738, convinsero alla fine gli
organizzatori a sostituire le figurazioni viventi con statue
di legno o di cartapesta. Nel 1681 la Vara si sfasciò e i due
giovani che rappresentavano il Padreterno e la Madonna
caddero in mezzo alla folla, insieme a due bambini che
rappresentavano degli angeli, ma nessuno si fece male. Nel
1738 si ebbe la rottura dell’asse attorno al quale ruotava
il sole e caddero dall’alto, “da un’altezza di 54 palmi”,
quattro bambini, ma anche in quell’occasione nessuno si
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fece male. Due miracoli, naturalmente.
Alla processione partecipavano migliaia di
persone inneggianti alla Vergine. Attraversando la via
Garibaldi, la Vara era trascinata fino al Duomo. Con la Vara
erano trainate anche due grandi statue raffiguranti Mata e
Grifone, in memoria della vittoria di Ruggero il Normanno
sull’arabo Grifone, nel XII secolo. Al suo ingresso vittorioso
a Messina, re Ruggero aveva costretto il prigioniero
Grifone e la moglie Mata a seguire fino al Duomo il suo
trionfo. Detti pure “I Giganti”, nell’iconografia popolare i
due prigionieri non sono rappresentati come dei vinti. In
sella a un cavallo bianco Mata e ad uno nero Grifone, sono
due magnifici simboli di forza e dignità. Sia l’uomo che la
donna proiettano questa immagine in uguale misura.
Il festival della Vara, come molte tradizioni siciliane, ha radici nella complessa, policroma storia dell’isola,
occupata per secoli da gente di tutte le razze e nazioni:
greci, fenici, cartaginesi, romani, bizantini, normanni,
spagnoli, francesi e soprattutto arabi. Nella processione
della Vara si possono quindi discernere gli elementi di
strepitosa devozione presenti nelle processioni del Venerdì
Santo in Spagna, e anche in quelle degli Shiiti nel Medio
Oriente, dove però i flagellanti aggiungono un particolare
tocco di colore.
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VERSO IL NORD
Infanzia a Roma – Colonie marine e montane – Uva e letame –
A Como – Fascisti e partigiani – Un’estate a Bellagio – Pioggia
di caramelle – La casa di Rivoli
Avevo tre anni quando mio padre, Fausto Torrazzi,
tornato incolume da una delle sue avventure belliche, la
guerra in Africa Orientale, decise di trasferire la famiglia
da Messina a Roma, dove aveva trovato lavoro come
chimico in un Ufficio Collaudi. In guerra era andato come
tenente degli Alpini, volontario. A Roma, interessato alla
merceologia, aveva pubblicato qualche lavoro su nuove
fibre come raion e nailon, pensando di concorrere per una
libera docenza. In realtà il suo vero interesse era la politica
militarista del regime fascista. Per seguire queste sue
aspirazioni aveva lasciato il posto all’Ufficio Collaudi per
entrare nella M.V.S.N., la Milizia Volontaria per la Sicurezza
Nazionale, col grado di centurione. Era l’equivalente del
grado di capitano, cui sarebbe arrivato restando a far
parte degli Alpini. La M.V.S.N. infatti era organizzata sulla
falsariga delle antiche legioni romane. Mio padre sarebbe
andato a combattere anche in Spagna, naturalmente dalla
parte dei franchisti, se mia madre dopo la nascita di una mia
sorella non si fosse imposta per impedirglielo. Così dovette
accontentarsi di partecipare all’occupazione dell’Albania,
campagna fortunatamente breve e meno cruenta.
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Di quegli anni a Roma ricordo che abitavamo in un
palazzo di via Ufente, una traversa di Corso Trieste. Non
molto distante stava il Parco Virgiliano, dove la domestica,
Oliva, una ragazza della campagna veneta (allora ogni
famiglia della buona borghesia aveva la cameriera), mi
portava a giocare con altri bambini, suscitando grande
interesse nei militari in libera uscita. Con Oliva spesso
andavo anche al cinema, dove per la prima volta avevo
visto “Biancaneve e i Sette Nani”, il cartone animato di
Disney. Ricordo pure “La Corona Di Ferro” di Blasetti, e
una versione de “I Promessi Sposi”.
Per portarmi a scuola, un istituto gestito da suore
nelle vicinanze di Villa Torlonia, un autobus passava a
prendermi sotto casa. Ne ricordo il colore, blu. Durante le
ore di svago a volte le suore si affannavano a dirci “Arriva
il principe, arriva il principe, bambini, state buoni.” Il
principe era un anziano signore, un Torlonia che si divertiva
a darci caramelle come si usa con le scimmiette allo zoo.
Mia madre mi aveva insegnato a leggere quando avevo
quattro anni, e in virtù di questa mia precoce capacità a
scuola avevo vinto un primo premio: un biglietto per il
derby Roma-Lazio. Andai alla partita accompagnato dalla
cameriera, e fu allora che nacque il mio totale disinteresse
per il gioco del pallone – eccezionale per un italiano – e in
genere per tutti i giochi di palle.
Il regime fascista non si era limitato ai salti nei
cerchi di fuoco e agli alalà cari a Starace, ma qualcosa
di buono aveva combinato nel corso del ventennio al
potere. Non contando la bonifica delle paludi Pontine e
la decantata puntualità dei treni, un’iniziativa degna di
rispetto fu quella delle colonie marine e montane per tutti
i bambini. Durante l’estate si andava ad Ostia, il lido di
Roma, per sguazzare nell’acqua del Tirreno sotto l’occhio
sollecito delle maestrine addette alla nostra sorveglianza.
A mezzogiorno si marciava in fila verso la mensa. Ai lati
della strada, scarabei dorati spingevano boli di sterco
nella sabbia. Poi sedevamo ad enormi tavole sotto capanni
di frasche, e ci veniva servita pastasciutta, frittata, e per
dessert una piccola mattonella di una marmellata dura di
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cotogne. Alla colonia montana di San Martino al Cimino,
nell’Appennino laziale, dal terreno vulcanico scaturivano
sbuffi di vapori sulfurei. I cappellani ci raccontavano “il
diavolo vive là sotto, e se voi non state buoni, di notte
vi porterà via con lui.” Ammonizione che serviva ad
ammansirci solo per breve tempo.
Il regime era agli sgoccioli. Lo sbarco delle truppe
alleate in Sicilia era stato accompagnato da bombardamenti,
prima che Roma fosse dichiarata “città aperta”. Il 19 luglio
del ’43 il bombardamento del quartiere San Lorenzo aveva
danneggiato parte del Policlinico Umberto I, dove mia
madre lavorava nel laboratorio di analisi del prof. Frugoni,
un luminare della medicina del tempo. Dal bombardamento
mia madre era uscita incolume. Quando suonava la sirena
dell’allarme aereo, la mia famiglia scendeva in cantina con
gli altri inquilini. Mio padre portava un bidoncino pieno
d’acqua e una corta pala, da usare se le bombe ci avessero
bloccato sotto le macerie. Visto che l’acqua del bidoncino
non si poteva bere se non in caso di estrema emergenza,
dopo il primo allarme io mi ero organizzato con una
bottiglia d’acqua e un cucchiaio, da usare come pala.
Il 25 luglio del ’43 Mussolini era stato deposto dal
Gran Consiglio del fascismo. Durante quell’estate i miei
genitori decisero di spedirmi a Vedelago, in provincia di
Treviso, il paese della famiglia di Oliva. Una famiglia di
agricoltori, numerosa come era richiesto dalla tradizione
paesana e dal regime che scornava i celibi e premiava le
famiglie con otto o dieci figli. Mussolini esigeva otto milioni
di baionette per conquistare “il posto al sole”! Di quella
estate ricordo la grande aia in cui razzolavano galline e
troneggiava la vasca del letame. In quella vasca io ci finii
dentro, ripescato dai giovani contadini che smascellandosi
di risate mi annaffiarono con una pompa prima di ficcarmi
in una vasca da bagno. L’esperienza più esilarante fu
quella della vendemmia e della pigiatura dell’uva, cui fui
invitato a partecipare. Gli uomini, rimboccati i pantaloni, e
le donne, raccolte le gonne alla cintura, dopo le abluzioni
salivano dentro ad un enorme tino in cui venivano scaricati
i cesti pieni d’uva, e zampettando sui grappoli cantavano
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in dialetto veneto, mentre il mosto che sgorgava dal fondo
del tino era raccolto in damigiane. Poi i residui dei grappoli
erano conservati per fermentarli e distillarne grappa.
8 settembre del ’43, ribaltone. I tedeschi non sono
più i nostri alleati, Mussolini è arrestato e spedito al Gran
Sasso della Maiella sotto il controllo di pochi carabinieri. I
fascisti sono presi di mira dalla popolazione che nel giro
di poche ore da osannante il duce passa all’antifascismo
sfegatato. Mio padre stava viaggiando in treno, di ritorno
a Roma, in uniforme da centurione della milizia. Un altro
viaggiatore, un suo collega, impietosito gli dice “prenda
la mia giacca, dottore.” Così conciato, in giacca borghese,
pantaloni grigioverdi con la banda nera e stivali, mio
padre arriva a casa e decide di spedire me e mia sorella a
Bellagio, il buen retiro della famiglia dove vivono i nonni
materni. I nostri genitori restano a Roma. Nel frattempo un
ufficiale delle Waffen-SS, Otto Skorzeny, inviato da Hitler
in missione speciale, atterra audacemente al Gran Sasso su
un fazzoletto di terra con un aeroplanino, libera Mussolini
senza colpo ferire, e vola con lui a Monaco di Baviera. A
Monaco Hitler convince, in sostanza costringe, il duce
ormai invecchiato e stanco a formare un nuovo governo
fascista in alta Italia, la cosiddetta Repubblica di Salò.
Skorzeny era un avventuriero, un Übermensch sempre
pronto ai cimenti. Da giovane duellava alla sciabola con altri
studenti, come si usava nelle università della Germania, e
portava con orgoglio il marchio della Mensur, una cicatrice
che gli sfregiava la guancia sinistra. Nel dopoguerra visse
in Spagna, protetto da Franco, accumulando una fortuna in
pesos all’ombra del Caudillo. Un lieto fine.
Fedele al regime fascista ormai sfasciato, mio padre
trasferì tutta la famiglia a Como, dove per via della sua
esperienza di merceologo Mussolini lo mise a capo della
SVE, lo Stabilimento Vestiario ed Equipaggiamento per la
Guardia Nazionale Repubblicana (GNR), il piccolo esercito
del duce sorretto e finanziato dalla potente Wehrmacht
e dalle SS. Andammo a vivere in un appartamento di un
caseggiato sotto le pendici della collina Baradello. Un vasto
prato separava il palazzo da una caserma del Fascio adibita
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principalmente ad uffici. Noi ragazzini vi andavamo a
giocare. In quel periodo mia madre aveva cucito per me un
cappotto guarnito di alamari, di foggia vagamente medioorientale. Avrei fatto bella figura come comparsa in una
produzione del Ratto dal Serraglio di Mozart, invece fui
subito oggetto di risa e beffe dei miei compagni che presero
a chiamarmi “Maometto”.
La vita per me scorreva tranquillamente, anche
se i venti della guerra soffiavano sempre più violenti.
Ricordo che i miei genitori mi portarono ad un concerto
di Arturo Benedetti Michelangeli, allora giovane prodigio. Impressionato dalla musica, chiesi di imparare
uno strumento. Mi fu consentito il violino, attività che
perseguii fino a che le vicende del dopoguerra me lo
impedirono. Andavo a lezione di violino da un maestro
con lo studio vicino al lago, e per tornare a casa dalla
parte opposta della città – scapestrato – mi attaccavo ai
respingenti del tram, mollandoli solo quando il bigliettaio
mi urlava improperi. Quando non andavo a scuola o a
giocare con i ragazzini della mia età, passavo il tempo a
leggere di tutto. Allora un settimanale per ragazzi molto
diffuso era “Il Balilla”, in concorrenza al Corriere dei
Piccoli. Le storie a fumetti del Balilla non mancavano di
fare propaganda contro il nemico, in particolare la “perfida
Albione”, con versi come “Re Giorgetto d’Inghilterra – per
paura della guerra – chiede aiuto e protezione – al ministro
Ciurcillone…”, e caricature di un Giorgio VI striminzito
e un Churchill panciuto come John Bull e col sigaro tra i
denti. Sotto casa spesso passavano squadre di militari
della GNR, cantando a ritmo di marcia strane canzoni che
mescolavano imprecazioni in diverse lingue, come:
Caramba, caracho, kai whisky
caramba, caracho, kai gin
verflucht, sacramento, Dolores,
auf Wiedersehen, Marie.
Nel nostro palazzo vivevano numerose famiglie.
Alcune ragazze erano diventate amiche di mia madre e
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spesso venivano per casa a chiacchierare. Una sera mia
madre, avendo notato luci uscire dalle cantine e pensando
ci fossero dei ladri, avvertì mio padre e un suo amico. Scesi
ad indagare, nelle cantine le luci erano tutte spente e non
c’era anima viva. Mia madre quella sera aveva notato un
andirivieni delle ragazze sue conoscenti, ma non vi aveva
fatto molto caso. Scoprimmo in seguito, dopo la Liberazione,
che le ragazze erano staffette dei partigiani, piazzate a bella
posta per spiare nel palazzo dei fascisti. Mancavano pochi
giorni alla fine della guerra, e nelle cantine c’era stata una
riunione di partigiani, prontamente dissolta su avviso delle
ragazze che ci tenevano d’occhio continuamente.
Verso la fine di marzo mio padre aveva incontrato
Mussolini a Salò per discutere i finanziamenti della
SVE. Mio padre fece presente che i fondi erano in via di
esaurimento e la situazione stava precipitando. Il duce,
avvilito, gli confidò “Lo so, Torrazzi. Ma sono circondato
da traditori, soltanto da traditori.” La mattina del 25 aprile
1945, un mercoledì, mi svegliai per prepararmi ad andare
a scuola, come ogni giorno feriale. Ma mia madre mi disse
“Oggi resta a casa”, ordine da me molto gradito. Mio padre
era già uscito. Dalla finestra notai nella strada un insolito
trambusto. Strane figure erano apparse, in pantaloni corti,
fazzoletto rosso al collo, capelli e barbe incolti, e bandoliere
di munizioni a tracolla. I partigiani erano scesi dalle
montagne.
Mio padre, avvertito il giorno prima dal Comitato
di Liberazione, era andato a trattare con altri fascisti la
resa dei militari della GNR. A lui fu chiesto di restare alla
direzione dello stabilimento fino a che il caos dei primi
giorni non si fosse placato, ad evitare che costosi macchinari
e suppellettili fossero saccheggiati.
Sgattaiolando all’insaputa di mia madre fuori di
casa, trovai che il prato era costellato di armi e munizioni
abbandonate dai fascisti in fuga: mitra, moschetti, pistole,
pallottole, bombe a mano... Alcuni dei ragazzi più vecchi
avevano subito arraffato pallottole per estrarre dal bossolo
la balistite e improvvisare fuochi d’artificio. Un gioco
rischioso. Dal lato opposto del prato, dalle finestre della
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caserma con gli uffici della milizia piovevano carte, mobili,
classificatori, in un’orgia di distruzione che affascinava noi
ragazzi. Al calare della sera, centinaia di bengala erano
lanciati nel cielo a celebrazione della fine della guerra.
Una luminaria che durò fino alle prime ore del mattino per
almeno due settimane.
Abitavamo in un appartamento al secondo
piano del caseggiato. Il giorno dopo il 25 aprile suona il
campanello. Mia madre apre la porta e vede due partigiani
sdraiati sulle scale di marmo con i mitra puntati, e un terzo
che le chiede: “Dov’è suo marito?”. “A lavorare alla SVE”,
rispose lei. “Ci faccia entrare, signora” (allora i rapporti di
cortesia erano ancora in uso, anche se sotto la minaccia dei
mitra), “dobbiamo perquisire la casa per vedere se avete
armi.” “Accomodatevi”, disse mia madre. I partigiani non
trovarono vere armi, ma solo un paio di pugnali damascati
per divisa da parata, di cui si appropriarono allegramente.
Poco pacifica e molto cruenta fu invece la vicenda
degli inquilini del piano superiore al nostro. In quei giorni
caotici vendette personali e ruberie erano perpetrate
impunemente. Nell’appartamento sopra al nostro viveva
una famiglia originaria della Sardegna. Il capofamiglia era
il colonnello Mereu, un ufficiale della milizia impiegato
negli uffici di fronte alla nostra casa. Un brav’uomo di
mezza età senza nessuna velleità bellica. Un innocuo
burocrate, insomma, che non avrebbe dovuto dare fastidio
a nessuno. Lo stesso Comitato di Liberazione lo aveva
scagionato di ogni crimine. Una mattina dei primi giorni
del dopoguerra Mereu era sceso insieme alla moglie e
ad una bambina a prendere una boccata d’aria nel prato
adiacente al palazzo. Indossava ancora la giacca del
pigiama. Mia madre, sempre al balcone col timore che
qualcosa di orribile succedesse, notò l’arrivo di una Lancia
col cofano drappeggiato di bandiera rossa con falce e
martello. Ne scesero alcuni uomini armati che salirono a
bussare alla porta di Mereu. Aprì una delle giovani figlie.
“Dov’è suo padre?”. La ragazza, terrorizzata, scese con loro
per accompagnarli dal padre. A Mereu i sedicenti partigiani ingiunsero “Vada in casa, si rivesta e prenda con sé tutto
29
il denaro che ha e anche dei viveri, perché dovrà star via
parecchi giorni per accertamenti.” Mereu obbedì, non era
il caso di discutere. La famiglia lo vide per l’ultima volta.
Alcuni giorni dopo udimmo un urlo straziante. Alla moglie
era stato rivelato che il cadavere del marito, spogliato dei
suoi averi e denudato, era stato rinvenuto in un campo alla
periferia della città.
Dal balcone assistevamo al passaggio di colonne
di tedeschi sconfitti e disarmati, fiancheggiati da partigiani
armati fino ai denti, in marcia verso il Brennero per essere
rimpatriati. Anche per loro la guerra era finita, e molto
probabilmente ne erano contenti. In quei giorni anche il
Ben e la Clara, come li chiamava affettuosamente lo zio
Ezra, avevano cercato di espatriare camuffati da soldati
della Wehrmacht, ma Walter Audisio, il “colonnello
Valerio”, li aveva scovati e prontamente giustiziati contro
un muro di Dongo. Una giustizia coronata dal ludibrio di
piazzale Loreto. Sic transit gloria mundi.
In città passavano i funerali dei caduti partigiani,
in un tripudio di bandiere rosse. Al passaggio del feretro
era d’obbligo salutare a braccio teso e pugno chiuso. Io,
ragazzetto abituato al saluto romano, ero portato a fare
proprio quello. Oliva, la cameriera che mi accompagnava,
mi sbatteva giù il braccio, sibilando “Saluta col pugno
chiuso, stupido!” La ragazza temeva che, a servizio in
casa di fascisti, le toccasse la stessa sorte delle ausiliarie
della GNR, che rapate a zero erano esposte ai lazzi della
marmaglia. Una rappresaglia umiliante ma non sanguinosa.
In seguito si potevano notare in giro per le strade numerosi
turbanti. Una moda dettata dalle circostanze.
In quei primi giorni un’altra sorpresa aspettava mia
madre. Un mattino si presenta alla porta dell’appartamento
un omaccione alto almeno due metri, scuro di capelli e
di pelle. Salutando col pugno chiuso, le dichiara: “Sono
Vernazza, sono venuto a prelevare i suoi figli.” “Perché
vuole portar via i miei bambini?”, chiese mia madre,
sentendosi morire ma cercando di restar calma. “Perché li
voglio mettere in salvo. In questo momento voi siete tutti
in pericolo, ma i bambini devono essere protetti. Io sono
30
comunista, con me saranno al sicuro.”
Vernazza era un operaio dello stabilimento di mio
padre che era stato licenziato perché si era sempre rifiutato
di richiedere la tessera del partito fascista, obbligatoria per
conservare l’impiego. Viveva nella zona di Pontechiasso, a
due passi dal confine con la Svizzera, e per sopravvivere si
era messo a fare il contrabbando di sigarette. Attraverso i
sentieri battuti dai contrabbandieri gli sarebbe stato facile
mettere in salvo al di là del confine tutta la mia famiglia.
A mia madre spiegò: “Sono un comunista, ma quando
lavoravo allo stabilimento suo marito è stato l’unico che mi
ha sempre lasciato libero di parlare e di esprimere le mie
idee in piena assemblea degli operai e delle maestranze;
quindi io so che suo marito è un fascista onesto, e per questo
voglio salvare i suoi figli.” Mia madre subito telefonò a mio
padre, che la rassicurò: “Vernazza è una persona perbene,
un idealista in politica. Non ne devi aver paura. Digli che
i bambini li porteremo noi da lui.” E così una domenica
andammo a mangiare la polenta a casa del compagno
Vernazza, dove mio padre lo convinse a lasciarci in Italia.
Dopo le prime settimane di turbolenza la situazione
poco a poco andava normalizzandosi. Il Comitato di
Liberazione non poteva tollerare che un fascista restasse
alla direzione della SVE e aveva trovato chi poteva sostituire
mio padre. Insieme ai suoi collaboratori Fausto fu messo
in un campo di concentramento controllato dai partigiani,
nelle vicinanze di Como. Ogni giorno le mogli dei fascisti
andavano in bicicletta a portare da mangiare ai detenuti. In
un pomeriggio di giugno afoso, sotto un solleone infuocato,
le donne dovettero nascondersi nei campi per mettersi in
salvo, inseguite da una torma urlante “Sono le mogli dei
fascisti, non fatevele scappare!”
Dopo qualche giorno mio padre avvertì mia madre:
“Ci stanno facendo fuori poco a poco. Ogni notte prelevano
uno o due di noi, e al mattino non se ne sa più nulla. Cerca
di avvisare il vescovo o il comando americano.” Una delle
mogli dei fascisti aveva vissuto per molti anni in paesi di
lingua inglese e si precipitò ad avvertire gli americani, che
immediatamente caricarono i prigionieri sui camion e li
31
sottrassero ad ulteriori rappresaglie. Per un certo periodo
di tempo mia madre non seppe dove mio padre fosse
finito. Poi un prete antifascista, che durante il regime si
era dato alla macchia ma alla fine della guerra era tornato
a prendersi cura della sua parrocchia, impietosito dalla
tragedia comune a colpevoli e innocenti riuscì a farle sapere
che il marito era stato internato a Coltano, nella Maremma
toscana.
Nell’autunno mio padre, epurato e liberato, tornò
a Como. Aveva perduto molto peso, era magrissimo. “Gli
americani ci davano un mucchio di sapone e di dentifricio,
ma poco da mangiare”, ci raccontò. Nello stesso campo
di concentramento di Coltano, separati da un reticolato,
aveva incontrato un suo fratello, ufficiale d’aviazione, che
non vedeva da anni.
g
Durante quell’estate del ’45 noi bambini eravamo
stati mandati a Bellagio dai nonni, a poca distanza da
Como. Mia madre era rimasta in città, dove s’industriava
a far di tutto, dalle lezioni private ai lavori di cucito, per
guadagnare qualche soldo nell’attesa che il marito tornasse
dalla prigionia. Suo fratello, cui mia madre era molto
affezionata, era un veterinario aggregato alla Divisione
Alpina Tridentina. Spedito da Mussolini in Russia in
appoggio all’offensiva tedesca, era stato dato per disperso.
Solo al ritorno dei reduci dalla ritirata del Don venimmo a
sapere che era morto di stenti in prigionia. Un cappellano
degli alpini, don Gnocchi, che lo aveva assistito, ci disse
“Sarebbe bastata un’arancia o un uovo per salvargli la vita.”
Ma non c’erano abbastanza viveri per la stessa Armata
Rossa.
I piani superiori della nostra casa di Bellagio, erano
stati requisiti dagli americani che vi avevano sistemato
le truppe a rilassarsi in attesa di essere rimpatriate. Dai
balconi i soldati lanciavano a noi ragazzini sulla terrazza
del nostro appartamento sottostante caramelle “Lifesaver”
a forma di salvagente, piccole barre di biscotto al cioccolato
“Clark”, e naturalmente “Chiclets”, le pastiglie di gomma
32
da masticare. Un bendidio inusitato e molto gradito da
noi piccoli, e con l’aggiunta di sigarette Camel anche da
alcune ragazze del paese. Nelle acque del lago spesso si
vedevano galleggiare dei sacchettini di gomma biancastri
e flaccidi, che noi pescavamo per soffiarvi dentro e farne
dei palloncini.
Gli americani avevano sistemato le loro cucine da
campo operanti a petrolio alla “Punta”, il punto estremo
del promontorio bellagino che marca la separazione tra i
tre rami del Lario, quello di Como, di Lecco e di Colico.
Il petrolio dei pozzi texani ha un odore speciale per un
suo tenore elevato di composti aromatici. Lo stesso odore
esalato dalle cucine dei soldati mi colpì molti anni dopo al
mio arrivo negli Stati Uniti, riportando la mia memoria a
quei tempi lontani.
Sulla piazza antistante il lago, i giovani soldati,
felici di essere scampati alla carneficina, passavano il
tempo tirandosi l’un l’altro palle da baseball e cogliendole
dentro ad enormi guantoni. La sera, dopo aver piazzato
uno schermo tra due pali piantati nell’acqua vicino alla
riva, proiettavano i film girati da fotografi militari in
zone d’operazione. Nessuno poteva immaginare l’orrore
dei bulldozer che spingevano pile di cadaveri scheletriti
dentro a fosse comuni, o i visi senza speranza dei macilenti
sopravvissuti ai campi di sterminio nazista. Un commento
comune era: “Tutta propaganda dei vincitori.” Prima che
la realtà affondasse nelle coscienze passarono diversi anni,
e ancora adesso qualcuno osa disputare la veridicità dei
fatti. Gli stessi dubbiosi non si peritano di accettare come
oro colato “I Protocolli dei Savi di Sion”.
g
La casa di Bellagio era un antico edificio di fronte
al lago la cui costruzione iniziale risaliva al Seicento.
Sembra che inizialmente fosse un convento di monache,
in seguito acquistato da una famiglia locale di cui io sono
un discendente, e restaurato per convertirlo in abitazione.
Un enorme portone di legno munito di sbarre e lucchetti
33
si apriva su un androne tetro dai muri a calcina che
trasudavano efflorescenze per la costante umidità del lago.
Al fondo dell’androne, un cubicolo a pianterreno con una
tazza del gabinetto e un minuscolo lavandino forniva gli
unici servizi igienici a nostra disposizione, fatta eccezione
per una vasca da bagno di metallo situata in una stanza del
primo piano e un lavandino nella camera da letto dei nonni.
Dal pianterreno si saliva al primo piano attraverso una
scala attraversata di giorno più da penombra che da luce, e
illuminata di notte da una singola lampadina da pochi watt.
In cima alla scala, su un muro era affissa un’immagine del
Sacro Cuore di Gesù, stillante sangue e avvolto da fiamme.
Una visione che da bambino invece di riempirmi d’amor
sacro m’impauriva. Ero convinto che a causa dei peccati
che non avevo ancora scaricato in confessionale, il diavolo
si nascondesse dietro ad una porta, pronto a ghermirmi
appena gli fossi passato davanti. Mi chiedo oggi quali
peccati potessi aver commesso, dato che urgenze sessuali,
base dei peccati più nefasti, non erano ancora parte del mio
quotidiano.
Questi miei terrori infantili erano potenziati dalla
lettura di storie anti-massoneria pubblicate espressamente
per i bambini. Un libro, “Piccoli Martiri”, autore un certo
don Pilla, narrava storie raccapriccianti di giovinetti
assoldati da una malefica loggia per impossessarsi di un
ostia consacrata fingendo di essere comunicandi. Una
volta in possesso della santa particola, il satanico Gran
Maestro l’avrebbe trafitta su un altare, facendone scaturire
– miracolo! – sangue.
Mia nonna mi procurava queste letture edificanti
e mi avrebbe quasi convinto a fare il chierichetto se,
scapestrato fin dalla più tenera età, nei miei studi liturgici
non mi fossi arrestato come un asino cocciuto ai primi due
versetti del messale: “Introibo ad altarem Dei – ad Deum qui
laetificat iuventutem meam”. Mia nonna univa alla devozione
per i santi una buona dose di superstizione. Quando saliva
le buie scale dell’ingresso, per ogni tre gradini superati
indietreggiava di uno, borbottando inintelligibili scongiuri.
A volte la sentivo recitare giaculatorie: “Buon Gesù tu sai,
34
buon Gesù tu puoi, buon Gesù tu vuoi, buon Gesù tu
vedi, buon Gesù tu credi, buon Gesù provvedi.” Oppure
“O Gesù d’amore acceso, non v’avessi mai offeso – o mio
caro e buon Gesù, con la vostra santa grazia – non vi voglio
offender più”, dando del voi a Gesù come si soleva in
regime fascista.
Di un peccato capitale mia nonna continuava a
pentirsi, ma recidiva, continuava a commetterlo: la gola.
Conservava sotto chiave tavolette di cioccolata e scatole
di cioccolatini, marron glacé, caramelle avvolte in carta
variopinta, biscotti di tutti i tipi. E di rado dava a noi
bambini qualche assaggio, con la scusa che ci avrebbe
sciupato l’appetito. Come riuscisse a procurarsi le
leccornie anche in tempo di guerra, quando anche il pane
era tesserato, rimane un mistero. Forse aveva degli agganci
con i contrabbandieri che dalla Svizzera portavano in Italia
generi di lusso per chi li poteva comprare alla borsa nera.
g
Nei primi mesi del dopoguerra mia madre faceva
la spola tra Como, dove poteva guadagnare qualcosa, e
Bellagio, dove stavano i genitori e i suoi figli. Erano tempi
di carestia, e senza il Piano Marshall avremmo patito molta
fame per lungo tempo. Gli americani distribuivano scatole
di latte evaporato e scatoloni di una farina di piselli secchi
dal sapore abbastanza disgustoso ma ricca di nutrimento.
Abituati durante gli ultimi mesi di guerra a mangiare riso
bollito per farne uscire i piccoli bachi che lo infestavano e
insalate di cicoria raccolta nei prati e condita col limone
– senza sale perché le saline verso la fine della guerra
non erano raggiungibili - anche la farina di piselli era
benvenuta. Era certo più appetitosa della Vegetina, un
intruglio di vegetali seccati inventato dagli alimentaristi
del regime fascista, di scarso valore nutritivo e di gusto
raccapricciante. Ma ci si poteva lamentare in tempi di
autarchia bellica? Saremmo stati tacciati di disfattismo!
Ogni tanto mia madre riusciva a portarci un pezzo
di lardo o di formaggio che in qualche modo era riuscita
35
a procurarsi. I trasporti nella zona non erano ancora stati
riorganizzati. La Lariana, l’azienda che operava i trasporti
sul lago, non funzionava. Molti battelli che in tempo di
pace solcavano il lago non avevano carbone per le caldaie
o avevano bisogno di riparazioni.
Per spostarsi da un paese all’altro la gente si
arrangiava chiedendo passaggi ai camion e alle jeep dei
militari alleati, che non si facevano pregare soprattutto se
chi chiedeva il passaggio era una donna giovane. Una volta
mia madre e sua sorella facevano l’autostop e una jeep con
due militari neozelandesi si arrestò per caricarle. Le donne
subito si resero conto delle intenzioni dei due uomini, che
fissandole con occhi rapaci ripetevano: “Belle segnorine,
venire con noi, mangiare bono.” Appena se ne presentò
l’occasione chiesero di fermarsi a un bar di un paese sulla
strada, con la scusa di andare al gabinetto. Con l’aiuto del
barista, cui avevano in dialetto fatto capire cosa stava per
succedere, le due donne riuscirono a sgattaiolare da una
porta secondaria e a rifugiarsi ai piani superiori della casa.
Dalle finestre dell’appartamento scorsero i due soldati che,
dopo aver aspettato per qualche tempo, alla fine, scornati,
decisero di andarsene. A Bellagio le due donne arrivarono
solo a sera, grazie a un camionista del luogo.
g
Al ritorno di mio padre dal campo di
concentramento, noi bambini tornammo a vivere con i
nostri genitori a Como. La scarsità di alloggi – molte case
erano state distrutte dai bombardamenti – ci forzò alla
coabitazione con un’altra famiglia per alcuni mesi. Ricordo
che Babbo Natale quel dicembre mi portò come dono un
vocabolario di latino usato e una tavoletta di cioccolata
americana.
Mio padre aveva ripreso i contatti con alcuni dei
suoi collaboratori, e dopo poco tempo ci trasferimmo
a Rivoli Torinese, una cittadina a pochi chilometri da
Torino abbarbicata sulle pendici di una collina, con le
36
strade in salita pavimentate a grossi ciottoli. Un impiegato
della defunta SVE, di famiglia abbiente, avrebbe fornito
i finanziamenti per iniziare la gestione di una piccola
fabbrica per la produzione di prodotti dietetici. Fu fondata una società, la Salbetor, dal nome dei soci, Salvetti,
l’amministratore, Bernari, il finanziatore, e Torrazzi, il
responsabile della parte tecnica e della formulazione dei
nuovi prodotti. La fabbrica era stata installata in un vecchio
edificio, rimodernato all’interno per ospitare i macchinari:
mescolatori, frantoi, bilance, presse per pastiglie. Mia
madre era stata arruolata per prendersi cura delle analisi di
qualità. Ricordo una vasca da bagno piena di maleodoranti
gusci d’uova raccolti dai contadini e nei ristoranti della
zona. Opportunamente lisciviati, risciacquati, seccati e
polverizzati, i gusci servivano a produrre grissini con
l’aggiunta di calcio. Un altro prodotto era un amaro tonico,
ottimo, a dire della sua pubblicità, per la digestione.
A Rivoli andammo a vivere al primo piano di
una villetta settecentesca a metà strada tra il fondo e la
cima di una collina digradante verso il corso della Dora
Riparia. Il secondo piano era occupato da un’altra famiglia.
Mio padre era riuscito a recuperare parte del mobilio
lasciato a Roma nel ’43 e a trasportarlo nella nuova casa.
Il resto della roba di Roma era stato trafugato da chi si era
installato nell’appartamento di via Ufente. Eravamo molto
poveri, in quei primi mesi di dopoguerra. Mio padre, per
risparmiare, era riuscito a connettere i fili dell’elettricità in
maniera da non far girare il contatore quando accendevamo
delle stufette elettriche per riscaldarci. Non potevamo
permetterci cure mediche se non in caso estremo. Un mio
ascesso su una gamba, di cui porto ancora la cicatrice, era
sparito dopo che mia madre, incurante delle mie proteste,
ne aveva strizzato fuori il pus, disinfettandolo poi con
acqua ossigenata e tintura di iodio.
Le donne di casa scendevano al pianterreno per
cucinare a legna in un antico caminetto incassato nel muro
di un fondaco annerito da secoli di fumo. Da questa cucina
si poteva uscire nel giardino della villa, forse in passato
una casa di villeggiatura di qualche signorotto. Il giardino
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era in parte coltivato da noi ad orto: pomodori, piselli,
lattuga. Ma l’aspetto signorile del minuscolo parco, con
una gran vasca centrale in cui nuotavano pesci rossi, era
stato mantenuto da noi inquilini. Ai bordi del muro di cinta
mi rifugiavo in un boschetto di noccioli a leggere i libri dei
miei genitori: “Pian della Tortilla” di Steinbeck, “Il Placido
Don” di Sholokhov, “La Storia di San Michele” di Axel
Munthe. Dai balconi della casa la vista spaziava su una
fuga di prati, siepi e filari d’alberi, per perdersi nella striscia
d’argento del fiume, la Dora. Quella visione mi tornò alla
mente anni dopo, leggendo “Il Barone Rampante”.
In quell’anno a Rivoli mi iscrissi ai Boy Scouts.
Delle due fazioni esistenti in Italia, quella cattolica e quella
laica, scelsi la seconda, perché di messe, vespri e processioni
ero già stato rimpinzato a Bellagio. Però il mio interesse per
imparare ad annodare stringhe in cento modi e ad accender
fuochi sotto la pioggia si dileguò in pochi mesi. Alle riunioni
non mi feci più vivo. Uno scapestrato come me non poteva
tollerare nessuna forma di irregimentazione. L’esperienza
mi convinse a non iscrivermi mai più ad associazioni di
qualsiasi tipo, in particolare, a partiti politici. Anni dopo
mi capitò di leggere una definizione dei Boy Scouts: “Una
banda di ragazzini vestiti da cretini, con in testa un cretino
vestito da ragazzino.” Non so se lo abbia detto George
Bernard Shaw, Tom Antongini – l’arguto segretario di
D’Annunzio – o Pitigrilli.
La Salbetor, l’impresa di mio padre e dei suoi soci,
avrebbe dato ottimi frutti nell’Italia della ricostruzione,
in via di gran sviluppo dopo il passaggio del paese
dall’economia basata sull’agricoltura all’industria. Ma mio
padre soleva dire: “Sono a favore della dittatura purchè sia
io il dittatore.” In sostanza, il disaccordo tra i soci, favorito
dalla mentalità di mio padre, ebbe come conseguenza
la dissoluzione della ditta. Mio padre si dedicò ad altre
attività, e non avendo più nulla da fare in Piemonte, la
famiglia ancora una volta si trasferì a Bellagio.
g
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BELLAGIO
Pipe fatte in casa e attacchi di diarrea – I fantasmi del cimitero
– Piaceri e crudeltà – Mark Twain a Bellagio – Lo zio Pasquale –
Il nuovo pisciatoio – Soprannomi – Il tuffo dal battipalo – Il maestro
Bobby O’Silber – Rizzino in barca – Marilù, contessa DeViel
“Maledetto san Guelfo e tutta la sua progenie
schifosa!”, gridava mio nonno Turi quando si arrabbiava
con me, forgiando una variopinta bestemmia a mio uso
personale. Colonnello della Finanza in pensione da molti
anni, pur avendo vissuto al nord dell’Italia la maggior parte
della sua vita non aveva scordato le sue origini di siciliano
focoso, e ogni tanto i vicini potevano godere delle tenzoni
familiari, quando contrariato dalla moglie o dalla figlia il
nonno sbottava in pittoresche imprecazioni: “ ‘A fissa!”,
gridava il nonno, un richiamo alle pudende femminili
scarsamente comprensibile a chi non conoscesse il dialetto
siciliano. Oppure: “Sangue d’a maronna!”. A queste sue
sfuriate le donne alternavano gridolini, svenimenti, e
giaculatorie a contrappasso di ogni bestemmia, fino a che
la calma non tornava. Ma la maggior parte del tempo il
nonno era un simpatico vecchio che passava ore pescando
pesciolini dalla riva del lago, le “arborelle” che integravano
il magro vitto impostoci dal tesseramento; e brontolava
tra i denti contro i ragazzini che lo disturbavano “Bastasi!
Figgh’jarrusa!”, imputando alle loro madri una propensità
al meretricio.
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Per passare il tempo quando non andava a pescare
il nonno faceva piccoli lavori di falegnameria, sedie
pieghevoli su cui sedersi con la canna da pesca in mano, o
tavolini per pranzare al fresco sulla terrazza di casa in vista
del lago. Ma soprattutto scavava pipe da rami di ciliegio e
le decorava di intagli. Fumava di continuo, un vizio che gli
costò morte prematura, e raccoglieva amorosamente ogni
cicca che poteva trovare per ficcarla nelle sue pipe fatte in
casa.
Andavo con il nonno dai contadini a comprare
per pochi soldi frutta: mele, fichi o ciliegie, secondo la
stagione. Ne approfittavamo per rimpinzarci mentre la
raccoglievamo sugli alberi. Poi correvamo a casa, colti
entrambi da attacchi di diarrea, e chi arrivava primo
usufruiva dell’unico gabinetto disponibile, mentre l’altro
impazientemente batteva alla porta del cubicolo: “Fai
presto!”.
Una mia incombenza era quella di andare la sera
dai contadini nelle frazioni in collina del paese a prendere
il latte appena munto. Seduto nella stalla, li osservavo
mentre mungevano e alla fine mi veniva data da bere una
grossa tazza piena di schiuma tiepida. Il bidoncino del
latte, portato a casa senza inciampare – sarebbe stata una
tragedia - era conservato in una ghiacciaia in estate; allora
i frigoriferi non esistevano. D’inverno la ghiacciaia era
superflua, bastava mettere il latte al fresco sulla terrazza.
Nelle notti d’inverno, rigide al punto di coprirmi di
geloni i piedi, lungo la strada coperta di ghiaccio dovevo
passare vicino al cimitero, e se la tramontana soffiava tra
i pioppi intorno alle tombe ero convinto che fantasmi vi
si aggirassero per spaventarmi. (D’estate mi aspettavo di
scorgere fiammelle guizzanti a fior di terra, fuochi fatui
come le anime dei morti.)
Il gelo delle notti d’inverno a Bellagio è indimenticabile. Quanto il paese era incantevole d’estate,
tanto era freddo e inospitale d’inverno. I negozi e gli
alberghi erano aperti per i turisti solamente in estate. Solo
i pescatori di lucci e di anguille si avventuravano sul lago,
spesso in burrasca o sotto una coltre di nebbia. A volte il
40
brutto tempo bloccava all’ancoraggio anche i battelli che
trasportavano merci e passeggeri da una sponda all’altra
del lago. Il freddo e l’umidità permeavano la casa, dove
una sola stanza era riscaldata da una stufetta a legna. La
sera la nonna o la zia riempiva d’acqua bollente dei grossi
recipienti di latta zincata e li metteva sotto le coperte per
riscaldare il letto prima di ritirarsi per la nottata. Al mattino
ci si staccava a fatica dalle coltri per affrontare il gelo della
stanza. Per lavarsi si usava spartanamente l’acqua gelata,
o si riscaldavano sulla cucina economica a carbone grandi
bacili d’acqua.
g
Nella casa di Bellagio, dal pianerottolo con il
raccapricciante quadro del Sacro Cuore in fiamme si saliva
ad un secondo piano attraverso una scala stretta e ripida,
fiancheggiata da grandi fotografie di parenti morti giovani
ai primi del secolo. Erano i fratellastri di mia nonna, morti
in battaglia durante la Grande Guerra, o d’influenza
“spagnola”, o di setticemia a seguito di una banale
infezione - allora gli antibiotici non erano ancora stati
scoperti. Sul pianerottolo del secondo piano si aprivano tre
stanze. Due di esse, piene di luce, davano su una terrazza.
La terza dava su un vicolo ed era stata adibita a polveroso
ripostiglio di vecchi libri, riviste e cianfrusaglie, ritrovo
favorito di topi. In famiglia quella stanza, di solito chiusa a
chiave, era chiamata “la miniera”.
Se vincendo il timore di salire al secondo piano
sotto lo sguardo severo degli antenati schierati contro
il muro riuscivo ad entrare in miniera, vi trovavo tesori
inaspettati: una Divina Commedia illustrata dal Doré,
vecchi giocattoli, una collezione di fantastiche dispense
intitolata “Piaceri e Crudeltà umane - Dalla crocifissione
classica alla fustigazione parigina”; era un’enciclopedia
del sadomasochismo, ma scritta in uno stile bonario e
familiare, più consono all’Almanacco del Barbanera che alle
fantasie del Divino Marchese. Le dispense erano illustrate
41
efficacemente da Filiberto Scarpelli, un rinomato artista
dei primi decenni del XX secolo. Illustrazioni titillanti per
chi a quei tempi non aveva a disposizione ogni mese una
nuova copia di Playboy. Molti anni dopo, durante una mia
visita a Bellagio, ritrovai alcune delle dispense, rosicchiate
dai topi. Le conservo ancora. Eccone un saggio, tratto dal
capitolo “Crudeli stranezze religiose”:
“In quest’epoca che le genti di Talbot presero
incarico di rendere indimenticabili nello spirito dei paesani,
tredici villaggi pagavano le decime e le gabelle a coloro che
formano le vergogne dei paesi fra Nostra Signora di Clery
e Rondon.
Di questo tempo avvenne che fu portato piato
presso la signoria di Montbrisson, perché una ragazza,
la Coquerelle aveva commercio col demonio. Il signor di
Montbrisson rimase profondamente colpito.
La Coquerelle, che era una graziosa ragazza, non
dall’aria di strega, ma dal tipo piacente, grassottella e ben
formata, dal naso capriccioso, la bocca rotonda, il petto
sobbalzante, fu portata davanti al Tribunale in mezzo
a quattro arcieri di Meung, gentilmente prestati dalla
circostanza da Monsignore arcivescovo, il quale, pieno di
buona volontà aveva anche prestato il suo carnefice meno
cornuto, ma senza dubbio infinitamente più piccoso (il
testo ha cornard contrasto di cornu, bisticcio intraducibile)
del Diavolo.
Guillaume le Poulard depose d’aver visto Satana
nella persona della suddetta Anna Coquerelle di Meung,
e che tanto dibatteva la strega il malefico spirito ch’ella
si agitava e sbatteva come gli stendardi del Signore
d’Orléans.
Anna Coquerelle, la graziosa, tutta disperata per
la brutta, inattesa avventura, non sapeva che piangere,
sollevando il suo bel seno ricolmo, come un piccione in
primavera.
Sbrighiamoci, disse il Signore di Montbrisson, che
non aveva finito di mangiare.
Ordinando…la Corte dichiara…considerando…
42
Anna Coquerelle da Meung è condannata a subir le verghe
per grazia di Monsignore il vescovo e per cura del boia, a
solo fine di farle confessare il suo odioso commercio con
l’Anticristo.
Il boia prese la Coquerelle, che strillava come una
gallina, e cominciò a sollevarle i panni come si farebbe a
una ragazzina a scuola, per isculacciarla.
Le gote di… quell’altro viso della giovinetta
apparvero rosee come pomi da cogliere, e niente affatto
cotte e rosolate come il commercio avuto col diavolo
avrebbe potuto far supporre.
Vedi, - disse il Signore di Montbrisson a Guillaume
le Poulard (Guglielmo il Pollo) che l’aveva accusata; - ti
par’egli che questa ciccia sappia d’arrosto?
Eppure, signor giudice, l’assicuro che tutto ciò
sapeva d’inferno come ventimila diavoli.
Allora andarono avanti e il boia messa la ragazza
in posizione, cominciò a frustarla sulle parti posteriori, e
frustandola , frustò tanto la cicciuta fanciulla che essa,
dimenandosi e inarcando la schiena e urlando come
un’aquila spennata viva, en montrait plus qu’un baladin en
foire (lascio stare il testo nella sua integra curiosità).
Il diavolo maligno che senza dubbio era in lei ,
sotto quella scarica di vergate approfittò, trovandosi male
a suo agio, di un buon momento e si salvò sotto forma…(e
qui il lettore si aiuti da sé perché il testo mezzo Francese
e mezzo Provenzale si spiega anche troppo chiaramente)
sotto forma di un fiato che produsse il rumore di un pezzo
di olona lungo un braccio strappato in due!
Ecco, gridò Guglielmo il Pollo, mentre il boia dalla
sorpresa cascava a pancia all’aria, ecco Astharoth, Belzebù,
Asmodeo, insomma, chi c’era dentro!”
g
Il collezionista delle immorali dispense era senza
dubbio un mio prozio. Pasquale era l’unico sopravvissuto
dei numerosi figli di secondo letto di Eugenia, la mia
43
bisnonna materna. Vedova in giovanissima età del primo
marito, e con due figli bambini, uno di loro mia nonna,
Eugenia si era risposata con un “napulitàn”. Francesco, anzi
Ciccillo, come lo chiamavano in famiglia, era un giovane
commerciante in coralli, madreperla, pettini di tartaruga
e cammei di avorio e giada; i prodotti di ditte napoletane
che trovavano posto nelle vetrine dei negozi per turisti di
Bellagio, uno dei quali era di proprietà della mia bisnonna.
Dopo il matrimonio Ciccillo aveva smesso di viaggiare e si
era stabilito a Bellagio per gestire il negozio della moglie.
Con la sua collaborazione Eugenia aveva messo al mondo
altri cinque figli, di cui quattro maschi, tre di loro morti
anzitempo per varie cause; erano i fratellastri di mia nonna
Venanzia, figlia di primo letto. I loro austeri e vagamente
lugubri ritratti fiancheggiavano la scala che saliva al
secondo piano della casa. Pasquale, il sopravvissuto, era il
più anziano dei cinque fratelli.
Ciccillo era un uomo di bell’aspetto, modo di
fare soave, conversazione interessante, molto curato nella
persona e sempre elegantissimo – passava ore a far toeletta
e si cambiava per andare a pranzo e a cena. Un ganimede
che aveva conquistato facilmente il cuore della giovane
vedova. Aveva una sola debolezza: gli piacevano le donne;
una pecca comune alla maggior parte degli uomini, repressa
da lui a fatica e mal tollerata dalla moglie. Uno “sfizio” che
gli era rimasto anche in età avanzata. Raccontano che una
giovane signora francese, una cocotte di passaggio, sostava
spesso davanti al negozio di Ciccillo; in vetrina c’era un
pettine di tartaruga che le piaceva molto, ma forse non
poteva permettersi di acquistare. Al vecchio Ciccillo invece
piaceva molto la signora. Finì che i due si accordarono per
uno scambio di cortesie: lui le avrebbe regalato il pettine
e lei gli avrebbe ceduto le sue grazie. Il convegno che ne
seguì fu di gran soddisfazione sia per il vecchio che per la
signora, avendo entrambi ottenuto quello a cui miravano.
Ma quando la cocotte rientrò in albergo per gingillarsi
davanti ad uno specchio con il pettine tra i capelli, qualcuno
le fece notare che il pettine non era quello della vetrina ma
uno di falsa tartaruga. Delusa e furiosa, la donna corse dal
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vecchio per gridargli: “Monsieur, vous m’avez foutue deux
fois!”.
g
Per il suo clima mediterraneo addolcito dal lago
e la bellezza dei dintorni, in un remoto passato Bellagio
aveva ospitato ville di patrizi romani, uno di loro Plinio
il Giovane. Nel corso dei secoli il paese era restato una
destinazione prediletta da villeggianti e visitatori. Tra loro,
anche Franz Liszt. Il musicista vi aveva soggiornato insieme
all’amante Marie de Flavigny, contessa d’Agoult, che aveva
mollato marito e figlia per seguire Franz, più giovane di
lei di sei anni. Mark Twain, di passaggio a Bellagio, ne ha
lasciato una descrizione non molto lusinghiera in un suo
diario di viaggio, “Gli Innocenti all’Estero”:
“Lasciammo Milano in treno. La cattedrale sei o
sette miglia alle nostre spalle e montagne di sogno vaste,
bluastre, coperte di neve, venti miglia davanti a noi, erano
i punti salienti dello scenario. Lo scenario più immediato
consisteva di campi e fattorie fuori del vagone, e un nano
con una testa mostruosa e una donna baffuta dentro ad
esso. Ahimè, deformità e barbe femminili sono troppo
comuni in Italia per attrarre l’attenzione.
Passammo attraverso una catena di colline
selvagge e pittoresche, scoscese, coperte d’alberi, a forma
di cono, con aspre rupi sporgenti qua e là, e con abitazioni
e castelli in rovina appollaiati sulle cime, protesi verso le
nubi sospinte dal vento. Pranzammo nella curiosa vecchia
città di Como, ai piedi del lago, poi prendemmo il vaporetto
per un pomeriggio di piacevole escursione in questo posto
– Bellagio.
Scesi a terra, una squadra di poliziotti (gente i
cui cappelli a bicorno e appariscenti uniformi farebbero
sfigurare le più belle uniformi dei militari degli Stati Uniti)
ci mise in una piccola cella di pietra e ci chiuse a chiave
dentro. L’intera lista dei passeggeri ci faceva compagnia,
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ma avremmo preferito aver più spazio, perché non c’erano
finestre, né luce, né ventilazione. Era uno stanzino chiuso
e soffocante. Eravamo troppo stipati. Era il Buco Nero
di Calcutta su scala ridotta. Ed ecco che del fumo prese
a salire ai nostri piedi. Un fumo che puzzava di ogni
cosa morta della terra, di ogni putrefazione e putridume
immaginabile.
Restammo in quel posto cinque minuti, e quando
ne uscimmo era difficile distinguere chi di noi esalava la
fragranza più disgustosa.
Questi miserabili reietti […] ci avevano fumigato
per proteggersi dal colera, benché noi non provenissimo
da nessun porto infetto. Tuttavia essi devono tenere a
bada le epidemie in un modo o nell’altro, e la fumigazione
costa meno del sapone. Devono lavarsi oppure fumigare
il prossimo. Alcuni appartenenti alle classi inferiori
morirebbero piuttosto di lavarsi, ma la fumigazione di
stranieri non gli crea alcun cruccio. Non hanno bisogno
di fumigare se stessi. Le loro abitudini non lo rendono
necessario, si portano addosso il preventivo: sudano e
fumigano tutto il giorno. Io credo di essere un umile
e coerente cristiano. Cerco di agire nel giusto. So che
il mio dovere è di “pregare per coloro che ti trattano
crudelmente”; e perciò, per quanto sia difficile, cercherò
ancora di pregare per questi suonatori di organetto che
fumigano e preparano maccheroni imbottiti.”.
Però in seguito Mark Twain ammette, forse a
malincuore ma in un tono lirico:
“Dalla mia finestra qui a Bellagio ora ho una
vista dell’altro lato del lago bella come un quadro[…]
su questa vasta tela, il sole, le nuvole e la più splendida
delle atmosfere hanno mescolato mille tinte, e sopra la
sua superficie scivolano luci ed ombre trasparenti, un’ora
dopo l’altra, e lo glorificano con una bellezza che sembra
un riflesso del Cielo stesso. Certamente, questa è la scena
più voluttuosa su cui abbiamo mai posto gli occhi.”.
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Dai balconi di casa io potevo godere della stessa
visione. Sullo specchio del lago, come un colosso pacifico
ammantato di verde, il monte Crocione si ergeva contro un
cielo di cobalto, la sua immagine riflessa nel lago; ai suoi
piedi si stendevano paesi inerpicati sui pendii e punteggiati
da ville patrizie circondate da parchi traboccanti di fiori.
Nei pigri pomeriggi d’estate, l’acqua solcata da barche e
vaporetti sciabordava dolcemente contro rive e pontili, in
contrappunto al brusio delle conversazioni che saliva dai
portici e dai giardini degli alberghi.
g
Tra gli ultimi decenni del XIX secolo e i primi del
XX, Bellagio era diventato una meta turistica di lusso, con
alberghi e ritrovi predisposti per una clientela internazionale
di personaggi ricchi e altolocati. I negozi sfoggiavano sete di
alta qualità, una produzione locale. I cuochi degli alberghi
si sbizzarrivano in elaboratissimi manicaretti. Nei giardini
delle storiche ville in riva al lago si eseguivano concerti col
contributo di dive del bel canto.
Tutto questo prima che il turismo di massa del
secondo dopoguerra avesse declassato il paese. Non più
il dominio di signori in cilindro e signore dalle gonne
sbuffanti, i prati e lo stupendo lungolago ogni finesettimana si ritrovavano coperti di cicche e cartacce del
salame. Dalle piazze dilagavano lungo le strette “salite”
a gradoni i cori di metallurgici in gita sociale, brandenti
fiaschi di lambrusco, mentre a riva i barcaioli strillavano
“barchetta, signori” per invogliare le comitive a gite da
una sponda all’altra. La domenica don Carlo, il prevosto,
dal pulpito della chiesa di San Giacomo tuonava contro le
turiste nordiche, colpevoli di esibire ai paesani appetitose
visioni di poppe, cosce e deretani: “Queste donne d’oltralpe
che calano sui nostri paesi a tentare i nostri bravi giovani
mettendo in mostra più di quanto la decenza consenta e
ponendo a repentaglio col loro cattivo esempio la purezza
delle nostre giovani!”.
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Zio Pasquale, nato e cresciuto a Bellagio ai tempi
dell’eleganza, come molti bellagini aveva scelto la carriera
alberghiera, e ancora giovane diventò direttore del Grand
Hotel de la Ville a Milano, un ritrovo dei bei nomi del tempo.
In famiglia conserviamo ancora un album rilegato in pelle
con commenti autografi di gente famosa, ospiti del De la
Ville: musicisti, scrittori, attori, politici, giornalisti, dive
del bel canto. Toscanini e Arrigo Boito, Umberto Nobile
e de Pinedo si erano limitati alla firma, ma la Bellincioni
Stagno vi aveva scritto “Arte e amore…croce e delizia!”;
Matilde Serao “E che è mai il viaggiatore moderno se non il
pellegrino errante degli antichi tempi?”; e Trilussa vi aveva
lasciato un inedito:
Chi vive senza fede e senza amore
nun pô sentisse l’anima tranquilla:
la fede è l’acciarino che scintilla
in le speranze che ci avemo in core…
Ospite del De la Ville era stata anche Luisa
Tetrazzini, un soprano di coloratura di fama mondiale.
Pasquale ne fu tanto ammaliato che lasciò la direzione
dell’albergo per diventarne il segretario personale. Ma
questa attività non durò a lungo. Stanco dei capricci da
primadonna della diva, tornò a Bellagio per vivere con i
genitori e aiutarli nella gestione del loro negozio.
Pasquale era un uomo intelligente, sensibile e di
temperamento artistico. Coltivò molti interessi al di fuori
della sua professione. È probabile che fosse “gay”, ma a
quei tempi “l’amore che non osa dire il suo nome” non era
ancora uscito dall’armadio. Una sua fotografia lo mostra
vestito da donna, in costume per una recita di “La zia di
Carlo”, una commedia degli equivoci della Belle Époque.
Molti anni dopo la sua morte, rovistando tra le
cianfrusaglie accumulate da generazioni nella “miniera”
trovai in un vecchio baule una serie di poesie scritte
da Pasquale e raccolte sotto il titolo “Vena Poetica”. La
maggior parte delle poesie era in dialetto bellagino; alcune
erano non solo in italiano, ma in francese, inglese e tedesco,
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lingue che Pasquale nella sua professione di albergatore
parlava correntemente.
Figlio di una bellagina e di un napoletano, Pasquale mescolava nei suoi versi la caricatura e il grottesco tipici
di molta poesia dialettale ad un pizzico di sentimento
partenopeo. Un suo vecchio amico, sopravvissutogli di
molti anni, mi disse che Pasquale usava il dialetto per
avvicinarsi il più possibile alla comunità cui sentiva di
appartenere.
Nella vecchia Bellagio, tra due delle “salite” che
congiungono la riva del lago con la parte superiore del paese, esisteva uno stretto vicolo in cui ai tempi di Pasquale
era stato costruito un vespasiano utilizzato da chi, andando
di fretta, doveva scaricarsi. Il nome popolare assegnato al
vicolo era “La Streccia della Merda”. Eccone il ritratto di
Pasquale:
El Pissatoi Noeuv
Propi attach alla rampa, giò lì ‘n fond al streccion
an fà su ‘n pissatoi de quij bei, tutt quattaa.
Per nun chi de Belàs, l’è na gran novitaa
in confront de quel vegg lì de sott del stradon.
Non ghe l’ho in simpatia e l’ho semper schivaa,
varden tucc qui che passa, e go ‘n poo sudizion.
Mi pittost che ‘ndà dent, la foo giò in di colzon,
go pagura di volt che anca ‘l cu ciappa fiaa.
Se de foeura i me senten, girarìa i coion
e l’è facil, parchè quand se pissa ghè ‘l pett,
se de no l’è un violin sonaa su senz’archett,
e mi stoo col proverbi…e foo minga maron.
[ Il Pisciatoio Nuovo
Proprio accanto alla rampa, laggiù in fondo al vicolaccio
han fatto su un pisciatoio di quelli belli, tutto coperto.
Per noi qui di Bellagio è un gran novità
in confronto a quello vecchio, lì sotto allo stradone.
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Io non l’ho in simpatia e l’ho sempre schivato,
tutti quelli che passano guardano, e ho un po’ di soggezione.
Io piuttosto che andar là dentro, la faccio nei calzoni,
ho paura che a volte anche il culo si lasci andare.
Se di fuori mi sentono, mi girerebbero i coglioni
ed è facile, perché quando si piscia c’è il peto,
altrimenti è un violino suonato senz’archetto;
io mi attengo al proverbio…e non faccio marronate.]
Pasquale morì a soli quarantasei anni. Dicono
che la sera prima avesse chiesto al parroco di confessarlo
perché presentiva imminente la morte. Il sacerdote,
sapendo quanto Pasquale amasse scherzare, non lo prese
sul serio ma lo accontentò. Pasquale fu trovato morto nel
suo letto il mattino dopo. Non fece in tempo a imparare a
suonare il pianoforte, un desiderio espresso in una delle
sue poesie. Suicidio? È probabile. Ma preferisco credere a
una sua capacità di premonizione che rende la sua fine più
poetica.
g
A Bellagio, con qualche eccezione, chi non si
chiama Gilardoni si chiama Gandola. Forse per evitare
equivoci, quasi tutti hanno un soprannome, spesso di
origine oscura, ma sempre notevole per fantasia creativa.
Luigino, lo spazzino comunale, era conosciuto in paese
come Luisìn Papàna. Il nomignolo glielo aveva affibbiato
proprio mia nonna, quando da ragazzina lo prendeva
in giro per via di una sua balbuzie che gli impediva di
pronunciare correttamente il suo cognome, Capanna.
I capelli me li tagliava lo “Sceriffo”, il barbiere con
negozio antistante il sagrato della chiesa di San Giacomo
patrono di Bellagio. Non so quale nesso ci fosse tra il buon
uomo e il Far West. Aspettando di sottopormi alle sue arti
tonsoriali, ascoltavo Scerìff, un uomo di età e statura media,
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che spettegolava con altri clienti: “La Berenice me piàs minga.
L’è pussee brutta de un rospo e la spuzza de formai. A l’è na gran
pelanda, la va in giesa e poeu la mena i ciapp del cu e fa balà i tett giò
sul stradon…”. Quando arrivava il mio turno mi saltellava
intorno mentre mi tosava, chiedendomi sarcastico quando
mi sarei ancora una volta “trà giò dal battipalo”, una mia
avventura di cui racconterò in seguito. Ricordo che ogni
volta che mi sedevo sulla poltrona girevole lui mi poneva il
quesito – in italiano, perché io non ero un bellagino nativo:
“Dimmi Guelfo, quanto fanno sette chiappe, quanto fanno
sette chiappe?”. Io fingevo ogni volta ignoranza, per
sentirlo dichiarare trionfante: “Tre culi e mezzo!”.
Sandrino, un giovane che con ghigno ironico
sfotteva tutti, aveva preso di mira in particolare un ragazzo
piuttosto corpulento, che lui chiamava “Pinguino”, e si
sbizzarriva a creare variazioni sul tema. Per esempio,
incontrandolo gli declamava con voce cantilenante da
benedizione urbi et orbi, “Pascete i pingui polli”.
Il nomignolo spesso resta in famiglia, tramandato
di generazione in generazione, come un patronimico.
“Rabbino” era il soprannome del nonno, del padre e
del figlio, un mio compagno di giochi. La famiglia era
cattolicissima, quindi non era chiaro come mai gli avessero
appioppato quel soprannome.
Il soprannome di Gianni “Negus” invece aveva
chiara origine; il ragazzo, forse figlio di un meridionale,
era scuro di pelle come un ascaro. Gianni aveva un’enorme
collezione di fumetti, che mi prestava con generosità
magnanima. Passavo interi pomeriggi in compagnia di Jim
Toro, il marinaio dalla maglietta a strisce in perenne lotta
con la Hong del Dragone nei vicoli della Città Cinese a San
Francisco; dell’Uomo Mascherato e dei pigmei Bandar;
di Mandrake e Lotar, di Cino e Franco. I primi fumetti di
Jacovitti con le avventure di Pippo, Pertica e Palla erano
usciti sul Vittorioso, un settimanale per ragazzi cattolico.
Jacovitti non immaginava che un giorno avrebbe illustrato
il Kama Sutra. Gianni Negus mi aveva prestato un’intera
annata del Vittorioso. Questo mio interesse per i fumetti
destava grande preoccupazione in mia madre perché
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“avrebbero rovinato il mio italiano”. Chissà, forse aveva
ragione. Ma a bilanciare l’influenza perniciosa dei fumetti
sui miei temi in classe c’era l’antologia della letteratura
italiana, un testo scolastico che leggevo con interesse
in battello, attraversando il lago per andare a scuola a
Menaggio, sulla sponda opposta a Bellagio. Mi piacevano
molto le origini del volgare, antichi versi esotici come
Rosa fresca aulentissima
ch’apari inver la state
le donne ti disiano
pulzelle e maritate
Scapestrato senza rimedio, leggevo l’antologia invece di
fare i compiti.
g
“Ganassa” era un giovane bellagino, così chiamato
per via di un gonfiore alla guancia sinistra, come se un
bolo di tabacco da masticare vi si celasse perpetuamente.
Era il corrispondente del Corriere della Sera da Bellagio.
Un pomeriggio d’estate, nel porticciolo della Punta mi ero
tuffato dalla cima del battipalo, un pesante maglio che
sollevato da un argano in cima ad un alto traliccio metallico
e lasciato cadere, era usato per affondare a furia di colpi
sul fondo del lago i pali d’attracco ai pontili dei battelli.
Finito con le gambe dentro alla melma e alle alghe del
fondo, per miracolo ero riuscito a districarmi e nuotare a
riva. La notizia dell’impresa rischiosa, che non mi sarei più
azzardato di ripetere, aveva fatto il giro di Bellagio, dove
tutti si conoscono e sanno tutto di tutti, come a Clochemerle.
Ganassa, sempre in cerca di notizie da spedire al Corriere,
cercava di convincermi: “Dai, Guelfo, tuffati un’altra volta
dal battipalo…”. Forse sperava di mandare al giornale
un servizio originale: “Giovane annega nel porticciolo di
Bellagio dopo un tuffo azzardoso…”
g
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Durante l’estate, la sera orchestrine suonavano
ballabili nei giardini antistanti gli alberghi, in vista del
lago. Una di queste orchestre era diretta da un violinista
che tutti conoscevano come Bobby O’Silber, il suo nom de
guerre. O’Silber non era un irlandese come il nome farebbe
supporre, ma un normale italiano. Beh, non esattamente
normale. Amava circondarsi di giovinetti con cui
organizzava cacce al tesoro, gite in barca, e altre attività cui
io non partecipavo; preferivo leggere i libri della biblioteca
comunale, arrostendomi al sole in una sedia a sdraio sulla
terrazza di casa. Dalla terrazza osservavo gli andirivieni
di O’Silber e della sua coterie, ma non sospettavo traffici
illeciti. Sandrino, più scaltro di me, invece mi recitava una
sua versione dei misteri del rosario: “Nel primo mistero
gaudioso si contempla il maestro Bobby O’Silber – che col
cazzo fatto a Spielberg – inculava i microbi”, unendo in un
delirante connubio liturgia, Silvio Pellico e le sue prigioni,
sodomia e microbiologia. Poi Sandrino se ne andava
canticchiando a metà in dialetto una sua fantasia erotica,
su un’aria di blues: “Alleluia alleluia – nella camera buia – i
ciula, i ciula – che goduria…” ; oppure dando versi di sua
invenzione a “In the Mood” di Glenn Miller: “Dammi il cul
Teresa, dammi il cul Teresa…”.
Anni dopo lessi un trafiletto sul Corriere: “Roberto
Silberi, musicista senza fissa dimora, è stato arrestato sotto
l’accusa di atti osceni nei confronti di minorenni.”.
g
Ero diventato amico di Maurizio, in famiglia
preferivano chiamarlo col diminutivo “Rizzino”, un
ragazzo di qualche anno più vecchio di me, rampollo di
una ricca famiglia milanese che possedeva una villa sul
ramo di Lecco del lago, quello che volge a mezzogiorno tra
due catene non interrotte di monti. La famiglia di Rizzino
veniva a Bellagio durante i mesi estivi, quando le scuole
erano chiuse. Rizzino aveva una barca a remi ancorata in
una piccola darsena ai piedi di un sentiero che dalla villa
scendeva ai bordi del lago. Nei pomeriggi di sole, spesso
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m’invitava a fare un giro in barca. Arrivati in mezzo al
lago, si sedeva a prua e mi ingiungeva: ”Rema tu, e non
guardare.”. Con la coda dell’occhio invece lo vedevo
manipolare un voluminoso arnese che aveva estratto dal
costume da bagno, cantando
Va serenata celeste,
celeste come gli occhi di una donna
che rassomiglia tanto a una madonna,
serenata celeste, e nulla piu`...
La barca rollava a ritmo con il canto e le
gesticolazioni che culminavano in un getto biancastro da
mini-geyser , un ululato di esultanza, e un sorriso estatico
che avrebbe fatto invidia alla Santa Teresa del Bernini. Dalle
ville intorno al lago i villeggianti muniti di binocoli di certo
osservavano con interesse le ginnastiche di Rizzino.
g
A Bellagio ci sono eleganti caffè-pasticcerie, dove
d’estate turisti e gente del paese siedono ai tavolini per
chiacchierare “al fresco”, ordinando caffè, bibite e paste.
Da bambino, la domenica aspettavo con ansia che i nonni,
dopo la messa grande, mi portassero a prendere il gelato al
caffè dell’Hotel Du Lac.
In una di quelle estati avevo incontrato un ragazzo
simpatico, Enzo Jannacci; un liceale che per guadagnare
qualcosa suonava, e molto bene, jazz-piano in uno degli
alberghi, l’Hotel Splendide. Mi invitò a fargli visita a casa
sua a Milano, e incontrai suo padre, un meridionale, e sua
madre, una milanese da cui Enzo aveva imparato il dialetto
meneghino. Enzo era esattamente il mio opposto: quanto
io ero scapestrato e con la testa tra le nuvole, tanto lui era
disciplinato e creativo. Durante una sua prolungata malattia,
costretto a letto fece uso di quella pausa involontaria per
imparare la chitarra. Del suo talento ebbi prova quando
con le sue canzoni agrodolci in dialetto conquistò un
grosso pubblico come cantautore. Alla fine del liceo Enzo
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si era iscritto a medicina, e combinando studi impegnativi
con la sua attività di artista si laureò e dedicò parte del suo
tempo all’esercizio della professione medica. Un impegno
eccezionale. Lo rividi molti anni dopo in un cabaret di
Milano, si ricordava ancora di me.
C’erano altri personaggi straordinari a Bellagio. Il
dottor Lonati, un medico del circondario, viveva a Loppia,
una frazione del comune. Arrivava in paese per i suoi giri
professionali in bicicletta, sempre elegantemente vestito
in giacca e panciotto, in testa una paglietta e pantaloni
stretti alla caviglia con una molletta per non sporcarli,
scappellandosi al passaggio di ogni signora. Un Maurice
Chevalier di paese. Una sua parente era molto più bizzarra.
Bella donna in gioventù, Maria Luisa Nava, contessa De
Viel, era nota a Bellagio semplicemente come “la Maria
Nava”, ma amava farsi chiamare Marilù. Da vecchia
viveva in una specie di torretta in cima a una casa del
paese in compagnia di gatti e pappagalli in gabbia. Non
sentendosi più obbligata a convenzioni sociali, e forse un
poco demente, Marilù civettava allegramente con tutti gli
uomini che entravano nel suo raggio d’azione, e per questo
era molto biasimata dalle beghine del paese. D’estate, al
suono delle orchestrine per i villeggianti, paludata in
scialli variopinti si lanciava in danze sfrenate alla Isadora
Duncan sul tetto a terrazza della grande darsena a lato del
Lido, lo stabilimento balneare di Bellagio. Erano danze
punteggiate da capriole da far invidia a una giovane. I
ragazzotti del paese, ridendo a crepapelle, la incitavano
a maggiori exploits tersicorei; lei, incurante dei lazzi, si
lanciava in balzi e piroette sempre più arditi, ridendo felice.
Oggi la contessa Marilù riposa per sempre
nel camposanto di Bellagio, un fantasma che non mi
dispiacerebbe incontrare.
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INTERLUDIO IN ALTO ADIGE
A Bressanone – Boschi, sentieri e laghetti – I frati tedeschi –
Al liceo-ginnasio “Dante Alighieri” – Madonne pellegrine –
Partenza per il sud – Un infortunio di viaggio
Per frequentare l’ultimo anno del ginnasio ero
finito a Bressanone, in Alto Adige – l’ex-Südtirol – a poca
distanza dal confine del Brennero. La mia famiglia si era
temporaneamente spostata a Varna, un paesetto a qualche
chilometro da Bressanone dall’aspetto più austriaco che
italiano: prati falciati alla perfezione, vigne e frutteti ben
curati, casette dipinte di colori tenui, un Gasthof con la
Stube rustica riscaldata da una stufa di maiolica. La lingua
autoctona preferita dalla popolazione locale era il tedesco;
una lingua non soppiantata dall’italiano, idioma foresto
importato dal governo di Roma dopo la fine della Grande
Guerra e tollerato a malapena dai proprietari di masi che
a sentirlo parlare brontolavano nel dialetto locale: wolsche
Focken, un improperio indirizzato agli allogeni.
Sentieri tagliati tra i boschi di castagni e conifere
si inerpicavano verso la cima di picchi rocciosi. D’inverno
i giovani contadini, coi grembiuli blu e i feltri con le
piume di gallo cedrone, scendevano in paese sui sentieri
ghiacciati, scivolando a rotta di collo a cavalcioni di slitte.
D’estate andavo a nuotare in un laghetto incastonato tra
i boschi e circondato da ciuffi di canneti in mezzo a cui
sguazzavano le anatre. Nei viottoli vedevo rotolare carri
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colmi di fieno trainati da buoi o da cavalli. Covoni di grano
di forma quasi conica punteggiavano i campi. In autunno
i meli erano sovraccarichi di frutta e ai piedi dei castagni
i ricci semi-aperti lasciavano scorgere lucidi cuori marrone
scuro.
Dai frati di un convento sulle pendici di una
collina avevo appreso i rudimenti del tedesco: Ich bin, du
bist, er ist…In quel convento pare si fosse rifugiato alla
fine della guerra un figlio di Martin Bormann, il gerarca
nazista sparito dopo il crollo della Germania senza lasciar
traccia. Il giovane Bormann aveva indossato il saio e preso
gli ordini sacri per espiare le atrocità del Terzo Reich. Ma
dopo un periodo in Africa da missionario, era tornato in
Europa, il saio lo aveva gettato alle ortiche, e si era sposato,
fermo restando il suo rifiuto dell’ideologia nazista.
g
A Bressanone, una cittadina ai piedi di una stretta
valle cinta da alte montagne, la maggiore attrazione era il
“piatto dell’elefante”, un enorme vassoio di carni e affettati
servito appunto all’Hotel Elefante. Il liceo-ginnasio era
situato ai bordi di un giardinetto, in un vecchio edificio
nella piccola piazza dell’antico duomo, sede di generazioni
di principi-vescovi i cui stemmi ne adornavano le mura.
La mia era una classe mista, e cominciavo a provare un
nuovo interesse per le grazie acerbe delle mie compagne:
Deli Accinella, Silvana Pergher, Lalla Puntone.
Di quell’anno scolastico ricordo due professori,
quello di latino e greco, Claudio Annaratone, bonario e
paziente con gli allievi, figlio di Alessandro, noto grecista
e co-autore dell’annoso ma autorevole vocabolario
latino “D’Arbela, Annaratone e Cammelli”. Ricordo
pure l’insegnante d’italiano, Oddo Bronzo, un giovane
professore dal temperamento irritabile, insofferente delle
diavolerie di noi ragazzi. Bronzo fu poi per molti anni
sindaco di Fortezza, la ridente località altoatesina.
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Benché i democristiani avessero ottenuto la maggioranza alle elezioni del primo Parlamento, nel dopoguerra il “pericolo rosso” era sempre incombente, dato l’ingente
numero di voti per il partito comunista. Erano i tempi
del Piano Marshall, e il Dipartimento di Stato americano
aveva decretato: “Votino pure gli italiani per i comunisti,
ma non si aspettino poi i nostri aiuti economici”. All’idea
di tirare ancora la cinghia e posporre la ricostruzione,
era imperativa l’intercessione del potere divino. Fu così
che cominciarono a circolare per tutta l’Italia processioni
notturne, con torme di fedeli che impugnavano candele
al seguito di un baldacchino sotto al quale ondeggiava un
venerato simulacro. Dalle folle si levavano cori:
Mira il tuo popolo, o bella Signora,
che pien di giubilo, oggi t’onora.
Anch’io festevole corro ai tuoi pie’,
o santa Vergine, prega per me.
Erano le processioni della Madonna Pellegrina, sicuro
antidoto contro la lunga mano sovietica. Noi ragazzini
eravamo affascinati dal fiume di luci e suoni che scorreva sotto le nostre finestre. Grazie a Gesù e a sua mamma
l’invasione dei senzadio fu scongiurata e i cavalli
dell’Armata Rossa non arrivarono ad abbeverarsi nelle
acquasantiere di piazza San Pietro.
g
Quell’anno dorato in Sud-Tirolo finì troppo presto, quando prima dell’autunno per decreto paterno fui
rispedito in Sicilia. Allora non esistevano i treni veloci
Eurostar, e per andare dal Brennero in Sicilia ci si metteva
più di una giornata. Il treno correva lungo la costiera
bagnata di sole e di mare. Noi italiani spesso non ci
facciamo caso, ma gli stranieri adorano l’Italia per questa
sua luce abbacinante, per questi colori inebrianti.
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Per risparmiare si viaggiava in terza classe, insieme
a intere famiglie che dalle città del nord, Torino, Milano,
dove avevano trovato lavoro, tornavano a visitare i parenti
in Campania, in Calabria e in Sicilia. Le donne avevano
preparato pasti completi schiacciati dentro a contenitori
d’alluminio inseriti l’uno sull’altro in una specie di colonna.
All’ora del pranzo e della cena aprivano quelle scatole di
metallo e ne saltavano fuori pastasciutta, bistecche, uova
sode, salamini, formaggi, e dalle sporte di tela pagnotte,
fiaschi di vino e frutta. Un bendidio che veniva offerto
anche ai compagni di viaggio, nella tradizione della gente
del meridione.
Ci si fermava a un mucchio di stazioni, soprattutto
al sud. Nell’afa estiva i viaggiatori scendevano dal treno
durante le brevi fermate per riempire d’acqua le bottiglie
alle fontanelle delle stazioni. A Paola, in Calabria, durante
una fermata mi ero affacciato al finestrino in attesa che il
treno ripartisse. Dalla pensilina la gente correva di ritorno
per saltare sul predellino. Un uomo, attardatosi per riempire
le sue bottiglie, era corso verso il treno che già si era messo
in moto. Ma giunto all’altezza del mio vagone era scivolato
e finito con entrambe le gambe sotto le ruote, sotto gli occhi
allibiti dei viaggiatori. Un fischio del capostazione aveva
subito arrestato il convoglio, e gente si era precipitata a
soccorrere lo sfortunato. In shock sulla pensilina, perdendo
sangue a fiotti, il pover’uomo si lamentava flebilmente:
“Guardate cosa mi è successo…”. Poi il treno aveva di
nuovo cominciato a muoversi lentamente e la scena si era
allontanata, restando per sempre nella mia memoria.
g
60
APPRODO A BOLZANO
Sfollati e alluvionati – Il Liceo Carducci – Classi miste o monosex
– Gite scolastiche - Primo giorno di scuola – Preside, professori
e studenti – Memorie di un maestro – Regie benedizioni
- Conflitti matematici – Al cesso il miscredente! - Zia Flora e zia
Hilde - Cronache medioevali – Franchir la frontière – Vassalli e
valvassori - Sciare a buon mercato – Il foglio di via
Proveniente da Messina, dove per decreto paterno
ero andato a vivere per un anno con sua madre, la burbera
nonna Bettina, arrivai a Bolzano nel tardo autunno del
1951. Era il tempo dell’Alluvione del Polesine. Alla
stazione ferroviaria giungevano in continuazione torme di
alluvionati, uomini e donne con facce stravolte, bambini
piagnucolanti, vecchie infagottate in lugubri panni. Tutti
erano prontamente assistiti da crocerossine e dame della
San Vincenzo, che distribuivano caffè, panini e vecchi
cappotti a chi pensavano ne avesse bisogno. Io pure mi
sentivo un po’come uno sfollato, sbalestrato da Bressanone
a Messina e infine tornato in Alto Adige, a Bolzano, dove
avrei dovuto frequentare la seconda liceo.
Il Liceo Giosuè Carducci di piazza Domenicani
era un vecchio edificio di un paio di piani che emanava un
leggero tanfo di stantio. I banchi di legno scuro mostravano
nomi e scritte, alcune modicamente oscene, intagliati da
generazioni di studenti che ci avevano preceduti. Dal
portone si entrava in un atrio alle cui pareti venivano
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affissi dentro a una bacheca i risultati dei nostri esami, per
l’ammirazione o il ludibrio dei visitatori. Alla destra del
pianoterra era l’alloggio del bidello e lo scalone di marmo
da cui si saliva ai piani superiori.
Fui assegnato alla Seconda A, una classe di soli
maschi. La Seconda B era una classe mista, per lo più di
ragazze che indossavano durante le ore di scuola grembiuli
neri a coprire modestamente grazie in boccio che avrebbero
potuto destare qualche interesse negli sparuti maschi loro
compagni. Dalle finestre della mia aula, l’ultima al fondo
del corridoio, potevo scorgere solo il nudo muro della
chiesa dei Domenicani, che allora non ricordo fosse aperta
al culto, e sporgendomi, uno scorcio della piazza e di via
Goethe. Una vista completa della piazza era consentita
all’ufficio della segreteria e allo studio del preside, situati
a un estremo del corridoio di forma ad “elle”. La Seconda
B era meno fortunata della A, quanto a panorami. La loro
aula stava sul lato corto della “elle” e probabilmente le loro
finestre davano su un cortile. Forse perché esposte a minori
distrazioni, le ragazze della Seconda B erano scolare più
diligenti dei maschi della A.
Non ricordo dove si trovassero le aule della terza
liceo. D’altra parte, esisteva una certa separazione di classe
sociale tra noi e la terza: a loro mancavano solo pochi mesi
prima di accedere alle aule universitarie, posto che avessero
superato gli scogli dell’esame di maturità. Coi ragazzi della
terza – Piero Villa detto Pancho, Sergio Mazzini, Fiorini,
il Tumer – ci si ritrovava invece nei pullman organizzati
dalla scuola per andare a sciare la domenica. Escursioni che
di solito terminavano tra canti della montagna fomentati
dalle bottiglie di vino che circolavano tra coloro che,
meno fortunati, non avevano una partner per pomiciare
indisturbati nei sedili posteriori.
g
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Il primo giorno di scuola fui squadrato con curiosità dai miei nuovi compagni: Arrigoni, Benso, Camberle,
Fenoglio, Ganzer, Gennari, Lagraste, Melazzi, e DeRobertis.
Anzi, DeRobertis si aggiunse in seguito, anche lui di
provenienza foresta. Gli altri erano bolzanini di data più o
meno antica. Avevo incontrato Manlio Benso in via Museo,
alcuni giorni prima che cominciasse la scuola. Manlio
aveva un paio d’anni più di me. A me, ragazzino prepubere,
era apparso come un adulto, alto, poderoso, col labbro
carnoso e l’aspetto di giovane sicuro di se. Stava appoggiato
indolentemente alla Vasca, la fontana all’inizio della strada,
punto di ritrovo dei giovani per il paseo della sera. Mi diede
alcune informazioni e si congedò con bonaria cordialità.
Lo rividi dopo in classe, dove aveva già avvertito gli altri
del mio arrivo. Fui esaminato, squadrato, e bene o male
accettato.
Al timone del Liceo Carducci stava il preside
Bentivoglio. Fascista di vecchia data e ognor devoto
all’ancien regime, prima della guerra era stato Provveditore
agli Studi di una città della Sardegna. Epurato, era stato
riciclato dal Ministero della Pubblica Istruzione ed era
approdato al Liceo Carducci. Fascista o no, teneva famiglia.
Di lui ricordo l’erre moscia e la propensità a tastare i
glutei delle studentesse per accertarne paternamente la
consistenza. Più che seguirne i dettami di funzionamento
della scuola, del tutto arbitrari, i professori ne tolleravano
la presenza. Quello che più mordeva i freni era il professor
Cecchi, un siciliano sulla quarantina, pelle scura da saraceno e sguardo ironico; un uomo intelligente e ben poco
disposto alla sottomissione gerarchica. Aveva un paio
di lauree, Cecchi, una in filosofia, l’altra in legge. Uscito
indenne dal crogiolo della guerra, in attesa di migliori
occasioni sbarcava il lunario parlandoci di Kant e della
ragion pura. Gratta gratta – ci diceva, gesticolando con
una sigaretta perennemente accesa tra le dita ingiallite
dalla nicotina – sotto ci trovi il noumeno. “Gratta gratta”
lo diceva col suo esotico accento del sud temperato da anni
di soggiorno al nord. Aveva sposato una delle sue allieve
di un’altra scuola, il professor Cecchi. Una giovinetta che,
63
assai più giovane di lui, non aveva potuto resistere al suo
fascino. Non si fermò molto tempo al Carducci, Cecchi,
ma trovò lavoro a Milano come legale di una ditta. Molti
anni dopo Arrigoni mi raccontò che aveva abbandonato
la famiglia per fuggire in Brasile con una ballerina…Un
personaggio che sembrava uscito da un romanzo di
Brancati.
Il professor Collareta era il nostro insegnante di
italiano. Un uomo di taglia solida e portamento dignitoso,
fiero delle sue origini contadine, dissodava le nostre
teste per piantarvi i semi di una letteratura gloriosa. Era
rispettato, Collareta, ma se dalle sue lezioni imparavo le
storie di Orlando furioso o innamorato e quelle dei bravi
manzoniani, non ne traevo grande ispirazione.
Chi invece mi aveva colpito fin dal primo istante
era il professor Moggio. Il primo giorno di scuola entrò in
classe e senza preamboli intonò:
Levommi il mio penser in parte ov’era
quella ch’io cerco e non ritrovo in terra:
ivi, fra lor che ‘l terzo cerchio serra,
la rividi più bella e meno altera.
Una quartina incisa per sempre nella mia
memoria!
Francesco Moggio, laureatosi in lettere antiche alla
Cattolica di Milano prima della guerra, e risucchiato nel
maelstrom bellico come molti altri suoi coetanei, ne era
sortito indenne per continuare una carriera di docente di
latino e greco nelle scuole medie superiori. Una carriera
forse modesta agli occhi di chi valuta solo il soldo, ma
apprezzata da tanti. Il giovane professor Moggio è ricordato
da Geno Pampaloni nelle sue memorie “I Giorni in Fuga”:
“Tra gli altri mi piace ricordare i due giovani
professori di greco, entrambi preparatissimi ed entusiasti
di insegnare. Il primo, di Bolzano, si chiamava Moggio;
biondo e sottile. Quando un tema in classe mi veniva bene,
lo leggeva lui ad alta voce. ‘Questo vostro compagno’, disse
64
65
una volta, ‘sembra destinato a divenire un grande critico’.
A parte il ‘grande’, aveva azzeccato.”
Quando lo incontrai io, Moggio non era più il
biondino della giovinezza di Pampaloni. Alto, segaligno,
il cranio onorato dalla calvizie, me lo immaginavo con
indosso la toga di senatore dell’antica Roma, quando
modulava i versi della prima ecloga:
Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi
Silvestrem tenui Musam meditaris avena*
Non si limitava a scandire quei limpidi esametri,
il professor Moggio, ma li modulava come la melodia di
un sottile flauto di canna: Ti–ty-re tu pa–tu-lae re–cu-bans,
la-fa diesis-re, la-fa diesis-re, la-fa diesis-re, la. Forse anche
Virgilio li cantava allo stesso modo.
Aveva il temperamento, la bizzarria e il senso
dell’umorismo di un artista, Moggio. Un giorno, nel mezzo
di una lezione, si arresta di colpo davanti alla finestra e ad
alta voce esclama “Piscione!”, suscitando un coro di risate.
Aveva adocchiato un poveraccio che stava orinando sul
muro della chiesa di fronte...
Entrava in classe, apriva il registro, e intonava:
“Oggi sentiamo...”, e nella pausa gravida di apprensione noi
bisbigliavamo “Arrigoni, Arrigoni...”. E Moggio trionfalmente
concludeva “...Arrigoni!”. Il povero Arrrigoni, primo in
ordine alfabetico, sembrava tradizionalmente condannato
all’inquisizione e si schermiva “Ma no, basta, professore,
mi ha già interrogato l’altro ieri...”. Moggio, impassibile
– ma senza dubbio sogghignando dentro di sé – ripeteva
apodittico “Arrigoni!”.
Marùlo, un allievo di una classe inferiore
parcheggiato temporaneamente nella nostra aula, ebbe le
temerarietà di mollare un peto durante una lezione del
prof. Moggio. Imperturbato, Moggio si voltò e fissandolo
scandì ad alta voce: “Marùlo, l’atleta del culo!”
*
Titiro, tu sdraiato all’ombra d’un faggio fronzuto improvvisi una melodia agreste sul tuo flauto sottile.
66
Purtroppo la vita a Moggio fu matrigna. Mi
dissero che da pensionato si era ritirato a vivere lontano da
Bolzano, mi sembra a Bassano del Grappa. Resta nella mia
memoria come un grande maestro.
Le scienze ce le doveva insegnare la signora BajRomano, una parente del noto pittore Enrico Baj. Non so
che tipo di istruzione avesse ricevuto la signora, ma da un
punto di vista retrospettivo posso garantire che di chimica
ne sapeva molto poco. Però si ostinava a pretendere che
tutti noi si imparasse a puntino il ciclo dell’azoto. Fernando
Gennari si era specializzato nella bisogna, e ne sfoggiava
la conoscenza per la delizia della Baj-Romano, che ce lo
additava ad esempio. Dubito che le nozioni scientifiche di
Gennari si estendessero al di là del fatidico ciclo, ma à la
guerre comme à la guerre.
Fernando abitava con la famiglia in un
appartamento di piazza Domenicani, a due passi dalla
scuola. Su una delle pareti di casa c’era una sua foto
di quando aveva tre o quattro anni, con la didascalia
manoscritta “Il suo destino è sul mare”. Evidentemente
il padre, ex-ufficiale della regia marina, nutriva sogni di
trionfi marittimi per il figlio. Sfortunatamente Gennari fu
riformato alla visita di leva per insufficienza toracica, e finì
per laurearsi in giurisprudenza. Di lui ricordo la sconfinata
devozione ai Savoia, e conservo una sua fotografia in cui,
in ginocchio, invoca la benedizione regale della principessa
Maria Beatrice, allora tredicenne, in visita a Bolzano e non
ancora dedita agli amori coi poveri ma belli.
Matematica doveva insegnarcela la professoressa
Henin, una figura patetica provata dalla vita. Il suo
fidanzato era morto in guerra, e da allora la donna,
inconsolabile, aveva trovato qualche conforto nel vino. Mi
aveva preso in simpatia, la Henin, e spesso chiudeva un
occhio sulle mie lacune di studente svogliato. Al contrario,
ce l’aveva con Gio’ DeRobertis, non si sa come mai. Forse
perché il giovane era troppo perbene. Lui si faceva in
quattro per provarle il suo attaccamento alla trigonometria,
lei gli dava voti mediocri e inversamente proporzionali
67
alla sua devozione. La mamma di Gio’ era pure andata a
protestare presso il preside, sbandierando a buona ragione
l’impegno del figlio: “Se non prende buoni voti non ce la
farà ad entrare all’Accademia!...”. Ma la Henin, dura, se la
cavava dicendo che comunque il ragazzo avrebbe dovuto
affrontare gli esami di maturità. Tutto è bene quello che
finisce bene, come dice il Bardo di Stratford on Avon:
DeRobertis entrò all’Accademia, andò alla Scuola di Guerra,
e finì in pensione come generale a quattro stelle. Senza mai
colpo ferire. In preparazione agli esami di maturità, io me
la cavai con dieci lezioni private sovvenzionate da mio
padre, mediante le quali il professor Farias dell’Istituto
Tecnico Industriale mi iniziò senza troppi sforzi ai misteri
del calcolo.
Non posso trascurare un personaggio importante:
don Vinotti, l’insegnante di religione, disciplina cui il
Concordato tra il regime di Mussolini e la Santa Sede ci
aveva condannato per un’ora alla settimana. Un’ora che
io, seduto negli ultimi banchi, passavo a fare i compiti di
matematica senza prestare la minima attenzione alle omelie
di don Vinotti sulla transustanziazione. Un giorno però,
assorbito com’ero dalla risoluzione di qualche equazione
quadratica, non mi accorsi che don Vinotti si era avvicinato
di soppiatto. Strappatomi di mano il quaderno, corse a
una finestra e lo scagliò nella piazza sottostante. Il mio
commento a sangue freddo fu “gesto poco cristiano”. Ne
seguì l’urlo del buon pastore: “Fuori!”. E così quel giorno
passai il resto dell’ora di religione nei gabinetti, meditando
sui concetti di immanenza e trascendenza.
Devo ammettere però che don Vinotti non
mancava di un suo senso dell’umorismo. Era lui che
aveva appiccicato a Piero Villa il soprannome di Pancho,
soprannome diventato così popolare da aver fatto
dimenticare il vero nome di battesimo. E quando andava
in montagna coi giovani di Azione cattolica, don Vinotti si
univa ai loro cori. Un canto favorito era una parafrasi di:
“Non è ver che sia la morte – il peggior di tutt’i mali…”.
I versi di Metastasio erano diventati: “Non è ver che sia
la merda – il peggior degli alimenti – specie per chi non
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ha denti – e non puote masticar”. Per fortuna la Chiesa,
se non tollerava le oscenità di stampo sessuale, accettava
benignamente le scurrilità di tipo scatologico.
g
Il primo giorno di scuola i miei nuovi compagni
si preoccuparono di confidarmi le tendenze politiche
di ciascuno. Io, che per la politica ho sempre avuto un
interesse modico, poco a mio agio sia con i fascisti che
con i comunisti, li ascoltavo senza poter dichiarare alcuna
aderenza ideologica. Di Nino Lagraste mi dissero “È un
fascista”, ancora oggi mi domando come mai. Forse perché
Nino era un ragazzo di statura non alta ma aggressivo
come un galletto bantam. A me lui era simpatico, proprio
per questo suo furore giovanile. Viveva in un grande
appartamento di piazza Walther, col fratello minore, la
madre e due o tre zie. Una zia era una giornalista di un
giornale locale: “Alto Adige”? “Dolomiten”? Un’altra era
la professoressa Flora Pinelli, una collega di mia madre che
insegnava francese in una delle scuole locali. Mia moglie la
ricorda con affetto perché zia Flora rideva di gusto quando
Milena mescolava il dialetto della Val di Non a un suo
francese maccheronico.
Al pomeriggio si finiva a casa di Franco Fenoglio,
giovane di molteplici talenti: suonava il piano, schizzava
caricature, e soprattutto era una delle stelle della scuola,
designato dal preside Bentivoglio a lottare per l’onore del
Liceo Carducci in tornei culturali studenteschi del genere
“Lascia o Raddoppia” insieme a Camberle, il primo della
classe. Camberle, miles gloriosus, avendo vinta una corsetta
al campo sportivo durante l’ora di ginnastica, ci aveva
dichiarato con orgoglio “primo nello studio, primo nello
sport”. A casa di Franco si giocava a poker per pochi soldi,
sotto il benevolo sguardo di sua madre, l’indimenticabile
Tante Hilde. Io, che di soldi non ne avevo mai, mi limitavo
a guardare alle spalle dei giocatori, imparando i tris e le
scale. Nozioni mai applicate nel corso della mia vita, per
pigrizia.
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Franco abitava in un appartamento della casa
all’angolo di via Leonardo da Vinci e via Cassa di Risparmio. Salendo le scale del palazzo dove abitavano i Fenoglio,
o navigandone il vecchio ascensore, non immaginavo che
a un paio di piani di distanza viveva Milena, la ragazzina
con cui, a partire da alcuni anni più tardi, avrei convissuto
felicemente more uxorio per una trentina d’anni e forse più.
Al pianoterra, dal lato di via Cassa di Risparmio, c’erano
gli uffici della RAI, che credo prima della guerra ospitassero gli uffici dell’analogo Ente Italiano Audizioni Radio,
l’EIAR del regime fascista di cui ricordo le trasmissioni dei
discorsi di Mussolini e le canzoni patriottiche: “La Canzone
dei Sommergibili” (che passano rapidi ed invisibili);
“Orticello di Guerra”; “Camerata Richard”; e “Vincere,
vincere, vincere!”. Franco, dopo un breve assaggio della
Facoltà di Scienze, optò per le pandette a scapito degli
alambicchi e iniziò a lavorare in RAI fin da studente. Erano
gli albori di una brillante carriera di cronista sportivo che
lo portò in giro per il mondo, di olimpiade in olimpiade.
Giornalista in erba, Franco contribuiva alle gazzette locali
cronache di vita studentesca del presente, ma amava
leggere e raccontarci quelle del passato; ne ricordo una, la
storia di Arnaldo da Laives:
Il manoscritto che va sotto il nome di Codex
Arnaldicum, (C.A.) di cui incunaboli si conservano sia nella
Biblioteca dei Musei Vaticani che alla Laurenziana, e` opera
di Arnaldo da Laives (da non confondere con Arnaldo da
Brescia, condannato a morte per eresia nel 1155). A.d.L., un
chierico vagante originario del Tirolo, era il secondogenito
del padrone di un maso chiuso. Non avendo pertanto
diritto all’eredita` paterna cerco` dapprima fortuna nello
studio delle pandette all’ateneo patavino. Cola` A.d.L.
acquisto` rinomanza come Minnesänger, cantando nelle
taverne le gesta della reggia di Corinto e del Mistico Fiore,
accompagnandosi col liuto. I testi dei madrigali erano
derivati da una sua interpretazione degli Annales Roridae
Begoniae, di cui frammenti attribuiti da alcuni storiografi
a Diodoro Siculo e da altri a Strabonio sono raccolti in
70
un manoscritto illuminato dall’amanuense benedettino
Ataulfo di Borgogna.
Imprigionato dal bargello patavino per non aver
sborsato cento scudi dopo una notte di depravazione nel
bordello della rinomata mezzana Ilaria del Portello, A.d.L.
riusci` a fuggire e torno` in Tirolo per lavorare come umile
servo della gleba nel maso paterno. Ma avendo sedotto
col suo canto la pulzella Dorothea, figlia di Sigismund von
Bayern principe-vescovo di Bressanone, fu costretto a
fuggire anche da Laives. Alla fine trovo` rifugio nell’Abbazia
di Benediktbeuren (Bura Sancti Benedicti) sotto falso nome:
Arnaldo il Solitario o the Loner, come lo aveva ribattezzato
Rufus Mahoney, un monaco suo amico membro dell’Ordo
Sancti Patricii, confraternita di templari irlandesi. Colà
Arnaldo passo` il resto della sua vita nella compilazione del
codice omonimo e nella composizione di poemi in tardo
latino e Alt Deutsch. E` a lui attribuito da alcuni autori il
carmen buranum No. 90, “Exiit diluculo - rustica puella” , in
cui Arnaldo magistralmente maschera la forma in volgare
“di lu culo” con quella in latino “diluculo”.
g
Non ero il più giovane della classe. Mauro Melazzi
era più giovane di me di alcuni mesi. Mauro era un
ragazzo “con la testa sulle spalle”. Figlio unico, era molto
affezionato al padre, il comm. dott. Remo Melazzi, capo
della Questura di Bolzano. Ogni tanto andavo a casa sua, e
suo padre mi trattava sempre con affettuosa simpatia, forse
perché mi interessavo a cose senza uso, come, per esempio,
la poesia di François Villon. Il dott. Melazzi, un intellettuale,
era molto contento che io parlassi un po’ di francese, una
lingua che gli piaceva, e che dicessi correttamente“franchir
la frontière” invece di “passer”. E dava del testone al figlio,
che avrebbe detto “passer”. Ma Mauro era un ragazzo con
i piedi a terra e non con la testa fra le nuvole come me, e i
fatti della vita ne hanno provato il successo, anche se invece
di varcare frontiere si sarebbe limitato a passare attraverso
di esse. Di Mauro conservo una foto fatta a Cattolica, in
71
spiaggia, seduto su un moscone insieme a una giovinetta
sua amica. Non erano poveri, ma erano assai belli.
Il mio compagno di scuola preferito – non so se
lui lo sapesse – era Arnolfo Ganzer. Figlio di coltivatori di
Laives, un sobborgo di Bolzano, aveva una mente acuta e
modi di fare genuini, non corrotti dalle pretese sociali della
media borghesia bolzanina. In altre parole, Arnolfo non
aveva la puzza sotto al naso. Parlerò di lui più a lungo in
un’altro capitolo di queste memorie.
Manlio Benso era un vassallo dei tre fratelli Reucci.
Attraenti, sportivi, sulla cresta dell’onda in seno al tout
Bolzano, i Reucci avevano creato uno stile, prontamente
adottato da imitatori-adoratori, che andava dai blue jeans
con le tasche bordate da cuciture esterne di filo chiaro alle
biciclette trascinate a mano su e giù per via Museo all’ora
della “vasca”, il paseo serale. Ma di Emanuele – detto Manolo
– in particolare Manlio era lo scudiero, il vessillifero, il
fedele palafreniere. Manolo, sciatore spericolato, che
periodicamente esibiva con orgoglio una gamba ingessata
e abbondantemente autografata da estimatori, frutto di
qualche ruzzolone fatto a velocità pazzesche. Dopo una
discesa particolarmente rischiosa completata senza traumi,
Manolo, di buon umore, canticchiava sull’aria di Noche de
Ronda: “Dile que la quiero – che g’ho ‘l cul de fero – dile
che son qua…”, oppure ci recitava un suo distico ispirato
da odori e rumori: “Pet, repet, contrapet – sloffa, pavana,
soffiet”.
I fratelli Reucci avevano una baita all’Alpe di
Siusi, dove un gruppo di ragazzi campeggiava durante
le vacanze natalizie, per andar su con uno slittone e giù
sugli sci spendendo pochi soldi. Un albergo delle vicinanze
forniva lavandini e gabinetti per un minimo di comfort.
Nello stesso albergo alloggiavano le famiglie di alcune
nostre compagne, quindi non ci si sentiva soli nell’androceo
della nostra baracca. Tramite le buone grazie di Manlio
ero riuscito ad accodarmi al gruppo come valvassore
dei Reucci. In mezzo alla baita stava una grande stufa di
maiolica che ci impediva di morire assiderati durante la
notte. Ma durante il giorno spesso splendeva il sole, e non
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di rado si poteva sciare in maniche di camicia. Di quegli
inverni mi restano alcune fotografie e molti ricordi.
Durante l’estate a cavallo tra la seconda e la terza
liceo mia madre aveva organizzato per la famiglia una
vacanza in campeggio insieme a due sue amiche, giovani
maestre delle elementari. Prese a prestito le tende dal Club
Alpino di Bolzano, eravamo partiti verso la Toscana per
piantarle nella pineta di San Rossore in Versilia, non lontano dalla spiaggia del Tirreno dove avremmo passato
la maggior parte della giornata. Il campeggio non era
ancora di moda e la pineta non era invasa da torme di
campeggiatori. Tra i pini marittimi si vedevano poche tende.
Quelle più vicine alle nostre erano occupate da un gruppo
di studenti pisani che subito avevano fatto amicizia con le
ragazze. La sera, intorno a un falò, quei moderni rapsodi
accompagnandosi con le chitarre cantavano le esilaranti
vicende di Luca Cava in piazza con la sua ragazza. Quando
pioveva ci si rintanava nelle tende, ascoltando in silenzio il
fruscio dei rami e il tamburellare delle gocce sulla tela che
ci riparava. L’ansimare delle onde si udiva nella distanza e
si mischiava al profumo degli aghi di pino. Non mi dilungo
a parlare delle tamerici salmastre ed arse e dei mirti divini,
a quello ci ha già pensato D’Annunzio. Ma chi leggesse
“La pioggia nel pineto” dovrebbe udire come sottofondo
musicale il Valzer di Musetta. Puccini al piano nella sua
villa di Torre del Lago respirava il vento della pineta.
Per me e le mie sorelle quella vacanza, troppo
breve, fu memorabile. Dovendo tutti tornare a Bolzano,
convinsi mia madre a lasciarmi per un paio di giorni a
Firenze. Con una tenda mi sistemai in un campeggio vicino
a Piazzale Michelangelo. Dalla grande balaustrata del
piazzale la vista spaziava sulla gloria di Firenze: l’Arno,
il Ponte Vecchio, la cupola di Brunelleschi, il campanile di
Giotto… Scendendo in città scoprivo per la prima volta le
porte del Ghiberti, gli Uffizi. I giorni passavano più veloci
del previsto. A un certo punto mi resi conto che avevo
speso anche i soldi per il biglietto del treno che mia madre
mi aveva lasciato pensando che tornassi a Bolzano quasi
subito. Al campeggio, l’ultima notte la passai all’addiaccio
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non avendo di che pagare per l’uso della tenda. Il mattino
dopo, affamato ma imperterrito, mi presentai in Questura.
Il commissario di turno ascoltò la mia storia dopo avermi
chiesto documenti che ovviamente non avevo. Nello zaino
avevo solo un paio di libri di scuola col mio nome. Il buon
commissario si accontentò. Dopo aver scartabellato i suoi
registri e appurato che non ero un fuggiasco, mi fece
telefonare a mia madre per rassicurarla, e mi congedò
con il foglio di via per indigenti e una piccola somma di
denaro che mi consentì di sfamarmi prima di salire in treno
e arrivare trionfalmente a Bolzano. Avevo 16 anni.
g
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ANCORA A BOLZANO
Danze in montagna – L’avvinazzato in Lambretta – Vita dai
Mumelter e in via Cesare Battisti – Fascisti o comunisti? –
Braghella & Testina – Di fronte al Navarro – Caste sociali – La
terza liceo
All’Alpe di Siusi noi ragazzi si stava in baita,
ma le ragazzine nostre coetanee andavano in albergo.
Loro avevano portato da casa i dischi preferiti, e la sera
si ballava: “Only youuuu” dei Platters, “Le retour des
saisons” di Trenet, “In un palco della Scala” del Quartetto
Cetra. Gli altri ballavano, io, brutto anatroccolo, guardavo
e ascoltavo.
Non si andava a sciare solo all’Alpe di Siusi. Si
andava a Malga Zirago, a Corvara, a Cortina, ma soprattutto
in Val Gardena, a Selva e a Ortisei. Io mi ero comprato un paio
di vecchi sci, ma con gli attacchi Kandahar (modernissimi!),
alla Compravendita Gries, un negozietto al principio di
via Fago, a due passi da dove abitavo nei primi tempi
di vita a Bolzano. Nei dintorni c’era un vecchio cimitero
dove la notte qualche coppietta trovava asilo; e il Tennis
Club, dove l’anziano maestro Nemety, muovendosi a scatti
come una marionetta per colpa dell’artrite, insegnava ai
ragazzini i rudimenti della racchetta. La Compravendita
Gries era un fondaco zeppo di cianfrusaglie, di proprietà
di un uomo sulla quarantina, perennemente ubriaco.
Mi additava la moglie - una donna ancora giovane e
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abbastanza piacente, ma cui una vita scarsa di soddisfazioni
aveva marcato la fronte di rughe premature - e mi diceva
sogghignando “Poco pettoruta, poco pettoruta...”. Poi
saltava su una Lambretta antidiluviana e scompariva verso
Sarentino.
Mia madre, le mie due sorelle ed io, in attesa di
tempi migliori avevamo trovato alloggio in una mansarda
in cima a una casa a tre piani, tra Viale Principe Eugenio
di Savoia e via Guncina. Un vecchio edificio di proprietà
della famiglia Mumelter, all’angolo di via Fago con un
viottolo che terminava a ridosso del colle Guncina. A
pianterreno i Mumelter gestivano un’osteria da cui la sera
salivano canti di avvinazzati. Noi vivevamo in due stanze.
In una, che comprendeva una piccola cucina in una torretta
che sporgeva “an der Ecke”, stavano mia madre e le ragazze.
Io avevo l’altra stanza tutta per me. L’avevo tappezzata
con dei pannelli di cannicci, come una capanna da isolano
dei Caraibi, e la sera ascoltavo con una radio a galena
Alberto Sordi, appena esordiente con “I compagnucci
della parrocchietta”; oppure Mike Bongiorno, un oscuro
annunciatore che allora trasmetteva dagli Stati Uniti
notizie, commenti e jazz per conto della Voce dell’America.
Bongiorno ancora non aveva trasportato in Italia il popolare
programma televisivo americano “The $64.000 Question”,
ribattezzandolo “Lascia o Raddoppia” e facendo la sua
fortuna.
g
Durante la mia terza liceo finalmente fu assegnato
a mia madre un appartamento in via Cesare Battisti,
in un blocco di due fabbricati gemelli. Ogni palazzina
era di quattro piani e otto appartamenti, progettati
dall’architetto Piontelli, che andò a vivere in uno degli
appartamenti. Per una bizzarra decisione del buon
architetto gli appartamenti non erano connessi a un
impianto di riscaldamento centrale, ma termosifoni erano
stati installati in tutte le stanze, e quindi ci si arrangiava
con caldaie a carbone o a legna individuali poste in mezzo
76
alla casa, sopportando fumi e puzze fino a che mia madre
non convinse quattordici coinquilini a condividere le spese
di un impianto di riscaldamento centrale. Due rifiutarono
di aderire all’impresa, uno di essi Piontelli. L’uomo aveva preferenze del tutto personali, anche in campi che
avevano poco a che fare con l’architettura. Ma di queste
sue preferenze particolari ne sanno più di me i giovanetti
di allora appartenenti all’Azione cattolica.
In coincidenza al nostro trasferimento nella nuova
casa stava per essere completato un nuovo e molto più
elegante edificio proprio di fronte ai nostri balconi. In
questa casa si trasferirono la famiglia del questore Melazzi,
padre del mio compagno Mauro, quella del preside
Bentivoglio, e i Mazzei – il dott. Mazzei mi sembra fosse
il vicequestore. I Mazzei avevano tre figlie, Tina, Mimì e
Vera, dolci dirimpettaie del quinto piano e oggetto di
inconfessate passioni.
Il preside Bentivoglio aveva due figli maschi e
una o due femmine. Col figlio maggiore, Benito, ho avuto
qualche rapporto. Ero invitato ogni tanto alle sue festine in
cui si ballava il liscio a luce soffusa, in un’atmosfera densa
di sussurri e sospiri. Benito, come suo padre, in principio
era fascista fino al midollo. Penso che gli fossi simpatico
– o forse gli servivo a far numero – perché una volta mi
convinse ad andare con lui a Trieste, spese pagate, a un
raduno di neofascisti. L’ospite d’onore sarebbe stato Sir
Oswald Moseley, il capo delle camicie nere britanniche
al tempo del regime, vilipeso durante e dopo la guerra
nella perfida Albione ma osannato dai nostalgici italiani a
botti di eja, eja, alalà, come si usava fare con un camerata
verace. A un certo punto però, con metamorfosi kafkiana,
sia Benito che suo padre passarono dal Msi al Pci, dandosi
animo e corpo al marxismo-leninismo e ripudiando labari
e gagliardetti a favore di bandiere rosse. In Benito restò
costante una buona dose di anticlericalismo. Una volta
stavo chiacchierando con lui, appoggiato alla ringhiera
delle case dell’Incis in piazza Vittoria. Di colpo Benito si
arrestò, e voltatosi verso un prete di passaggio, di punto
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in bianco prese a lanciargli insulti. Il prete ribatté con pari
foga. Io li guardavo sbalordito...
In quel gruppo di case dell’Incis, abitavano altri
amici e conoscenti. Ricordo Beppe Franzini, di cui farò
cenno in seguito, e Toni Russio. Toni, un altro studente di
chimica, aveva una ricca collezione di numeri di “Signal”,
rivista della Wehrmacht. Perciò non mancavo mai di
salutarlo gridando “Sieg Heil!”, quando lo incontravo.
Nella stesse case mi pare abitasse Pino Balla, studente di
chimica, manco a dirlo. (Non sapevamo che in futuro le
analisi le avrebbero fatte gli strumenti, non i chimici.) E mi
sembra vi abitassero anche i fratelli Bianci, che grazieadio
con la chimica avevano poco a che fare. Di Balla conservo
nella mia piccola biblioteca il testo di Esercizi di Fisica – il
corso affettuosamente detto “di fisichetta”. Il frontespizio è
illustrato di suo pugno dal Pino, con cherubini esalanti dal
culetto sbuffi di mercaptani.
In via Museo, all’ora della vasca, si incontravano
i personaggi più disparati. Ne ricordo due in particolare,
Braghella e Testina, così soprannominati da Giulia
Fenoglio, la sorella di Franco: Braghella, perché indossava
anacronistici pantaloni alla zuava e Testina perché, di altezza
superiore alla media, sul suo collo si ergeva un cranio da
microcefalo. Peraltro Testina era persona normalissima,
un serio impiegato di banca. Braghella invece era un po’
ritardato, e veniva fatto oggetto di lazzi da parte di noi
giovinastri. Lui ci guardava con disprezzo, appoggiato
alla sua bicicletta, e con sussiego decretava: “Nullatenenti,
nullafacenti!”.
Un giorno, quando già lavoravo come rappresentante della Merck, Sharp & Dohme per il Trentino-Alto
Adige, stavo oziosamente scrutinando la locandina del
Navarro, il night club all’inizio dia via Museo, sentina
di modesti (allora non ci si bucava) vizi a disposizione
del Bürger bolzanino. Il Navarro era di proprietà di un
sudtirolese con un cognome tipicamente locale come
Perathoner o Kusstatscher, che aveva però adottato come
nom de guerre l’esotico “Navarro”, reminiscente di corride
e nacchere. Ogni sera el señor Navarro ammoniva in Ersatz
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castigliano i clienti immersi nelle luci blu e nel fumo delle
Nazionali: “Aqui Radio Andorra. Quien no consuma que se
corra!”.
Dalle mie reveries di soubrettes molto pettorute
fui distratto dalla voce di una ragazza. “Guelfo, che fai di
bello?”. Mi voltai a guardare Marina Gervasi, la promessa di
Arrigoni, giovane donna di preclare virtù. “Sto aspettando
di visitare il dr. Giro. Devo presentargli l’ultimo prodotto
della mia società, Indocid, un anti-infiammatorio molto
efficace in casi di artrite...”. Lei, mossa a pietà dalla mia
lamentevole condizione sociale di “commissionato”, titolo
conferitomi dai pazienti nelle sale d’aspetto dei medici, mi
disse con tono pieno di sollecitudine “Eh sì, Guelfo, ormai
sei un fallito.” Abbozzai, pensando tra di me “Scapestrato,
magari. Ma fallito? La diagnosi è prematura.” Avevo solo
trent’anni.
Quando mi congedai dalla Merck poiché stavo
per partire per l’Inghilterra, raccomandai che prendesse
il mio posto Celestino Biglia, un compagno della Casa
dello Studente Ippolito Nievo di Padova. “Con un nome
come Celestino Biglia”, mi disse Piero Flaim, proprietario
della farmacia Aquila Nera e zio della ragazza che stavo
per sposare, “farà fortuna. Nessun medico lo potrà
dimenticare.” Non so se Celestino abbia fatto fortuna, ma
me lo auguro. Era un simpatico ragazzo, di cui conservo
una fotografia presa a Padova nel giardino della Casa dello
Studente Ippolito Nievo.
g
Ormai parte integrante del corpo studentesco del
Liceo Carducci, in terza liceo vidi spuntare nuovi compagni.
Milletti, un giovane alto e robusto, tanto forte quanto mite.
Un bel ragazzo simpatico e cordiale. C’era poi un ragazzo
di cui non ricordo per nulla il nome, calato dalle valli e ad
esse tornato senza lasciar traccia; e infine l’impareggiabile
pluriripetente Gigi Mattei, gran poeta del sesso, che durante
un compito in classe infilò la punta di un temperino nel
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sedere di Arnolfo Ganzer, perché quest’ultimo si rifiutava
di soffiargli suggerimenti. Alle furiose proteste di Arnolfo,
“professore, mi hanno ficcato un coltello in culo!”, il
professor Moggio si limitò a sorridere beffardo.
Indimenticabile anche Mandante. Assomigliante
al peggior Charles Laughton di Notre Dame de Paris,
con un incarnato da tenia solium e occhi da batrace, non
faceva un bel niente ma in compenso per tutta la mattina
fingeva di strimpellare su una tastiera di pianoforte che si
era disegnato sul banco; se si accorgeva che lo guardavi
ti sussurrava ghignando, nascosto dietro al compagno
davanti a lui, “Chopin”. Dall’ultima fila di banchi lo vedevo
fissare rapito i rigogliosi seni della giovane supplente di
storia dell’arte che, molto a proposito, ci parlava di Rubens;
e chissà quali andanti “con foga” le avrà dedicato. Per la
verità, quei seni erano oggetto della concupiscenza non
solo di Mandante, ma dell’intera classe di noi adolescenti
mandrilli.
g
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DA BOLZANO A PADOVA
Il collegio universitario Don Mazza – La Casa dello Studente
Arnaldo Fusinato – L’arte della coprofilia – Al calduccio dei
postriboli – L’Istituto Chimico di via Loredan – Sandonnini e
Croatto – La Casa dello Studente Ippolito Nievo – Il custode Dario
– Il gioco del bagolotto – Lino, Linetto... – Il bombarolo – Amici
vari – La Latteria Pajaro – La Carlona – Ernesto e Pasquale –
Zio Getulio e Saturnino – Le avventure di Giorgio Amoretti–
Padua, ich muss dich lassen...
Superate le forche caudine degli esami di maturità,
decisi di iscrivermi a Chimica Industriale a Padova. Allora
sembrava che la chimica fosse la professione ideale del
futuro. Natta aveva scoperto il polipropilene isotattico
che gli avrebbe fruttato un Nobel dopo pochi anni. La
Montecatini avrebbe potuto essere il buen retiro del laureato.
A casa mia di chimica si era sempre masticato, visto che
babbo e mamma vi si erano entrambi dedicati. Ma il mio
amore per la disciplina era subordinato ad altri interessi.
Per risparmiare, feci domanda di ammissione
al Collegio Universitario Don Mazza di Padova. Il Don
Mazza era un istituto diretto da religiosi situato in un
vecchio palazzo, non lontano dal Prato della Valle. A
capo dell’istituto stava don Tosi. Gran parte dell’amministrazione era però maneggiata da un prete molto più
giovane, don Perosi. Alle interviste per l’ammissione mi
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presentai insieme a Lino Arrigoni. A coronamento delle
interviste, tutti in chiesa! Alla fine del rito i giovani credenti
si misero a cantare:
Inni e canti sciogliamo, fedeli,
al divino, eucaristico re...
Io attaccai, sgolandomi di buzzo buono e continuando : “...
che nascoso nei mistici veli – cibo all’alma fedele si die’.”
Lino, che di inni liturgici ne sapeva meno di me, mugolava
di conserva.
Forse il mio fervore di canterino fu notato,
perché la mia domanda di ammissione fu accettata. Ma
non avendo il collegio letti sufficienti per ospitarmi, fui
spedito ad alloggiare in una stanza d’affitto presso una
famiglia sovvenzionata dal convitto. Una decisione di mio
gradimento, dato che fin d’allora la mia devozione a nostra
santa religione era discutibile. Però ospiti del collegio come
me erano altri giovani miscredenti. L’inno ufficiale della
casa, sull’aria di “Dalmazia, Dalmazia”, era “Don Mazza,
Don Mazza – cosa importa se si muore...”. Quei giovani
sciagurati cantavano invece “Don Mazza s’incazza - se alla
messa non si va...”.
In quel mio primo anno di vita universitaria,
avevo incontrato al Mazza Gianni Testori, uno studente
di medicina che s’industriava a guadagnare qualche lira
trascinando un’enorme valigia colma di testi e dispense
e offrendo la sua mercanzia a chi ne avesse bisogno nei
numerosi collegi universitari e case dello studente. Nel
giro di pochi anni era passato dal valigione a una piccola
libreria, presto ampliata e diventata persino editrice di testi
universitari, situata strategicamente – bisognava passarci
davanti - tra il Bo, la sede centrale dell’università, e gli
istituti delle varie facoltà. Ovviamente il ragazzo aveva il
bernoccolo del commercio. Nel frattempo era pure riuscito
a laurearsi in medicina. Dio solo sa dove avesse trovato il
tempo o gli inghippi per farlo, ma ci era riuscito. Misteri
dell’università italiana.
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Il Mazza ospitava anche ragazzi stranieri. C’era
un italo-americano che frequentava medicina a Padova
perché il numero chiuso delle scuole di medicina americane
forzava molti aspiranti medici a emigrare verso lidi più
ospitali. Si esprimeva in un suo italiano reminiscente
del modo di parlare di Stanlio e Ollio. Bologna e Padova
erano le mete preferite degli studenti stranieri. Io avevo
fatto amicizia con Ghebreziebiker Woldeghiorghis, detto
Ghebrù, un etiope che a Padova si trovava benissimo perché
le ragazze locali – mi confessava – apprezzavano certe sue
dimensioni anatomiche inusitate. Laureatosi, invece di
tornare in Etiopia era restato a lavorare in ospedale. Pochi
anni dopo perse la vita in un incidente d’automobile.
Avevo fatto un paio di esami con voti decorosi,
e feci domanda per essere ammesso al secondo anno alla
Casa dello Studente Arnaldo Fusinato in via Marzolo,
istituto completamente laico. Riuscii ad entrare anche
alla Casa dello Studente. Quando andai a comunicare la
buona notizia a don Perosi, il giovane prete mi fece un
lisciabusso. Secondo lui avrei dovuto avvertirlo in anticipo
della mia intenzione di concorrere al posto. Non capii la
ragione di tanta animosità, e mi congedai tranquillamente.
Scopersi in seguito che il Don Mazza incoraggiava i suoi
studenti a far domanda per un posto-letto alla Casa dello
Studente. Una volta vinta la borsa, il Mazza avrebbe
proposto all’amministrazione dell’Università di continuare
a prendersi cura dello studente in cambio dell’ammontare
della borsa. In tal modo due piccioni sarebbero stati presi
con una fava: lo studente avrebbe continuato ad essere
avviato sulla strada della santità, e un posto-letto si
sarebbe liberato alla Fusinato. Un inghippo geniale. Molti
anni dopo, per scherzare, chiesi a mio figlio che aveva
studiato in un’università di gesuiti – eccellente istituzione
– se per caso non lo avessero convinto a prendere la tonaca.
Mi rispose “Neanche per sogno, papà. La loro scuola è un
business.” Mi tornò alla mente il Don Mazza.
g
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Gli anni di Padova furono divisi tra la Fusinato e
un’altra Casa dello Studente, l’Ippolito Nievo in Piazzale
San Giovanni. Questa casa, più piccola della precedente,
si trovava nella zona del Bassanello, non distante dalla
Specola, lo storico osservatorio astronomico. Ma torniamo
per ora alla Fusinato. Io occupavo una stanza al terzo piano,
dalla finestra si vedeva in lontananza un caseggiato alle
cui finestre a volte si affacciavano ragazze. Erano gli anni del
testosterone ruggente, e ogni sentore di profumo di donna,
anche se solo immaginato, bastava a stimolare la fantasia.
Una delle ragazze, Lia, se ricordo bene, era corteggiata a
notevole distanza, alla moda di Jaufré Rudel (che usassero
bandierine di segnalazione da marina?), e finì per sposare
uno degli studenti di medicina, Haussler, un triestino con
cognome austro-ungarico.
Altri studenti, preda di arrapamenti cronici, si
industriavano in mille modi per dar sfogo alle urgenze di
madre natura. C’era chi addirittura aveva perfezionato un
modo di fornicare col cuscino. Non mancavano esempi di
perversione. Ogni piano aveva gabinetti comuni. Le stanze
però avevano lavandini celati dentro a un armadio. Per
diversi giorni le donne che si occupavano delle pulizie e di
rifare i letti – tutte in età canonica ad evitare complicazioni
– si lamentavano di orrendi fetori che uscivano da una delle
stanze. Il direttore della Casa, insospettito, fece irruzione e
scoprì nel lavandino un mucchietto di cacca, che il coprofilo
occupante la stanza si divertiva a modellare come fosse
creta, derivandone piaceri a noi comuni mortali ignoti.
Per fortuna Padova offriva agli studenti diversioni
erotiche più sostanziose. La senatrice Merlin non era
ancora riuscita a mettere in pensione tutte le Wande
d’Italia, e a noi studenti piaceva visitare quegli stabilimenti
eufemisticamente chiamati “case chiuse”, in realtà aperti al
grosso pubblico. Ci si andava un po’ per giovanile curiosità,
a volte spronati dal dio Eros, o anche solo per passarvi
il tempo al caldo, facendo amicizia con le signorine fino
a che la maitresse ci buttava fuori, visto che non davamo
ascolto agli imperiosi incoraggiamenti: “Su giovanotti, su
ragazzi, in camera! Le signorine aspettano!”. Alcune delle
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“signorine” avevano un modo di fare accattivante, quasi
materno. Ci sarebbe sembrato di commettere un incesto...
Quei casini avevano nomi strabilianti. “Al Cazzo
d’Oro” era un nome che Apuleio avrebbe potuto dare a un
lupanare nella suburra dell’antica Roma, “Penis Aureus”.
Un altro bordello era “Alla Maria Onta”. La Maria, una
virago bassa, tozza e con la voce roca, era detta “Onta”
per via dei capelli stillanti sego. Io avevo scoperto solo a
Padova le gioie del postribolo, dato che a Bolzano la mia
giovanissima età mi avrebbe impedito di penetrare nel
tabernacolo di via Conciapelli. A Bolzano ne conoscevo
solo quello che diceva il Sergio Modesto, quando nelle
trasmissioni della RAI locale faceva il verso ai bacani scesi
dai masi delle valli nei giorni di mercato: “Zai ben no du,
son stato al puff...” A Padova ogni tanto vedevamo scorrere
una cortina di separazione tra la sala d’aspetto principale
e le scale che portavano alle stanze: “Passa il monsignore,
passa il monsignore...”, si sentiva sussurrare. Evento non
eccezionale, data l’alta concentrazione di ecclesiastici nella
Marca patavina.
g
Il grande vantaggio della Casa dello Studente
Fusinato era la breve distanza dagli istituti universitari,
soprattutto da quello di chimica, in via Loredan, di fronte
a un canale del Bacchiglione. L’Istituto Chimico era
alloggiato dentro a un annoso edificio, forse dei tempi di
Lavoisier. Sedevo nei banchi semi-circolari ad anfiteatro
dell’aula principale, insieme a un centinaio di matricole, il
cui numero dopo il secondo o terzo anno di corso si sarebbe
notevolmente assottigliato. Più della lezione accademica
mi interessavano gli intagli prodotti da generazioni di
studenti, la cui natura spesso faceva arrossire le poche
compagne di corso. (A Lettere il rapporto maschi/femmine
era inverso. Beati quei maschi...)
Le aule dell’istituto emanavano un tanfo di reazioni
chimiche secolari. Nei laboratori ci si cimentava in analisi
al bordo tra la chimica e l’alchimia: ancora oggi mi chiedo
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a cosa sarebbe servito il cannello ferruminatorio, una volta
approdati alla Montecatini. Le cappe in cui mescolavamo
intrugli che sprigionavano gas venefici funzionavano
per modo di dire; più di una volta un incauto che aveva
avvicinato di troppo la testa alla loro apertura e respirato
una zaffata di acido solfidrico aveva perso i sensi. Rischi
normali che correva chi doveva far precipitare gli elementi
del secondo gruppo.
Quando ci misi piede io, a capo dell’istituto era
il prof. Sandonnini, chimico di vecchia scuola che infatti
andò in pensione l’anno seguente. Feci con lui l’esame di
Chimica Generale e Inorganica. A lezione l’anziano ma
arzillo professore aveva detto a proposito del sistema
periodico:”Ah, quel Moseley, se non fosse morto così giovane chissà che scoperte avrebbe fatto!”. Sandonnini parlava di Henry Moseley, che aveva stabilito coi raggi-X le basi
per il concetto di numero atomico, ma morì molto giovane
in battaglia a Gallipoli. Memore di quella frase, la sciorinai
al momento opportuno all’esame. “Dove ha trovato questa
notizia, Torrazzi?”, mi domandò il professore. “A lezione lo
ha detto Lei, professore”, risposi. Colpito da tanta attenzione
alle sue parole, Sandonnini mi disse: “A questo punto le
do 26. Vuole continuare?”. Io, che in inorganica mi sentivo
traballante, e non ho mai giocato alla roulette, risposi: “26
mi va bene, professore.”
Il successore di Sandonnini a capo dell’istituto fu il
prof. Croatto. Comunista sfegatato, aveva molta simpatia
per i suoi compagni di partito, meno per chi non condivideva
le sue opinioni politiche. Una volta uno studente che aveva
trovato la porta dell’istituto chiusa commentò ad alta voce
“Ma che è questo, il Cremlino?”. Lo sentì un bidello, e lo
riportò a Croatto. Mi sembra che di conseguenza quello
studente abbia dovuto trasferirsi a Bologna.
Passai in seguito a vivere in una stanza della
Nievo, che condividevo con un ragazzo di Venezia, Giampi
Giberti. Si era iscritto anche lui a Chimica Industriale.
Diventammo amici, siamo ancora in contatto. Giampi, di
forme apollinee, amava studiare sdraiato in costume da
bagno sui bastioni medioevali che ancora recintavano il
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giardino della Casa dello Studente. A furia di prendere
sole era sempre scuro come un sudanese. La domenica
tornava a casa sua per poi rispuntare a Padova il lunedì. La
sua numerosa famiglia – cinque sorelle, tutte carine, e un
fratello – abitava al Lido di Venezia. Ero spesso loro ospite.
Il fratello minore, Gualtiero, gran giocatore di poker, aveva
scovato un sistema per infilarsi nei cinema senza pagare il
biglietto. Un metodo ingegnoso di cui beneficiavano tutti i
suoi amici e di cui anche io potevo avvantaggiarmi. Senza
spendere una lira, grazie a Gualtiero avevo visto in prima
visione “I due nemici” con Alberto Sordi e David Niven, e
“I soliti ignoti” con Gassman.
Una delle sorelle minori di Giampi, Giuliana, una
ragazzina di quattordici anni, usciva dal bagno ammantata
in una vestaglia che le arrivava ai piedi e con in testa una
asciugamano arrotolato. Io la fissavo attonito, e le sospiravo: “Giuliana, sei con-turbante!”, facendola arrossire.
D’estate Giampi faceva furore con le turiste
tedesche o scandinave, da lui sistematicamente ammaliate
in spiaggia. Per un motivo poco chiaro i suoi amici di
Venezia gli avevano dato il soprannome “Pelo”, benché le
sue villosità non fossero eccezionali. Lui invece diceva a tutti
“Il Guelfo ci ha il pelo di mammut”, perché contrariamente
al suo riccioluto, il mio era liscio come quello di una foca,
ma di maggiore lunghezza.
Con Giampi e Gualtiero a bordo della Fiat 1100 di
famiglia, insieme ad altri amici andammo in gita in Toscana.
Ci si fermò a Pisa, a Siena e a San Gimignano, prima di
far tappa a Firenze a casa di un suo zio. Preoccupato per
l’uso smodato del gabinetto che stavamo facendo, lo zio ci
ammoniva “mi raccomando, tirate lo sciacquone”, termine
per noi, più o meno di origine veneta, esilarante. La Toscana
mi piacque tanto che più tardi ci tornai con Jeanine, una mia
amica arrivata da Kremlin-Bicêtre, nella banlieu parigina.
Jeanine, che una notte d’estate sui Lungarni di Pisa colse
soavemente il fiore della mia virtù.
g
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Il custode della Nievo era un ex-carabiniere
toscano. Si chiamava Dario, e a causa di una sua eccessiva
mitezza nei confronti di noi ribaldi era conosciuto come
il Dario Mona. Dario era sposato, sua moglie, non scevra
di grazie muliebri, era oggetto di concupiscenze studentesche. La fame era sì grande che tutto avrebbe fatto brodo.
Il Dario ci dava rispettosamente del “signor”. Mi chiamava
dal fondo della tromba delle scale, col suo accento toscano,
“Signor Torrazzi, signor Torrazzi, c’è una signorina he lla
cerca....”. Probabilmente era Mirca Taghioff, ragazza di
non comune avvenenza che di passaggio a Padova era
venuta a trovarmi, suscitando l’invidia dei miei amici.
Quasi di fronte alla Nievo c’era un bar in cui gli
studenti andavano a giocare al “bagolotto”. Così venivano
chiamati il calcio da tavola e il “flipper”, cioè la pinball
machine, da cui sferette di acciaio venivano scagliate con
una molla su un percorso punteggiato da suonerie di
campanelli. La televisione era appena arrivata in Italia, e
nei primi giorni del ‘59 in quel bar assistemmo all’ingresso
in Havana dei ribelli di Castro. “El Jefe” è ancora là, vivo e
vegeto in barba allo zio Sam.
Un altro svago infantile escogitato da alcuni
studenti in vena di emozioni a poco prezzo era quello di
lasciar cadere sul marciapiede dalle finestre del secondo
piano dei palloncini di gomma pieni d’acqua. Gli sciagurati
aspettavano che una coppia di fidanzati arrivasse sotto
le finestre, mollando la bomba idrica immediatamente
dopo il loro passaggio. Urla e proteste della coppia erano
assaporate da spettatori che non potevano essere accusati
del malfatto, perché si erano appostati a finestre situate a
una certa distanza di fronte ai malcapitati. Il Dario Mona,
richiamato in strada dalle grida, si torceva le mani non
sapendo che pesci pigliare.
Alla Nievo c’era una fauna di studenti variegata.
Dagli stalli dei gabinetti comuni spesso sentivamo cantare
Lino Arrigoni un samba del carnevale carioca:
Brigitte Bardot, Bardot,
Brigitte béjo, béjo…
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oppure romanticamente:
Sayonara, Japanese goodbye,
dolce fior di loto…
Meno romantico, uno studente di ingegneria,
Battaglia, ogni volta che incontrava nei bagni Arrigoni gli
canticchiava sogghignando “Lino, Linetto, nel culo te lo
metto.” Se poi incontrava Mimmo Bardelli, altro studente
d’ingegneria, per non peccare di parzialità canticchiava
invece “Mimmo, Mimmetto, nel culo te lo metto.” Non
l’ho mai sentito canticchiare “Guelfo, Guelfetto...”, e mi
sentivo quasi dispiaciuto di essere ignorato da Battaglia,
giovane pieno di risorse. Ammazzava il tempo disegnando
donnine nude dal sedere spropositato, anatomia di cui era
un cultore fanatico. Si serviva del crocifisso in dotazione
alla sua stanza per sostenere una gamba del tavolo troppo
corta e zoppicante, e ammiccando mi diceva: “E poi dicono
che la religione non serve a niente…”.
g
Che fantastici personaggi, alla Ippolito Nievo di
piazzale san Giovanni !… C’erano i residuati bellici, gente
iscrittasi alla fine della guerra che non riusciva a portare
a termine gli studi. “Testa di Cavallo” andava in bagno
quasi completamente nudo, vestito solo del sospensorio,
e raccontava di avere un fallo di dimensioni tali da essere
radiato anche dai casini di Padova. Per fortuna ogni tanto
era intrattenuto da una vedova caritatevole, ma la poveretta
piangeva sempre, dopo il fattaccio. Era un caso che il Kama
Sutra avrebbe definito di scarsa compatibilità, come tra il
lingam del cavallo e la yoni della cerbiatta. Spero che nel
corso della sua esistenza Testa di Cavallo abbia incontrato
qualche yoni dell’elefantessa, più consona secondo gli
antichi testi tantrici alla mole del suo lingam.
Giovanni Santoro, un meridionale sempre ben
vestito che sbarcava il lunario cercando di piazzare le
stampe d’arte dei Fratelli Fabbri, ci decantava le meraviglie
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dei nudi di Modigliani, affascinato dal “pubbbe”. Chissà
che commenti avrebbe fatto se avesse visto “L’origine du
monde” di Courbet, meta favorita dai liceali in visita al
Musée d’Orsay di Parigi.
Un tal Tesserini, studente di medicina non poi
tanto anziano, appena arrivato aveva esposto sullo scrittoio
la foto della barbuta fidanzata, e tutti noi ci divertivamo
a domandargli se era sua madre, e ricevuta la risposta
appropriata, ad informarci: “L’hai già scopata?”.
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Di giorno si era sempre occupati tra lezioni e
laboratori. Nei cortili del Bo ricordo di aver incontrato Toni
Negri, non ancora assurto a teorico delle Brigate Rosse, ma
già molto impegnato nelle politiche universitarie. Mi chiese
di votare per lui per qualche carica in seno al consiglio
degli studenti.
La sera si andava al cinema di seconda visione, e
poi tornati a casa ci si dilungava a discutere di politica, di
religione o di ragazze fino a tarda notte. In momenti meno
illuminati c’era chi dimostrava l’infiammabilità dei gas
intestinali, spegnendo le luci e avvicinando una candela al
produttore di gas che aveva assunto la posizione opportuna
all’esperimento.
Ogni tanto si partecipava a festine in cui la droga
d’obbligo era il vino. Una notte, ubriaco patocco, fui
sedotto da una studentessa cui si poteva solo attribuire la
“bellezza dell’asino”. Fossi stato nel pieno delle mie facoltà,
mi sarei ben guardato dal toccarla. Ma tra i fumi dell’alcol
fui trascinato in un androne, agguantato e brancicato.
Riacquistati in parte i sensi, riuscii a staccarmi da quella
menade e corsi sotto i portici verso la Casa dello Studente
come inseguito dal demonio, sputando e scatarrando.
Uno degli ospiti della Nievo era il futuro dr. Carlo
Maria Maggi, studente di medicina e alto esponente di
Ordine Nuovo, condannato in primo grado all’ergastolo
dalla seconda Corte d’Assise di Milano per la strage di
piazza Fontana del dicembre 1969, ma successivamente
93
assolto. È mai possibile che si fosse scordato del giuramento
di Ippocrate? Di Maggi ricordo lo sguardo aggressivo,
penetrante, leggermente diabolico. A me tutto sommato
era simpatico e ogni volta che lo incontravo nei corridoi
lo salutavo con slogan come “È l’aratro che traccia il solco
ma è la spada che lo difende”, oppure “Credere, Obbedire,
Combattere”, o “Vinceremo!”. Talvolta anche gli cantavo
una strofetta della Canzone dei Sommergibili, quelli che
partono rapidi ed invisibili, cuori e motori di assaltatori,
ecc. ecc. E il Carlo Maggi, per niente permaloso, rideva
divertito. Gli piacevano le burle pesanti: si divertiva a
sgattaiolare in punta di piedi nella stanza di qualche
studente addormentato, che svegliandosi inorridito si
trovava il pene di Carlo a un dito dal naso. Del Maggi
ricordo anche che teneva una sua foto presa ai funerali di
Graziani appesa dietro un’anta dell’armadio di metallo in
dotazione alla sua stanza. Il camerata Carlo, nostalgico,
reggendo un gagliardetto faceva il saluto romano.
Maggi ci aveva fatto conoscere due studentesse,
che per qualche suo misterioso motivo lui chiamava
“le zozze”. Che fossero di sinistra? Ne vedo ancora una,
per nulla zozza, anzi una bella bionda, alta, con gli occhi
azzurri, molto ben vestita e – frutto delle cure di dentisti
americani – con in bocca la macchinetta per raddrizzare i
denti. Era infatti appena tornata da uno stage di un anno in
un’università degli Stati Uniti, e ci raccontava ridendo di
come gli studenti americani riuscissero a storpiare i versi
di Virgilio, declamando: “Infándom regiaina giabs rinovare
dolorem…”. Incontrai tempo dopo a Riva del Garda l’altra
“zozza”, una brunetta piccola di statura ma molto graziosa,
che somigliava un poco a Leslie Caron. Era ormai sposata
e madre di famiglia.
Anni dopo rividi Carlo Maggi a Bolzano, seduto su
una panchina del viale della stazione a confabulare con altri
due figuri. Non mi parve affatto entusiasta di rivedermi.
Erano gli anni dei revanscisti germanici, quelli che facevano
saltare piloni e sparavano ai militari di guardia (militare di
guardia sono stato pure io in quel periodo). Che il Maggi
stesse complottando un botto alla sede della Volkspartei?
94
Che fine, quel Maggi! Meglio cento giorni da pecora che
uno da leone, dico io.
Un altro studente di medicina della Nievo, Enzo
Bermini – credo fosse un vicentino – insospettito da alcuni
miei interessi non esclusivamente accademici – che so io, la
Commedia del Ruzante o i concerti al Liviano – una volta
che ci trovavamo da soli in una stanza mi disse con tono
circospetto: “Dime mo’, Guelfo, ti ti xe cua?”. Gli buttai di
scatto le braccia al collo, sospirando “Sì, sì, Bermini, dame
un basìn...”. Il che lo convinse della mia incontrovertibile
eterosessualità.
Sempre alla ricerca di metodi di studio facili ed
efficaci, mi aveva incuriosito un sistema adottato da Beppe
Franzini, studente di ingegneria. Seminudo e in ginocchio
su una sedia, i gomiti puntati sulla scrivania, Beppe studiava
attentamente il testo di Meccanica Razionale stiracchiando
contemporaneamente tra due dita il suo prepuzio. Mi ci
provai anche io (col mio, naturalmente), senza purtroppo
ottenere migliori risultati. Nel caso di Franzini il metodo
deve aver funzionato, perché si laureò brillantemente di lì a
poco. A ciascuno il suo, come dice l’Osservatore Romano.
Alla Nievo c’era anche un ungherese, Janos Nagy,
rifugiatosi in Italia dopo i moti insurrezionali ungheresi
del’56 contro gli occupanti sovietici. Janos aveva comprato
insieme a un suo compatriota una motocicletta, e ci si
sdraiava sopra palpeggiandola amorosamente quando non
le montava a cavallo e scompariva tra rombi e scoppiettii.
Era, a mio parere, di una bruttezza orripilante: capelli
rossastri, occhi cisposi, carnagione lattiginosa da semialbino, labbro pendulo, insomma il genere viscidorepellente. E ciononostante si era fatto una bellissima
ragazza della Casa della Studentessa, di cui ammiravo
gli occhi stellanti. Vai a capire le donne… Ancora oggi
sono perplesso al pensiero di quali arti di seduzione
avesse impiegato. Di lui però ricordo i racconti lubrichi di
esperienze erotico-esotiche nei bordelli di Budapest che
non avrebbero sfigurato in uno scritto del Marchese de
Sade.
g
95
La domenica si andava alla “Specola”, una balera
nelle vicinanze dell’omonimo osservatorio astronomico.
Ai ritmi del Festival di Sanremo studenti e sartine
volteggiavano a preludio di nascenti amori, come in una
scena di massa di un melodramma pucciniano. Mauro
Melazzi vi aveva incontrato una ragazza con un lieve
difetto fisico. Lui l’aveva soprannominata “La Zoppetta”,
per via della sua andatura claudicante. A parere di Mauro
ciò ne aumentava i pregi, promettendo misteriosi piaceri
non consentiti da ordinarie strutture ossee pelviche.
Arnolfo Ganzer ci narrava storie mirabolanti. Di
ritorno da una visita al manicomio di Monselice, parte
del corso di Medicina Legale condiviso dagli studenti
di giurisprudenza, ci narrava del suo incontro con un
malato che parlava solo in rime senza senso: “Dove vai,
cosa fai, come stai, Uruguay, Paraguay...”. Spesso Arnolfo
andava a mangiare alla mensa dell’Anpi, dove gli studenti
erano benvenuti. A volte al suo tavolo si sedeva un altro
studente veneto, che gli faceva sfoggio delle sue prodezze
di cunnilinguista a beneficio della fidanzata: “Parchè mi,
sato, che magno tuto. Vedeto sti brusegoti?...”, e si toccava
il mento costellato di bruffoli,”...xe el velen che ghe cola, ‘e
secressioni...”. Arnolfo lo ascoltava, allibito e divertito.
Rividi Arnolfo a New York. In gita di turismo con
la moglie, la figlia e il suocero, si era fatto vivo per telefono.
La figlia, una bambina intelligente di 10 o 12 anni, mi aveva
colpito per il suo modo di fare semplice e gentile. Aveva
preso senza dubbio da suo padre. Purtroppo in Central
Park fu morsa da uno scoiattolo di cattivo umore con cui
aveva cercato di fare amicizia.
g
Un toscano studente di ingegneria della Nievo,
afflitto da turgori irrepressibili, ci confidava “oggi gli
è baccellorone”. Bellissimo termine, subito adottato
dalla Banda del Cappello. Haussler aveva notato in una
cappelleria del centro un certo numero di cappelli in
96
svendita stile “fedora”, quelli preferiti dai mafiosi, e ci
aveva convinto a comprarli. Andavamo così conciati in giro
per Padova, divertendoci alle occhiate stupite dei passanti.
Poi tutti a cena alla Latteria Pajaro sotto a un portico che
da piazza Erbe andava verso la Nievo. Qualche volta si
associava a noi Beniamino Furiello, un ragazzo simpatico,
prossimo alla laurea in medicina. Ben era appassionato di
aviazione, e ogni tanto andava a pilotare piccoli aerei da
turismo. Già laureato, sopravvisse a un incidente di aereo
che lo lasciò parzialmente sfregiato e ne mutò il carattere
allegro.
La latteria Pajaro era di proprietà di una piccola
famiglia: padre, madre e ragazzino di 6 o 7 anni. La madre
cucinava nel retrobottega, il padre, Gasperino, serviva i
clienti. Il menù era molto semplice: uova fritte, bistecche,
insalate. Ci si andava spesso a cena, perché costava poco
e la roba da mangiare era fresca. E magari vi si poteva
incontrare qualche ragazza disposta a prenderci in
considerazione. Ne ricordo una che avevamo battezzato
“Lingua Rasposa” per una sua peculiarità anatomica che
era stata scoperta e decantata da uno di noi per i pregi della
papilla guizzante.
Al nostro gruppo si era associato Marcaurelio
Bembo, uno studente di chimica più giovane di me di
un anno, che avevo conosciuto alla Fusinato. Bravissimo
giovane, cattolico devoto, studioso, il suo destino era la
carriera universitaria. Mi diceva: “I miei genitori mi hanno
chiamato Marcaurelio come mio nonno e come l’imperatore
romano. Per fortuna non mi hanno chiamato Caracalla. Tu
chiamami Marc.” Poi mi recitava versi pieni di ispirazione:
”L’uom che non posa, l’uomo che non dorme – polve che
stampa nella polve l’orme...”. Tutti quanti s’iscrivevano a
Chimica Industriale, sperando di arricchirsi con impieghi
favolosi nell’industria. Bembo si era iscritto a Chimica
“pura”, perché voleva fare della ricerca. Insomma, il Bembo
era nato professore di chimica. Già al secondo anno era corso
a comprarsi il Glasstone, “Textbook of Physical Chemistry”,
in inglese perché il testo non era ancora stato tradotto, e si
era prontamente messo a studiare termodinamica anche se
97
la firma di Chimica Fisica gli sarebbe stata data solo l’anno
seguente. Impegno mirabile agli occhi di uno scapestrato
par mio, che invece di ponzare sui testi di chimica passava
il tempo a leggere Garcia Lorca con traduzione a fronte di
Carlo Bo.
Il Bembo univa alla passione per la chimica quella
per le barzellette, e si portava in tasca un quadernetto
zeppo di facezie che ci ammanniva durante il pasto
serale in latteria. “Sentite questa”, ci diceva, e alla fine
della freddura, seguita da una pausa di misterioso – o
minaccioso – silenzio, un urlo rintronava tra le pareti del
locale: “BUONA QUESTA!”. I soliti Mauro, Giampi, Aldo
Frumenti, Celestino Biglia & Co. dimostravano così la loro
sarcastica approvazione sotto gli occhi increduli del lattaio
Gasperino. Un dì Marcaurelio, paventando un mio incontro
col fratello minore, la cui innocenza credo dovesse essere
protetta dalle mie influenze corruttrici, mi tenne a bada
rivelandomi in tono cospiratorio “È con la sua fidanzata.”
Siculo per tre quarti qual sono, pensai “Minchia, pure ‘a
fidanzata tiene u picciotto! Forse Marcaurelio teme che
gliela porti via...”.
Ma come dice il Vangelo, si dia al Bembo quel ch’è
del Bembo. Il nostro non era scevro di afflati culturali, e
si era comprato la serie di dischi “Panorama di Musica
Immortale” pubblicata da Selezione dal Reader’s Digest.
Per non essere da meno la comprai anch’io. E ancora oggi la
conservo tra le cose che mi sono portato appresso nelle mie
peregrinazioni, come il ricordo affettuoso di Marcaurelio
Bembo, che finì per diventare ordinario di Elettrochimica,
c.v.d.
g
Si incontravano personaggi affascinanti per
le strade di Padova. Per esempio, la Carlona. Era una
padovana di età avanzata, donna di rinomata bellezza
in gioventù che le vicende della vita avevano ridotto in
miseria. Ad aggravare la sua condizione umana si era
98
aggiunta un’afflizione comune in paesi tropicali ma rara
dalle nostre parti: l’elefantiasi. Le gambe della Carlona
erano due tronchi di carne di diametro mostruoso che le
impedivano di camminare normalmente. Ma lei aveva
trovato una ingegnosa soluzione al problema dei suoi
spostamenti: navigava su una bicicletta il cui sellino era
basso a sufficienza perché i piedi si appoggiassero al
suolo, consentendole di spingersi dovunque, su e giù dai
marciapiedi, dentro e fuori dai negozi, alleviando la fatica
che la forza di gravità le avrebbe imposto. E nessuno
incontrandola osava batter ciglio sotto il suo sguardo
severo.
Ernesto, il guardiano delle automobili nella piazza
del Pedrocchi, lo storico caffè di Padova frequentato nell’ Ottocento dai carbonari, era un’altra figura indimenticabile.
Era un ibrido tra un fauno e il campanaro Quasimodo.
Sciancato, barbetta a pizzo da ardito della Decima
Mas, giacca di uniforme d’incerto esercito, costellata di
medaglie, patacche e fronzoli come i cappelli dei goliardi,
Ernesto saltellava da una macchina all’altra, raccogliendo
frizzi e mance dai numerosi “dottori” che parcheggiavano
in piazza prima di andare a prendersi un caffè. A lato
della piazza c’era un altro caffè, il Racca. Durante la buona
stagione al Racca c’era sempre un’orchestrina che suonava
per lo svago dei clienti, consumatori di bibite al fresco.
Negli anni Cinquanta una canzone di gran moda era “Tom
Dooley”, la ballata di un condannato a morte, grande
successo in America del Kingston Trio. L’orchestrina del
Racca non mancava di eseguirla, e per il godimento dei
clienti invece del verso “T’impiccheran, Tom Dooley” la
banda cantava “T’impiccheranno, Ernesto”. E ogni volta
lui faceva compiaciuto un inchino.
Ernesto era diventato un grande amico di Pasquale,
uno studente iscritto a Fisica, l’unico figlio di una vedova,
maestra elementare in Cadore. Il padre, un napoletano, era
morto in guerra. Questo figlio era tutto quello che restava
alla madre, che faceva sacrifici per mantenerlo agli studi.
Ma Pasquale più che alla fisica era interessato ai ludi
goliardici e dedicava la maggior parte del suo tempo a
99
frequentare con gli amici le numerose osterie di Padova e
a partecipare a feste della matricola nelle varie università
italiane. Ernesto lo seguiva dappertutto, e maggiore
contrasto tra i due tipi fisici non poteva esserci: Pasquale
era un ragazzo alto, robusto e attraente; Ernesto una specie
di ragno claudicante con fattezze umane.
Un giorno, durante il mio terzo anno di università,
Pasquale si presentò alla mia porta per chiedermi di
prestargli il mio cappello di studente. Glielo diedi volentieri,
Pasquale aveva un modo di fare gentile e amichevole.
Fu l’ultima volta che lo incontrai. Gli anni di bagordi
nelle bettole alla fine lo avevano trascinato nella spirale
dell’alcolismo. Lo persi di vista. Anni dopo venni a sapere
che era finito a vivere nel retrobottega di una birreria di
Bologna. Una notte, in macchina con un altro alcolizzato
e completamente ubriaco, si schiantò contro un albero.
Naturalmente la madre ne fu disperata. Ma disperato fu
pure Ernesto, che aveva perso l’amico cui si era attaccato
come un cane al padrone. Mi raccontarono che ogni anno,
all’anniversario della morte, Ernesto prendeva il treno
e andava nella cittadina del Cadore per deporre insieme
alla madre del suo amico un mazzo di fiori sulla tomba di
Pasquale.
g
Fuori corso, per un breve periodo mi impiegai
come istitutore presso il Convitto Nazionale di Bolzano,
in via Fago. Il direttore era il dott. Laterna, che aveva due
figli, Bobo e Teto, e una figlia con un diminutivo altrettanto
insolito, Lullì. Del convitto era stato direttore in precedenza
uno zio della mia futura moglie, il dott. Carruba. Ma questo
allora non lo sapevo.
Altri nomi non comuni di gente del convitto sono
restati nella mia memoria. Per esempio quello del portiere,
Getulio Capodaglio. Zio Getulio aveva un nipote con lo
stesso cognome, Capodaglio, e un nome di battesimo che
mi sembra fosse Saturnino. Un ragazzo più anziano di me,
100
molto cordiale, che faceva l’istitutore in attesa di laurearsi
in matematica. Laureatosi, andò a insegnare in una delle
scuole di Bolzano. Anni dopo mia madre mi portò i suoi
saluti in America.
Al convitto non mi trovavo male, ma poiché lo
studio della chimica comporta impegni di laboratorio a
differenza degli studi di giurisprudenza o di economia, a
un certo punto dovetti congedarmi. Il direttore mi sorprese
dicendosi dispiaciuto della mia decisione, perché a suo
dire ero l’unico in grado di mantenere una certa disciplina.
Non sospettavo di avere talento di kapò.
Incontrai per caso Teto Laterna a Merano, quando
facevo il propagandista di medicinali. Aveva ottenuto di
recente un posto di dirigente nell’amministrazione di
un ospedale, e mi ricevette molto affabilmente nel suo
studio. Un altro incontro fortuito fu con Silio Mastrucci, un
compagno di gite con gli sci che aveva studiato a Cinecittà.
Io ero andato a visitare medici dalle parti di Brunico o
Vipiteno. Lui si trovava nella zona insieme a un collega per
girare un documentario per conto della televisione. Ricordo
che il suo collega, che mi aveva chiesto quale tipo di studi
avevo fatto, mi disse: “Ah, proprio quello che consiglio di
fare a mio figlio, invece di mettersi in questo mio mestiere.”
L’erba del vicino è sempre più verde.
g
Tornato a Padova, ancora una volta avevo trovato
posto alla Casa dello Studente Ippolito Nievo. In una villetta
nelle vicinanze abitava Giorgio Amoretti con suo padre,
un anziano ingegnere che aveva accettato benevolmente
gli exploits sportivi del figlio. Giorgio aveva deciso di
attraversare a nuoto in pieno inverno il Lago di Garda, in
lunghezza! E ci era riuscito senza morire assiderato, dopo
essersi allenato coscienziosamente in Bacchiglione.
Non contento di prodezze natatorie, partito
da Padova con la sorella sul sellino posteriore di una
101
Lambretta, il Giorgio era andato fino a Rovaniemi, al circolo
polare. Dopo aver fatto quattro chiacchiere coi lapponi, era
tornato a casa, sempre con la sorella che probabilmente non
aveva trovato congeniale la vita tra le renne. Ripartito da
Padova privo di sorella, il nostro era andato fino a Città del
Capo, passando per deserti e foreste vergini. Mi raccontava
che dopo aver guadato un fiume nel centro dell’Africa la
Lambretta era così fradicia da rifiutarsi di partire, e Giorgio
aveva dovuto smontare il motore pezzo per pezzo perché
si asciugasse. Mentre era intento allo scopo, si era visto
circondato da una banda di pigmei usciti dalla boscaglia,
che gli offrirono banane e altri viveri di conforto dopo
essersi inginocchiati davanti a lui. Per via del suo barbone
lo avevano preso per un missionario!
Incapace di stare inattivo, a Padova Giorgio
aveva preso a scalare pareti di roccia nei Colli Euganei.
Una domenica in cui Mauro Melazzi ed io lo avevamo
accompagnato in una di queste sue escursioni semialpinistiche, Giorgio mise un piede in fallo, per fortuna
cascando da un’altezza di pochi metri ma sufficiente a
procurargli la frattura di una gamba. Volevamo portarlo in
ospedale, ma Giorgio si rifiutò, chiedendo invece di essere
portato da un conciaossi di sua conoscenza. Così fu, e dopo
un urlo di dolore la frattura fu ridotta e ingessata.
Di ritorno dall’Africa, Giorgio aveva scoperto un
interessante aggeggio, il paracadute ascensionale: una
specie di aquilone appesi al quale ci si poteva librare al
disopra dei comuni mortali se trainati da un’automobile
o da un motoscafo. (Allora era una novità, ma adesso il
marchingegno lo si trova in molti siti frequentati dai turisti,
come i vari Club Méditerranée. E ogni tanto qualcuno ci
lascia la pelle, sbattuto da un colpo di vento su superfici
meno misericordiose dell’acqua.) A corto di fondi per
finanziare nuove avventure, con una sua amorosa Giorgio
aveva escogitato un ingegnoso sistema per far soldi:
cucivano cuscini per gli inginocchiatoi delle cento chiese
di Padova e di altre città italiane. Pare che in Italia ci
fossero 72.000 inginocchiatoi bisognosi di imbottitura. Una
miniera d’oro per un imprenditore astuto, e un sollievo per
102
le rotule e gli stinchi dei credenti. In tal modo Giorgio e
amorosa avevano raggranellato un gruzzolo sufficiente ad
acquistare due piccole jeep.
Alla guida dei loro veicoli i due intrepidi avventurieri erano andati in Marocco. Sullo sfondo dei
picchi dell’Atlante, Giorgio, appeso al paracadute e legato
alla jeep da una fune, si faceva trainare librandosi a molti
metri di altezza sulle sabbie sotto gli occhi esterrefatti
di cammelli e cammellieri. Uno stunt che non passò
inosservato. La rivista americana LIFE ne pubblicò la
documentazione fotografica, insieme a quella di analoghe
prodezze: Giorgio fu il primo a paracadutarsi sull’Alaska
appena assurta al rango di 49mo membro degli Stati Uniti.
Giorgio si librò anche su San Francisco e New York. Ma
a New York, mentre veleggiava sopra Park Avenue, una
improvvisa folata di vento lo fece sbattere contro un palo
col cartello di parcheggio vietato, fortunatamente senza
gravi consequenze per lui, ma demolendogli il paracadute
ascensionale. E da allora di Giorgio non ho altre notizie.
Immagino abbia sperimentato le ali di Rogallo, cosa che mi
fu proibita, a buona ragione, da Milena.
g
Avevo ormai deciso di trasferirmi in un’altra
università, più piccola e meno dispersiva di Padova, per
terminare quegli studi protratti troppo a lungo. Volendo
però sostenere a Padova un ultimo esame, andai a vivere
poco prima della sessione autunnale nell’appartamento
che Mauro Melazzi aveva affittato e divideva con sua zia.
Di Mauro ammiravo la disciplina, completamente estranea
al mio modo di essere. Si alzava al mattino e andava in
istituto a lavorare alla sua tesi. A mezzogiorno mangiava e
poi andava a fare un pisolino. Quando si svegliava gridava
“caffè!”, e sua zia Clara sollecita glielo portava a letto. Poi
studiava per i pochi esami che gli mancavano, cenava,
103
e andava al cinema. Un comportamento edificante. Io
cercavo, a fatica, di imitarlo. Bene o male finii di preparare
il mio esame. Mi presentai dal prof. Bezzi, ordinario di
Organica, e gli sciorinai quel tanto che sapevo. Bezzi, che
mi aveva mandato via senza voto in precedenza “per
non rovinarmi il libretto”, sant’uomo, con un risolino mi
diede 28 e segnò la mia dipartita da Padova. Il grido di
“caffè” è restato nella mitologia della mia famiglia. Lo
usiamo indiscriminatamente sia io che mia moglie dopo la
pennichella, a perenne ricordo del mio amico Mauro.
Me ne andai da Padova, e il distacco non fu privo
di ripensamenti. A volte mi veniva alla mente il Lied di
Heinrich Isaac “Innsbruck, ich muss dich lassen”, a commento
musicale dei miei stati d’animo. Ma poiché ad ogni svolta
la vita apre nuovi orizzonti, quella decisione mi portò
fortunatamente verso sponde cui altrimenti non avrei mai
puntato.
g
104
JAZZ E AUTOSTOP
Jazz, passione giovanile – Il concerto di Coltrane e Miles Davis
– Pernottamento e colazione in Casa Jucker – Con Luca e Carlo
verso la Svezia – Sesso e Civiltà – Il Giardino del Re – Gazzelle e
leopardi – Ritorno a casa
Fin da quando nell’immediato dopoguerra i
soldati americani di stanza negli alberghi di Bellagio
facevano girare sui loro grammofoni i grossi V-Disc di
musica in dotazione alle truppe, la musica “degenerata”
dell’ex-nemico mi aveva conquistato. Erano i tempi dello
“swing”. Le “big band” di Glenn Miller, Duke Ellington,
Benny Goodman, Count Basie, Artie Shaw e molte altre dai
complessi arrangiamenti e orchestrazioni riempivano l’aria
di nuovi ritmi e colori. Negli anni seguenti il mio interesse
per il jazz era aumentato. Erano gli anni in cui Louis
Armstrong e Sidney Bechet erano accolti in Europa da folle
entusiaste, per nulla preoccupate del colore della loro pelle.
Un colore che invece era fonte di amare ripercussioni nel
loro paese d’origine. Ricordo che all’aeroporto di Milano
Louis Armstrong, scendendo dalla scaletta dell’aereo, era
stato sorpreso e commosso di trovare ad attenderlo un
gruppo di musicisti locali che nello stile di New Orleans,
la sua città natale, suonavano “Basin Street Blues”.
Anni dopo, nell’augusta Aula Magna del Liviano
a Padova, assistetti a un concerto del Modern Jazz Quartet.
John Lewis, Milt Jackson, Percy Heath e Connie Kay,
105
elegantissimi nei loro smoking, quasi ieratici, confutavano
la nozione diffusa in quel periodo che il jazz è musica
semi-cacofonica, non seria, solo buona per pestare i piedi
a ritmo, da non prendere in considerazione se paragonata
alla musica cosiddetta “classica”. Mentre il MJQ eseguiva
i suoi pezzi, un pubblico di studenti e professori ascoltava
in perfetto silenzio fughe e strutture armoniche ispirate al
barocco di Bach, su cui si innestavano come trapunti di un
merletto melodie e ritmi al tempo stesso robusti e delicati.
Incontrai molti anni dopo John Lewis al Blue Note, un locale
di Manhattan, e molto gentilmente mi diede informazioni
sullo spartito di una sua suite impressionistica incisa da un
quartetto d’archi e un complesso jazz che includeva anche
un contrabbassista zigano. La suite era stata composta a
Milano in sei giorni, su richiesta di Eriprando Visconti per
la colonna sonora del film “Una Storia Milanese”. Di
quel film la parte più memorabile fu appunto la colonna
sonora.
Al Liviano ascoltai pure Ornella Vanoni, esordiente
con un programma di canzoni rinascimentali. Ancora non
si era data “senza fine” alla musica leggera. In un teatro
di Padova fui presente anche a un concerto del quartetto
“piano-less” di Gerry Mulligan e Chet Baker; e mi capitò
di incrociare Mulligan sotto i portici di una delle strade
padovane: alto, allampanato, i capelli a spazzola, con al
braccio una bella ragazza. La perfetta immagine dell’AllAmerican Boy.
g
Fu proprio mentre sovrapensiero fischiettavo
“Bernie’s Tune” di Gerry Mulligan, che incontrai Marco
Borlandi, uno studente più giovane di me, anche lui iscritto
a Chimica e come me appassionato di jazz. Marco aveva
notato che tenevo sotto il braccio una copia di “Musica
Jazz”, il mensile di Giancarlo Testoni e Arrigo Polillo, la più
autorevole rivista italiana di critica e divulgazione, e si era
avvicinato per fare la mia conoscenza. Eravamo nel cortile
106
principale del Bo, e scoprimmo che abitavamo nella stessa
Casa dello Studente. Diventammo amici, lo siamo ancora.
Nel marzo del ’60 dovevano arrivare a Milano per
un concerto John Coltrane e Miles Davis, grossi nomi del
jazz d’oltreatlantico. Marco ed io non potevamo perdere
l’occasione, ma squattrinati come eravamo, non potevamo
permetterci il viaggio in treno e il soggiorno in albergo.
Decidemmo di fare l’autostop, affidandoci al fato per
il pernottamento. Di camion in camion, e grazie anche
a qualche benefica automobile, arrivammo a Milano in
tempo per il concerto, che risultò di notevole importanza e
impatto polemico sulla critica, perché gli italiani non erano
preparati alla musica d’avanguardia di Trane e Miles. Nella
balconata del teatro mi capitò di incontrare una ragazza
italiana di Mogadiscio, con cui da tempo avevo iniziato
uno scambio di lettere, in visita a dei suoi parenti milanesi:
Mariola, la Vergine Somala. Era stata soprannominata
così dal mio amico e compagno di stanza Giampi
Giberti, che mai mancava di risparmiarmi la sua ironia.
All’uscita del concerto, Marco era riuscito a
ottenere sul programma gli autografi degli artisti. Io nel
frattempo avevo attaccato bottone con un ragazzo, Paolo
Jucker, anche lui in cerca di autografi. Gli dico “Senti, non
abbiamo dove passare la notte. Non avresti un posticino
per noi, che so io, in cantina a casa tua, magari per terra.
Domattina ripartiamo per Padova.” Paolo, sorpreso ma
non indifferente alla nostra sorte di apprendisti barboni, ci
dice: “Ragazzi, non è il caso che vi faccia dormire per terra
in cantina. A quest’ora di notte non vi posso portare in casa,
ma se volete restare a dormire in una delle automobili nel
mio cortile, siete benvenuti.” “Benissimo, grazie Paolo,”
rispondiamo noi. E così ci ritroviamo verso l’una di notte
nei paraggi della Fiera Campionaria, in un cortile cintato
da muri e inferriate, ai cui lati stanno tre case. Paolo ci dice
“In quella casa sta la mia famiglia, nell’altra mia nonna, e
nella terza alcuni zii. Adesso vado a letto. Buonanotte, ci
vediamo domattina.”
Intimiditi e grati di tanta magnanimità, gli
auguriamo la buonanotte e ci rintaniamo in una delle
107
Z
JA
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IL M
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108
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U
Q
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automobili, per fortuna ben più vasta di una Fiat 500.
Raggomitolati uno sul sedile anteriore e l’altro su quello
posteriore, bene o male ci addormentiamo. Al mattino ci
sveglia un picchiettio sui vetri: “Il signorino Paolo vi invita
a colazione,” ci annuncia il maggiordomo. Stropicciandoci
gli occhi e rassettandoci i panni, lo seguiamo docilmente
dentro casa, dove una tavola è già imbandita: caffè, latte,
brioches, marmellata, insomma quanto ci voleva per
placare la nostra fame da lupi.
Seduto a capotavola, ci riceve amabilmente
il padre di Paolo, il sig. Jucker. Un uomo dall’aspetto
molto distinto e leggermente distaccato, che dissimula
la sua sorpresa nel trovarci a colazione grazie all’ottima
educazione borghese d’oltralpe, nella quale la tolleranza
ha un ruolo fondamentale. Ci chiede: ”Come mai a queste
ore antelucane?”, e noi rispondiamo, scusandoci, che dovevamo prender a prestito urgentemente un libro di Paolo.
Lui, che forse vedeva e capiva tutto, accetta le nostre scuse.
Come compagni di scuola di Paolo avremmo dovuto essere
due ripetenti cronici, specialmente io, grande e grosso e
con la barba di due giorni. Mangiando, gli raccontiamo
storie di nostra invenzione estemporanea. Lui ci ascolta
incuriosito dalle nostre ciarle, e avendo notato un nostro
commento – per fortuna appropriato – a uno dei quadri alle
pareti, ci invita a visitare la sua collezione. E così scopriamo
il motivo di muraglie, inferriate e cancellate. Il sig. Jucker,
consigliere delegato e grosso azionista della Cucirini
Cantoni Coats Spa., possiede una fantastica collezione di
artisti del primo Novecento: Morandi, Carrà, De Chirico,
Rosai…Roba da far gola a musei e lestofanti. Alla fine si
accomiata da noi con signorile cordialità, il suo pensiero
probabilmente già volto alla imminente riunione del
consiglio d’amministrazione e al fatturato dell’azienda.
Paolo poi ci portò con se al suo liceo, dove il suo
racconto delle nostre avventure ci fruttò grande popolarità
tra i suoi amici, affascinati dalle nostre modiche infrazioni
al costume della buona società.
g
110
In quella lontana età felice, uno dei miti che
circolavano tra noi giovani era quello della Svedese, la
ragazza di facili costumi. In realtà, le ragazze svedesi non
erano affatto di facili costumi, ma non essendo in maggior
parte vittime della distorsione mentale imposta dalle
religioni monoteistiche in materia di sesso soprattutto nei
paesi del sud dell’Europa, si comportavano come persone
normali, senza remore e pregiudizi inibitori. Facevano
all’amore, insomma, coi ragazzi che a loro piacevano.
A questo proposito vorrei ricordare un saggio
di Luigi De Marchi, “Sesso e Civiltà”, coraggiosamente
pubblicato alla fine degli anni Cinquanta da Laterza,
che sulla base di dati storici ed etnologici dimostra come
le religioni, e in particolare dalle nostre parti la Chiesa
cattolica, abbiano instillato nelle menti dei giovani, e
purtroppo di molte ragazze, il tabù del sesso non rivolto
esclusivamente alla procreazione, meglio se praticato
solo “alla missionaria” e nei sacri vincoli del matrimonio.
Un lavaggio del cervello paragonabile a una forma di
infibulazione psicologica.
Come riporta De Marchi, san Paolo scriveva
ai Corinzi: “Egli sarebbe bene per l’uomo non toccare
donna. Ma per le fornicazioni, ogni uomo abbia la moglie
ed ogni donna il suo proprio marito…Io dico questo per
concessione, non per comandamento, perciocchè vorrei
che tutti gli uomini fossero come son io…”. Dei Padri
della Chiesa, Origene si era auto-castrato in gioventù
per fare un “fioretto”. Clemente d’Alessandria scrive
nel suo Paedagogus: “Praticare il coito, salvo a scopo di
procreazione, è far ingiuria alla natura”. Per sant’Agostino,
notoriamente promiscuo da giovane, “il sesso è il peccato
per antonomasia”– scrive De Marchi – “il peccato originale
di Adamo”: “Ex hoc vitio peccatum originale”. E ancora: “Inter
feces et urinam nascimur”.
Più in là nei secoli, san Bernardo esprime la sua
ripugnanza per la nostra condizione di primati in questi
termini: ”Se consideri attentamente quello che fuoresce
dalla bocca, dalle narici e da tutti gli altri meati del corpo
umano, ti accorgi di non aver mai veduto letamaio più
111
repellente… L’uomo non è altro che sperma fetido, ammasso
di sterco, cibo di vermi…”. E sant’Oddone di Cluny: “Ma
se rifiutiamo di toccare lo sterco o un flemmone anche con
la sola punta del dito, come possiamo desiderare di baciare
una donna, un sacco di sterco?”.
Per questi sant’uomini le donne non sono che pozzi
di libidine, abissi di putredine. Ciò non impedisce a san
Gerolamo di scrivere in una lettera alla vergine Eustocchia,
sua discepola: “Le mie membra erano coperte di un sacco
lacero. Il mio corpo straziato giaceva sulla nuda terra.
Eppure io, che per timore dell’inferno mi ero condannato
a questa prigionia ed alla compagnia degli scorpioni, mi
vedevo con la fantasia in mezzo a donne lascive. Il mio
volto era terreo per il digiuno, e la mia mente, dentro quel
corpo gelido, bruciava di libidine. Il fuoco della lussuria
divampava dentro al mio povero corpo ridotto quasi in fin
di vita. Ricordo che più volte passai la notte intera urlando
e singhiozzando e percuotendomi il petto…”. La cronaca
non ci dice se la buona Eustocchia abbia provveduto,
cristianamente, un minimo di sollievo al poveruomo.
De Marchi riporta pure che questa sessuofobia
esacerbata si spingeva al punto di evitare qualsiasi occasione
di denudarsi, per non esporre il corpo a tentazioni. Perciò
sant’Abramo Eremita evitò di lavarsi per cinquant’anni,
vivendo quindi in odore di santità. Santa Eufrasia visse
in un convento le cui monache non avevano mai fatto il
bagno; e sant’Ammone da vecchio si vantava di non essersi
mai visto nudo.
g
Questi esempi di santità di certo non erano presi
in considerazione da due studenti di mia conoscenza, Luca
Tomasi e Carlo Pallanza, che mi avevano convinto a seguirli
in un viaggio in autostop verso la Svezia, il paradiso delle
urì nordiche, a loro dire. Mi diceva Luca: “Non mi importa
che sia bella o brutta, basta che respiri.” E Carlo di rincalzo:
“Anche morta, purché ancor calda!”. Luca era un ragazzo
di media statura, con una faccia rosea paffuta e una forte
112
miopia corretta da spesse lenti. Pizzicava le corde di una
chitarra e cantava languidamente, senza dubbio a scopo
di irretire prede ancora in grado di respirare dopo averlo
ascoltato: “ ‘Na voce, ‘na chitarra e ‘o poco ‘e luna…”.
Carlo invece era alto e scheletrico, con una carnagione
biancastra e purulenta, pelo rosso e pizzo rado e filiforme
che dal mento gli ricadeva sul petto. Lo ricordo d’estate
al Lido di Venezia, la pelle color aragosta sotto il solleone,
pavoneggiarsi in spiaggia cercando di adescare le turiste
tedesche. Indossava un costume di lana a maglia che,
bagnato, calava pericolosamente al disotto dell’inguine,
rivelando di lato all’occhio dell’esterrefatto osservatore
penzolanti pudende ordinariamente celate al ludibrio degli
astanti.
Partimmo insieme, Luca, Carlo ed io, attraversando
la Germania e la Danimarca. Ricordo che al nostro passaggio
il campo di concentramento nazista a Dachau, nei dintorni
di Monaco di Baviera, conservava ancora le baracche che
avevano ospitato i detenuti. Le pareti di legno mostravano
graffiti di povera gente ormai a corto di speranze. A Colonia,
la cattedrale era rimasta miracolosamente intatta in mezzo
a una grande piazza ridotta a un cumulo di macerie dai
bombardamenti. Per fortuna le autostrade – le rinomate
Autobahnen, opera faraonica di Hitler – erano ancora in
funzione. Di ritorno pochi anni dopo, trovai che Dachau era
stato reso asettico eliminando le vecchie, dolorose baracche
e conservando solo il loro perimetro marcato da blocchi di
pietra, al cui interno era stata sparsa ghiaia. La cattedrale di
Colonia era di nuovo circondata da case e da strade ripulite
da ogni maceria, a testimonianza della determinazione dei
tedeschi di sopravvivere allo sfacelo del Terzo Reich.
Arrivati a Stoccolma, mi separai da Luca e Carlo,
e quindi non seppi mai quante ragazze vive, moribonde
o morte di recente avessero conquistato. Io trovai lavoro
come sguattero nei ristoranti, a volte lavorando per due
turni di fila, per poi finire la notte, stanco morto, in qualche
club ad ascoltare il jazz locale. Una mattina, tornando in
tram verso la casa che mi ospitava, mi addormentai sul
sedile e fui svegliato al capolinea dal conduttore.
113
Per fortuna il lavoro mi lasciava tempo per qualche
svago. Il posto preferito dai giovani, in quella luminosa
estate nordica, era il Kungsträdgården, il giardino del re,
vicino al palazzo reale, nel centro di Stoccolma e a poca
distanza da un braccio di mare. Una specie di parco e
giardino botanico, con caffè e ristoranti, dove la gente
sdraiata sull’erba o sulle panchine cercava di assorbire
ogni raggio di sole della breve estate. Era facile sedersi a
un tavolino di caffè e fare amicizia con qualche ragazza,
locale o in visita alla capitale. Ne ricordo due in particolare:
Ingrid, la Figlia del Pastore, e Marianne. Ingrid era la figlia
di un pastore luterano di Malmö, nel sud della Svezia. Mi
aveva invitato a casa sua per un weekend, in una grande
villa sul mare. La notte, quando i genitori dormivano,
arrivava in camicia da notte nella mia stanza per infilarsi
nel letto e bisbigliarmi antiche leggende scandinave, storie
di giganti, di elfi e di spiriti delle acque. Marianne invece
era una vera vichinga. Alta, robusta e di spirito pratico, era
una giovane donna indipendente e sicura di se. Un perfetto
esemplare di svensk flicka. Venne a trovarmi in Italia l’anno
seguente, e la ricordo con gran simpatia.
Al Kungsträdgården incontrai anche Mario
Andreucci, un giovane giornalista di Lucca. Al passaggio
di ogni bella ragazza si voltava e facendo buon uso della
sineddoche salmodiava una sua giaculatoria: “Bella mi’
topa, bella mi’ topina…”, una tradizionale invocazione
toscana al sacro tabernacolo della femminilità. Poi si
metteva a cantare mezzo in inglese e mezzo in francese
“Darling, je vous aime beaucoup - Je ne sais pas what to do…”.
Le prodezze canore degli italiani hanno un potere di
seduzione preternaturale, soprattutto sulle straniere. Lina
Wertmüller ce ne ha dato un saggio col personaggio di
Pasqualino Settebellezze.
Una sera, in macchina con un altro italiano, Mario
ed io inseguimmo per le strade che tagliano i boschi della
periferia di Stoccolma un’altra automobile con tre ragazze.
Il sole di mezzanotte era ancora alto quando le ragazze,
impressionate dalla nostra ostinazione, come gazzelle
inseguite dai leopardi alla fine si arresero e ci accolsero
114
nelle tende di un loro campeggio. Furono amplessi al
sapore di sale, le ragazze non avevano avuto il tempo di
far la doccia…
Alla fine di quell’estate, con un po’ di soldi in
tasca guadagnati lavando piatti e sparecchiando tavole,
ripresi la strada di casa, questa volta per conto mio. Luca
e Carlo erano svaniti molte settimane prima nei viottoli
della Gamla Staden, la città vecchia di Stoccolma. Ormai io
ero un veterano dell’autostop, ed è notevole che in quel
dopoguerra non ci si sentisse in pericolo girando di notte
per le città o chiedendo un passaggio a sconosciuti. Ma
allora l’unica droga a disposizione del grosso pubblico era
l’alcol, sotto forma di vino, birra e liquori.
Di quel viaggio di ritorno ricordo qualche episodio.
In un pomeriggio di pioggia, ai bordi di una strada danese
era ferma una Lancia targata Italia che aveva investito
un piccolo cerbiatto. I suoi occupanti, preoccupati, non
sapevano se mettere il cadaverino nel bagagliaio o farlo
sparire in qualche altro modo. Paludato in un poncho di
plastica col cappuccio li avevo raggiunti a piedi. Come
se in Danimarca tutti parlassero italiano, gli assassini
involontari di cervi mi avevano subissato di parole nella
mia lingua materna, spiegandomi quello che era successo,
e che il cervicidio non era colpa loro ma dell’incauto Bambi.
Ero tentato di rispondere in un mio danese raffazzonato
per l’occasione, ma poi il buon senso prevalse sulla mia
scapestrataggine, e in buon italiano li rassicurai che non
dovevano temere l’incarcerazione, i cervicidî sono cose che
capitano. E loro, strabuzzando gli occhi: “Ma come parla
bene l’italiano questo giovane”. E io: “L’ho imparato a casa
mia, in famiglia lo parlano tutti…”, proseguendo per la
mia strada senza fornire ulteriori schiarimenti.
Avvistato il mio pollice al vento, su un’autostrada
tedesca una Volkswagen si ferma per offrirmi un passaggio.
A bordo un uomo di mezza età, grasso e calvo. Dopo pochi
chilometri e un abbozzo di conversazione, il guidatore
sposta una mano dal volante e me la piazza sulla coscia.
Io, imperturbato, la sollevo con due dita come fosse un
ranocchio e gliela riporto dal suo lato. Lui, senza far motto,
115
mette fuori la freccia , si sposta al lato della strada, e mi
ingiunge: “raus!”. In meno di mezz’ora il mio pollice si
ritrovò al vento.
Dopo numerosi, infruttuosi tentativi di fermare
macchine, in una stazione di servizio in Germania vedo
un’Alfetta che sta facendo benzina con due giovani uomini
a bordo. Mi avvicino col mio zaino in spalla, e titubante
gli chiedo se possono darmi un passaggio verso il sud.
Loro, elegantemente vestiti con giacche sportive, foulard al
collo, occhiali da sole di marca, mi squadrano sospettosi. Io
gli propino una litania commovente: “Sono uno studente
padovano, sono stato tre mesi in Svezia per lavorare
durante l’estate e mantenermi agli studi. Sto tornando a
casa in Italia prima dell’inizio dell’anno accademico. Mia
mamma mi sta aspettando.” Evocare la figura materna
non manca mai di smuovere i cuori più acerbi, e i due mi
dicono: “Salta dentro”. Erano due giovani ingegneri, uno
di essi un rampollo – di cognome Gallo o Pomi – dei titolari
della Gallo Pomi Spa. di Milano, una compagnia che
allora forniva attrezzature per il design e la progettazione.
Durante il tragitto si rassicurarono che non ero un ricercato
dall’Interpol. Andò a finire che mi portarono con loro a
cena in un ristorante. Benedetti, non li ho mai dimenticati.
g
116
TRANSFUGA A FERRARA
La fuga da Padova – Nebbia e galline – Schifanoia – Il cuculo
ozioso – Crisi letteraria – Angeli custodi – Un bel casino –
Il lamento del marmittone – Naja tripudians – Neve, whisky
e 7Up – Di guardia ai patrii confini – Ritorno a Ferrara – Amore
e termodinamica
Verso la fine degli anni Cinquanta mi ero reso conto
che a Padova i miei studi stagnavano. L’ambiente era per
me diventato alienante. Non ero mai stato bocciato a un
esame, ma spesso non mi decidevo a darne, non sentendomi
mai preparato a sufficienza. In retrospettiva, le mie paure
erano del tutto infondate. E sempre in retrospettiva,
più che di mancanza di voglia di studiare penso di aver
sofferto di insicurezze, prodotto di numerose cause che
un buon psicologo avrebbe potuto curare facilmente. Ma
nessuno me lo aveva consigliato. Ricordo che una volta un
assistente, dopo aver esaminato il mio libretto mi disse:
”Ma lei, Torrazzi, se la cava bene. Perché non vuole fare
esami più spesso?”. Questa mia fobia per l’esame sparì
quando emigrai negli Stati Uniti. Superai diversi esami da
“graduate student” nelle università americane, sempre con
ottimi voti. Evidentemente il nuovo ambiente e maggiore
maturità mi avevano guarito.
La goccia che fece traboccare il vaso e mi decise al
trasferimento verso altre università fu l’esame di Organica I, sostenuto con l’ordinario, il prof. Bezzi buonanima.
Bezzi, non soddisfatto del numero di preparazioni delle
117
aldeidi che gli avevo sciorinato, dopo aver dato un’occhiata
al mio libretto mi disse di tornare alla successiva sessione
autunnale. Cosa che feci, preparandomi il meglio possibile
per ripicca. Bezzi, con un risolino ironico, mi diede 28.
Io avevo già deciso di andarmene, e ingrugnito afferrai il
libretto e mi dileguai. A Padova c’erano troppi studenti
per sperare in un rapporto coi docenti che non fosse quello
della lezione accademica. In principio avevo pensato a
Bologna, ma dopo aver visitato l’università mi resi conto
che, anche se convivere coi bolognesi sarebbe stato più
divertente che coi padovani, quell’ambiente di studi intimo
che cercavo non lo avrei trovato a Bologna.
Tra Padova e Bologna c’era Ferrara, città poco più
distante di Padova da Bolzano, dove stava la mia famiglia.
Un mattino di fine ottobre presi il treno e arrivai alla
stazione di Ferrara avvolta nella nebbia. Chiesi della sede
dell’università e m’indicarono la direzione del Castello
Estense. Camminando per Corso Cavour poco a poco la
nebbia andava diradandosi. C’era poco traffico, la strada
era quasi silenziosa. Arrivato all’altezza del Castello, dei
passanti mi dissero come andare in segreteria per ottenere
informazioni sui corsi e le iscrizioni. La sede centrale
dell’università non era distante, mi sembra fosse in via
Scienze, una trasversale di via Mazzini. Vi arrivai in pochi
minuti. Erano circa le undici del mattino, la nebbia era
scomparsa, e mi trovai di fronte a una vecchia palazzina di
stile tra il rinascimentale e il barocco, che tra l’altro ospitava
l’antica biblioteca ritratta nel film di De Sica “Il Giardino
dei Finzi-Contini”. Attraverso un grande portone entrai
in un cortile acciottolato e subito fui accolto da un branco
starnazzante di galline che si dispersero al mio passaggio.
Un ragazzo che aveva notato il mio sguardo esterrefatto mi
disse: “Fanno parte di un progetto di studi.” “Bene – pensai
– ho trovato il posto che fa per me.”
In segreteria mi consigliarono di andare a parlare
col prof. Barnabè all’Istituto Chimico di via Scandiana.
Ferrara, o almeno la parte antica della città recintata
da massicce mura, si attraversa facilmente a piedi. Nel
pomeriggio mi presentai da Barnabè. Allora l’Istituto
118
Chimico era alloggiato in una porzione dell’antico palazzo
Schifanoia, una “delizia” voluta nel XV secolo da Borso
d’Este, il primo degli Estensi a fregiarsi del titolo di duca.
Per fortuna i fumi della chimica non potevano raggiungere
gli incomparabili affreschi della Sala dei Mesi. Dall’altro
lato del cortile c’era la Facoltà di Farmacia. I laboratori
chimici erano in gran parte negli scantinati, antichi fondaci
dove forse il Paracelso aveva cercato di creare l’omuncolo.
Avevo affondato i piedi nella storia della chimica.
Barnabè era un uomo tra i quaranta e i
cinquant’anni con i capelli lisciati all’indietro sul cranio,
“alla mascagna”, come usava pettinarsi il compositore di
Cavalleria Rusticana. Mi ricevette molto cordialmente, e
dopo aver ascoltato le mie vicende, resosi conto di quello
che volevo concluse il nostro incontro dicendomi “Venga
da noi, Torrazzi. Studi, e vedrà che con noi si troverà bene.”
E così fu.
Il prof. Barnabè era un residuato di guerra.
Richiamato alle armi durante gli inani sforzi bellici
dell’Italia nei primi anni Quaranta, si ritrovò in divisa
come ufficiale del regio esercito. Non so come se la sia
cavata dopo l’8 settembre del ’43, ma alla fine della guerra
tornò a Ferrara, e prontamente laureatosi restò all’Istituto
Chimico come Aiuto del prof. Marotta, il capo d’istituto. A
quei tempi tutti i reduci venivano giubilati senza troppa
fatica. Dopotutto si meritavano qualche riconoscimento
per essere riusciti a salvare la pelle in quel marasma cui
era ridotta l’Italia. In pratica, Barnabè divenne il factotum
dell’istituto e il Ragazzo Venerdì di Marotta. Ogni
decisione amministrativa, ogni acquisto di strumenti e
di materiali, passava attraverso Barnabè. Era il deus-exmachina dell’istituto. In linea di principio Barnabè era in
carica dell’insegnamento di Chimica Analitica. Infatti in
un corridoio che dal mezzanino scendeva negli scantinati
troneggiava un mastodontico gascromatografo a valvole
termoioniche – ben pochi a quei tempi sapevano cosa
fossero i transistor. (Anni dopo a New York incontrai John
Bardeen, uno degli inventori del transistor e Premio Nobel).
Con il mastodonte Barnabè e i suoi laureandi, questi ultimi
119
definiti con reminiscenze pascoliane dal collega prof.
Respighi “del cuculo ozioso i piccolini”, perpetravano
oscure ricerche.
A me Barnabè piaceva per quel tanto di fureghino
che gli consentiva di navigare, ad onta della sua opinabile
natura di scienziato, le spesso burrascose acque della vita
accademica. Non dimenticavo la cordialità quasi paterna
con cui mi aveva accolto, direi a braccia aperte. E anche
se a volte durante le sue lezioni mi redarguiva “Torrazzi,
vuol prestare attenzione!” avendo sorpreso i miei occhi
vaganti sulle compagne di corso, non potevo impedirmi
di trovarlo estremamente simpatico. E poi parlava mezzo
in italiano e mezzo in dialetto emiliano, abitudine a mio
parere affascinante.
Trasferendomi da Padova a Ferrara mi ero
ripromesso di non leggere niente che non avesse a che
fare con la chimica. Quindi basta Vittorini, niente Garcia
Lorca, sul comodino vicino al letto al posto dell’Imitazione
di Cristo (leggevo di tutto, ma la prosa di Tommaso da
Kempis era utilissima per addormentarsi) doveva stare il
libro di Chimica Analitica, per rammentarmi di imitare il
prof. Barnabè che mi avrebbe giudicato e mandato secondo
che mi avesse avvinghiato. Devo confessare che questa
mia rinuncia agli ozi con le lettere aveva creato in me un
senso di privazione intellettuale palpabile. Che s’ha da fare
per potersi laureare... Per mia fortuna in quei frangenti
avevo incontrato Amedeo Pornari e Alessio Scalchi. Erano
studenti seri, Deo e Alex, con cui l’associazione avrebbe
dato frutti. Bravissimi ragazzi, l’uno un po’più, l’altro un
po’ meno cattolico. Li consideravo entrambi i miei angeli
custodi.
Deo era un transfuga dalla facoltà d’ingegneria.
Dopo diversi scontri con l’ordinario di matematica, il
prof. Zwirner, Deo aveva optato per la chimica, dove
l’insegnamento della matematica era meno rigoroso. Io
stesso ebbi a che fare con Zwirner, ordinario a Ferrara ma
incaricato dell’insegnamento di Istituzioni di Matematiche
I e II per chimici a Padova. Me la cavai con un 25 e un
24, rispettivamente. Il mio terzo incontro con Zwirner,
120
incruento, avvenne sul pullman da Venezia a Padova,
dove per caso andai a sedere proprio dietro al professore
e a un suo collega. Ricordo che i due congetturavano il
recente suicidio del prof. Caccioppoli, genio matematico
dell’università di Napoli, pianista a livello professionale,
e nipote del famoso anarchico Bakunin. Io li ascoltavo
interessato. Benché non mi ritenga anarchico, la mia morale
è condensata in questo detto di Bakunin: ”La libertà, la
moralità e la dignità umana dell’individuo consistono
precisamente in questo; che non si opera il bene perché si è
forzati a farlo, ma perché lo si concepisce liberamente, lo si
desidera, e lo si ama.”
g
Il passaggio di Deo da ingegneria a chimica fu, a mio
parere, alla base delle sue fortune e, di conserva, delle mie.
Deo si laureò nel ’63, restando come assistente-ricercatore
del Cnr in Istituto Chimico a Ferrara. Da lì sbocciò la sua
carriera accademica, che passando per la Francia si concluse
trionfalmente con una cattedra in un’università del nord.
Ricordo che durante il mio primo soggiorno
ferrarese avevo trovato alloggio in una stanza la cui
finestra dava su un vicolo. La casa di fronte ospitava
il bordello cittadino. Deo, non ancora laureato, veniva
spesso a studiare da me. Preparavamo insieme un esame
complementare di cui non ricordo il nome, ma ricordo che
un test da imparare comportava l’applicazione di “cento
colpi di maglietto”, sa il cielo a cosa. Durante le pause per
rilassarci sbirciavamo dalla finestra l’andirivieni nel vicolo
sottostante. La senatrice Merlin non aveva ancora privato
il focoso maschio italiano di quella secolare istituzione che
dando sfogo a naturali umori non metteva allo sbaraglio
madri e sorelle, preservandone le domestiche virtù. Era
risaputo infatti che, fatta eccezione per mamma e sorelle,
tutte le donne sono puttane. A volte l’eccezione veniva
fatta anche per la moglie.
Tutto stava andando a gonfie vele. Facevo esami
e contavo di laurearmi insieme a Alex e Deo nell’estate
121
del ’63. Ma il diavolo mette sempre la coda tra le migliori
intenzioni. Nel mezzo del ’62 il distretto militare mi notificò
la imprescindibile chiamata alle armi. E così, dando addio
agli studi fecondi, nell’autunno del ’62 mi presentai mogio
mogio al Car (Centro addestramento reclute) di Verona.
Ricordo che un ex-compagno di liceo, ufficiale di carriera,
mi incontrò in divisa da marmittone e mi fece “ma che bel
soldatino!”. Roba da vomitargli addosso.
In precedenza ero stato mal consigliato da un
assistente di Chimica a Padova che aveva prestato servizio
presso l’ospedale militare e insegnava un suo corso
indossando il camice sopra la divisa. Mi aveva detto “avrai
più libertà come soldato semplice che come ufficiale”, e
credendogli feci del mio meglio per non essere accettato al
corso ufficiali. Grave errore, di cui pagai le conseguenze,
ma che mi convinse di un assunto fondamentale: meglio
salire verso la cima, quando se ne ha l’opportunità.
Dopo i regolamentari tre mesi di Car arrivò il
giorno del giuramento di fedeltà alla patria, il cui testo era
recitato da qualche maresciallo e doveva essere coronato
dal grido corale di noi reclute: “Lo giuro!”. Eravamo stati
in precedenza redarguiti “Non sognatevi di gridare ‘l’ho
duro!’ ”. Era un invito a fare esattamente quello. Poi fui
assegnato ad un ufficio di Verona. Là incontrai un paterno
maresciallo che mi prese a benvolere e mi disse “tu studia,
non preoccuparti d’altro”. Ma stupidamente mi diedi da
fare per essere trasferito a Bolzano, pensando di avere ancora
più libertà. E invece, artigliere da montagna, finii nella più
rigida naja alla Caserma Huber, ricordata anche da Sergio
Saviane in una delle sue schioppettate ai mezzibusti e loro
compagni di strada ne “L’Espresso Desnudo”. Ricordo che
nei giorni del blocco navale a Cuba ordinato dal presidente
Kennedy, noi truppe Nato dovemmo dormire in completo
assetto di guerra per tre giorni, zaino affardellato e carabina
Winchester ai piedi della branda, pronti ad essere impegnati
in qualche teatro di operazioni europeo.
g
122
Non mi dilungherò troppo a parlare di un periodo
della mia vita che, lungi dal migliorare il mio carattere,
lo aveva incrudito al contatto con beceri in divisa. E più
alto il rango, più beceri li ritrovavo. Al loro confronto mi
parevano più signorili i commilitoni scesi dai paesi delle
montagne e perciò assegnati alle stalle dei muli, anche se il
loro divertimento preferito era quello di stuzzicare i genitali
delle mule con manici di scopa, ridendo sgangheratamente
alle reazioni delle povere bestie. Il comandante della
caserma Huber, in particolare, era un obeso colonnello che
credeva di ottenere il rispetto dei subordinati inchiodandoli
sull’attenti con una grinta altezzosa al limite del ridicolo.
Di fattezze simile a un porcello, i subordinati lo avevano
soprannominato “Il Maiale”.
Il responsabile del mio gruppetto di artiglieri
montani addestrati al calcolo dei dati di tiro era l’inoffensivo tenente Malerba, che scompariva dentro al Circolo
Ufficiali appena possibile per farsi una partita a carte coi
commilitoni e bersi un cicchetto. In modo da non passare
un sol giorno più del necessario in quei panni, io mi
sforzavo di esser ligio ai regolamenti al punto che una
volta il capitano Manfredini, comandante della mia
compagnia, mi disse “ma tu non sarai mica malato di
naja”, intendendosi per malato di naja un patito della vita
militare. Ricordo anche il sadico tenente Ronchetti che si
divertiva a sfottermi non tollerando il fatto che io stessi
per laurearmi mentre lui aveva fatto “solo” ragioneria.
Onoratissima professione a mio parere, ma non in quello
della classista borghesia italiana.
La sera noi reclute dovevamo subire le tradizionali,
moderate angherie degli “anziani”. Loro, i “veci buferati”,
potevano andare in libera uscita e a noi “cappelloni”
che restavamo in caserma cantavano: “Brutta cappella
va in branda, va a dormir – mentre l’anziano va fuori a
divertir…”. “Su con le sbardele” era l’incoraggiamento
dei miei commilitoni quando al campo invernale ci
inerpicavamo per i “crozi” coperti di neve attaccati alle
code dei muli. (Cerco ancora di tenerle su, le vecie sbardele,
salendo per i crozi della vita). A noi marmittoni avevano
123
dato in dotazione per dormire nei fienili solo due coperte.
Dormivamo con gli scarponi ai piedi, perché al mattino
sarebbe stato difficile calzare quei blocchi di ghiaccio. Agli
ufficiali, che avevano il permesso di passare la notte nel
più vicino albergo, avevano invece dato in dotazione il
saccopelo. Una pratica assurda. Chiesi a un sottotenente
di complemento di lasciarmi usare il suo saccopelo, e il
giovanotto acconsentì. Alla fine del campo lo restituii
in ottime condizioni al mio benefattore. Ma non passò
un giorno, il comandante della compagnia cui ero stato
assegnato per la durata del campo mi chiamò a rapporto,
e davanti a un gruppo di najoni e sottufficiali mi tirò un
lisciabusso. Pochi giorni prima era morto un alpino,
travolto da una valanga. Lo stronzo gallonato mi urlò con
tatto da cercopiteco: “Sai quello che è morto l’altro giorno?
Ormai tutti lo hanno dimenticato, anche la sua famiglia.
Ma se tu mi perdi un saccopelo, son cazzi amari!”. “Ma io
non ho perso il saccopelo, sior capitano. L’ho restituito al
tenente che me l’aveva prestato...”. Il resto di quella scena
da film surrealista l’ho dimenticato.
g
Nell’inverno del ’63 facevo parte di un
distaccamento a Corvara il cui compito era di insegnare a
un gruppo di militari americani i metodi della guerra di
montagna. Gli americani alle cinque di sera si mettevano
in borghese e se ne andavano a cena in qualche albergo,
strizzando l’occhio alle turiste tedesche. A noi, “brutte
cappelle” non era mai consentito di toglierci di dosso il
grigioverde, quel panno che ispirava ribrezzo alle fanciulle
di buona famiglia. La notte di Natale, smontando dal mio
turno di guardia, gli americani mi invitarono a dividere
con loro dei dolci, innaffiandoli con whisky e 7Up. Le
vettovaglie e altri generi di conforto erano arrivati dalla
base americana di Verona in elicottero! Altro che i viveri
della nostra sussistenza: minestre distribuite all’addiaccio
e bistecche che ci venivano scagliate nel gavettino e a volte
124
finivano nella neve. Poco male, le si spolverava prima di
azzannarle, affamati com’eravamo. D’accordo, queste erano bazzecole a paragone di quello che avevano sofferto gli
alpini nella campagna di Russia.
Trascorsi gli ultimi tre mesi di servizio militare
come responsabile – mi avevano promosso a caporalmaggiore – di un piccolo gruppo di soldati a guardia di
una centrale idroelettrica in Val Gardena. Era il periodo
in cui terroristi pangermanici valicavano il confine con
l’Austria e facevano saltare tralicci ammazzando le truppe
italiane di guardia. Io e i miei commilitoni dovevamo fare
la guardia al perimetro della centrale, ogni notte illuminato a giorno da riflettori. Calzavamo sopra agli scarponi
degli zoccoloni di legno per isolarci dal terreno ghiacciato.
La nostra mobilità era molto limitata. Sarebbe stato molto
facile per un terrorista calarsi tra i boschi, inquadrarci nel
suo mirino, e poi dileguarsi. Ancora oggi mi chiedo come
i nostri comandi avessero potuto mettere sia noi alpini che
la stessa centrale a tale sbaraglio. Del mio soggiorno coatto
in Val Gardena resta in bilancio positivo solo il permesso
dei buoni valligiani di usare le sciovie gratis quando
eravamo in libera uscita.
Senza ulteriori malanni alla fine mi ritrovai per
strada, congedato a tempo illimitato. Uscii di caserma
ancora in divisa insieme a un tedescotto delle valli, che
appena fuori dal portone si stracciò i pantaloni al ginocchio,
e così conciato trottò baldanzoso sotto gli sguardi allibiti
dei passanti. Appena spuntava all’orizzonte un militare
abbottonava il cappottone grigioverde a coprire l’oltraggio
alla divisa che lo avrebbe di nuovo sbattuto chissà per
quanto tempo in caserma. Io andai a casa e mi buttai
nella vasca da bagno. In tutti i diciotto mesi di naja riuscii
a fare solo un complementare, Chimica Bromatologica,
amministrato da un simpatico professore di Farmacia con
cui a Ferrara avevo spesso diviso la tavola in un ristorante
di famiglia a menù unico. Mi trattò con affettuosa cordialità
quando mi presentai all’esame in divisa. Al momento del
congedo pensai: mai più mi rivedranno in questi panni. La
predizione si avverò.
125
Dopo un periodo di riadattamento alla vita civile,
tornai a Ferrara nell’autunno del ’64. Mi mancavano ancora
i due esami di Chimica Fisica, Organica II, e forse un paio
di complementari. Io mi sono sempre trovato bene nel
preparare esami in compagnia di qualche altro studente. Ma
i miei due angeli custodi si erano ormai laureati. Incontrai
però una dolcissima fanciulla, Mirella Prini, molto più
giovane di me, che a grazie muliebri univa un’incrollabile
dedizione allo studio. Giusto quanto andava bene per me,
fin dalla più tenera età ammiratore dell’eterno femminino
in tutte le sue varianti. Mirella era il frutto degli amori
giovanili di un’attraente ragazza ferrarese, il cui partner si
era dileguato dopo aver sganciato lo spermatozoo fatale.
Ciò ovviamente aveva creato una spiacevole situazione per
la madre di Mirella, costretta a sbarcare il lunario da sola
in un ambiente sociale poco caritatevole nei confronti delle
madri nubili.
Le due donne abitavano in un appartamento di
una strada trasversale al Corso Giovecca e al Corso Porta
Mare. Mirella ed io passavamo il pomeriggio nel soggiorno,
ingurgitando le formule e le equazioni del Glasstone,
finalmente tradotto in italiano. Ma galeotto fu il Glasstone.
Un pomeriggio, tra un principio e l’altro di termodinamica,
soccombemmo a pressioni, volumi e temperature d’altra
natura. L’idillio neonato fu bruscamente interrotto
dall’arrivo della madre di Mirella, accompagnata dal suo
boyfriend, un fattore della Bassa Padana. “Lo dicevo io
che sarebbe finita così”, urlò la madre, molto preoccupata
per l’illibatezza della figlia messa in pericolo da uno che
– ahinoi! – non si era ancora laureato. Rassettatomi, tentai
di rabbonirla con una frase che avevo imparata nelle
seconde visioni dei cinema di periferia e nei romanzi di
Carolina Invernizio: “Le mie intenzioni sono onorevoli,
signora Prini”. Alle spalle della madre il bonario fattore
ridacchiava.
Per tagliar corto, da quel giorno fui accettato come
un semi-fidanzato. E durante l’estate riuscii persino a fare
un viaggio in Liguria con Mirella. Ricordo di esser stato con
lei a Lerici, nell’antico castello a strapiombo sul luminoso
126
golfo di La Spezia, nelle cui acque era annegato un secolo
prima Percy Bysshe Shelley. Il castello era stato costruito
dai normanni a difesa dai pirati turchi. Parte di esso era
stata convertita in ostello della gioventù. La vista dall’alto
degli spalti era incomparabile. Per un ripido sentiero si
poteva scendere fino alla spiaggetta e nuotare intorno alla
scogliera, cogliendo granchi e ricci di mare.
Ricordo pure una gelida notte di capodanno a
Ferrara, passata insieme a lei a qualche veglione, e terminata con uno scivolone sul ghiaccio davanti all’Arcispedale
Sant’Anna che quasi ci aveva spedito proprio all’ospedale.
Il mio rapporto con la signora Prini era nel migliore
dei casi agrodolce. La mia suocera morganatica, per così
dire, non mancava di lanciarmi strali se le si presentava
l’occasione. Per esempio, ogni tanto mi diceva “e come sta
il dottor Pornari?”, calcando sarcasticamente sul “dottor”,
in tal modo contrapponendo senza possibilità di equivoci
la gloria dell’Unto dal Signore all’abiezione del verme che
ancora strisciava nel sottobosco universitario.
Ma Deo con me non metteva su arie da Unto.
Anzi, si prodigava per aiutarmi. Già sposato con la bella
Annora e con un figlio infante, viveva dei magri proventi
di ricercatore all’Istituto Chimico. A volte andavo a casa
loro, e se c’era una sola bistecca se ne privavano per darla
a me. Deo mi raccontava che il prete della parrocchia locale
spesso li visitava, spronandoli a fare altri figli. E Deo mi
diceva, neanche me li mantenesse lui... Perlomeno però il
prete non gli fregava la bistecca!
Comunque, sia la madre di Mirella che la mia, per
motivi più chiari a loro che a me, non vedevano di buon
occhio la nostra relazione. Credo che avessero deciso di
comune accordo che non eravamo fatti l’uno per l’altra.
E, visti i successivi eventi, non avevano tutti i torti. Poco a
poco la mia relazione con Mirella si sfaldò. Io alla fine mi
laureai. Lei continuò i suoi studi e finì per fare il lavoro
di tesi sotto la guida del prof. De Benedetti, con cui in
precedenza anche io avevo lavorato. Nel 1961 era stato
inaugurato a Pisa il primo calcolatore scientifico italiano,
la Cep (Calcolatrice elettronica pisana). Una delle prime
127
macchine “mainframe” messe in funzione in Italia dalla
Olivetti. De Benedetti, ottenuta la cattedra di Chimica Teorica, aveva sistemato Mirella come sua assistente addetta
alla programmazione in Fortran. Sembra che tale compito
avesse procurato notevoli frustrazioni alla povera ragazza,
forse compensate da un interesse di De Benedetti per la
sua protetta che debordava dai limiti del professionale.
(Così almeno la contava Deo. Alex invece era di solito un
campione di discrezione.)
A me di Mirella è rimasto un ricordo affettuoso, e
spero che la vita le abbia dato più soddisfazioni di quelle
ottenute a Pisa in quei lontani anni Sessanta.
g
128
AMARCORD DI FERRARA
Veronica e Liliana – Ninuzzo e Nunziante – Pendenza – Librai
ambulanti e sognatori
Questi miei ricordi gorgogliano dal fondo della
memoria come l’acqua che dopo un temporale tracima dai
tombini in fiotti e singulti e si dirama in rigagnoli ai bordi
delle strade, prima di gettarsi nel gran fiume che prima o
dopo tutti dovremo attraversare.
Ricordo Veronica, l’emblema della pudicizia, con
un’espressione perennemente melanconica e una bocca
che D’Annunzio avrebbe trovato “nu poco pocorillo
appassuliatella”. Abitava in un appartamento di via
Mazzini, di fronte alla vecchia sinagoga ortodossa di cui
parla Bassani nei suoi racconti. Sulla facciata della sinagoga una grande lapide ricorda i nomi dei ferraresi che,
solo colpevoli di appartenere alla comunità israelita, furono
deportati in Germania o in Polonia per morire nei campi
di sterminio nazisti. Quella lapide mi ispirava una strana
commozione ogni volta che le passavo davanti, come se
nelle mie vene scorresse del sangue semita. Eppure mio
padre, fascista convinto, prima di sposarsi aveva fatto
ricerche genealogiche appurando che almeno per sette
precedenti generazioni non c’erano ebrei nelle famiglie.
Però probabilmente c’erano arabi, poiché il cognome di
mia madre era De Mori. Tutto sommato, qualche goccia di
sangue semita forse mi è rimasta nelle vene.
129
Veronica sfioriva anzitempo, io credo perché come
una vestale custodiva gelosamente la sua verginità, da
espugnare solo dopo consacrati imenei. Ma ho un ancor più
vivido ricordo di una sua sorella minore che mi fissava con
occhi di giovenca mansueta quando cercavo di provocarla
con qualche blanda ribalderia. Lei abbozzava un timido
sorriso e il suo corpo, un peana alla fertilità, ondeggiava
imbarazzato. Io ero abbagliato dai suoi seni, erti come
diamanti di bugnato, luminosi pomi da giardino delle
Esperidi straripanti dalla camicetta troppo stretta. Seni
degni di un’elegia di Ramon Gomez de la Serna. Candidi
promontori a guardia della vallata in cui si celava un’oasi
verdeggiante per il refrigerio del viandante assetato.
Ricordo pure Liliana, giovinetta di buona famiglia
con occhi azzurri sognanti e chiome dorate. Purtroppo
era afflitta da una leggera imperfezione, una pronunciata
arcuatura delle gambe, la “sindrome del cavallerizzo”.
A mio parere questo aumentava i suoi pregi, consentendo
arcani amplessi. Ma certi giovinastri screanzati che
bivaccavano al bar dei vitelloni, al suo passaggio non si
peritavano di farne oggetto di lazzi e sarcasmi: “A’ gh’passa
el tren!”. “A’ l’è nada ‘n su ‘na bott!”.
g
Durante il mio primo soggiorno a Ferrara,
dall’autunno del ’60 all’estate del ’61, trovai alloggio alla
Casa dello Studente, sull’ampio Corso Giovecca, dal lato
opposto all’Arcispedale Sant’Anna, a poca distanza dalle
Mura degli Angeli. Molti degli studenti erano, come me,
transfughi dall’Università di Padova. Molti provenivano
dal sud dell’Italia. La fauna più colorita che abitava nella
Casa dello Studente era quella che popolava la Facoltà di
Medicina. Tra gli aspiranti medici uno dei più memorabili
era Ninuzzo, un meridionale che ripeteva ogni esame un
numero incredibile di volte fino a che, un po’per pietà e un
po’per toglierselo dai piedi, non gli rifilavano un diciotto.
E così, di bocciatura in caritatevole promozione, Ninuzzo
era arrivato verso i quarant’anni alle soglie della laurea.
130
Bassissimo di statura, quasi uno gnomo, si meravigliava
che ad ogni esame di patologia i professori gli ponessero
sempre la stessa domanda: “nanismo e cretinismo”.
Di lui si diceva che nel corso dell’esame di semeiotica il
professore, volendo che Ninuzzo gli descrivesse il riflesso
del Mingazzini, gli chiese ”Mi trovi il Mingazzini”.
Ninuzzo corse fuori dalla corsia gridando “Mingazzini, il
professore vuol vedere Mingazzini!...”.
Ma forse questi sono aneddoti polverosi che fanno
il giro di tutte le università. Come la storia dello studente
di ingegneria cui all’esame di Chimica Generale era stato
chiesto di definire il pH. E lui intonò “pH o HP, cavallo
vapore...”.
Ricordo il barese che alla Casa dello Studente
cercava di venderci le dispense dei Fratelli Fabbri. Anche
lui transfuga a Ferrara, era quello che a Padova era
affascinato dai “pubbbe” di Modigliani. “Guelfe, Guelfe
– mi diceva – vieni a vedere quanto sono bbelle queste
riproduzzioni, Vanghegogg, Goghenn, Tulùs Lindregg...”.
Ma soprattutto indimenticabile è Nunziante Donnarumma,
anzi Donnarumma Nunziante, come usava presentarsi. Un
napoletano che sembrava uscito da una litografia a colori
della festa di Piedigrotta. Donnarumma Nunziante era di
media statura, corpulento, capelli neri lustri di brillantina,
naso rincagnato e labbro inferiore carnoso e pendulo. Un
uomo di eccezionale bruttezza. Si era messo in testa di
sedurre una giovane sarta che io avevo conosciuto in una
balera di Codigoro e che, trovandomi simpatico e sempre
disposto ad ascoltarla, mi confidava i suoi problemi. Anzi,
il suo unico problema: Donnarumma Nunziante. Il quale
non faceva mistero con nessuno delle sue intenzioni
predatorie, dichiarando le sue carte come un giocatore
di poker, tanto che gli amici ridacchiando gli chiedevano
continuamente “A Nunzia’, allora te sei fatto ‘sta sartina?”.
Lui rispondeva sibillinamente “aumma aumma”.
Un giorno incontro la ragazza in via Borgo di Sotto.
Lei mi ferma e mi racconta in dialetto (purtroppo la mia
scarsa conoscenza del vernacolo mi impedisce di riportare
la conversazione in tutta la sua efficacia), ” Sapessi cosa
131
mi è successo, Guelfo. ‘Sto boia di un Donnarumma suona
il campanello di casa mia. Vado ad aprire la porta e me lo
trovo in ginocchio, con un mazzo di fiori in una mano e
l’altra mano sul cuore. Mi guarda con occhi di pesce bollito
e mi dice ‘Anita, quando sarai mia?’. Io non sapevo cosa
fare, ma poi mi è venuto da ridere tanto che non riuscivo
più a fermarmi. Lui, offeso, si alza e sparisce giù per le scale.
Speriamo che sia l’ultima volta che lo vedo, st’imbezil.”
g
Sul portone della Casa dello Studente talvolta
mi imbattevo in Pendenza appoggiato all’inseparabile
bicicletta e circondato da studenti che si divertivano a
sentirlo sproloquiare. Appena mi vedeva mi si presentava:
“Sciono Pendensa”. Io non mancavo di rispondergli “Sciono
Guelfo”. “Elfo?”. “No, no, Guelfo. Guè, Guè”. “Gueguè?
Sciono tutto confuso...”, e partiva sul marciapiede a cavallo
della bicicletta, spingendosi coi piedi senza pedalare. Avevo
già notato a Padova questa tecnica ambulatoria adottata
dalla Carlona.
Pendenza era stato così soprannominato per via di
un suo andare sbilenco che accoppiato a una scarsa agilità
mentale lo aveva innalzato al rango di scemo ufficiale del
villaggio. Del suo nomignolo era molto fiero. Pendenza
era l’equivalente ferrarese di Ernesto, il guardiano delle
automobili nella piazza del Pedrocchi a Padova, amico di
Pasquale, lo studente finito tragicamente.
g
Diventai amico di Pietro Senna, che al mio
arrivo a Ferrara nel Sessanta gestiva una piccola libreria
universitaria, mi sembra in via Mazzini, commerciando
principalmente in libri usati. Era un personaggio patetico,
studente di legge senza più speranza di laurearsi. Ne ero
diventato amico perché ci accomunava la stessa dedizione ai
libri, non necessariamente di chimica, nel mio caso. Per me
132
ogni libreria era un tempio misterioso dove si potevano fare
mirabolanti scoperte. Nel retrobottega di un’altra libreria di
Ferrara scovai una vecchia edizione dei Canti di Maldoror
di Lautréamont che ancora possiedo. Il grande attore
Richard Burton soleva dire “La mia casa è dove sono i miei
libri”. I miei li ho portati con me nelle mie peregrinazioni.
Le librerie sono i santuari della mia religione. L’odore
della carta stampata m’ispira reverenza come quello
dell’incenso. Gutenberg, Aldo Manuzio e Bodoni sono i
miei santi. I libri sono oggetti sacri, e chi faccia orecchiette
alle pagine come segnalibro commette sacrilegio. Questo
lato del mio carattere deve essere parte del mio DNA,
perché mia figlia Francesca dice: “La domenica mattina la
passo da Strand.* È la mia chiesa.”
Senna aveva preso ispirazione per la sua attività
di libraio da Gianni Testori, lo studente di medicina che
a Padova aveva iniziato a vender libri usati trascinandosi
appresso una enorme valigia colma di testi e dispense,
offrendo la sua mercanzia nei numerosi collegi universitari
e case dello studente. Ma quanto Testori era intraprendente,
tanto Senna era negato per il commercio. L’uno era nato
per far soldi, l’altro era un gran sognatore.
Ritrovai Pietro al mio ritorno a Ferrara dopo il
servizio militare. Vittima del fato come un personaggio
da tragedia greca, aveva venduto la sua piccola libreria
a un altro studente meridionale, molto più scaltro di lui
come commerciante, che credo abbia fatto fortuna con
l’espansione dell’ateneo ferrarese nella prima metà degli
anni Sessanta. Il negozio di questo terzo libraio era situato
a pochi passi dalla rinnovata sede centrale dell’università,
in via Savonarola. Pietro invece si era ridotto a vender libri
da una bancarella, dopo aver immagazzinato il suo vasto
inventario. Nello stesso magazzino aveva organizzato una
zona-letto, con cucinino e microscopico bagno. Viveva
letteralmente in mezzo ai libri. C’era posto per un altro letto
e andai a vivere con lui. La nostra convivenza era di mutuo
* Strand è una grande libreria di Manhattan. “18 miglia di libri”
è il loro slogan.
133
soccorso. Io avevo pochi soldi, e lui pure. Ricordo che
mi ero comprato una bagnarola zincata in cui bollivo sui
fornelli di cucina il mio bucato costituito principalmente di
fazzoletti da naso, di cui facevo grande uso perché il clima
nebbioso degli inverni ferraresi era ideale per favorire un
mio raffreddore cronico. Una vita di Bohème...
h
134
STORIE FERRARESI ( CON LICENZA DI BASSANI )
Veliki Yuri! – È Lombardi il vero buon brodo – La tragica fine
della povera Ortensia – Il Macrocefalo e l’Agricola – Piume,
baciatemi! – Rognoni arrosto – Il Metodo Carezza –“Hai
guardato la signorina!”– Passa il Santissimo – L’azzurra visïon
– Il fedele maharatto
Durante il mio soggiorno a Ferrara andai ad
alloggiare in numerose case in cui mi veniva affittata
una stanza con uso di bagno. In un precedente capitolo
di queste memorie avevo parlato della stanza di fronte al
postribolo cittadino in cui Deo ed io ci preparavamo agli
esami; un fondaco zeppo di libri che dividevo con un
libraio ambulante, ex-studente di legge; e la Casa dello
Studente in Corso Giovecca, in cui il mio compagno di
stanza fu Giorgio Garberi, uno studente di giurisprudenza
proveniente da Pergine, ridente cittadina della Valsugana
rinomata per la presenza di un grande manicomio.
In quel periodo Yuri Gagarin, il cosmonauta, (non
“astronauta”, termine accaparrato dagli americani) era
andato in orbita, e i compatrioti entusiasti lo osannavano
chiamandolo “Veliki Yuri”, il Grande Giorgio. Nomignolo
immediatamente da me affibbiato al mio compagno di
stanza, che ne era modestamente lusingato. Ricordo che
Giorgio mi mostrava fotografie di eroici gruppi statuari
sovietici inneggianti alla gloria del socialismo, e le
paragonava a foto di neri di Harlem ciondolanti ad angoli
135
di strade piene di pattume, abbrutiti da alcool e droghe.
“Guarda che differenza, Guelfo”, mi diceva. E io guardavo
e assentivo, perché Yuri era veliki. Oppure mi riferiva le
rimostranze di un altro trentino, studente di medicina, che
esposto alla nozione del cunnilinguo, pratica millenaria,
indietreggiava inorridito: “Mi, endo’ che la pissa?!..”.
Aficionado di Hemingway, Giorgio teneva sopra la
scrivania una fotografia dello scrittore presa a Pamplona
durante la corsa dei tori. Fu devastato dalla notizia del suo
suicidio.
Quando lo prendeva l’estro concertante, Giorgio
afferrava la chitarra e cantava una canzone delle nosse
montagne:
Spunta la luna ciara
– sora Castel Toblin,
mi ‘ncordo la chitara
– ti ‘ncorda ‘l mandolin,
e nente ‘n barca…
oppure,
Tote ‘nsema ‘na putela
e na boza de bon vin
per goder la Paganela
e la vista del Trentin
Dal Brasile ci erano giunti i primi ritmi di bossa
nova, e Giorgio sperimentava gli accordi di “Desafinado” e
di “Samba de uma nota só” sulla sua chitarra, spesso frustrato
dalla loro complessità. Questo suo hobby era fonte di
rimbrotti paterni: “El sona la chitara inveze de studiar!”.
Recriminazioni ingiustificate, perché ogni tanto Giorgio
smetteva di strimpellare per ponzare sul testo di Diritto
Penale. E infatti la sua successiva carriera di notevole
successo in Germania sfatò le preoccupazioni di suo padre.
Preoccupazioni tipiche di molti genitori, di cui io stesso ho
sperimentato il peso. Secondo mia madre, santa donna, sa
il cielo quale fine avrei potuto fare, scapestrato com’ero – e
probabilmente ancora sono.
136
Per un breve periodo condivisi con altri studenti
pure un appartamento in una casa di nuova costruzione
dalle parti del grattacielo al fondo di viale Cavour. Ma
sono tre le dimore che hanno lasciato un marchio indelebile
nella mia memoria: la casa delle tre sorelle (con licenza di
Cechov buonanima), la casa da me detta “del bersagliere”,
e la casa della Delia.
h
Ortensia, Giuseppina e Olivia Lombardi abitavano
in una palazzina a tre piani di loro proprietà, all’angolo
di via Formignana con via Scandiana. Il portone di casa
si apriva direttamente sulla strada, una carreggiabile
stretta e animata di traffico, a due passi dal Montagnone.
Le tre anziane proprietarie erano le sorelle dell’industriale
Lombardi, quello del buon brodo. Ma benché fornite
di fratello danaroso (e presumo taccagno), le tre sorelle
s’industriavano di arrotondare i loro proventi affittando
camere agli studenti. A due passi dall’Istituto Chimico
non avrei potuto trovare sistemazione più soddisfacente.
E infatti me ne staccai a malincuore quando dovetti
interrompere gli studi per andare a far l’alpino.
Ortensia, Giuseppina e Olivia erano ormai prive
delle grazie della giovinezza e pure di quelle della mezza
età. Sfiorite, ma non decrepite, trattavano i loro inquilini
con sollecitudine quasi materna. E forse fare l’affittacamere
dava loro la possibilità di aver sempre giovani per casa.
Coltivavano un giardinetto nel cortile antistante la palazzina, all’interno del massiccio portone. Un leggero odore di
fiori appassiti aleggiava all’interno della casa, non aggressivo come quello dei cimiteri, ma tale da creare un’atmosfera di sottile malinconia, un sentore di rimembranze alla
Jacopo Ortis. Una delle sorelle, credo Giuseppina, aveva
avuto un marito, deceduto per cause a me ignote e la cui
memoria era ormai ridotta a sfocati commenti e fotografie
ingiallite. Le altre due erano rimaste nubili. E tutte e tre,
come si conviene alle zitelle, erano molto pie.
137
Uno dei miei compagni di stanza - le mie magre
risorse mi forzavano alla coabitazione - fu per un certo
periodo un giovane etiope. Il ragazzo di pelle scura ed io
condividevamo una piccola stanza, la più economica, una
mansarda sotto al tetto. Il prof. Barnabè, sempre incuriosito
dalle mie attività extra-accademiche, mi diceva “Ma che
fa, Torrazzi, dorme col negro?”. Credo di aver épaté il
professor Barnabè più di una volta. Per esempio, quando
a pochi passi dalla mia laurea il mio amico Alex Scalchi,
già laureato, mi aveva convinto a saltare da un aereo
dopo essermi munito di paracadute. E Barnabè, paterno:
“Torrazzi, lei è matto!”.
Tornato a Ferrara dopo la fine del servizio militare,
andai subito a cercare alloggio dalle sorelle Lombardi. Mi
aprì il portone Olivia, e avendomi riconosciuto, mi fece
entrare e subito mi disse “Ha saputo cosa è successo alla
povera Ortensia?”. “No – risposi – sono appena arrivato.”
“La poverina, uscendo di casa una mattina per andare
a messa è stata travolta e uccisa da un’automobile...”.
In effetti uscendo da casa Lombardi era imperativo
guardare attentamente a sinistra e a destra, ad evitare
incidenti dovuti all’assenza di marciapiede. Ortensia, che
aveva vissuto almeno sessant’anni nella casa, avrebbe
dovuto esser cauta automaticamente. L’unica spiegazione
fornitami da Olivia : “La volontà di Dio...”.
h
Essendosi il giovane etiope dileguato nei meandri
dell’università, cercai un altro compagno di stanza con
cui dividere la mansarda delle Lombardi. Lo trovai in un
altro studente di chimica. Moraldo aveva l’aspetto di un
mostriciattolo: mingherlino, testa da macrocefalo, la pelle
cerea del viso tirata sulle ossa del teschio, vene bluastre
in rilievo, gli occhi sporgenti dal cranio. A guardarlo mi
veniva in mente “Il Grido” di Edvard Munch. I nostri
docenti lo consideravano un po’ ritardato, ma in realtà non
lo era, come la temporanea convivenza con lui mi consentì
138
di appurare. Aveva una sorella, di aspetto più piacente,
vagamente neurotica, che frequentava Farmacia dall’altro
lato del cortile di Schifanoia. Non si capiva bene a che
punto dei suoi nebulosi studi fosse Moraldo, ma di certo il
ragazzo gravitava nei dintorni dell’Istituto Chimico ed era
ben noto ai membri della Facoltà. Infatti Barnabè non mancò
di dirmi “Ma che fa, Torrazzi, sta in stanza con Moraldo?”.
E io, allargando le braccia e con tono da baciapile: “Anche
Moraldo è un figlio di Dio, professore...”.
Moraldo apparteneva a una famiglia di agricoltori
del Polesine. Ogni fine settimana partiva verso casa per
riapparire al lunedì. Io gli chiedevo “Cosa fai quando vai
a casa, Moraldo?”. Lui mi rispondeva “Vado ad aiutare la
mia morosa che lavora nei campi.” Alla mitica morosa io
avevo dato il soprannome di Agricola. Quando lo rivedevo
al lunedì, ogni volta gli chiedevo “Allora, Moraldo, com’è
andata con l’Agricola?”, e lui ridacchiando mi rispondeva
“Tutto bene, tutto bene”, lasciando capire che gli incontri
settimanali nei campi non si limitavano a dissodare zolle.
La mia conversazione con Moraldo non andava molto
più in là. Ma la sua compagnia non mi dava fastidio, anzi
rallegrava le ore passate sui libri. Chissà che fine avrà fatto,
Moraldo. Forse è andato in cattedra anche lui, bontà del
prof. Cernuschi, il capo dell’istituto succeduto al prof.
Marotta, di cui parlerò in un altro capitolo.
h
A volte girovagavo per le strade di Ferrara,
rimuginando formule chimiche o pensieri che poco
avevano a che fare con la scienza. Nelle sere di prima
estate, camminando sotto le Mura degli Angeli, folate
di vento giungevano cariche di profumi ed echi di risa,
come se provenissero dal giardino di Micòl Finzi-Contini.
Gironzolando, spesso finivo per andare a trovare Gigi Cles
e Renzo Vitelli. Entrambi studenti di medicina di origine
trentina, i due vivevano in una stanza d’affitto in un
enorme appartamento, parte di un antico edificio nel centro
di Ferrara. Cles era alto e magro, con una voce soave che
139
celava un rovello interiore, un carattere ambiguo. Di Vitelli
ricordo la testa da antico romano, con folti capelli ricciuti.
“Was für ein schöner Römerkopf …”, gli sussurravano le
ragazze tedesche che bazzicava durante le vacanze estive.
A Capodanno, in un albergo di montagna dove c’era pure
l’anziano Gino Bartali in vacanza con la famiglia, Vitelli
collaborava a un orchestrina diretta da Yuri Garberi, prima
chitarra, percuotendo accanitamente il bongo come un
bongosero di professione. Scriveva poesie, Renzo Vitelli, e
un suo lavoro fu persino pubblicato su La Fiera Letteraria.
Sia Vitelli che Cles avevano dilazionato la laurea.
Entrambi mostravano una preoccupante predilezione per
le bevande alcoliche che anni dopo, per almeno uno di
loro, fu causa di seri problemi. Cles si laureò il giorno dopo
della mia laurea. (Io gli dicevo scherzando, tu che ti sei
laureato tanto dopo di me... ). E a riprova del suo singolare
carattere fece a pugni con un altro studente la stessa sera
in cui gli amici lo festeggiavano. Vitelli, più giovane di un
paio d’anni, si laureò in seguito. Ambedue praticarono
la medicina con successo, Cles nello studio dentistico di
suo padre, Vitelli come docente in una università della
Lombardia.
Dopo aver completato gli studi, Vitelli era entrato
come interno in una clinica di Trento. Andai a trovarlo
insieme a Giorgio Garberi. Vitelli mi propose, già che c’ero,
un prelievo sanguigno, non ricordo a quale scopo se non
quello di far pratica di flebotomia. Acconsentii, ma appena
il neo-dottore m’infilò l’ago nella vena di un braccio persi
i sensi. Un accaduto che mai più si verificò nel corso della
mia vita. Penso che l’inconscio terrore di affidarmi alle sue
cure avesse agito a mia insaputa sul sistema nervoso del
simpatico.
h
L’appartamento in cui a Ferrara vivevano Cles
e Vitelli era di proprietà di alcune vecchie signore. Vi si
accedeva da uno scalone perennemente buio. Porte di legno
scuro a vetri smerigliati separavano stanze dagli altissimi
soffitti, allineate lungo un corridoio sepolcrale. In fondo
140
al corridoio una finestra incorniciata da pesanti tendaggi
lasciava filtrare una luce lattiginosa. L’arredamento della
stanza dei miei amici era del genere fin de siècle: carta
da parati a fiori scuri, tavolini rotondi coperti da tovaglie
ricamate penzolanti fino ai piedi, letti monumentali con
coltri all’uncinetto, abat-jour con paralumi ricoperti di
stoffe damascate e bordati da tubicini e perline di vetro.
Alle pareti, annose fotografie di parenti scomparsi o
paesaggi ad olio di dubbio valore artistico. Nella stanza di
Cles mi aveva colpito la fotografia di un bersagliere con la
seguente indimenticabile dedica manoscritta:
Mamma, mamma, se lungi ti sono
ch’io ti scordi giammai non temer.
Della mamma la dolce parola
porta in cuore ogni buon bersaglier.
Piume, baciatemi!
Cles e Vitelli avevano un giradischi, e tra le vetuste
pareti della loro stanza spesso risuonava la voce di Mina
Mazzini o di Ornella Vanoni. Più spesso si organizzavano
gite gastronomiche nei dintorni di Ferrara. Una meta
preferita era un’osteria a pochi chilometri dal centro,
sulla strada di Bologna. Un buco lercio, ma rinomato per i
rognoni che la sera il proprietario arrostiva su una griglia e
per pochi soldi serviva insieme a pagnotte e caraffe di vino
su una rozza tavola di legno sotto a un pergolato. Questo
cuoco era un personaggio da farsa Atellana: obeso, sudicio,
stillante sudore sulla griglia, arrostiva gli sfrigolanti
rognoni alla luce di fiamme infernali che scaturivano dai
carboni ardenti ogni volta che pezzi di grasso scivolavano
nel fuoco. Quando erano pronti, accolto dai lazzi di noi
studenti semi-ubriachi ci portava i rognoni fumanti su
grandi piatti, grugnendo commenti inintelligibili per chi
non conoscesse il ferrarese stretto .
h
141
Per un breve periodo affittai una stanza in casa
della Delia. Delia e sua madre si erano trasferite da un
piccolo appartamento in una vecchia casa di via Mazzini
in un appartamento spazioso in un moderno edificio di
via Borgo di Sotto, con finestre che davano da un lato sul
cortile e dall’altro sulla strada principale.
Delia era il frutto di amori giovanili (non lo
siamo noi tutti?) della madre, non sanzionati da chiese
o municipi. Una brunetta dallo sguardo malizioso che
attendeva l’occasione di sposare un “buon partito”. La
madre era una donna di mezza età, magrissima, col viso
prematuramente incartapecorito dall’uso smodato del
tabacco. Si nutriva principalmente di caffè e sigarette. Non
ricordo di averla mai vista senza una sigaretta in bocca o in
bilico sul portacenere. Spirali di fumo si libravano sopra la
macchina da cucire che ronzava in continuazione. La donna
si guadagnava da vivere con lavori di sartoria e affittando
tre delle stanze da letto a studenti o impiegati. La ricordo
china sulla macchina da cucire, la testa girata verso di me
per parlarmi. I suoi occhi dalla cornea ingiallita, ingigantiti
da spesse lenti, mi fissavano sogghignando mentre mi
confidava succosi pettegolezzi locali, sempre succhiando
una sigaretta bilanciata fra dita color zafferano. A me
l’anziana signora piaceva per quel suo fare spigliato così
comune tra le ferraresi. Era una simpatica megera.
In casa della Delia il telefono suonava in continuazione. Alcune telefonate erano di amici o clienti.
Molto spesso però chi telefonava era un giovane che
invaghitosi di Delia, aveva preso a perseguitarla per
ottenerne le notevoli grazie. Ma non essendo per nulla un
buon partito, le sue avances erano state rigettate da Delia
senza possibilità di equivoci. Imperterrito, lo sfortunato
corteggiatore continuava a telefonare. A volte Delia o sua
madre lo coprivano di improperi in dialetto, che dal fondo
delle nostre stanze noi ospiti a pagamento assaporavamo.
Se poi in assenza delle due donne capitava a uno di noi
di sollevare la cornetta, ci si sbizzarriva a tormentare
lo sciagurato facendogli credere che, tutto sommato, la
Delia non fosse del tutto sorda alle sue profferte amorose.
142
Oppure a urlargli insulti feroci per aver disturbato i nostri
sonni pomeridiani.
A casa della Delia, nel periodo in cui vi ho vissuto,
abitavano anche Renato Ghisetti, studente di farmacia,
e un giovane impiegato di banca. Di quest’ultimo
ricordo che possedeva una specie di manuale di tecniche
amatorie, certo meno poetico di quello di Ovidio e meno
informativo del Kama Sutra, ma delle cui istruzioni mi
aveva particolarmente colpito il “Metodo Carezza”.
Secondo il manuale questa antichissima pratica di origine
orientale avrebbe consentito l’ascesa a vette insospettate
di prolungati piaceri se il concubito fosse praticato in
completa immobilità. Naturalmente io proponevo a Delia
l’esperimento. Lei si schermiva ridendo.
Di noi tre affittuari il miglior buon partito era
Ghisetti: bel giovane, simpatico, alle soglie della laurea e
con futuro di abbiente farmacista assicurato da genitori
benestanti. Era inevitabile che le grazie muliebri della Delia
facessero breccia nel cuore di Ghisetti, per non parlare
di altre zone della sua anatomia. Ghisetti aveva bizzarre
richieste per Delia. Per esempio, le diceva “chiamami
Tordo”. Cosa che Delia si guardava bene dal fare. A
suo tempo Delia e Ghisetti convolarono a nozze. Ma il
periodo del fidanzamento non fu scevro di tenzoni dovute
soprattutto al focoso carattere della Delia. Una volta li vidi
correre per via Mazzini, Delia che urlava “Hai guardato
la signorina!”, e Ghisetti che cercava di parare i colpi di
borsetta che la fidanzata cercava di assestargli. Sembra che
la gelosia della Delia fosse stata scatenata da un’innocente
occhiata di Ghisetti a qualche bella ragazza di passaggio.
Una mattina – doveva essere una festa religiosa
– affacciandomi alla finestra che dava sulla strada vidi
che finestre e balconi delle case di fronte erano decorati da
drappi e coperte ricamate. Stava per passare la processione
con sotto a un baldacchino l’ostensorio! All’insaputa delle
mie padrone di casa mi precipitai a far penzolare dalla
finestra lenzuola e coperte del mio letto. Appena Delia
si rese conto di quello che avevo fatto, un po’ ridendo e
143
un po’ seria cercò di farmi ritirare tutto quello che avevo
sciorinato. Già la processione si stava avvicinando, si
udivano canti liturgici:
T’adoriam, Ostia divina,
t’adoriam, Ostia d’amor…
Andò a finire in una specie di colluttazione, per
nulla spiacevole, tra me e la Delia. Lei cercava di tirar via
le coperte e io le trattenevo ferme alla finestra. In quel
momento la processione passava sotto casa, e dietro al
Santissimo, salmodiante, scorsi il professor Malfatti…e io
dovevo ancora sostenere con lui l’esame di Organica II!
Immediatamente mollai le coperte e mi allontanai dalla
finestra, lasciando libero il campo alla Delia che subito
rimosse il sacrilego disordine creato dal miscredente.
Il professor Arrigo Malfatti, un allievo della scuola
del compianto (o scarsamente tale) Direttore, era uno
dei docenti sotto le cui forche caudine dovevo passare.
Un uomo sui quarant’anni di piacevole aspetto, con una
pipa perennemente tra i denti e una cordialità da ferrarese
vagamente burbera, era uno specialista di corrosione – il
mago degli inibitori, quello che mandava avanti il Centro di
Studi sulla Corrosione Aldo Daccò, quattro stanze dal lato
del cortile di Schifanoia opposto a Scandiana. Malfatti era
un devoto credente, un tradizionalista per cui fede e ragione
erano perfettamente compatibili. Lo incontrai molti anni
dopo a un congresso internazionale sulla corrosione a Rio
de Janeiro. Sorpreso di rivedermi in tale esotico ambiente,
scambiò con me quattro parole, mi diede l’indirizzo di un
albergo conveniente, e se ne andò per i fatti suoi.
Io avevo ottenuto il permesso di presentare un mio
lavoro a Rio dopo aver convinto un grosso manager, che
mi aveva obiettato “Ma è proprio necessario andare fino in
Argentina?”[sic]. Gli risposi che al congresso “in Argentina”
era importante mandare un rappresentante della società
per il lustro che ne sarebbe derivato. Ovviamente la mia
partecipazione al congresso si limitò alla presentazione
144
del mio lavoro e al paio di domande postemi dal pubblico.
Dopo di che sparii dalle severe aule della scienza per
passare una fantastica settimana nel cuore di Rio, che come
dice la famosa marcia di Carnevale e inno ufficiale carioca,
è “cidade maravilhosa – cheia de incantos mil”. E già che c’ero
restai in Brasile una seconda settimana, volando a Salvador,
Bahia, “terra da felicidade”.
Quanto a Delia e a Ghisetti, li incontrai ancora a
Bolzano. Ghisetti vi era stato trasferito come rappresentante
per il Trentino-Alto Adige di una ditta di medicinali.
Ormai da tempo sposati, avevano con loro una bambina
di pochi mesi. Invitarono a cena a casa loro me e Milena.
Delia avrebbe voluto che lui finalmente si sistemasse in
una farmacia. Per Ghisetti l’idea poteva essere posposta.
Fu l’ultima volta che li vidi.
Appena laureatosi, Alex – uno degli angeli custodi
del mio primo periodo ferrarese – aveva trovato impiego
presso una ditta di prodotti chimici. Ma presto si era
reso conto di quanto le politiche e le gerarchie aziendali
rendessero meno piacevole il lavoro. (Una rivelazione
anche per me, in seguito. Ma a conti fatti io decisi che
mi conveniva adattarmi alla cultura dell’organizzazione
cui appartenevo e che mi dava uno stipendio. Tenevo
famiglia…). In cerca di maggiore libertà, Alex chiese
al professor De Benedetti – il relatore della sua tesi – di
tornare in università. De Benedetti gli offrì on posto di
assistente, inizialmente a Camerino. Così mi capitò di
andare anche a Camerino, ospite di Alex. Camerino, da
secoli la sede di una piccola università, è una cittadina
delle Marche arroccata in cima a un colle. Ricordo che Alex,
un gruppetto di studenti suoi amici ed io ci trovavamo
su una terrazza cinta da una balaustrata. La giornata era
luminosa, e nella distanza avremmo potuto intravedere
“l’azzurra visïon di San Marino”. Alex strimpellava una
chitarra cantando una canzone popolare sarda: “Annamo
alla carrera di zia Cuddona – ch’è ‘na figghiola bbona, ecc.
ecc.”, mentre uno dei suoi amici mi confidava “Che palle,
sta zia Cuddona...”.
145
L’Università era situata in un antico palazzo
che secoli fa era appartenuto ai Varano, Signori di
Camerino. L’Istituto Chimico era sistemato nella parte
inferiore dell’edificio, quasi dei sotterranei cui si accedeva
attraversando un corridoio scuro e fiancheggiato da vecchi
armadi in cima ai quali troneggiavano storte e alambicchi, di
certo usati in passato per la ricerca della pietra filosofale. In
fondo all’antro, in un laboratorio semibuio, stava Bonsante,
un altro assistente di De Benedetti, curvo sul polarografo
a goccia di mercurio che il professore gli aveva affibbiato.
Bonsante, di aspetto mite e di scarse parole, condannato
dal destino a vivere nei sotterranei del palazzo dei Varano
come l’abate Faria nelle segrete del Castello d’If, fu
sorpreso da me a scrutare lo stillicidio di gocce di mercurio
che cadevano al fondo dell’apparecchio, implacabili come
le gocce d’acqua del supplizio cinese.
h
Fui testimone anche di tragedie, a Ferrara. Uno
studente di chimica, ubriacatosi con dei suoi amici,
era caduto dall’alto del Montagnone, le massicce mura
rinascimentali. Dopo alcuni giorni in coma era morto in
ospedale. La famiglia voleva aprire un’inchiesta sospettando omicidio. In realtà uno stupido incidente aveva privato
il ragazzo della vita. Un altro studente, molto giovane,
forse una matricola, si era dato fuoco dopo essersi cosparso
di benzina. Paura degli esami? Depressione? La morte di
questi giovani colleghi mi aveva molto impressionato. Solo
questi sono i ricordi tristi di Ferrara.
Nell’ultima fase del mio soggiorno a Ferrara
incontrai uno studente di chimica al secondo o terzo anno
di corso, molto più giovane di me. Franco Palizzo proveniva
da Montefalcione, in provincia di Avellino. Diventammo
amici. Palizzo – non l’ho mai chiamato altrimenti – mi
seguiva dappertutto e mi considerava come una specie di
guru, sia perché ero più anziano di lui, sia perché aveva
più difficoltà con i testi scientifici di quanta ne avessi
io. Lo ricordo molto preoccupato di una sua incipiente
146
pinguedine, che in effetti sembrava aumentare di giorno
in giorno.
Gli dicevo “Palì, sei il mio fedele maharatto”,
come Kammamuri lo era per Tremal-Naik nei romanzi
di Salgari. Oppure lo presentavo ad altri studenti come
“Palizzo ‘e Montefalcione”, poiché a quei tempi tutti i
rotocalchi stampavano le cruente storie di Pascalone ‘e
Nola e di Totonno ‘e Pomigliano, caporioni della camorra
campana. Gli davo anche paterni consigli, come per
esempio “Palì, astieniti da eccessiva masturbazione. Ti
potrebbe condannare alla cecità, o come minimo ti farebbe
crescere peli sul palmo delle mani. Praticala solo tre volte
al giorno, prima dei pasti”. Palizzo rideva divertito alle
mie celie. Invitato alle mie nozze, lo rividi per l’ultima
volta a Bolzano. Poi ne persi le tracce. Ancora oggi ogni
tanto penso a lui, sperando che la vita gli abbia dato più
soddisfazioni della chimica.
h
147
148
LA TRADUZIONE E ALTRE STORIE
Il “mal de l’asen” – Boca de Puta – La morte del Direttore
– L’Incantevole – Schifanoia – Il Montagnone – Aurora
principessa
In quegli anni solari della gioventù, anche se
angosciati dagli esami che ogni tanto mi decidevo a fare,
ho incontrato personaggi epici. Di due ragazzi incontrati
a Ferrara ho un ricordo incancellabile, e sarei disposto a
premiare con una salama da sugo, indispensabile intingolo
della cucina ferrarese, chi me li facesse di nuovo incontrare:
Fagotto e Ghisetti, la Volpe e il Gatto.
Mirco Fagotto, un trevigiano dai capelli neri e
ricci e una grinta astuta e perennemente ironica, aveva
sviluppato abilità da prestigiatore per ricavare il meglio
dal suo soggiorno di studente a Ferrara. Gli scocciava
sentirsi apostrofare ogni volta che in commissione d’esame
c’era il prof. Candoli: “Fagotto? Ghe demo desdotto.” Ma
poi Candoli finiva per dargli ventotto. Ho condiviso con
Fagotto esperienze ineffabili.
In un giorno di una lontana primavera me ne
andavo pacificamente in bicicletta con Fagotto in Giovecca,
un largo viale, quando improvvisamente lo vidi piegarsi
sul manubrio, e storcendo il viso e digrignando i denti sino
ad assumere tratti da demone michelangiolesco, lanciarsi
149
senza una parola in una frenetica fuga a pedale sciolto. Lo
raggiunsi dopo un paio di chilometri, e gli chiesi ragione
di un tale inesplicabile comportamento, e soprattutto
delle ridicole smorfie. Mi spiegò che aveva scorto sul
marciapiede un suo locatore, cui doveva alcuni mesi di
pigione. Le spaventose facce servivano, a suo dire, a non
farsi riconoscere.
Ricordo le conversazioni di Fagotto con
un’affittacamere – Fagotto cambiava spesso di residenza –
una vecchia megera di dubbi trascorsi. I discorsi, stimolati
da Fagotto a mia edificazione, centravano quasi sempre sul
supposto priapismo di un altro studente, Riprandi, che,
secondo la virago, era afflitto dal “mal de l’asen”.
Fagotto, che come affittuario era un vero chierico
vagante, condivise in quei lontani giorni un alloggio anche
con Ottavio Firmian, che mi dicono sia in seguito arrivato
alle vette della cattedra per bontà del prof. Cernuschi.
Prodigi dell’università italiana… La padrona di casa spesso
si lamentava con Fagotto di esser costretta a vuotare il
pitale che il Firmian nottetempo riempiva. Sogghignando,
Fagotto mi raccontava questi pettegolezzi, tra un’equazione
e l’altra.
Firmian era arrivato da Padova a Ferrara insieme a
Mastroventi, un padovano omonimo del cugino Ordinario
di Chimica Fisica nell’ateneo patavino. Purtroppo il
Mastroventi transfuga non aveva la stessa propensità del
cugino per le equazioni differenziali. Mastroventi era di
robusta costituzione quanto Firmian era mingherlino.
Visti insieme mi ricordavano due personaggi di Alice
nel Paese delle Meraviglie, il Tricheco e il Carpentiere.
Di loro ricordo il terrore all’idea che il dott. Pedrotti, un
assistente, adottasse il Sillen-Lange-Gabrielson come testo
per gli esercizi di chimica-fisica. “Massa duri, Torrazzi. I xe
massa difizili. Semo scampa’ de Padova parché i voleva doperar
el Sillen...”.
Ah, Pedrotti… In Istituto era affettuosamente
conosciuto come Pedro. La laurea in chimica aveva agito su
di lui come catarsi di oscure pene, e non si stancava mai di
dirci, un po’ cupamente, che si era laureato a quarant’anni,
150
lavorando di giorno, studiando di notte, e dormendo solo
la domenica. Io, che studiavo solo una domenica sì e una no
e quando non dormivo mi dedicavo ai fumetti di Jacovitti,
mi sentivo intimidito.
Ma, a contrasto, c’era Silento, l’assistente spesso
garrulo, sempre gaio. E Respighi, che sbirciando nel
laboratorio di Barnabè rallegrava del cuculo ozioso i
piccolini con quiz del genere : “Quis fuit horrendus primus
qui protulit enses?”*. Io lo ascoltavo, rapito dalla sua perfetta
scansione del verso tibulliano.
Chi non potrò dimenticare era l’incantevole dottoressa Masironi, una bellissima neolaureata incaricata
dell’insegnamento di Scienza dei Metalli. Me n’ero
innamorato sentendola parlare di dislocazioni, eutettici e
ricristallizzazioni, e forse lei se n’era accorta, da come mi
trattava. Durante la mia temporanea assenza da Ferrara ero
ben deciso a combattere per la conquista dell’ Incantevole,
magari facendo tre esami a sessione per convincerla che
ero scapestrato-ma-non-troppo. Purtroppo al mio ritorno
dal servizio militare l’Incantevole si era già sposata e aveva
lasciato l’università per l’insegnamento nelle scuole medie.
Gli amori non consumati lasciano i ricordi più dolci e
duraturi. (Però anche i ricordi di quelli consumati non sono
da buttar via...).
h
Ero in divisa militare quando Alex mi mandò
questa lettera che ancora conservo:
“Caro Guelfo,
per non tenerti all’oscuro di quello che sta succedendo in
Istituto, eccoti le ultime notizie. Mancava solo una settimana
alla mia laurea quando alle nostre orecchie sempre ritte di
interni arrivò la notizia che il prof. Marotta, Direttore e nostro
*
“Chi fu l’orrendo [essere] che per primo creò le spade?”
Tibullo, Libro I, Elegia X.
151
padre-padrone, era morto in circostanze per noi misteriose. Ti
puoi immaginare il trambusto, l’agitazione, la fibrillazione di
Pedro che vedeva la sua carriera sprofondare nel buio, e
l’andirivieni del sogghignante Fagotto, che in quella situazione
tinta di giallo “ci bagnava o panuzzo”, come dicono a Napoli.
Data l’emergenza, ci siamo riuniti a a casa di Giulio Travisan,
un futuro chimico di Udine approdato a Ferrara, credo
all’epoca di Firmian e Mastroventi. Travisan era ricchissimo,
suo padre aveva una fabbrica di vernici con appalti esclusivi
per verniciare tutte le navi che facevano scalo a Trieste, e
viveva in un confortevole appartamento non lontano dal
duomo, con la moglie, friulana di attraenti fattezze e ottimo
carattere. La riunione, indetta da Fagotto, aveva lo scopo di
stabilire il comportamento che noi ancora studenti, ma per
vari motivi vicini alle segrete stanze, avremmo dovuto tenere
in questo doloroso frangente. Doloroso più per gli assistenti,
che vedevano nella dipartita del pur odiato padrone l’inizio
della loro fine, che per noi studenti il cui scopo principale era
quello di sogghignare (cosa che faceva soprattutto l’ “omo del
desdotto”) davanti alle contrite facce di Silento e Pedrotti, ma
anche dei più altolocati Barnabè, De Benedetti, Respighi e
Malfatti. Neppure la cara Renata, che forse era addolorata
per davvero, veniva risparmiata.
Per farla breve si decise, tra una grappa e un wiskino che la
bella friulana ci serviva in abbondanza, di andare all’Istituto
a porgere l’estremo saluto al nostro Direttore. Così, la mattina
seguente mi ritrovai con l’ineffabile Fagotto e altri nello studio
del defunto, che per l’occasione era stato trasformato in camera
ardente con tanto di tappezzeria nera orlata d’ argento stesa
intorno alle pareti, e ceri funebri ad altezza d’uomo. E man
mano che gli assistenti mestamente si avvicendavano davanti
al cadavere, Fagotto, strategicamente dispostosi sulla porta di
uscita, puntava sui loro volti preoccupati quei sogghignanti
152
occhi gialli scintillanti al di sopra di una faccia scurita da una
barba ispida da novello Gambadilegno…”
Questo episodio aveva un interessante antefatto,
dei cui particolari venni a conoscenza molto tempo dopo,
al mio ritorno in Istituto dopo aver completato la ferma
di leva. Ascoltavo divertito e incredulo i pettegolezzi
di Fagotto pensando fossero solo il frutto della sua
immaginazione. Era poco credibile, per esempio, la sua
versione della fine del Direttore, che in vacanza con Renata,
la sua fedele segretaria e ancella, pare fosse rimasto vittima
di un orgasmo assassino, spirando tra le braccia di Renata
in una stanza d’albergo. La ragazza, disperata, chiama gli
aiuti del Maestro, che saltano in macchina e si precipitano a
prendersi cura dell’incresciosa situazione. In qualche modo,
ad onta del rigor mortis e del portiere notturno, il defunto
viene trascinato in macchina, messo a sedere sul sedile
posteriore, e come in un film noir, trasportato nottetempo
fino a Ferrara, dove viene sistemato, forse con l’ausilio del
custode – Marotta era corpulento – dietro alla scrivania del
suo studio. Al mattino la scoperta del cadavere. Il professore
era rimasto vittima di un attacco cardiaco mentre rivedeva
le bozze di una pubblicazione. La morte lo aveva ghermito
al suo posto di lavoro...
Era difficile prestare attenzione alle fole di Fagotto,
che ne contava sempre una più di Bertoldo. Potevo credere
a tali fandonie? Ah, quel Fagotto, che boca de puta! Tra l’altro
andava in giro dicendo che tra Cernuschi e Pardelli c’era un
legame ben più intimo di quello di co-autori del rinomato
testo di Chimica Analitica. Una repellente insinuazione,
tenendo presente l’esimia personalità del prof. Cernuschi,
scienziato e artista. Infatti ricordo che, in occasione di
qualche celebrazione dell’ateneo estense, Cernuschi aveva
disegnato un bellissimo pataccone commemorativo.
Ma le dicerie di Fagotto, quel satiro ghignante,
non si fermavano alla presunta “traduzione” del cadavere.
Quella lingua satanica sosteneva che lo studio del prof.
Marotta, normalmente chiuso a chiave quando il professore
non era in istituto, alla sua morte aveva rivelato una
153
enorme collezione di libri gialli disposti ordinatamente
negli scaffali sulle pareti. E che il professore era andato in
cattedra solo perché aveva sposato la figlia di Zaniboni,
il luminare della chimica a Roma. E che il professore non
era alieno, in gioventù e a caccia di una libera docenza,
dall’apporre strategicamente un paio di punti sul grafico
di una funzione lineare, tanto per ribadire il concetto di
linearità... Roba da matti! Malignità senza fondamento!
La verità sulla fine del Direttore mi fu però rivelata
proprio da un protagonista della vicenda, il relatore della mia
tesi. Il prof. De Benedetti aveva preso a benvolere questo suo
laureando. Un pomeriggio, durante una pausa del lavoro di
ricerca, il mio Maestro mi sorprese confidandomi quello che
era successo in quel fatidico frangente. Eccone la narrazione:
“Il professore aveva dei problemi di salute,
sicuramente dovuti a cattiva circolazione e negli ultimi
tempi si era stancato molto a causa di un congresso che
aveva organizzato. Aveva quindi deciso di trascorrere un
periodo di riposo in un luogo tranquillo. La fedele Renata
lo accompagnava nella triplice veste di amica, infermiera
e segretaria. In Istituto, lungi dal prevedere la disgrazia
che si sarebbe abbattuta sopra di noi, sospiravamo di
sollievo e ognuno, gradualmente, rientrava in possesso
delle proprie caratteristiche caratteriali, attentamente
controllate fino alla soppressione quando il Direttore era
presente.
Una notte, verso le due, vengo svegliato
improvvisamente da una telefonata di Barnabè, l’Aiuto
dell’Ordinario, il quale, con guardinga concitazione, mi
dice che dobbiamo partire, per andare dal Direttore che sta
male, e che dobbiamo portarlo a casa. Barnabè è l’unico
a sapere dove si trovi il Professore ma alle mie domande
non risponde dicendomi di fare presto, di passare subito a
prenderlo con la mia macchina, mi darà istruzioni durante
il viaggio. Mi preparo rapidamente, dico qualcosa a mia
moglie che non ha capito bene il problema (del resto non
ne avevo afferrato i dettagli neppure io), e mi precipito
da Barnabè che già mi aspettava sulla porta di casa. In
154
dialetto – Barnabè si esprimeva quasi sempre in dialetto
– mi dice di puntare verso il Veneto e mi racconta che è
stato svegliato nel cuore della notte da una telefonata di
Renata, disperata, che lo informava che il Professore stava
malissimo, che non poteva mettere in agitazione l’ albergo,
ma che la situazione era grave, per cui si precipitasse egli, l’
Aiuto, a prestare soccorso.
Man mano che venivo a conoscenza della gravità
dei fatti, la pressione del mio piede sull’acceleratore andava
aumentando, affinché il mio contributo al salvamento dello
sfortunato Direttore potesse avere un qualche risultato.
Arrivammo infatti a destinazione in un paio d’ore, ancora
nel buio della notte. Barnabè, sia detto a suo onore, quando
si tratta di agire con fermezza non ha uguali. Infatti
attraversa l’atrio dell’hotel e si avvia all’ascensore con il
passo fermo e la nonchalance del più abituale dei clienti,
mentre io rimango ad attenderlo in macchina. Passa un
tempo indeterminato, ma non lunghissimo, durante il
quale ho fumato almeno quattro nazionali semplici.
Finalmente Barnabè ritorna e mi indica di portare
la macchina sul retro dell’albergo. Eseguo la manovra e i fari
della mia millecento illuminano due figure in piedi ed una
in carrozzella. Riconosco immediatamente Renata e dopo
alcuni istanti ravviso nel secondo personaggio il portiere
notturno per via degli alamari dorati che ornano il bavero
della grigia giacchetta. Infine, il mio sguardo cade sulla
carrozzella dove, avvolto in qualcosa che avrebbe potuto
essere scialle o coperta e che, stranamente, aveva i colori
della nostra bandiera (il tricolore mi è rimasto impresso
nella memoria), riconosco il nostro Maestro. Aveva la
stessa espressione severa di sempre, solo che gli occhi – lo
ricordo benissimo – sembravano assenti e parevano non
seguire i movimenti notturni del gruppetto di persone che
lo circondavano. Attribuii lì per lì lo strano comportamento
del Direttore al suo stato di salute – era grave? non avevo
modo di saperlo – e scesi dalla macchina per salutarlo con
la devozione che sempre il discepolo deve mostrare nei
confronti del Maestro.
155
Mi avvicinai trepidante alla carrozzella, desideroso
di offrire il mio aiuto e dare, o forse ricevere, conforto, ma
giunto a tre passi mi accorsi che gli occhi del Direttore
non erano i suoi. Erano gli occhi bianchi ed opachi che ben
ricordavo per averli visti vent’ anni prima nei visi bellissimi
e inespressivi delle SS, gli angeli neri dalla fronte alta e pura
che i caschi d’acciaio velavano d’un’ombra segreta, mentre
pattugliavano le stradine del ghetto di Ferrara, ogni notte,
in quel lunghissimo inverno del ’43. In quell’istante capii
che quelli erano gli occhi dei morti e che l’angelo nero
aveva ghermito il cuore del Direttore.
Dopo, ricordo solo una successione di movimenti
convulsi, un affannoso rientro nel buio. Mi ritorna in
mente con chiarezza, ma è solo un flash, il momento in cui
dobbiamo fermarci per fare benzina. Il benzinaio sembra
più interessato a controllare l’interno della vettura che non
l’avvicendarsi dei numeri sul contatore di litri e di lire. In
effetti, la distribuzione dei posti in macchina è alquanto
anomala. Il sedile al mio fianco è vuoto mentre il sedile
posteriore è occupato da tre persone strette strette. Pago
rapidamente. Il benzinaio, assorto nel puzzle, dimentica
di darmi il resto che io non chiedo pur di scappare, e non
oso rivolgere la parola ai miei compagni che, impegnati a
mantenere il cadavere in dignitoso assetto, stanno peggio
di me; fino a quando, al primo albeggiare, arriviamo a
palazzo Schifanoia.
La città è addormentata. Qualche nottambulo
rientra in bicicletta portandosi dietro il ritmo del chacha-cha e l’odore della balera. Solo Borso d’Este e le
nobildonne della sua corte, affacciati alle bifore del primo
piano, osservano sorridendo la nostra concitata fatica
per caricarci sulle spalle la salma, aprire la porticina e
scomparire all’interno. Dobbiamo salire la rampa di scale
con il cadavere sulle spalle di Barnabè che è il più forte,
scendere dall’altra parte, attraversare il cortile sotto lo
sguardo divertito di Borso e delle sue dame – che intanto
sono passati alle bifore opposte e scommettono sull’Aiuto,
ce la farà o avremo morto su morto? – e poi, cadavere
in spalla, entrare al Daccò, salire ancora una rampa e
156
finalmente guadagnare lo studio, dove tutti ci accasciamo,
vivi e defunto, in un unico, indistinto groviglio.”
In un’altra sua lettera Alex aggiunse qualche
commento alla vicenda della “traduzione” e alla vita di
studente ferrarese:
“Gli abitanti della città appresero della dipartita
del nostro Direttore da un trafiletto apparso sulla stampa
locale che suscitò non poche perplessità nelle menti di molti.
Infatti, l’articolo riportava all’incirca: il Prof. Marotta,
noto docente dell’Ateneo cittadino, è stato trovato accasciato
sul tavolo di lavoro nello studio dell’Istituto Chimico di via
Scandiana all’ore nove della mattina. A nulla sono valsi i
tentativi di rianimazione perché il professore era deceduto
per arresto circolatorio. Il fatto, già strano di per sé, diveniva
maggiormente degno di meditazione se si considera che quel
giorno era domenica. Dunque, quelle che per i cittadini
erano vaghe perplessità destinate all’oblio, per noi interni
erano fonte continua di dibattute congetture, alimentate dai
resoconti fantastici di Fagotto. Questi, con faccia di mistero,
si presentava al gruppo riunito in casa Travisan raccontando
di avere interrogato Silento sull’accaduto, ma che, nonostante
avesse operato con tatto e deliberata prudenza, non era riuscito
a sapere nulla di più di ciò che tutti già sapevamo, ossia che
il luminare aveva trascorso un periodo di riposo ai laghi o in
montagna (sulla collocazione geografica del luogo regnava
in quel momento la massima incertezza). Le circostanze e il
luogo del decesso continuavano ad apparirci singolari; per
noi un cattedratico di tale peso avrebbe dovuto passare a
miglior vita in modo più soave: Scriveva Lorca: “Quiero morir
decentemente en mi cama... dejad el balcon abierto... y luego,
un velon y una manta en el suelo “. Quale differenza tra
la tranquilla fine proposta del poeta e l’esito concitato del
nostro creatore di chimici... (Ma il Poeta finì anche peggio,
157
ammazzato dai franchisti). Sta comunque di fatto che la vita
procede con ritmo e forza non contrastabili e tutti noi, dopo
le esequie, siamo rientrati nei ranghi del quotidiano e le voci
sull’accaduto si sono andate affievolendo nel tempo, fino a
cessare…”.
...........................
Il palazzo Schifanoia fu edificato per “schivare la
noia” da Borso d’Este, Granduca di Ferrara nel XV secolo,
come residenza di campagna anche se allora, come oggi, si
trova non in aperta campagna ma solo alla periferia est della
città, quasi a ridosso del Montagnone, il nomignolo affettuoso
con cui i ferraresi indicano le antiche mura. Il salone al primo
piano del palazzo, la Sala dei Mesi, è meravigliosamente
affrescato da Dosso Dossi e Francesco del Cossa con scene
di dame e cavalieri della corte di Borso. Il piano terra e gli
scantinati del palazzo erano occupati fino agli anni Ottanta
dall’Istituto Chimico.
A questo proposito vorrei dire che la nostra situazione
di studenti dell’Istituto Chimico, alloggiato nel più favoloso
e misterioso palazzo mai costruito, non la cambierei per nulla
al mondo. Forse quelli tra i nostri compagni che inseguivano
furiosamente il 30-e-lode non se ne rendevano conto, ma altri
come noi, cercatori di stelle, sentivano l’incanto di vivere la
propria vita di studenti prima, e laureati poi, sotto lo sguardo
benevolo di Borso e delle sue dame. Certamente i campus di
Stanford o del Caltech offrono opportunità indicibilmente
più vaste. Ricordi la bibliotechina dell’Istituto aperta solo ai
laureandi, praticamente dotata dei soli Chemical Abstracts
perché le riviste, da noi inconsultabili, le deteneva il Direttore
nei suoi appartamenti? Però il nostro Istituto, non tanto per
merito dei professori – eccettuate Penzo e Masironi che stimerò
in eterno come grandi maestre di scienza e vita – quanto per
158
159
merito di Borso, di Ercole, di Isabella e di Marfisa emanava
un’ aura incantata che non sarà mai più possibile rievocare.
E poi, la collocazione a pochi metri dal Montagnone
è stata di fondamentale importanza per generazioni di chimici
che in Schifanoia si sono forgiati. All’epoca i costumi non erano
quelli di adesso (che facciamo, mi scopi subito o più tardi?) per
cui ogni decisione esigeva il suo tempo e ogni azione veniva
costruita secondo un ritmo non programmabile ma che veniva
modulato istante per istante. Ed ecco che un ragazzo e una
ragazza, uscendo dal laboratorio, potevano piegare a destra
per andare subito a casa, oppure piegare a sinistra dirigendosi,
chiacchierando, verso il Montagnone che con il piccolo bar ed il
juke box e poi con l’incanto dei suoi profumati sentieri avrebbe
offerto un ambiente ideale per lo sbocciare di un idillio “unter
den Linden”. Se, durante il tragitto, le cose non avessero preso
la piega desiderata, era possibile arrivare fino al piccolo bar,
ascoltare un 45 giri e rientrare in città insieme agli aficionados
dell’analisi che uscivano dal laboratorio solo quando Pagnoni,
il custode, li cacciava con la scopa, se ben ricordi.”
Ad Alex risposi:
“Ricordo anch’io con nostalgia i nostri laboratori a
Schifanoia per quel tanfo di fondaco medioevale che ancora
emanavano. Li rivisitai anni fa, di passaggio a Ferrara per un
solo giorno, purtroppo piovoso. E fui piacevolmente sorpreso
di trovare al loro posto un piccolo, elegante museo in cui gli
affreschi commissionati da Borso sono ancora affascinanti
come ai tempi degli Estensi. Milena ne fu incantata. Ferrara!
Che città mirabile per urbanistica e popolazione! Tutto
merito di Borso, di Biagio, di Ercole, di Isabella, e delle soavi
madonne che tuttora ne allietano le strade. Sono anch’io
orgoglioso di aver completato i miei prolissi e sanguinosi studi
in quell’ateneo.
160
Ti ringrazio di aver menzionato l’incantevole
Masironi, donna amata in silenzio e mai obliata, come ai
tempi dei troubadours; e le sere sul Montagnone, teatro di
tenere tenzoni.”
E ancora Alex:
“ Non so se la ragazzina bionda con gli occhi sognanti
e con il lieve difetto fisico che tu ricordi sia la stessa a cui sto
pensando, Aurora. Anche lei soffriva di un lieve difetto: era
leggermente claudicante ma certamente non “nada ‘n chora na
bott” .
Conobbi Aurora alla fine del secondo anno grazie
a Marisa, il mio primo vero amore. Marisa, mia bellissima
coetanea romana, che veniva in autunno a Ferrara per visitare
i suoi zii, israeliti, e che mi fece conoscere Giorgio Bassani,
Carlo Levi e Calvino. Ma di questo ti racconterò un’altra
volta.
Aurora era una di quelle creature che anche allora
poteva definirsi di altri tempi. Aveva all’incirca la nostra età ma
viveva in un’altra epoca. Ragazza di nobilissima famiglia (sua
madre, l’austera contessa V., possedeva interi paesi nella bassa
Ferrarese e anche in Polesine) era tuttavia di comportamento
e di aspetto modesto. Viveva nel palazzo avito in fondo a via
Savonarola, un palazzo del Quattrocento con un enorme parco
che si estendeva verso Giovecca. Ricordo che lei stessa mi disse
che l’area su cui attualmente esiste la Casa dello Studente di
Ferrara faceva parte del suo parco e che durante il ventennio
suo nonno ne fece dono all’Università perché ci costruisse
appunto una dimora per gli studenti universitari. In questo
palazzo esisteva un appartamento con camere, salotti, bagno
e cucina abitato solo da bambole antiche. Erano le bambole
di Aurora e delle sue sorelle. Bambole di tutti i tipi. Alcune
161
grandi come bambine con la faccia di porcellana, vestite di
pizzi e trine, stavano sedute su poltroncine Luigi Filippo
come vere damine dell’Ottocento. Altre, in piedi accudivano
ai lavori domestici. Una faceva il bucato, un’ altra sventolava
i fornelli a carbone mentre nella camera da letto la bambola
padrona scendeva dal letto e iniziava la toilette aiutata da
bambole cameriere.
Aurora sicuramente stava al di sopra della Ferrara
“bene”, la sua famiglia apparteneva a un ceto superiore; la
classe di coloro che, con l’avvento del fascismo,”si sono ritirati”,
direbbe la Canino, e che ai nostri tempi vivevano ritiratissimi.
Però lei questo ritiro credo non lo gradisse completamente; non
lo aveva scelto, ma non lo viveva come imposizione. Forse per
lei era qualcosa di naturale che però non le impediva di provare
una forte curiosità per il mondo esterno, per il mondo dei suoi
coetanei. Marisa e io rappresentavamo questo mondo e credo
sia per questo che diventammo amici.
Una volta – o forse più d’una – siamo andati
insieme, tu, Fagotto ed io, a trovare Aurora nel suo palazzo.
Attraversavamo saloni corruschi di armature, quindi
imboccavamo una fuga di dorate stanze per essere accolti nel
piccolo boudoir, dove ci stravaccavamo su divani e poltrone
incuranti della tappezzeria a piccolo punto e ci lanciavamo
subito in accese discussioni di carattere chimico. Ricordo ancora
una tua lezione sull’ibridizzazione del carbonio dedicata a me
e Fagotto, che ovviamente per gli altri era incomprensibile.
Ma proprio questa incomprensibilità, certamente da noi non
desiderata ma generata da un genuino desiderio di discutere
un argomento a noi utile, anzi necessario per capire la chimica,
ci elevava, agli occhi di Aurora, al di sopra della banalità dei
presenti; per cui penso ancora che fosse molto edificata dalla
nostra compagnia. E pensare che io stavo sempre sulle spine
perché dovevo continuamente convincere Fagotto a rimettere
162
sui tavolini veneziani portaceneri, cornici e altri oggetti
d’argento che il nostro Gambadilegno si ficcava velocemente
nelle tasche.
Non l’ho più rivista. Ho saputo molti anni fa che
si è ritirata (ulteriormente) in uno dei suoi possedimenti nel
Polesine. A me resta il rimpianto di non avere approfondito
la conoscenza di questa indubbiamente singolare “princesa
enamorada sin ser correspondida”.
h
163
164
NUOVE METE
Il miraggio della cattedra – Le damigiane di acqua distillata
– Vita di commissionato – Panni da risciacquare in Tamigi –
La tapa del delco – Il fatale coup-de-foudre
Nel miei ultimi anni di vita di studente lavorai
sotto la guida del professor Manlio De Benedetti a una
tesi sperimentale: una variazione sul tema delle cinetiche
di scambio in ioni complessi. Il mio problema era quello
di misurare gli effetti di catalisi eterogenea procurati da
diversi tipi di resine a scambio ionico.
Il professor De Benedetti era un uomo sui
quarant’anni, di media statura, con una fronte bassa da
cui spuntava una zazzera di capelli neri e spessi sopra a
un viso giovane che non tradiva la sua età. Un tipo fisico
più da meridionale che da emiliano. Ma sotto la fronte
di dimensioni ridotte si nascondeva il cervello più fertile
dell’Istituto Chimico. A differenza dei suoi colleghi che
si sarebbero staccati da Ferrara a fatica, rimpiangendo la
mancanza di salama da sugo, De Benedetti aveva lavorato
nei laboratori americani prima di tornare nella sua Ferrara.
In Istituto gli era stato assegnato l’insegnamento più arduo
per noi studenti, quello di chimica-fisica.
De Benedetti sapeva di sapere il fatto suo come
chimico, e non si celava dietro a false modestie. Questo
suo atteggiamento gli aveva creato opposizione da parte
165
di docenti più anziani preposti all’assegnazione di cattedre
nel bizantino sistema universitario italiano. Uno di essi in
particolare aveva giurato “Finché sarò vivo io De Benedetti non andrà in cattedra.” Manco a dirlo, De Benedetti
ottenne la cattedra di Chimica Teorica all’Università di
Pisa solo dopo la morte del suo inimico. Nel frattempo, al
suo laureando De Benedetti diceva “E pensare, Torrazzi,
che il Tal dei Tali è già in cattedra e io a quarant’anni sto
ancora qui.” “Qui” era il purgatorio dell’Istituto Chimico
di Ferrara, tappa obbligatoria nell’ascesa verso l’empireo
della cattedra. Non so se agli albori del XXI secolo il
sistema universitario italiano sia migliorato. Fatto sta che
quarant’anni fa per farsi strada non era necessario il talento
di De Benedetti, ma era essenziale ruffianarsi i potenti
baroni che facevano il bello e il cattivo tempo.
Non mi è chiaro come io sia riuscito a farmi
accettare da De Benedetti come suo laureando. Penso che
Alex e Deo ci abbiano messo una buona parola. E forse non
me la sono cavata tanto male agli esami di chimica-fisica.
A me interessava lavorare con De Benedetti soprattutto per
la sua fama di essere “er mejo de tutti”. E anche per ripicca:
vediamo se sono capace di cavarmela vis-a-vis con il genio
locale, visto che io non mi sono mai considerato il genio
della chimica.
De Benedetti era un fanatico del lavoro. Nella sua
corsa verso la cattedra, quella specie di Santo Graal, non si
risparmiava, guidando a rotta di collo da Ferrara a Padova,
dove collaborava a progetti di ricerca coi padovani, e da
Ferrara a Camerino, dove aveva dei suoi laboratori, le
segrete in cui era rinchiuso il polarografista Bonsante. E
per di più De Benedetti fumava come un proverbiale turco
Nazionali senza filtro e beveva caffè ristretto per tenersi
sveglio. Era prevedibile che prima o dopo pagasse il fio di
questo regime da marce forzate. Deo mi fece sapere che il
professore era morto prematuramente. Una notizia che mi
rattristò, perché De Benedetti aveva avuto fiducia nelle mie
capacità e mi aveva dato una mano perché mi sistemassi
dopo la laurea.
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166
Nel suo laboratorio di Ferrara il professore aveva
installato un bagno termostatico dentro a una grande
vasca di vetro da pesci rossi, con un termostato a mercurio,
anche quello fatto in casa, che gli consentiva di mantenere
la temperatura del bagno a 25 gradi centigradi. L’acqua
distillata veniva fornita all’Istituto in enormi damigiane.
(Che differenza con i laboratori che incontrai all’Università
di Reading in Inghilterra! A Reading l’acqua distillata
arrivava direttamente a un rubinetto sul bancone del
mio laboratorio). Per purificarla, e cioè ulteriormente
deionizzarla, la si faceva passare attraverso altissime
colonne di vetro piene di resina a scambio ionico. L’acqua
della damigiana veniva sifonata alla cima della colonna;
al fondo della colonna usciva acqua “di conducibilità”.
In pratica, io dovevo preparare reagenti e soluzioni, e
misurare velocità di reazione con uno spettrofotometro
Beckman. L’unica prova di quanto i miei sforzi avessero
dato dei risultati fu una pubblicazione di De Benedetti e
Pornari, di cui Deo mi fece aver copia. Mi sembra di esser
stato menzionato nei crediti.
L’alba di un caliginoso giorno di novembre, il
giorno della mia laurea, alla fine spuntò! Di questo giorno,
come di quello delle mie nozze, ho confusi ricordi. Forse
l’emozione mi aveva anestetizzato il cervello. Ricordo di
aver atteso fuori dall’Aula Magna dell’università il mio
turno di discutere la tesi, rimuginando la presentazione
del lavoro che avrei fatto di lì a poco. Insieme a me e
ad altri laureandi c’era Mirco Fagotto circondato da
un nugolo di parenti che ciacolavano animatamente in
dialetto trevigiano. Ci dovevano essere anche Alex e sua
madre, perché ricordo che De Benedetti corse a baciarle
la mano, gesto da cavaliere antico che io molto apprezzai.
Mia madre ed io ce ne stavamo in disparte. La santa donna
vedeva finalmente coronati i suoi sforzi. Infatti le avevo
chiesto di esser presente alla cerimonia per rassicurarla che
i sospirati allori non sarebbero stati solo frutto della mia
immaginazione, come era capitato a un paio di bolzanini
di mia conoscenza.
167
Fagotto entrò in Aula Magna prima di me.
Dopo una mezz’ora ne uscì sorridendo, e subito i parenti
sciamarono eccitati intorno a lui: “Chino, Chino, sei
dottore, sei dottore...”. L’importanza di questo titolo per gli
italiani non può essere sottovalutata. Io credo che il Padre
Dante ne sia responsabile, visto che più volte nel divino
poema parla di Virgilio come del “suo dottore”. Il Doré poi
ci mostra sempre Virgilio col capo cinto d’alloro. Laureato,
insomma. Né trattiene gli italiani dallo sfrenato uso del
titolo accademico – soprattutto da parte dei guardiani di
posteggi – il sapere che i francesi lo conferiscono solo ai
medici, gli inglesi danno del “Mister” anche ai chirurghi,
e i tedeschi sghignazzano quando – a lor dire – gli italiani
ne fanno sfoggio abusivo. Mi dicono che ormai in Italia,
dopo la revisione degli ordinamenti universitari sul
modello anglosassone, il titolo viene conferito anche a chi
ha completato solo tre anni di studi. Una volta si diceva che
una laurea e un pezzo di pane non si negano a nessuno. A
quei tempi però ci si metteva più tempo ad addottorarsi.
Arrivò il mio turno. La porta dell’Aula Magna si
chiuse dietro di me e mi trovai di fronte e undici giudici
che ascoltarono pazientemente e vagamente annoiati il
mio discorsetto. Dopo aver risposto al paio di domande
di prammatica fui finalmente proclamato “Dottore in
Chimica”. Non partecipai a festeggiamenti, ma caricata
con le mie masserizie la Fiat 850 di famiglia, e salutate con
commozione le superstiti sorelle Lombardi, mia madre ed io
partimmo la sera stessa per Bolzano in una bufera di neve.
Per strana coincidenza, un paio d’anni dopo una tempesta
di neve accompagnò Milena e me quando partimmo da
Bolzano per l’Inghilterra la stessa sera delle nostre nozze, a
bordo della stessa 850.
h
Finalmente laureato, un po’ per celia e un
po’ per non morir d’inedia a Bolzano mi precipitai a
cercare un lavoro per tacitare i cori delle prefiche che
168
mi davano “perso p’al caìgo”*. E cosa può trovare a
portata di mano il neolaureato in chimica se non un
posto di rappresentante di medicinali, sempre che
non si butti a insegnare scienze nelle scuole medie? Il
lavoro di rappresentante, umile ma ben retribuito, era una
tappa obbligata per molti appena usciti dall’università
o che dall’università non sarebbero mai usciti. Una
laurea in chimica, farmacia o persino medicina garantiva
l’assunzione nell’industria farmaceutica. Mio padre,
portato a categorizzare il prossimo in base al modo di
guadagnarsi il pane, mi disse “Ma cosa ti metti a fare...
Ho fatto il rappresentante di medicinali anche io, ma solo
prima di laurearmi.” Abbozzai, non essendo capace di
promettere mari e monti e preferendo dichiarare le mie
carte al momento opportuno, invece di bluffare. E pensare
che Baruch Spinoza poliva lenti per vivere…
Prontamente nel giro di un paio di settimane entrai
a far parte della scuderia Merck, Sharp & Dohme italiana
come Rappresentante di Medicinali per la Regione TrentinoAlto Adige. In termini meno aulici, come “commissionato”.
Tale era infatti il titolo che mi veniva affibbiato, a volte
brontolando e a volte stentoreamente, da chi mi vedeva
spuntare nella sala d’attesa del medico: “Ostia, xe ‘rivà
n’altro comisionatto! I ne fa perder tempo, ‘sti comisionatti de
la madona...” . Le ditte farmaceutiche infatti avevano da
tempo adottato il marketing a rullo compressore, in base al
quale il medico vedeva spuntare due o tre rappresentanti
al giorno, che per coprire più territorio durante la giornata
cercavano di scavalcare i pazienti in sala d’aspetto. I
benpensanti, anche se pronti allo scorno della mia modesta
attività, perlomeno non mi accusavano più di essere ancora
appeso alla tetta materna. Se non altro alla Merck imparai il
motto dell’industria farmaceutica: “Auguriamo alla nostra
clientela vita lunga e malaticcia”.
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*
“perso nella caligine, nella nebbia”. È un modo di dire veneto.
169
Ma – e ciò i benpensanti non potevano immaginare
– nel corso di quei torpidi anni avevo immagazzinato un bel
po’di nozioni di chimica. Di questo penso si fosse accorto
il relatore della mia tesi, il quale forse si era commosso
notando la devozione alla ricerca da me dimostrata
nel passare interminabili ore allo spettrofotometro
collezionando cinetiche di reazione. Fatto sta che durante
l’estate successiva alla mia laurea Deo mi fece sapere che
il professor De Benedetti, ormai salito in cattedra, dopo
avergli chiesto del mio destino gli aveva detto che avrei
potuto incontrarlo per discutere prospettive.
In quell’estate De Benedetti era andato in
villeggiatura in Val di Fassa. E così durante un weekend,
arrampicandomi con la 850 per i tornanti delle valli alpine,
andai a trovare il professor De Benedetti insieme alla
ragazza che dopo pochi mesi avrei sposato. De Benedetti
mi chiese: “Torrazzi, cosa vuole fare? Forse potrebbe
lavorare con me a Pisa.” Io gli risposi che sarei stato ben
contento di lavorare con lui, ma che prima di tutto mi
sarebbe stato utile passare qualche tempo in un laboratorio
in Inghilterra, principalmente per risciacquare i panni in
Tamigi. De Benedetti trovò la mia richiesta ragionevole, e
mi promise di corrispondere con un suo collega inglese per
arrangiare un mio soggiorno nell’università del luogo.
Nell’autunno di quell’anno tornai a Ferrara per
sostenere anche l’esame di stato per l’abilitazione alla
professione di chimico. Quest’ultima pergamena non mi
servì mai a niente, anzi andò a finire che la ritirai di persona
dalla segreteria dell’università una trentina d’anni dopo,
di passaggio a Ferrara con mia moglie. Ascoltata la mia
richiesta, senza batter ciglio l’impiegato della segreteria
scartabellò un polveroso registro e, miracolo, dal fondo di
un cassetto tirò fuori l’antico papiro. Anche questo pezzo
di carta, insieme ai diplomi di laurea mio e di Milena, è
conservato in una cassetta di sicurezza in banca, a prova
d’incendio e ad edificazione dei nostri posteri.
h
170
Tra la fine dei miei studi formali e l’inizio del lavoro
di rappresentante partecipai a un interludio di un paio di
settimane in Spagna. De Benedetti aveva ospitato nei suoi
laboratori per alcuni mesi una ricercatrice spagnola, Maria
Luz Vizcaya. Lei si era portata appresso il marito, Manuel,
un avvocato che di chimica sapeva poco o niente ma aveva
molte opinioni di carattere socio-politico, principalmente
di sinistra, di cui amava discutere inesauribilmente. Forse
Manuel si sentiva al sicuro in Italia nel dar sfogo ai suoi
sentimenti di solidarietà col proletariato, dato che la Spagna
ancora soffocava nella morsa del Caudillo e dell’Opus Dei.
Però la logorrea di Manuel dava sui nervi a De Benedetti,
un monarchico nostalgico dell’ ancien régime che avrebbe
salutato con entusiasmo la riconversione dell’Italia
da repubblica a regno sabaudo. Infatti il professore fu
disgustato dall’affaire di Beatrice di Savoia con il fusto
– povero ma bello – Maurizio Arena. Una Savoia che si
accoppia con un commoner, e per giunta un burino emerso
dal fango delle borgate romane come un pinnipede del
Giurassico in via di evoluzione! Ma se non altro l’affaire
divenne un grande affare per i rotocalchi nazionali.
Alex, giovane di larghe vedute, era diventato
amico dei Vizcaya e mi propose un viaggio in Spagna
nel periodo delle feste natalizie, insieme a sua madre.
Aveva appena acquistato una versione sportiva della Fiat
850, una piccola, elegante automobile la cui carrozzeria
mi pare fosse un progetto di Pininfarina. Partimmo prima
di Natale, facendo tappa a Lourdes, supermercato dei
miracoli infestato da negozietti traboccanti di madonnine
di plastica piene d’acqua santa, cartoline con l’effigie di
vari papi e banderuole con simboli sacri che sventolando
avrebbero potuto attrarre divine grazie, come le girandole
da preghiera esposte ai venti nei monasteri tibetani. Dopo
aver varcato i Pirenei puntammo su Madrid, solcando vaste, aride pianure e superando camion e greggi di pecore.
Alex guidava come se non ci fosse un domani, abbordando
a rotta di collo curve che strappavano a sua madre gridolini
e sibili di paura. Io non ero più coraggioso della signora
Scalchi, ma mi astenevo da commenti per non disturbare
171
il guidatore. Dopo una curva pericolosa affrontata da Alex
con nonchalance da Mille Miglia, un suono di sirene
poliziesche ci costrinse a fermarci. Il pizzardone motociclista, dopo la rituale richiesta di documenti, ci appioppò
una multa. Cercammo di parare la botta piagnucolando
“Siamo poveri studenti...”. Figuriamoci, poveri studenti
con una macchina sportiva che ogni volta che la
parcheggiavamo attraeva l’invidia di nugoli di spagnoli,
condannati da Francisco Franco a economie da Medio Evo.
Il poliziotto aveva un suo senso dell’humor, e ci rispose
“Vi do la multa, ma poiché siete poveri studenti vi invito a
cena a casa mia per stasera.”
A un certo punto sulla strada di Madrid la macchina si rifiutò di funzionare. Sia Alex che io non potevamo
spiegarci la recalcitranza del veicolo, e preso contatto con
un garagista ne attendemmo il verdetto. La “tapa del delco”,
la calotta dello spinterogeno, così detta dal nome della
fabbrica che la produceva, era danneggiata e occorreva
sostituirla. Ma per farlo bisognava prima ordinarla a un
distributore Fiat. Aspettammo pazientemente l’arrivo della tapa di ricambio, e finalmente potemmo proseguire verso
Madrid. Arrivati nella capitale scendemmo in un albergo
del centro. Eravamo d’accordo di lasciare la mamma di
Alex a Madrid, dove avrebbe incontrato alcuni suoi amici.
Alex ed io avremmo proseguito per Gijon, sulla costa basca,
per ritrovarci con i Vizcaya di cui saremmo stati ospiti.
(Molti anni dopo ebbi a che fare con progetti relativi alla
centrale nucleare di Santa Maria de Garoña, situata nella
stessa zona).
Mentre eravamo in albergo qualcuno lanciò un
piropo, un complimento alla signora Scalchi, donna assai
piacente: “¡Que guapa!”. La signora sapeva benissimo il
significato di “guapa”, ma si divertiva a dirci “Mi hanno
detto che sono una guappa...”, fingendo oltraggio ma in
realtà lusingata.
A Gijon fummo ricevuti dai Vizcaya con la cordiale
ospitalità tipica dei latini, e per alcuni giorni ci divertimmo,
avendo fatto conoscenza con un paio di bellezze locali. Il
172
nome di una di esse, Francisca, “Chiqui”, è per sempre
scolpito nella mia memoria.
Negli anni Sessanta la Spagna era un paese molto
arretrato socialmente ed economicamente, essendo ancora
sotto al giogo della dittatura franchista impostasi con la
forza al governo legittimo. Ribellione finanziata con truppe,
armamenti e denaro da Mussolini e da Hitler. Ma lo spirito
degli spagnoli non era stato completamente soffocato dal
pugno di ferro del bigotto e crudele dittatore, di cui si dice
che amasse farsi servire alla scrivania cioccolata calda e
churros mentre firmava sentenze di morte per garrota. Una
domenica mattina Alex ed io eravamo in un caffè molto
affollato del centro di Gijon. Un giovanotto entrò e a voce
alta dichiarò “¡Cuanta gente! Hay mas aquí que en la iglesia...”.
Per fortuna, pensai io.
h
I giorni di Gijon passarono troppo velocemente.
Ripartimmo per Madrid dove ci aspettava la signora
Scalchi. E da lì per l’Italia. A Bolzano cominciai subito
il mio lavoro di rappresentante di ditta farmaceutica.
Con la 850 andavo in giro per tutta la regione TrentinoAlto Adige, fino a Brunico e Vipiteno a nord e Riva del
Garda a sud. Distribuivo campioni gratuiti ai medici,
illustrando brevemente l’efficacia dei farmaci quando non
mi veniva detto “Lasci i campioni sulla scrivania, sono
molto occupato”. Un lavoro stancante per dover guidare
continuamente da un paese all’altro e di totale mancanza
di soddisfazione, se non pecuniaria.
Nella primavera di quell’anno avevo conosciuto
una ragazza che mi era molto piaciuta. Milena era la sorella
di una compagna di scuola di una mia sorella. Queste nostre
sorelle dovevano partecipare a un dibattito organizzato
dalla scuola, e fu lì che vidi per la prima volta Milena, che era
venuta ad assistere al dibattito in compagnia di sua nonna,
una simpaticissima vecchietta. Alla fine della riunione mi
offrii di dare un passaggio a nonna e nipote. E quando aprii
la portiera della macchina Milena disse “Che buon odore!
173
È lo stesso odore delle automobili dei miei zii.” L’odore era
quello, niente affatto buono, dei medicinali. Gli zii di Milena
erano proprietari di tre farmacie nella zona. In retrospettiva,
e tenendo presenti i contatti amichevoli degli zii con altri
farmacisti, se avessi continuato a fare il rappresentante dopo
aver sposato Milena ci saremmo arricchiti. Ma saremmo
stati fagocitati dalle famiglie. Bravissime persone, Dio ci
scampi. Però per me era più importante del denaro la mia
libertà di azione. E del mestiere di rappresentante ne avevo
piene le scatole. Quando De Benedetti mi invitò a parlare
con lui mentre era in villeggiatura in Val di Fassa, colsi la
palla al balzo, incurante dell’incerto futuro anteposto al
lucro del presente. Avevo un’idea romantica della ricerca.
(Un’illusione che la realtà si premurò di cancellare.) L’idea
di andare in Inghilterra mi attraeva: nuove esperienze,
nuova cultura, una lingua importante che conoscevo poco
e desideravo imparare. Milena studiava ancora Economia
e Commercio a Roma. A quei tempi la sua facoltà non si
era ancora spostata alla Sapienza ma era situata nel centro
di Roma, in un palazzo di piazza Fontanella Borghese, tra
piazza di Spagna e il Tevere. Fanfani vi insegnava Storia
dell’Economia, Caffè – sparito poi senza lasciar traccia –
Economia Politica, e Bosco – il relatore della tesi di Milena
– Diritto Internazionale.
Dopo il nostro breve incontro Milena era tornata a
Roma per sostenere alcuni esami. La rividi durante l’estate,
e andai a trovarla dove villeggiava con gli zii a Siusi. Un
suo cuginetto, avrà avuto quattro anni – adesso ne ha più
di quaranta – mi chiese “Come mai le tue sopracciglia
sono così folte?”. Io risposi “Perché crescono in primavera
e cadono come le foglie in autunno”. Milena mi dice che
questa mia uscita la convinse che io andavo bene per lei.
In autunno Milena tornò a Roma. De Benedetti mi
aveva fatto sapere che il professor Pruitt dell’Università di
Reading, nel Berkshire, a pochi chilometri da Londra, aveva
accettato di ospitarmi nei suoi laboratori. Munito della
promessa di una borsa di studio e dei miei pochi risparmi,
avevo deciso di chiedere a Milena di sposarmi. Una sera di
ottobre presi il treno e sbarcai il mattino seguente a Roma.
174
Le telefonai alle sette del mattino. Sorpresa, mi domandò:
“Ma dove sei?”. Al bar all’angolo, risposi. Le feci perdere
un esame ma la convinsi ad accettare la mia proposta.
Non prima però di tre giorni di tentativi. Il primo giorni la
portai a Ostia, e di fronte al mare le chiesi senza preamboli,
allora ci sposiamo a Pasqua? Lei, colta di sorpresa, non
disse né sì né no. Non si aspettava una proposta del genere,
conoscendo le mie idee orientate più verso il libero amore
che i rituali degli imenei. Al massimo, sospettava che le
chiedessi di scappare con me in Inghilterra.
La sera del secondo giorno passeggiavamo nei
dintorni dei Fori. Già era buio quando arrivammo di fronte
al cancello che di solito la sera viene chiuso con un lucchetto.
Ma stranamente quando provai ad aprirlo si spalancò. Un
auspicio fausto. Entrammo richiudendo il cancello alle
nostre spalle. La notte era tiepida e silenziosa, un’atmosfera
magica. Seduti su un rudere, le chiesi ancora una volta di
sposarmi. Milena mi disse che ci doveva pensare su.
Il terzo ed ultimo giorno – dovevo tornare a
Bolzano per lavoro – la portai a San Pietro. Quando il papa
era Montini ci si poteva ancora affacciare alla balaustra
della grande terrazza, quella con le statue che sorvegliano
la piazza. (Karol Vojtila ne ha bloccato l’accesso.) Le dissi
“O mi sposi o mi butto di sotto”. Più che altro perché non
mi spiaccicassi sul selciato della piazza sottostante, Milena
finalmente acconsentì. Celebrammo l’evento con una Fanta
comprata al chiosco che allora esisteva sul terrazzone e
andando a mangiare in una rosticceria dietro al colonnato
del Bernini. Ancora oggi la donna mi rimprovera di averla
indotta a consumare degli infami piedini di porco sotto
aceto che io ero convinto fossero una delle Delikatessen
locali.
Andai a Reading nell’autunno per volare di ritorno
a Bolzano alla metà di marzo dell’anno seguente, lasciando
a Milena l’incombenza di organizzare la cerimonia
nuziale nel frattempo. Ci saremmo sposati in chiesa per
evitare infarti ai numerosi parenti, molto preoccupati per
la salute delle nostre anime. Le nozze furono celebrate
in una cappella medioevale in piazza Domenicani. Di
175
costituzione religiosa gracile, non potendo tollerare più di
un sacramento al giorno fui esentato dalla comunione. Il
problema della confessione preliminare era stato risolto da
un giovane prete, molto simpatico, che si dichiarò per nulla
interessato alle mie fornicazioni. Fui assolto in quattro e
quattr’otto. Per penitenza scolai insieme a lui una bottiglia
di vino.
Partimmo la sera stessa delle nozze in macchina
verso il Berkshire, passando attraverso Austria, Germania
e Francia in un frettoloso viaggio di nozze. Ci fermammo
a Parigi solo un giorno, con grande rammarico di Milena.
Le promisi di tornare. Mantenni la promessa, ma non
prima che passassero trent’anni. (Però allora ci restammo
un intero mese.) Poco mancò che finissimo in un incidente
appena sbarcati sul suolo inglese, perché gli inglesi si
ostinano a guidare a sinistra.
Poiché né io né Milena avevamo fatto pubblicità a
un nostro impellente matrimonio, i benpensanti sorpresi
dalla decisione decretarono “La ragazza è incinta!”. La
prospettata gravidanza fu molto prolungata, perché il
nostro primo figlio nacque due anni dopo.
Milena era stata strappata da me ai suoi studi a
Roma. I benpensanti decretarono: “Se la ragazza si sposa
non si laureerà mai.” E invece, andando avanti e indietro
da Londra a Roma e discutendo una tesi sull’ingresso del
Regno Unito nel Mercato Comune, allora tema di dibattito,
Milena sfatò la profezia un paio di mesi prima di salpare
con me da Liverpool per la foce del San Lorenzo.
Secondo un’altra profezia, questo nostro matrimonio non avrebbe potuto durare più di sei mesi, per via
della mia innata scapestrataggine. Guarda caso, a tutt’oggi
è durato più di trent’anni. Anzi, a volte penso che se esistesse il diavolo gli proporrei: ”Mefistò, se mi concedi di vivere
un’altra vita con Milena, ti vendo l’anima.” Ma purtroppo
il diavolo non esiste, è solo una delle tante invenzioni di chi
vuole tenere i babbei sotto controllo.
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176
VITA IN INGHILTERRA
Prigioni e biscotti – Un appartamento su tre piani – I cigni
della regina – Bianchi e neri – Hippies e figli dei fiori – Incontro
con Yoko - Dimostrazioni a Trafalgar Square – Il Greek Pig –
Meneghello e Strickland – Il Dipartimento di Chimica – Le mele
dei porci – Il prof. Pruitt – Ricerche e frustrazioni – Le palline
d’argento
Attraversata la Manica con la Fiat 850 caricata su
un piccolo ferry aereo, eravamo sbarcati su suolo inglese
ed evitato uno scontro con la prima macchina che ci veniva
incontro, dimentichi del fatto che gli inglesi guidano a
sinistra. Dopo un’ora di guida dal lato giusto – per gli inglesi
– della strada ci avevamo fatto l’abitudine. Viaggiavamo
attraverso un paesaggio sereno di colline ondulate, coperte
da boschi di querce e prati verdissimi solcati da lunghe file
di siepi. Ogni tanto appariva un villaggio di minuscole case,
ciascuna con un giardinetto cintato da un piccolo steccato.
Nel tardo pomeriggio, ci eravamo fermati per mangiare un
boccone in una tea room al pianterreno di una costruzione
isolata ai bordi della strada. Un’ enorme vetrata dava su un
giardino con aiuole di fiori molto curate tra vialetti coperti
di ghiaia. La sala in cui eravamo entrati era piena di gente,
ma a malapena si sentiva bisbigliare. Milena mi disse:
“Che ci sia stato un funerale?”. “No – le risposi – siamo in
Inghilterra, qua non si fa caciara”.
177
Mussolini aveva affibbiato all’Inghilterra l’appellativo di “Perfida Albione”, ma nei miei due anni di
soggiorno a Reading, nella valle del Tamigi, tra i verdi prati
del Berkshire, di perfido ho trovato solo la cucina locale:
per il lunch gli inglesi si accontentano di un sandwich al
cetriolo; una loro specialità è steak and kidney pie, una specie
di grossa cialda ripiena di pezzetti di carne e rognoni
affogati in una besciamella anodina; e nei pub la birra
è servita a temperatura ambiente, una condizione che
richiama alla mente escrezioni naturali. Non è da stupirsi
se in Inghilterra i ristoranti italiani sono spesso affollati:
ben pochi piatti possono competere con gli spaghetti
all’amatriciana e il risotto alla milanese.
Peraltro ricordo quei due anni con nostalgia.
Reading è una città industriale e universitaria, situata
presso la stradale M4, a metà strada tra Londra e Oxford.
I due siti di importanza storica erano la fabbrica di biscotti
Huntley and Palmers, nota in tutto il Regno Unito e il
Commonwealth britannico, e la prigione dove era stato
incarcerato Oscar Wilde, colpevole di aver preso una cotta
per il giovane “Bosie”, al secolo Lord Alfred Douglas,
terzogenito del Marchese di Queensberry. Il marchese
padre fu l’artefice della sfortuna di Wilde, condannato per
“indecenza” a due anni di lavori forzati, dopo i quali aveva
composto la “Ballata della Prigione di Reading”.
Milena ed io eravamo sposati da pochi giorni
quando andammo a vivere in un flat, una delle quattro
suddivisioni di una villetta a due piani. Per far fronte alla
scarsità di alloggi a buon mercato, gli inglesi avevano ideato
ingegnosi modi di ripartire costruzioni in cui al massimo
due famiglie invece di quattro avrebbero dovuto trovare
sistemazione. In seguito all’immaginosa ristrutturazione
dello stabile, il nostro minuscolo appartamento era disposto su tre livelli. Dal portone d’ingresso si saliva una ripida
scala fino alla porta del nostro flat. All’interno, attraverso
un corto e striminzito corridoio da un lato si accedeva al
bagno e a pochi metri in fondo si entrava nella modesta
cucina con un tavolino, un fornello a gas e una piccola
dispensa. In mancanza di frigorifero si metteva il burro in
178
fresco in un boccale d’acqua posto su una mensola fuori
dalla finestra. Dal lato opposto al bagno, salendo alcuni
gradini si passava a un soggiorno con un divano letto, al
cui arredamento noi avevamo aggiunto un tavolo e quattro
sedie acquistate da un rigattiere. Una finestra dava sul
cortile. Per rendere più gradevole il soggiorno, Milena ne
aveva dipinto le pareti di un rosa salmone e vi aveva appeso
alcuni suoi acquerelli. Dal soggiorno, salendo una scala a
chiocciola, si arrivava alla stanza da letto in una mansarda
sotto al tetto, spartanamente arredata con un letto a due
piazze, un paio di comodini e un armadio. Però da un lato
della stanza una larga vetrata ci offriva la vista – romantica
secondo noi – di un vecchio cimitero. Il nome del nostro
quartiere era infatti “Cemetery Junction”, perché il cimitero
era di forma triangolare e al suo vertice si congiungevano
tre strade.
Il nostro alloggio ci era invidiato da altri giovani
che gravitavano intorno all’università. Se non altro il
nostro bagno aveva un gabinetto, un lavandino e una
vasca da bagno, tutto per noi due soli. In altri flat a
volte la vasca da bagno, se c’era, era posta al centro
della cucina, e il gabinetto era spesso condiviso con altri
inquilini. Arrivati dall’Italia, dove la maggior parte degli
appartamenti di città avevano il riscaldamento centrale,
eravamo stati spiacevolmente sorpresi di trovare stufette
a gas funzionanti a gettone, nella migliore ipotesi. Nella
peggiore, ci si doveva arrangiare con maleodoranti stufette
a cherosene. Gli inverni a Reading non erano rigidi come
quelli dell’Italia del nord, ma il freddo e l’umidità erano
sufficienti a farmi saltare dal letto al mattino, tremolante,
per accendere la stufa – spenta di notte ad evitarci la morte
per soffocazione – e risparmiare a Milena, seppellitasi sotto
al piumino dono di nozze, lo shock termico.
Nella buona stagione, contrariamente a quanto si
crede dell’Inghilterra, le giornate di sole non erano poche.
La domenica, se non dovevo andare in laboratorio, Milena
ed io andavamo a passeggiare nel parco di Caversham,
alla periferia della città, e gettavamo pezzi di pane ai cigni
“della regina”, che fluttuavano sull’acqua del Tamigi.
179
A volte vedevamo passare veloci canotti con gli equipaggi
di Oxford o Cambridge che si allenavano per le tradizionali
regate studentesche, incitati con grida ritmiche e gutturali
dai timonieri. Altre volte, dopo aver comprato il Sunday
Times nella massiccia edizione domenicale, passavamo ore
a leggerne le storie.
Un pomeriggio di domenica eravamo andati a
passeggiare nel giardino pubblico antistante la storica
prigione. In un gazebo una banda suonava valzer e
marcette, umpa-umpa-pa. Ma quando la banda smetteva
di suonare ci arrivavano di lontano echi di altre melodie
e di ritmi molto più esotici. Incuriositi, avevamo seguito
la musica, che come un filo di Arianna ci aveva guidati
alla base di una torre, parte del blocco della prigione.
Varcato un portale, dopo aver salito una scala eravamo
entrati in una grande stanza con banchi e inginocchiatoi
come in una chiesa. Quasi tutti i banchi erano occupati
da neri che cantavano oscillando al ritmo dalla musica
di un harmonium. Noi ci eravamo seduti timidamente
nell’ultima fila di banchi. Milena, che in Italia non aveva
mai visto molti neri, era un po’preoccupata. Quando la
musica cessava, qualcuno si alzava e in un accento che
non ci consentiva di decifrare tutte le parole testimoniava
ad alta voce di aver commesso qualche peccato. Tutta la
congregazione gli rispondeva con grida di “Yes, brother!”, o
“Jesus saves!”, e poi tutti riprendevano a cantare inni. A un
certo punto tutti fanno dietro-front. Noi pure, non potendo
esimerci, ci ritroviamo con le spalle alla congrega e davanti
a noi un muro. Un vago timore irrazionale ci aveva assalito.
“E adesso cosa succede?”, mi fa Milena, come se da un
momento all’altro diventassimo preda di qualche oscuro
rito sacrificale. Ma non successe niente di cruento, anzi il
ministro del culto venne a stringere la mano a noi “white
brothers” e ad invitarci a tornare la domenica seguente per
sciorinare i nostri peccati davanti ai fedeli.
Spesso andavamo a Londra, sempre una festa
mobile. Le nostre mete erano il museo Victoria and Albert, o
il British Museum, o la Tate Gallery. Andavamo a Portobello
Road per curiosare tra i venditori di chincaglierie, o a Hyde
180
Park ad ascoltare le divertenti farneticazioni di oratori
improvvisati, in piedi su cassette da frutta. I “figli dei fiori”,
ragazzi e ragazze più giovani di noi, ci offrivano garofani
in segno di pace. Gruppetti di Hare Krishna con la testa
rapata eccetto per un codino e avvolti in tuniche zafferano,
ci circondavano ballonzolando, picchiando tamburelli e
salmodiando la maha-mantra: “Hare Krishna. Hare Krishna.
Krishna Krishna. Hare Hare. Hare Rama. Hare Rama. Rama
Rama. Hare Hare”.
Le prime minigonne erano apparse a Carnaby
Street. Milena ne aveva comprato un paio, che indossate
con calze a rete color carne avevano scioccato parenti e
amici a Roma, dove era andata per sostenere un esame.
“Yellow Submarine” dei Beatles era diventato l’inno di
una generazione di hippies. Il Maharishi Mahesh Yogi
aveva lanciato la moda della meditazione trascendente,
che praticata coscienziosamente ci avrebbe consentito
di levitare come su un tappeto magico in un tripudio di
suoni e colori psichedelici, specialmente dopo aver inalato
qualche boccata di cannabinolo o inghiottito un paio di
gocce di acido lisergico. Circolava lo slogan “Vita migliore
con la chimica”, e io non potevo non essere d’accordo.
Camminando con Milena lungo Audley Street, nei
pressi di Marble Arch, avevamo notato nella vetrina di un
negozio semivuoto dei ritagli di giornale con fotografie di
una giovane orientale insieme a John Lennon, già famoso
come uno dei Beatles. Nel negozio, una specie di fondaco
con le pareti a calce, alcune persone stavano allestendo
ua mostra d’arte concettuale. Incuriositi, eravamo entrati
e ci avevano diretto ad una scala che scendeva al piano
inferiore. Là sotto, in mezzo a un guazzabuglio di oggetti
disparati, il caso ci fece incontrare Yoko Ono, allora poco
conosciuta ma futura moglie di Lennon e pomo della
discordia dei Beatles. La donna, non ancora perseguitata
da giornalisti e paparazzi, scambiò con noi alcune parole
illustrandoci gentilmente il significato della sua mostra. In
quel periodo erano di moda spille di metallo di poco valore,
grossi bottoni a colori vivaci con i messaggi del momento:
“Peace”, “Make love, not war”, “Jesus saves”. In contrasto,
181
Yoko Ono esponeva spille di sua creazione di estrema
semplicità nipponica. Ne comprammo una di smalto
bianco, non più grande di un bottone da cappotto con la
scritta microscopica: “You are here”, purtroppo smarrita in
uno dei nostri traslochi. In compagnia di John Lennon Yoko
raggiunse il vertice della fama, contribuendo alle incisioni
della John Lennon/Plastic Ono Band con miagolii, stridii
e ululati da far invidia a una banshee, lo spirito fatato delle
leggende irlandesi che di notte gira per le strade piangendo
e lamentando con gemiti strazianti la morte di qualcuno.
Pare che i servizi di controspionaggio americani facessero
buon uso dei vocalizzi di Yoko Ono, adottandoli come una
delle tecniche di coercizione psico-sensoriale durante gli
interrogatori. Per far “cantare” gli indiziati li forzavano ad
ascoltare per ore le prestazioni di Yoko, fino a che la loro
resistenza crollava e gli sciagurati gridavano: “Basta! Basta!
Confessiamo tutto, ma fateci ascoltare Mozart…”.
Era il tempo della guerra in Vietnam, e quasi ogni
domenica Vanessa Redgrave, Tariq Ali e altri importanti
esponenti del movimento di opposizione al conflitto
concionavano dalla balaustrata davanti al monumento
a Nelson in Trafalgar Square, a beneficio di una folla
sottostante che sventolava bandiere nordvietnamite o
bandiere americane in cui le stelle erano state sostituite da
piccoli teschi. Poi tutti marciavano, Vanessa in testa, verso
l’ambasciata americana in Grosvenor Square, cantilenando
slogan come “hey, hey, L.B.J., how many kids have you killed
today?” per sfottere il presidente americano Lyndon
Baynes Johnson. Davanti all’ambasciata era parcheggiata
una barricata di autobus a prevenzione di assalti. Milena
ed io ci mettevamo vicino al nugolo di poliziotti armati di
manganelli, per rassicurarli che non avevamo intenzioni
bellicose. Non passava molto tempo prima che qualche
scalmanato cercasse di valicare le barriere, scatenando
le manganellate della polizia. Alcuni dei facinorosi per
sfuggire ai randelli si arrampicavano sugli alberi della
piazza come scimmie in fuga dalle iene. A lato della
piazza era l’Hotel Hilton. Dalle finestre i turisti americani
ci lanciavano monetine – un riflesso condizionato dalla
182
fontana di Trevi – e giravano filmini con le loro macchinette
cinematografiche formato super-8.
h
Eravamo arrivati a Reading muniti della promessa
di una borsa di studio del Cnr. Ma la borsa tardava a
spuntare, e Milena si industriava di far fronte alle spese
cercando lavoro dove possibile. Per un certo periodo aveva
pulito la grande sala da pranzo e preparato le tavole nella
mensa di una delle case dello studente. Ma il suo impiego
più proficuo fu quello di sguattera in un grosso ristorante
di proprietà di un greco. La mattina e il pomeriggio Milena
li passava in biblioteca a raccogliere dati per la sua tesi in
Diritto Internazionale. Verso sera andava al ristorante, dove
si cambiava nei panni di assistente ai lavori di cucina per
restarvi spesso fino a mezzanotte, quando mi presentavo
per accompagnarla a casa. Al ristorante si dedicava a
compiti vari, come lavare mucchi di patate che una specie
di centrifuga avrebbe pelato e tornito a forma d’uovo, o
nettare insalata e riempirne enormi bacili, o caricare la
macchina per lavare i piatti. Il personale di cucina consisteva
in un’anziana cuoca, e in aggiunta a Milena, due cuochi
subalterni, un pachistano e un indiano, che eseguivano
senza obiezioni le istruzioni della capo-cuoca e per amor
di pace avevano messo da parte divergenze di politica
nazionale. La cuoca si rivolgeva a Milena chiamandola
sempre honey: “Honey, do this, honey, do that…”. E Milena si
divertiva a sentirsi chiamare “miele”.
La cucina del ristorante era un antro cavernoso
dalle curve pareti di pietra a grezzo. Ci si arrivava scendendo per una ripida scala sdrucciolevole. La scala, le
pareti e le superfici dei banconi erano annerite da depositi
secolari di fuliggine e untuose per i vapori delle fritture.
Uno scenario da Oliver Twist di Dickens. L’ambiente era
così sudicio che Milena si chiedeva come mai gli ispettori
183
preposti ai controlli d’igiene consentissero al proprietario,
soprannominato dai suoi dipendenti the Greek Pig, di tenere aperto l’esercizio. Una sera in cui dovevamo attendere
una delle funzioni sociali dell’università, alla fine del suo
turno Milena si era cambiata dentro al bagno del ristorante
nel vestito che aveva portato da casa in una borsa, si era
pettinata rimuovendo i bigodini celati da un foulard, e
aveva calzato scarpe coi tacchi alti. Così rimpannucciata
non era stata riconosciuta dal Greek Pig, che prendendola
per una cliente, cerimoniosamente aveva offerto alla sua
sguattera di accomodarsi a uno dei tavoli.
Lo stage di un paio di mesi nel ristorante del Greek
Pig terminò quando il prof. Luigi Meneghello, a capo
del Dipartimento di Studi Italiani dell’università, offrì a
Milena l’incarico della conversazione in italiano con gli
studenti. Nel frattempo la mia sospirata borsa di studio
si era materializzata e le nostre finanze avevano ripreso a
veleggiare.
Il prof. Meneghello era un vicentino di una
quarantina d’anni, approdato a Reading per insegnarvi
lingua e letteratura italiana dopo il tumultuoso periodo
della guerra che lo aveva visto prima in divisa di ufficiale
degli Alpini e dopo l’8 settembre del ’43 nei panni del
partigiano. Meneghello nutriva una sua mal celata
frustrazione professionale: non aveva ancora conquistato
rinomanza di letterato. Questo suo disappunto era
aggravato dai commenti sardonici di alcuni suoi colleghi
di altri dipartimenti, che pettegoli e impertinenti, facevano
i conti delle pubblicazioni in tasca al prossimo. Di tutti gli
ambienti di lavoro, quello accademico non è fra i meno
velenosi. A parere di quelle bocche la pecca del buon prof.
Meneghello era quella di aver pubblicato “solo” un paio
di romanzi. In quell’ambiente era di rigore l’ammonizione
“pubblicare o perire”. E quindi a stabilire il pregio di un
membro di facoltà più che la qualità delle sue pubblicazioni
era il loro peso in chilogrammi. Con questo metro di
giudizio un genio della chimica-fisica come J. Willard
Gibbs, che aveva pubblicato pochi ma fondamentali
lavori, avrebbe dovuto essere relegato all’oblio nella
184
storia della scienza. Ma il destino avrebbe vendicato
il prof. Meneghello, la cui produzione letteraria gli
avrebbe in seguito acquistato meritata fama, a scorno dei
pettegoli dell’università.
h
C’erano però persone molto simpatiche tra i
docenti di Reading. Ne ricordo una in particolare, Geoffrey
Strickland, un giovane professore di letteratura francese.
Geoffrey possedeva una completa collezione delle chansons
di Georges Brassens, e gli piaceva farci ascoltare Brave
Margot o la Ballade des Dames du Temps Jadis. A Geoffrey
piaceva soprattutto raccontarci buffi episodi della sua vita.
Eccone uno:
“Dovendo fare delle ricerche per un mio articolo su
Abelardo di Nantes ero andato a Parigi in cerca di documenti
alla Bibliothèque Nationale. Il venerabile edificio della
Bibliothèque ha un fascino particolare per il bibliofilo.
Dalle alte vetrate filtra una luce plumbea che bagna
lunghe file parallele di schedari. Un odore di carte ingiallite
permea l’atmosfera. Un pomeriggio, dopo aver estratto
uno dei lunghi cassetti dello schedario pieni di schede in
ordine alfabetico, chinandomi per cercare un titolo avevo
percepito il contatto del fondo della mia schiena col fondo
di un’altra schiena. Girando la testa senza spostarmi, avevo
scorto una bella ragazza intenta alla ricerca bibliografica
nella stessa posizione in cui ne avevo notato la presenza.
Devo confessare che l’incontro fortuito di deretani mi
aveva procurato un frisson di piacere. Continuando la mia
ricerca nello schedario, dopo alcuni minuti si verificò lo
stesso evento, questa volta intensificato da uno strofinio
foriero di sviluppi. Ma voltandomi speranzoso, al posto
della ragazza avevo trovato un vecchio barbuto con un
ghigno di complicità sulla labbra…”.
h
185
Il nuovo campus dell’Università di Reading era
stato costruito in un grande parco, Whiteknights Park, con
antichi, bellissimi alberi e prati rasati alla perfezione. La
moderna biblioteca con enormi pareti di vetro era riempita
di scaffali da cui i libri potevano essere rimossi e consultati
senza bisogno di intermediari. I bibliotecari erano a
disposizione di studenti e docenti per assisterli nelle
ricerche bibliografiche. L’unico edificio di vecchia data era
una grande villa convertita in Senior Common Room, il club
e mensa dei professori.
Il Dipartimento di Chimica, una moderna costruzione di quattro piani a forma di “L”, era situato al fondo
di Whiteknights Park, a una distanza di alcune centinaia di
metri dalla strada d’accesso. Il prof. Pruitt, sotto la cui guida
avrei lavorato per un paio d’anni, vi si recava in automobile
benché abitasse dal lato opposto del parco. Una mancanza
di esercizio fisico che in seguito gli sarebbe costata cara. Nel
lato più lungo della L erano sistemati i laboratori e le aule
per gli studenti; in quello più corto stavano i laboratori e gli
uffici dei docenti e dei ricercatori. A me era stato assegnato
un piccolo laboratorio personale, con un lungo bancone
contro una parete munito di lavandini, condutture, rubinetti
e valvole per l’acqua distillata e i gas, apparecchiature e
strumenti di misura, e armadietti e cassetti pieni di becchi
Bunsen, burette, pipette, beute, bicchieri, crogioli, filtri,
imbuti e termometri, insomma tutti gli aggeggi usati dai
chimici. Gli scaffali sopra al bancone erano coperti di
bottiglie, flaconi e boccette pieni di reagenti. Una scrivania
col telefono e uno scaffale per libri e carte completavano
l’arredamento. Sulla porta della stanza avevano affisso una
targhetta con l’iscrizione “Dr. Torrazzi”. Era un ambiente
ideale per lavorare in pace.
A pochi passi dal mio laboratorio era la common
room, una stanza arredata con enormi poltrone di pelle.
Adiacente era una attrezzata cucina per preparare
soprattutto il tè delle cinque, sempre servito col latte,
mai col limone; un rituale di tono quasi liturgico, come la
cerimonia del tè in Giappone. L’acqua non doveva esser
bollita troppo a lungo, il tè doveva essere aggiunto al latte
186
e non viceversa. Con questo rigoroso rispetto per le regole
– così alieno dallo spirito di noi italiani – l’Inghilterra era
riuscita a conquistare un impero. Alle cinque del pomeriggio
ci si riuniva per prender il tè con le paste e discutere i fatti
del giorno. Ricordo che in quel periodo era appena uscito
“La Doppia Elica”, il racconto tra il serio e il faceto di Jim
Watson di come insieme a Francis Crick avesse decifrato
la struttura molecolare del DNA. Un particolare che aveva
suscitato molta ilarità era come i due avessero scoperto i
progressi di Linus Pauling nel cercare di risolvere lo stesso
problema – roba da premio Nobel – trafugando dalle tasche
del cappotto di Peter, il figlio di Linus che pure lavorava a
Cambridge, le lettere del padre. In guerra, in amore e nella
ricerca scientifica tutto è lecito…
Un particolare del dipartimento mi aveva colpito:
i pavimenti erano in legno pregiato tirato a lucido, anche
nei laboratori, come se nessuna goccia d’acido vi potesse
mai cadere. Mi fu spiegato che il dipartimento era stato
progettato secondo le istruzioni del direttore, il rinomato
prof. E.A. Guggenheim, un pezzo-da-novanta della
termodinamica teorica che con le manipolazioni di acidi
e alcali aveva avuto di rado a che fare. Al mio arrivo
a Reading il professore era già andato in pensione. Lo
incontrai durante un garden party nella sua villetta; era
un vecchietto gentile, con un modo di fare cerimonioso
contrastante la sua fama di despota del dipartimento.
Per decisione del prof. Guggenheim l’ingresso
principale del dipartimento era dotato di un magnifico
scalone in legno chiaro a doppia chiocciola, una struttura
ispirata a un progetto di Leonardo da Vinci per il castello
di Chambord nella Loire. A Chambord la doppia chiocciola avrebbe consentito al re Francesco I di salire e scendere
una spirale senza mai incrociare la servitù che doveva far
uso della spirale opposta. Sono sicuro che la scelta del
prof. Guggenheim, senza dubbio più democratico di
Francesco I, era stata basata solo su criteri estetici. E forse
il professore aveva voluto lo scalone a doppia elica anche
perché ispirato dalla recente scoperta di Crick e Watson.
h
187
Al tempo del mio soggiorno in Inghilterra l’erario
del Regno Unito non era ancora stremato da un enorme
afflusso di immigrati provenienti dai paesi dell’ex-impero
e dai corrispondenti impegni sociali del welfare state. Il
governo aveva investito ingenti somme nello sviluppo
delle università che erano diventate un paradiso per i
ricercatori, specie quelli non abituati a tale larghezza di
fondi. Nel basamento dell’edificio che mi ospitava erano
stati sistemati i magazzini dai quali si poteva prelevare
qualsiasi reagente, un laboratorio con due soffiatori di
vetro, e una piccola officina con tre o quattro meccanici
addetti alla costruzione di speciali apparecchiature per la
ricerca. John Rowley, il soffiatore di vetro capo, era molto
fiero della sua abilità che gli procurava commissioni al
di fuori del dipartimento: aveva creato pezzi complicati
anche per il Museo della Scienza di Londra. Arrivava al
mattino a bordo di un’automobile a tre ruote, un veicolo
la cui apparizione non faceva batter ciglio a nessuno
nell’eccentrica Inghilterra.
In una continua competizione per la nomea di
artigiano più bravo del dipartimento, il rivale di Rowley
era Ronald Ashland, un meccanico di eccezionali capacità.
Ashland era molto preoccupato per l’invasione di immigrati, soprattutto quelli di pelle scura o giallina. Benché
nel suo accento cockney mi avesse più volte incoraggiato
a tornare nel mio paese d’origine, mi aveva preso in
simpatia, forse perché la tinta della mia carnagione era di
suo gusto. Milena ed io fummo persino invitati a cena a
casa sua, dove ci mostrò un ingegnoso trenino in miniatura
di sua costruzione che correva intorno al giardinetto.
Naturalmente per cena ci ammannì steak and kidney pie. A
tavola sedeva con noi una sua figlia, simpaticissima, che
ogni tanto mollava un rutto o un peto, accolti con grandi
risate da suo padre.
h
In effetti, a Reading la nostra vita sociale era
notevolmente intensa. Eravamo spesso invitati da colleghi
a cena o a parties. In quel periodo era diventato di moda
188
il wife swapping, lo scambio di mogli o di partner. Ad ogni
invito Milena mi chiedeva preoccupata: “Guelfo, pensi che
ci si debba cambiare di biancheria? Non si sa mai…”. Ma la
temuta, o forse inconsciamente desiderata “ammucchiata”
non si verificò mai.
In quei primi mesi di vita in Inghilterra la nostra
conoscenza dell’inglese era rudimentale. Poiché non
avevamo un frigorifero Milena faceva la spesa degli
alimentari deperibili in quantità sufficienti per un paio
di giorni. Col suo vocabolarietto tascabile lei andava dal
verduraio di Cemetery Junction, e non conoscendo la
pronuncia delle parole indicava a gesti quello che voleva.
Poi, non capendo quanto doveva pagare, si riempiva la
mano di monete e le porgeva al verduraio, che pigliava
quello che Milena gli doveva. Poiché questa storia
continuava giorno dopo giorno, il buon uomo era convinto
che Milena fosse sordomuta, e per farsi capire cercava di
articolare parole con smorfie della bocca, sperando che
la ragazza potesse leggere le labbra. Ma un giorno, dopo
qualche settimana, Milena finalmente si fece sentire: “Four
bananas, please!”. Il verduraio, strabuzzando gli occhi, non
poteva credere alle sue orecchie: miracolo!
Una credenza diffusa nei paesi di lingua inglese
è che l’inglese pronunciato lentamente, distintamente e
ad alta voce, può essere capito da chiunque. Potevamo
sperimentare questa bizzarra idea ogni volta che andavamo
all’ufficio postale di Cemetery Junction. L’ufficiale postale,
sapendo che eravamo stranieri, ci rivolgeva la parola
esattamente in quel modo: lentamente, chiaramente e a
voce alta. Ovviamente noi non capivamo un accidente. Non
avevamo la televisione, grande maestra di lingue, dialetti
e parolacce, e per migliorare il nostro inglese andavamo
al cinema del rione. Per pochi scellini assistevamo a due
proiezioni, sempre precedute dall’inno nazionale, God save
the Queen, che tutti ascoltavano religiosamente in piedi.
Milena aveva imparato proprio al cinema una delle sue
prime parole, fire!, urlata da Michael Caine nel film “Zulu”
per incitare i suoi fucilieri a sparare addosso ad orde di
zulù che assaltavano il loro avamposto in Sudafrica.
189
Dovevamo in qualche modo ricambiare i numerosi
inviti. Un pomeriggio ero tornato a casa prima del solito
per annunciare a Milena: “Tra un paio d’ore avremo una
diecina di ospiti”. Colta di sorpresa, la tapina mi rispose:
”E che gli serviamo?”. Avevamo un pacco di spaghetti, dei
pomodori in scatola e un cespo d’insalata. Sul fondo della
dispensa era rotolato un salame che qualcuno ci aveva
dato alla nostra partenza dall’Italia e che non avevamo mai
assaggiato. Nel giardino-cortile della nostra casa cresceva
un melo che produceva frutti striminziti, tanto che noi li
chiamavamo “le mele dei maiali”. Presa alla sprovvista ma
piena di risorse, Milena era corsa a raccogliere un buon
numero di quelle mele, che cotte al forno e spruzzate di
zucchero, per metamorfosi erano diventate un dessert
rispettabile. Gli ospiti avevano portato un paio di bottiglie
di vino, e gli spaghetti al pomodoro erano stati accolti con
entusiasmo. Come secondo piatto Milena aveva affettato il
salame, da servire con l’insalata. Uno degli ospiti cominciò
a masticare una delle fette. Ma subito, a bocca spalancata
e occhi che si riempivano di lagrime, il malcapitato prese
a scatarrare emettendo suoni inarticolati. A questo punto
Milena, memore di Michael Caine, gridò “Fire!”, e qualcun
altro, tra le risate generali, “Water!”. Il salame, farcito di
grani di peperoncino rosso, per gli inglesi abituati a cibi
molto blandi aveva un sapore da sabba infernale.
h
Al Dipartimento di Chimica di Reading il mio
compito era quello di misurare minuscole variazioni
di forza elettromotrice in celle elettrolitiche. In parole
più povere, dovevo misurare minuti voltaggi tra due
elettrodi immersi in soluzioni di varia composizione e
concentrazione. I risultati delle misure sarebbero serviti a
verificare la validità di certe equazioni. Robert Pruitt era il
professore interessato ai risultati del mio lavoro.
Pruitt era un uomo prossimo alla cinquantina,
alto, massiccio, imponente. Il suo atteggiamento nei miei
confronti era quasi paterno. Accettava con pazienza la
190
mia mancanza di esperienza e mi incoraggiava quando
incontravo difficoltà. Amava molto scherzare, e poiché
come italiano mi riteneva inevitabilmente cattolico, lui
anglicano ogni tanto infilava nella conversazione qualche
battuta ironica a spese del papa, sperando di stimolare
una mia reazione. Io alle sue battute ridevo di gusto.
Già anziano, Pruitt aveva sposato una collega di un altro
dipartimento e viveva con la moglie a non molta distanza
dai laboratori. Fumatore accanito, preferiva la buona
cucina all’esercizio fisico. Questa inattività fisica gli aveva
aggravato disfunzioni cardiache serie al punto che il suo
medico curante gli aveva ingiunto di recarsi a piedi in
ufficio, lasciando l’automobile in garage. Un avvertimento
ascoltato troppo tardi: alcuni mesi dopo la mia partenza
dall’Inghilterra mi giunse la notizia che il prof. Pruitt era
rimasto vittima di un infarto letale a soli cinquant’anni.
Pruitt trattava i subalterni in modo cordiale, ma
si aspettava un rispetto che non consentiva eccessiva
familiarità. In Inghilterra non era di moda l’informalità
degli ambienti accademici americani in cui tutti si chiamano
per nome di battesimo, l’equivalente in inglese di darsi del
tu. Ma il suo mantenere una certa distanza non imbarazzava
me e Milena, in sua compagnia ci sentivamo a nostro agio.
Insieme a Pruitt visitammo Stonehenge, il sito preistorico
forse di origine druidica; la cattedrale di Salisbury; e alcuni
ristoranti di Londra da lui prediletti.
h
Il mio lavoro non mancava di difficoltà, problemi
e frustrazioni. Allora non esistevano computer, stampanti
e sistemi automatici per l’acquisizione di dati. Per eseguire
misurazioni a intervalli di due ore spesso passavo la notte
sonnecchiando su una branda nel mio laboratorio-ufficio,
dopo aver caricato una sveglia. Milena, fedelissima, mi
faceva compagnia dormendo su una poltrona della
adiacente common room e preparando al mattino il breakfast
nel cucinino. Passavamo più tempo in laboratorio che a casa.
191
Una sera il prof. Pruitt aveva sorpreso me e Milena mentre
osservavamo bollicine d’idrogeno che salivano dentro a un
tubo pieno di soluzione a una velocità che controllavamo
contando quante se ne sviluppavano al minuto. Pruitt,
incuriosito, ci aveva chiesto: “Cosa state facendo?”. Noi gli
avevamo risposto: “Contiamo le bollicine”. E lui: “Posso
contarle anch’io?...”.
Un giorno dovevo preparare dell’acido cloridrico
puro. L’acido cloridrico è un gas normalmente disponibile
in soluzione acquosa. Per purificarlo occorre spostarlo
dalla soluzione commerciale e raccoglierlo in acqua pura.
A questo scopo si fanno cadere da un imbuto separatore
gocce d’acido solforico dentro alla soluzione commerciale.
L’acido solforico assorbe l’acqua e forza il gas a uscirne e
gorgogliare dentro alla nuova soluzione. La regola vuole
che si aggiunga poco a poco acido solforico a molta acqua, e
non il contrario, per evitare una reazione violenta. Io avevo
seguito la regola, ma avevo dimenticato di far partire un
agitatore al fondo della soluzione commerciale. L’acido
solforico, cadendo goccia a goccia, si era stratificato sulla
superficie dell’acqua senza reagire. A un certo punto però
la reazione tra acido e acqua esplose. Per fortuna avevo
sistemato l’apparecchiatura dentro ad una cappa. Dalle
pareti gli acidi scendevano in rivoletti verso il fondo, sotto
i miei occhi imbarazzati e quelli divertiti del prof. Pruitt.
Un’altra esperienza educativa - la pazienza è una
virtù necessaria a chi fa della ricerca - fu la preparazione di
elettrodi ad argento/cloruro d’argento, necessari alle mie
misurazioni. Il metodo di preparazione, lungo e laborioso,
comportava la precipitazione e purificazione di una pasta
di ossido d’argento. Una spirale di filo di platino veniva
poi ricoperta di quest’ossido, formando sferette di un
mezzo centimetro di diametro. Infine, l’ossido era ridotto
termicamente ad argento dentro a una piccola fornace. Ne
risultavano palline d’argento avvolte intorno alle spirali.
Dopo ulteriori trattamenti, gli elettrodi così costruiti
dovevano comportarsi in modo identico, e cioè differire solo
di una frazione di millivolt se misurati l’uno verso l’altro.
Dovetti provare e riprovare il metodo di preparazione
192
per alcune settimane prima di ottenere i risultati desiderati.
Pruitt ogni tanto mi chiedeva: “Allora, come va con questi
elettrodi”, e io, imbarazzato, dovevo confessargli la mia
ignominia. Alla fine però ero riuscito a preparare un numero sufficiente di “buoni” elettrodi per proseguire nel lavoro.
La melanconica storia con lieto fine delle palline
d’argento doveva aver circolato al di fuori dell’Università
di Reading. Alcuni mesi dopo, di passaggio con Milena
a Pisa, eravamo nel Campo dei Miracoli, l’immenso
prato da cui spuntano come funghi candidi il Duomo,
il Battistero e la Torre pendente, allietato da bancarelle
che spacciano cartoline con gli affreschi medioevali dei
diavoli che infilzano i peccatori, piccole torri pendule
di marmo, e ritratti sul velluto di Papa Giovanni XXIII e
John Kennedy. Stavamo ammirando col naso in aria la
Torre, quell’enorme simbolo fallico che si erge nel cielo
a richiamo della potenza del maschio italico, quando mi
sentii chiamare: “Dottor Torrazzi, dottor Torrazzi!”. Un
giovanotto arrivò correndo verso di noi e mi chiese trafelato:
“Mi può insegnare i trucchi per preparare gli elettrodi ad
argento/cloruro d’argento?”. Anche lui, poveretto, aveva
inciampato nella preparazione di quei dannati elettrodi!
h
Durante l’ultima estate di vita in Inghilterra Alex
Scalchi era arrivato come nostro ospite per fare esperimenti
nei laboratori del prof. Pruitt. Quasi ogni giorno tornando
a casa ci raccontava: “Oggi ho scoperto cose molto
interessanti”, oppure “una giornata proficua anche oggi”.
E Milena mi diceva: “Guelfo, com’è che tu mi parli solo
delle tue frustrazioni e mai di scoperte?”. Evidentemente
il dramma delle palline d’argento aveva inciso sulla mia
psiche. Però ad onta delle diaboliche palline riuscii a
completare il programma di lavoro a Reading. Ne saltarono
fuori un paio di pubblicazioni e l’offerta di Pruitt di
aiutarmi ad ottenere un impiego all’ICI, Imperial Chemical
Industries. Nel frattempo un collega canadese, Bob
Chlebeck, mi aveva consigliato di scrivere all’Università
193
McMaster nell’Ontario, sapendo che alcuni dipartimenti
avevano bisogno di ricercatori. Seguii il consiglio di Bob
e fui sorpreso di ricevere entro due settimane l’offerta di un
contratto di lavoro presso il Dipartimento di Metallurgia e
Scienza dei Materiali. Il tema della ricerca propostomi era
completamente diverso dalle mie esperienze di soluzioni
elettrolitiche: corrosione ad alta temperatura di superleghe
al nichel-cromo usate nelle turbine a gas e nei motori a
reazione. Non avrei avuto a che fare con liquidi, ma con
gas e solidi. Una nuova avventura, insomma: contratto per
due anni, spese di viaggio pagate per me e mia moglie,
incluso, a mia scelta, il ritorno in Europa. Non potevo
rifiutare un’offerta così allettante, e dopo aver ringraziato
il prof. Pruitt della fiducia accordatami, ci preparammo a
varcare l’Atlantico. Nel frattempo Milena si era laureata, e
altri impegni non ci trattenevano in Europa.
h
194
PASSAGGIO A NORD-OVEST
Rose sotto la luna – Traversata atlantica – Al Vice-consolato di
Hamilton – Parolacce internazionali – I megapolli – Elefanti alla
monta – Puntando a sud – Spaghetti e polpette – Premi Nobel
– Gerarchie e gabinetti di decenza
Salpammo da Liverpool un pomeriggio d’autunno con un piroscafo della Canadian Pacific. Sulla
nave potevamo imbarcare la maggior parte delle nostre
masserizie, perciò avevamo passato la notte precedente
la partenza a fare i bagagli, aiutati da Bob Clebeck. Dopo
le nove di sera eravamo andati a salutare il prof. Pruitt
e sua moglie. Sul muro vicino alla porta della casa si era
arrampicata una spalliera di rose. La notte era serena, le
rose erano illuminate dalla luna quasi come fosse giorno.
Presa per mano Milena, Pruitt la condusse davanti alle
rose e le disse: “Voglio che questo sia il tuo ultimo ricordo
di Reading”. Milena, commossa, non si aspettava da un
omaccione come Pruitt un gesto tanto poetico. Con il
ricordo delle rose Milena avrebbe portato dentro di sé un
piccolo germoglio, il nostro primo figlio.
Al mattino presto un furgone della compagnia
marittima aveva caricato i nostri bagagli e ci aveva
portato alla stazione ferroviaria da cui saremmo partiti
per Liverpool. Tutti i nostri averi erano stati accatastati
su una piattaforma di legno, il bancale che un carrello a
forca avrebbe sollevato e depositato in un vagone di un
195
treno merci separato. Quando il nostro treno cominciò a
muoversi, ci accorgemmo con orrore di aver lasciato sul
bancale la borsa con biglietti, passaporti e denaro. Dal
finestrino vedevamo poco a poco scomparire la pila dei
bagagli con in cima la borsa fatale. Il viaggio in treno da
Reading a Liverpool fu un incubo. Non potevamo fare altro
che torcerci le mani per l’angoscia. Ma il destino fu benigno.
La borsa era stata affidata al capotreno dagli onesti facchini
britannici, e arrivati a Liverpool ci fu riconsegnata intatta
con nostro grande sollievo.
La traversata dell’Atlantico mosso dai venti
d’autunno fu memorabile per il mal di mare che ci impediva
di assaporare la cucina di bordo. Ma dopo cinque giorni
di rollio e beccheggio, finalmente entrammo nelle calme
acque dell’estuario del San Lorenzo. Da Quebec City un
treno ci trasportò ad Hamilton, la nostra destinazione
finale. Alla stazione fummo ricevuti da un uomo di mezza
età in maniche di camicia. Milena, abituata alla prosopopea
di certi docenti italiani, credeva che fosse l’autista del
professore. Era invece proprio il prof. Walter Bentzner,
un canadese coi capelli a spazzola e un modo di fare
totalmente informale con cui avrei lavorato per i prossimi
due anni. Bentzner ci disse subito di chiamarlo “Walt”, e
con la sua Volkswagen ci portò fino all’appartamento che
aveva prenotato per noi. L’appartamento con una stanza
da letto, un soggiorno, bagno e cucina, era parte di un
complesso di dodici piani dal nome esotico di “Beverly
Hills”, con quattro ascensori, piscina, campo da tennis
e garage sotterraneo. Una sistemazione di gran lunga
migliore del flat di Reading. Il giorno dopo Walt mi fece
trovare sulla scrivania un assegno corrispondente a un
mese di stipendio anticipato. Migliore benvenuto non mi
sarei potuto aspettare.
Hamilton è una grossa città industriale, un
porto di gran traffico commerciale ai bordi dell’enorme
lago Ontario e a poche diecine di chilometri da Toronto.
Il Dipartimento di Metallurgia e Scienza dei Materiali
occupava una porzione di un vasto edificio al centro
del campus dell’Università McMaster. Il dipartimento
196
era finanziato in gran parte da INCO Limited, una delle
maggiori società del mondo dedite all’estrazione e lavorazione del nickel e di altri metalli, con interessi in campo
internazionale che si estendevano fino all’Indonesia. Avevo
iniziato a familiarizzarmi con nuove tecniche di ricerca
e il mio lavoro procedeva senza intralci. Di quel periodo
ricordo solo un incidente. Dovendo usare acido solfidrico,
un gas dal forte odore d’uova marce, un piccolo sbuffo
era sfuggito a una delle bombole che lo contenevano e
circolando attraverso i condotti di aerazione aveva fatto il
giro dell’edificio. Qualcuno, spaventato, aveva azionato le
suonerie d’allarme e i quattro piani di uffici e laboratori
si erano svuotati in pochi minuti. Studenti, insegnanti,
segretarie e tecnici, circa un centinaio di persone, erano
scappati all’aperto temendo di essere stati aggrediti da gas
venefici. Toccò a me, colpevole del presunto tentativo di
sterminio, di rassicurare chi di chimica era digiuno: la puzza
che li aveva allarmati non avrebbe avuto conseguenze per
la loro salute. Se non altro l’incidente aveva convinto Walt
Bentzner a seguire il mio consiglio iniziale e far costruire
una cappa munita di aspiratore per contenere le bombole
dei gas e le apparecchiature dei miei esperimenti.
h
Dopo i due anni d’Inghilterra Milena parlava
l’inglese a sufficienza per districarsi da sola nel nuovo
mondo. Avevamo comprato una piccola automobile, una
Morris 1300, e Milena spesso mi lasciava in università
e se ne andava in giro per conto suo. Poiché io passavo
la maggior parte della giornata in laboratorio, lei,
annoiandosi, aveva pensato di cercar lavoro. Un mattino,
munita di documenti e certificati, si era presentata
all’Ufficio Collocamenti di Hamilton. Il funzionario che
l’aveva ricevuta dopo aver esaminato le sue credenziali
le aveva dichiarato: “Lei è troppo qualificata. Qua le
donne badano all’andamento della famiglia o, nella
migliore delle ipotesi, fanno le segretarie o le infermiere.
Nessun uomo si adatterebbe a lavorare insieme a lei o
197
addirittura a trovarsi alle sue dipendenze”. A quei tempi
il movimento di liberazione della donna aveva appena
cominciato a muovere i primi passi, e i primi reggipetti
erano stati bruciati pubblicamente, a protesta simbolica.
Milena era uscita furiosa dall’Ufficio Collocamenti.
Lungo la strada aveva notato sul muro di un palazzo la
placca “Vice-Consolato d’Italia”, una propaggine del
Consolato Generale di Toronto installata ad Hamilton
per prendersi cura dei numerosi immigrati italiani locali.
Decisa a protestare presso le autorità ufficiali il trattamento
discriminatorio cui era stata assoggettata, Milena era salita
al quinto piano del palazzo e aveva chiesto alla segretaria
che l’aveva ricevuta di parlare col viceconsole. Fu ricevuta
da un anziano gentiluomo che dopo aver ascoltato
pazientemente le sue rimostranze e aver notato che si era
laureata con una tesi in diritto internazionale, le disse:
“Senta signora, io spesso mi devo assentare dall’ufficio.
La mia segretaria non è sempre in grado di sostituirmi. Le
interesserebbe collaborare con me?”. Fu così che Milena
diventò l’aiuto del viceconsole Lorenzo De Liguori, incarico
vario e pieno di sorprese.
De Liguori era un ex-ufficiale di cavalleria di
modi aristocratici. Congedatosi alla fine della guerra era
entrato a far parte del corpo diplomatico, una sinecura che
consentiva a lui e alla moglie un tenore di vita agiato e una
libertà di movimenti inconsueta. Una pacchia, insomma.
Non aveva figli, noi giovani gli eravamo simpatici ed
eravamo diventati amici. Con la sua Thunderbird al weekend
si andava insieme a pescare sui laghi. Sia la segretaria che
Milena cominciavano a mostrare segni di gravidanza, e
De Liguori si divertiva a farsi vedere in loro compagnia
perché la gente sospettasse lui come responsabile del loro
stato. Quando andava con Milena a comprare prosciutto
e gorgonzola dal pizzicagnolo o frutta dal verduraio, i
commercianti, tutti italiani, si profondevano in salamelecchi
e vendevano i prodotti a sconto sia a lui che a Milena.
La segretaria del viceconsole era incaricata di
battere a macchina, archiviare pratiche e documenti,
rispondere al telefono e ricevere i visitatori. Milena
198
doveva solo fare da vice-viceconsole e ascoltare postulanti
che spesso non si limitavano a chiedere il rinnovo del
passaporto ma si aspettavano aiuto consolare (o
consolatore) per la risoluzione di problemi finanziari e
domestici. Hamilton ospitava un gran numero di italiani,
la maggior parte provenienti dal sud dello Stivale. A volte
Milena faticava a decifrare quello che le raccontavano in
un miscuglio di dialetto, italiano e inglese: “…perché,
signora mia, mio marito aveva ficcato tutti i tuli nella sella
e io non potevo trovare la pompa del clistere per il bambino
che stava male…”; “Abito nella ottava, passati i tracchi de
lu treno…”. I “tuli” erano gli attrezzi, tools; la “sella” era la
cantina, cellar. La “ottava” strada non esisteva, però c’era
una Ottawa Street dall’altra parte dei tracks, le rotaie del
treno.
Un pomeriggio si presenta una giovane donna
in lagrime, che chiede di parlare col “signor consolato”.
Milena, chiamata dalla segretaria, le dice: “Il console
non è disponibile, signora, ma può dire a me quello che
la preoccupa. Venga, si accomodi nel mio ufficio”. La
segretaria, incuriosita, tendeva l’orecchio per non perdere
una parola, forse pensando che il “signor consolato”
l’avesse fatta grossa. Invece chi l’aveva fatta grossa,
letteralmente, era il cognato della donna. “Allora mi
dica, signora”, fa Milena. E la ragazza, vergognandosi e
arrossendo: “È che io sto con mio marito, e nella nostra
casa ci sta pure suo fratello. E quando mio marito è via
lui vuole che io…insomma vuole fare quelle cose…Ma io
quelle cose non le voglio fare con lui, perché sennò mio
marito mi ammazza. E allora lui per farmi dispetto mi ha
cacato nel letto!”. Milena si sforzava di star seria: “Cosa
ha fatto?”. E lei, concitata: “Sì, sì, mi ha fatto il dispetto,
mi ha cacato e pisciato sulle coperte, ‘sto disgraziato…”.
Milena cercava di consolarla: “Si calmi, signora. Appena
torna il console lo avvertirò. Nel frattempo lei dovrebbe
chiedere aiuto al suo parroco, perché parli con suo cognato
e lo convinca a smettere di darle fastidio”. “Sì, sì, ci dico
tutto al prevete…”. La segretaria, scompisciandosi di risa,
per non farsi sentire si era rifugiata nel bagno.
199
h
Il turpiloquio ha un impatto su chi ascolta che è
funzione della cultura in cui si è cresciuti o vissuti a lungo.
Insulti e parolacce in una lingua straniera sono suoni che
acquistano un valore solo dopo che ci si è abituati al loro
significato. Patrick O’Sullivan, un giovane professore di
fisica dell’università, era un collezionista di oscenità in tutte
le lingue e ne faceva uso appena gliene capitava l’occasione.
Avrebbe potuto trovare impiego da “Cencio-La Parolaccia”,
il ristorante di Trastevere di fama internazionale, dove
i clienti con tendenze masochiste si divertono a farsi
insultare dai camerieri; lui conosceva parolacce anche in
swahili. Patrick (lui voleva che io lo chiamassi Patrizio)
aveva lavorato per alcuni anni a Ispra, sul Lago Maggiore,
come ricercatore del Cern, e vi aveva accumulato un
impressionante vocabolario del turpiloquio italiano che
non mancava di sfoggiare con me e Milena. Di media
statura, con un leggero inizio di pinguedine, spessi occhiali
da miope e una zazzera di capelli precocemente incanutiti
da far invidia a Einstein, ogni volta che lo incontravo mi
apostrofava “Ciao, stronzo”, oppure “Come sta tua moglie
putana?”, senza rendersi veramente conto dell’effetto delle
sue parole. Si rivolgeva ai colleghi di origine ispanica con
cordiali appellativi come “pendejo”, “cabrón” o “maricón”,
e noi dopo un po’ non ci si faceva più caso, perché Patrick
era simpatico a tutti per questo suo modo innocente di
dispensare oscenità. Aveva imparato persino un termine
napoletano, “a pucchiacchia”, l’equivalente di “fregna” in
romanesco, “topa” in toscano e “fritola” nei dialetti delle
Venezie. Affascinato dall’onomatopeia del vocabolo lo
spargeva come interiezione nei discorsi che mi faceva in un
suo peculiare italiano. Invece di “perbacco!” lui esclamava
“a pucchiacchia!”.
Sabine, la moglie tedesca di Patrick, aveva
confidato a Milena che a prologo di amplessi coniugali si
strofinava i capezzoli con cubetti di ghiaccio per stimolarne
l’erezione. Milena me lo aveva raccontato chiedendomi:
“Che te ne pare, Guelfo?”. “I capezzoli ‘on the rocks’ non
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mi attirano, ma quelli alla marmellata di fragole non mi
dispiacerebbero…”, le risposi.
Lo svago preferito di Patrick era il teatro.
A lui piaceva recitare, soprattutto in costume. Per la parte
di Petrucchio ne “La Bisbetica Domata” indossava un
costume di sua ideazione, con giustacuore e brache di
velluto. All’altezza dell’inguine aveva piazzato una patta
frontale imbottita, e si pavoneggiava in palcoscenico,
sgambettando a gambe larghe e inarcando il busto per
sfoggiare questa sua spropositata protuberanza.
Alla tradizionale festa di Natale dell’università
O’Sullivan aveva portato suo figlio, un bambino di 5 anni
nato in Italia, a cui i genitori avevano dato il nome – per loro
esotico – di Giancarlo. Si avvicinano due signore italiane,
mogli di docenti, e con vocette leziose fanno i complimenti
a Giancarlo: “Ma che bel bambino! E come si chiama?”. E
Patrizio, giulivo: “Giancazzo!”, lasciando le signore – è il
caso di dire – di merda.
h
Nel campus di McMaster funzionava anche un
piccolo reattore nucleare con una potenza massima di
cinque megawatt, un livello irrisorio se paragonato a
quello dei grandi reattori che generano elettricità a più di
mille megawatt. Il reattore era usato per l’insegnamento
dell’ingegneria nucleare, per esperimenti, e per la produzione di isotopi per la medicina e l’industria. Al reattore
era stato assegnato personale specializzato nel controllo
dell’emissione di radiazione e della contaminazione da
materiale radioattivo. Milena ed io avevamo incontrato
uno di questi specialisti, Romolo Vanzetta, un italiano di
mezza età, calvo e corpulento. Aveva una moglie molto
più anziana di lui che non si rassegnava al passaggio degli
anni e si vestiva come se fosse ancora un’adolescente. Dalle
sue minigonne spuntavano due gambette risecchite che
mi ricordavano certi scheletrini agghindati a festa esposti
nelle vetrine delle città messicane quando si avvicina la
ricorrenza del “Dia de los Muertos”.
201
Vanzetta si era messo in testa di fare esperimenti
per conto suo. In alcune zone del reattore a livello
medio di radioattività aveva posto delle uova di gallina,
convinto di ottenere pulcini di dimensioni superiori
alla media. E in effetti, dopo mesi di prove, alcuni polli
sembravano essere cresciuti fino a raggiungere una taglia
statisticamente superiore alla media dei polli non irradiati.
Purtroppo Vanzetta non aveva annotato accuratamente
le condizioni dei suoi esperimenti: tempi d’irradiazione,
flusso radioattivo, temperatura d’incubazione delle uova,
ecc., e non era più riuscito a riprodurre gli stessi risultati.
Quei suoi megapolli erano stati alloggiati in uno speciale
pollaio che Vanzetta mostrava con orgoglio ai visitatori.
Un giorno però qualche studente in vena di scherzi aveva
di nascosto aperto il cancelletto del pollaio, e i volatili si
erano sparpagliati starnazzando per i prati dell’università,
inseguiti da Vanzetta col camice svolazzante, tra le risate
degli astanti.
h
Una sera, di ritorno a casa, avevo parcheggiato la
macchina nel garage sotterraneo di “Beverly Hills” e stavo
per dirigermi verso l’ascensore quando un essere di aspetto
strabiliante, uscito da un camioncino parcheggiato alla mia
sinistra, si avvicina e mi apostrofa: “Hai già visitato la nuova
sinagoga?”. L’uomo era un enorme ammasso di lardo, una
montagna di carne oscillante con in cima due occhi porcini
che mi fissavano inquisitori. Il suo ricordo mi fa venire
in mente Jabba Dé Hutt, il personaggio di Guerre Stellari
definito dal pilota Han Solo “quella disgustosa massa
putrescente e verminosa”. Io gli rispondo: “Purtroppo non
l’ho ancora visitata”. Lui mi scruta più attentamente e poi
mi chiede: “Ma tu sei ebreo?”. “Mi duole dover confessare
che non lo sono”, gli rispondo. Mi fa una smorfia di scorno
e si gira per andarsene, ma poi si volta e mi ficca in mano
un biglietto da visita su cui da un lato leggo “Moishe
Yankelovich – Servizio Rimozione Spazzatura – Nessuna
202
impresa è troppo ardua per noi”. Sull’altro lato del biglietto
il motto era illustrato da un elefante intento alla monta di
un’elefantessa.
Fu l’ultimo incontro memorabile prima di
trasferirmi “nella terra della libertà e nella sede del
coraggio”, perlomeno a detta dell’inno nazionale.
h
Alcuni mesi prima della scadenza del mio contratto
con l’Università McMaster avevo ricevuto un’offerta
d’impiego da una grossa azienda americana. Avevo fatto
presente che non avevo un visto d’ingresso negli Stati Uniti,
ma mi era stato detto di non preoccuparmi, ci avrebbero
pensato loro. Un pomeriggio di domenica, entrato in una
delle biblioteche comunali di Hamilton, avevo adocchiato
un romanzo di Kurt Vonnegut, “Ghiaccio-Nove”, e avevo
cominciato a leggerlo. Era una storia di fantascienza con
finale apocalittico, ambientata ad Ilium, nello Stato di New
York. Dopo poche pagine avevo pensato: “Ecco dove sto
per andare a finire…”. Kurt Vonnegut per breve tempo era
stato assunto dalla stessa società come addetto alle relazioni
pubbliche. Vuole la leggenda che Vonnegut per alleviare
la pressione del lavoro spesso si rifugiasse nei gabinetti a
leggere prosa più avvincente dei comunicati stampa della
società. Quell’impiego aveva però fornito l’ispirazione per
Ghiaccio-Nove.
Il Centro di Ricerca e Sviluppo era un vasto
complesso di edifici in cima a una collina che ospitava
più di 500 scienziati e un numero doppio di personale
di supporto: segretarie, tecnici, operai, custodi, ecc. Tra
i ricercatori c’erano alcuni orientali, ma era rilevante
l’assenza di neri e donne. Il Centro era in gran parte un
androceo di maschi bianchi, un riflesso dei costumi del
tempo. Nei laboratori circolavano vecchie storie sul primo
Premio Nobel conferito a un dipendente della società,
il dott. Ernie Muirwood, scienziato di gran talento e
comparabile svagatezza. Per esempio, uscendo da un
ascensore Muirwood non si era accorto che un imbianchino
203
aveva lasciato per terra un recipiente piatto e largo pieno
di vernice bianca. Muirwood senza accorgersene vi aveva
immerso un piede, e senza arrestarsi aveva continuato
a camminare verso il suo ufficio, lasciando dietro di se
una scia di orme candide. Uno dei progetti che avevano
colto l’interesse di Muirwood era l’inseminazione delle
nuvole con cristalli di ioduro d’argento per innescare la
formazione di gocce di pioggia. Quei cristalli avevano
colpito la fantasia di Vonnegut e innescato Ghiaccio-Nove.
Ernie Muirwood era stato l’ispirazione per il personaggio
del dott. Hoenikker nel romanzo.
Arrivai con la mia minuscola famiglia a Ilium nel
giorno del Ringraziamento, la più importante ricorrenza
americana con lo stesso significato del Natale in Italia. (In
America il Natale è una grande kermesse commerciale,
dove chi più vende nel nome di Babbo Natale alias
Santa Claus è più benemerito). Thanksgiving è il giorno
dedicato alle riunioni di famiglia e alla grande cena a base
di tacchino arrosto e patate dolci, in memoria dei primi
pionieri sbarcati nel Nuovo Mondo e sopravvissuti grazie
ai tacchini selvatici e alle patate dolci condivisi con gli
indiani locali. All’aeroporto eravamo stati ricevuti per breve
tempo dal manager del mio gruppo, che ci aveva riservato
una stanza d’albergo e si era scusato di doverci lasciare
perché appunto impegnato nella riunione di famiglia con
cenone.
Noi non sapevamo che in America a Thanksgiving
tutti i negozi e i ristoranti sono chiusi e le strade sono
deserte. Affamati, giravamo nella macchina noleggiata
all’aeroporto in cerca di un posto qualsiasi per mangiare
qualcosa. Finalmente in mezzo a una spianata coperta
di neve, annidato tra radi alberi spogli, troviamo un bar
aperto con la rassicurante – per noi paisà – scritta luminosa
“Bar Italia”. I bar americani sono luoghi considerati dai
benpensanti puritani come peccaminosi; a differenza
dei bar europei pieni di luce dove vanno intere famiglie
a prendere il caffè con le paste o il gelato, in America i
bar sono luoghi tetri, immersi in una luce bluastra, con
un televisore che blatera di baseball o football sopra a un
204
bancone lungo il quale si allineano alcolizzati a vari livelli,
tutti per legge al di sopra dei 21 anni di età. A questo
proposito occorre notare che in America ci si può arruolare
nelle forze armate a 18 anni – anche a 17, se col consenso
paterno – e allenarsi ad ammazzare ed essere ammazzati,
ma fino al compimento dei 21 anni non si può bere birra,
vino, o altri alcolici.
Il barista fu stupito di veder spuntare noi tre – due
adulti e un bambinetto di poco più di un anno – ma avendo
capito la situazione si premurò di avvisare la cucina. Dopo
poco ci fu servito il piatto forte della cucina italo-americana:
una montagna di spaghetti fumanti dalla cui cima colava
una marea di salsa rossa in cui nuotavano grosse polpette
di carne; era il famigerato piatto noto come “spaghetti and
meatballs”, considerato – a torto – il simbolo culinario
dell’Italia. Mesi dopo ci fu rivelato che quel particolare bar
era un abbeveratoio preferito dalla mafia locale.
h
Ricordo che in quel primo inverno a Ilium,
guidando verso il laboratorio tra mucchi di neve spazzati ai
lati della strada, la radio trasmetteva quasi in continuazione
“My Sweet Lord”, la canzone-mantra di George Harrison
con effetti ipnotici da spinello. Una sera avevo ascoltato
in un bar locale Chet Baker, che aveva perduto in qualche
rissa gli incisivi – una tragedia per chi suoni la tromba – ma
miracolosamente era ancora in grado di esibirsi, suonando e
cantando stancamente “My Funny Valentine” per racimolare
i soldi necessari a bucarsi, ormai un fantasma di se stesso.
Passavo in laboratorio la maggior parte della
giornata e spesso della sera. Non c’erano molti svaghi a
Ilium, cittadina puritana come la maggior parte degli Stati
Uniti. C’era però, a mitigare il puritanesimo locale, un
cinema in cui proiettavano pellicole pornografiche. Allora
era di gran moda “Gola Profonda”, alcuni miei colleghi
ne decantavano i pregi con occhi lustri di emozione. Uno
di essi voleva che lo accompagnassi in quelle escursioni
erotiche virtuali. Io, che trovo la pornografia alquanto
205
noiosa, gli dicevo: “Ma perché invece di fare il guardone al
cinema – a bocca asciutta, per così dire – non ti fai qualche
bella ragazza, passando dal virtuale al reale?”. “Non farei
mai questo affronto a mia moglie”, mi rispondeva lui
indignato… Era un moralista, non uno scapestrato come
me.
Al Centro mi era stato assegnato uno spazioso
laboratorio-ufficio che subito si era riempito di strumenti.
Dalla finestra vedevo scorrere un fiume tra distese di prati
punteggiati da alberi e siepi. In cima a un palo una grande
bandiera a stelle e strisce sventolava quasi sotto al mio naso.
Un mattino, mentre stavo sfogliando delle pubblicazioni,
sento salire dal fondo del corridoio un mormorio che
lievita in un crescendo di voci: “…premio Nobel, premio
Nobel…”. Sbircio dalla porta e vedo gente che corre verso
il lussuoso atrio del Centro inondato di luce da una enorme
vetrata con vista sul fiume. Da una limousine scende un
giovane uomo, alto e dinoccolato, subito circondato da un
nugolo di adoratori che si affannano a stringergli la mano
e a congratularsi, tra uno scoppiettio di tappi di bottiglie di
champagne. Il secondo premio Nobel della società, Gunnar
Svensen, aveva ricevuto alle sei del mattino la telefonata da
Stoccolma.
Il dott. Svensen abitava a un centinaio di metri dai
laboratori e ogni giorno vi si recava a piedi. Quel fatale
mattino però la società si era premurata di mandargli sotto
casa una limousine, così da consentirgli un ingresso trionfale.
Fino a quel momento la direzione non aveva prestato
molta attenzione a Svensen, ma appena si era sparsa la
notizia della sua candidatura al premio, in seduta speciale
si erano affrettati a conferirgli l’onorificenza più ambita
del Centro, la Medaglia Edison. Era inconcepibile che un
Premio Nobel non avesse mai ricevuto tale riconoscimento
locale. Questo me lo aveva raccontato il dott. Remus Boron,
ricercatore di talento eccezionale arrivato alle soglie della
Medaglia Edison, mai ottenuta a causa del pollice verso
di un solo membro del comitato per l’assegnazione della
medaglia. Politica, politica…
Molto meno stravagante di Muirwood, tuttavia
206
anche Svensen mostrava quel tanto di eccentricità che si
conviene a un vero scienziato. Per esempio, di solito non
calzava scarpe ma zoccoli di legno. La mattina del premio
Nobel aveva fatto eccezione alla norma ed era arrivato,
in limousine, con ai piedi un paio di scarpe. Ma spentasi
l’euforia creata dal premio era tornato a zoccolare per i
corridoi del Centro. Dopo la fausta giornata la gente quando
sentiva il clop-clop degli zoccoli sussurrava deferente
“passa il Premio Nobel, passa il Premio Nobel”. E Gunnar
aveva ammesso: “Dopo il Nobel ho avuto una vita molto
più facile, qua al Centro”.
Il premio dell’Accademia svedese Svensen lo aveva
diviso con altri due scienziati. Lui aveva confermato con
certi suoi esperimenti fatti in gioventù le teorie di un
canadese, teorie confermate indipendentemente dagli
esperimenti del terzo nobelista. Remus Boron – un
cognome profetico, dato che il suo campo d’azione erano
i borati, i silicati e i borosilicati – non mandava giù il
fatto che Svensen non gli prestasse la minima attenzione
quando lo incontrava nei corridoi del Centro. Un giorno
sentendo arrivare gli zoccoli del neo-Nobel-laureato, gli si
parò davanti e lo sfidò a una gara di destrezza. Gunnar
accettò senza sapere cosa lo aspettava. Remus, in piedi solo
sulla gamba destra, tenendo con la mano destra la punta
della scarpa sinistra e formando così una specie di cerchio
davanti alla gamba destra, saltò con questa gamba dentro
al cerchio senza allentarlo. Gunnar ci provò alcune volte
senza riuscirci. Remus mi disse che la sconfitta lo aveva
realmente ferito nel suo Ego. Il giorno dopo Gunnar gli
riferì che una sua figlia di 12 anni ci era riuscita. Non conta,
lo ammonì Remus, pensando che dopo questa tenzone
Gunnar gli rivolgesse la parola quando si incrociavano nei
corridoi. Non capitò mai più.
A Boron piaceva fare scherzi. Durante i primi viaggi
di esplorazione della luna gli astronauti avevano raccolto
campioni di rocce lunari che avevano distribuito per analisi
ai principali laboratori della nazione. Uno dei ricercatori,
Bob Reiner, era stato scelto per ricevere alcuni campioni.
Remus aveva preparato un pacchetto di aspetto molto
207
ufficiale con timbri della NASA, indirizzato al dott. Robert
Reiner. Dentro ci aveva messo pietre raccolte per terra e una
roccia speciale, un pezzo di formaggio avvolto in stagnola
– ai bambini si racconta che la luna è fatta di formaggio.
Reiner non scoprì mai il mittente. Harry Rosenfeld per un
suo lavoro di biologia raccoglieva campioni di urina in una
bottiglia con imbuto piazzata nei bagni. Remus vi aveva
appiccicato sopra il cartello “Vasetto per la pipì di Harry”.
A un certo punto Boron aveva dovuto condividere
il suo laboratorio con Marvin Beecham, un vero e proprio
stronzo – mi diceva Remus; un ricercatore paranoico e
niente affatto disposto a collaborare coi colleghi; uno che
nascondeva le sue note di laboratorio e non parlava del
suo lavoro con gli altri per paura che gli rubassero le idee.
Mi raccontava Remus: “Dovevo lavorare con soluzioni
di soda caustica a pressioni e temperature elevate in
autoclave. Una valvola si era rotta e aveva cominciato a
riempire rapidamente il laboratorio di fumi venefici. Io
avevo gridato a Marvin di evacuare il laboratorio. Lui mi
gridò in risposta: ‘Non vedi che sono al telefono?!’. Corsi
fuori dal laboratorio senza ulteriori avvertimenti e feci
quello che avevo sempre voluto fare: rompere il pannello
di vetro e azionare il segnale d’allarme. Alla fine Marvin
uscì dal laboratorio, tossendo e scatarrando. Paranoico
com’era, sono convinto che abbia pensato che io avessi
creato l’incidente per fargli dispetto”.
h
Il Centro di Ricerca e Sviluppo era organizzato
in una struttura gerarchica piramidale. In cima stava il
direttore e vicepresidente della società. Alle sue dirette
dipendenze c’erano i manager di settore, da cui dipendevano i manager dei laboratori, ai quali si presentavano a
rapporto i manager di gruppo per riferire i progressi del
lavoro degli scienziati di ciascun gruppo chini sui banconi
a sudare e ricercare, nella speranza di gridare ogni tanto
208
“Eureka!”. Era un’organizzazione quasi para-militare,
e infatti molti dei manager erano ex-ufficiali delle forze
armate. Al Centro era di prammatica una specie di uniforme: pantaloni scuri un po’ troppo corti da cui spuntavano
i calzini; scarpe nere ultralucide; camicia bianca con le
maniche corte e col taschino; cravatta a stringa strozzacollo
o papillon. Dal taschino, con foderina di plastica a scanso
di perdite d’inchiostro, spuntava una dozzina di penne e
matite. I capelli erano a spazzola, stile militare.
Non si può dire che tutti i manager fossero di
intelligenza e capacità superiori. Per scalare le cime
dell’organizzazione era più importante saper manovrare
un sistema di alleanze. Uno di questi manager ad alto
livello era abituato a dare alla segretaria gli incarichi
di ordinaria amministrazione. Una sera, continuando a
lavorare dopo che la segretaria era andata a casa, volendo
fare delle fotocopie e credendo di usare la copiatrice aveva
ridotto in coriandoli un suo manoscritto inserendolo nella
macchina per distruggere documenti. Un altro manager
aveva scambiato per urinali i grandi lavandini circolari
con rubinetti azionati a pedale installati nelle officine
meccaniche, e più di una volta li aveva usati come tali,
fino a che gli era stato fatto notare che gli operai non
apprezzavano quella sua iniziativa.
Il capitalismo puro non è molto misericordioso;
i licenziamenti non sono rari, specie se non si raggiungono
i pronostici trimestrali dei guadagni. Il comune denominatore di dirigenti e dirigibili* è la paura di perdere il posto.
Alla notizia dell’imminente ispezione del Presidente della
Società, il mammasantissima Reynaldo McSmith (di madre
messicana e padre scozzese), il dott. Aaron Berkel, direttore
e vicepresidente del centro, era entrato in fibrillazione:
tutto doveva risplendere di perfezione. Nelle fonderie
c’erano solo gabinetti per operai e maestranze, ma nel giro
di poche ore Berkel aveva fatto costruire un gabinetto
di lusso per dirigenti, nel caso si fosse reso necessario
*
Non quelli del comandante Nobile alla conquista del Polo.
209
raccogliere gli escrementi dell’augusto visitatore in un
ambiente più consono al suo stato.
Alcuni pioppi lungo il viale di accesso al centro,
affetti da una moria che li aveva risecchiti, erano stati
sradicati e al loro posto erano state piazzate delle grandi
zolle d’erba. L’erba però non aveva attecchito, assumendo
un colore giallo-itterizia. I muri del percorso progettato per
il corteo erano stati dipinti a nuovo. Già che gli imbianchini
erano al lavoro, Berkel gli aveva ordinato di spruzzare di
vernice verde anche l’erba malaticcia. Peggio che mai!
Alla fine qualcuno aveva avuto l’idea di ricoprire di erba
tagliata di fresco le zolle giallastre, poco prima dell’arrivo
di McSmith, mascherando così l’obbrobrioso colore e
tranquillizzando il vicepresidente.
Nel pavimento dell’atrio alcune mattonelle
erano scolorite, e Berkel aveva spedito un anziano e
dignitoso chimico a riparare il danno. Il vecchio signore,
strofinando carponi le mattonelle incriminate con qualche
suo composto, era miracolosamente riuscito a pareggiare
il colore di tutto il pavimento, un successo che penso gli
abbia fruttato un aumento di stipendio. Il tocco finale ai
preparativi era stato dato proprio da Berkel: secondo lui
le maniglie d’ottone delle porte dell’atrio non erano lustre
a sufficienza, e munito di apposito preparato e di stracci
si era messo a lucidare di persona le maniglie, sotto gli
occhi sbalorditi della segretaria addetta alla ricezione dei
visitatori.
Un mattino il presidente McSmith dal suo ufficio
di New York aveva chiamato il Centro poco dopo le 8, per
una comunicazione importante. Le segretarie non erano
ancora alle loro scrivanie, e nessuno aveva risposto alle
chiamate di McSmith. Bisogna tener presente che buona
parte del personale del centro spesso la sera lavorava ben
dopo le ore d’ufficio, a volte tornando in laboratorio anche
dopo cena. Arrivare dopo le 8 del mattino per molti era
la norma. Quando finalmente il presidente era riuscito a
parlare col direttore, gli aveva fatto un cazziatone perché la
giornata di lavoro al centro iniziava così tardi. Berkel aveva
subito emesso un editto: tutti dovevano trovarsi al posto di
210
battaglia non dopo le 8 del mattino. Poi per alcuni giorni
si fece trovare sul portone, augurando il buongiorno a chi
arrivava in tempo e picchiettando il suo orologio da polso
ad ammonizione dei ritardatari.
Nel mio periodo di permanenza al Centro di Ricerca
e Sviluppo ebbi solo una volta l’occasione di un tête-à-tête
con il direttore e vicepresidente, da cui mi separavano
molteplici strati di management. Fu in uno dei gabinetti
per dirigenti, cui io avevo privilegio di accesso. Mi trovai il
dott. Berkel a fianco, intento alla bisogna. Alla fine, dopo il
rituale scrollone si voltò verso di me per dirmi sorridendo:
“Ah, questa è una delle poche soddisfazioni della vita!...”.
Questa confidenza fatta in quell’ambiente intimo a un
subordinato dal direttore e vicepresidente della Società, il
culmine della gerarchia manageriale, mi convinse: questa
è democrazia!
h
211
212
ESOTICA
L’Anaconda – Rio de Janeiro – Mulatte, tagliaborse e macumba –
La schiava Anastasia – Padre Geronimo – Il santero Jorge – Bahia
– Monsieur Haiti – Il munifico Monsieur Avakian – Nel mare de
La Sirène – I riti del vudù – Ritorno nel Paese di Bengodi
Quando ero molto giovane avevo visto al cinema
un coloratissimo cartone animato di Walt Disney, “I
tre caballeros”, con visioni di Rio – l’enorme statua del
Cristo Redentore con le braccia aperte a benedire la baia
di Guanabara – e di Salvador, Bahia, con l’ascensore
“Elevador Lacerda” che univa la città bassa alla città alta
sullo sfondo di un tramonto di porpora. Nella biblioteca
comunale di Bellagio avevo anche scovato un romanzo
poco noto di Jules Verne, “La Jangada”, il nome della
zattera di tronchi di balsa usata dai pescatori sulle coste del
Brasile. Questi racconti e immagini avevano colpito la mia
fantasia di adolescente: il Brasile era una paese che prima o
dopo dovevo visitare. Molti anni dopo questa mia fantasia
fu rinfocolata dalle storie dell’Anaconda.
“Yuri” Garberi, il trentino mio compagno di studi
a Ferrara, mi aveva chiesto se conoscevo Gino Poser, un
ragazzo di Bolzano appassionato di jazz. Avevo infatti
incontrato Gino diversi anni prima, ma l’avevo quasi
subito perso di vista. Garberi mi disse che, stufo di fare il
cassiere di banca, Poser era partito per il Brasile in cerca di
213
fortuna. Yuri ed io immaginavamo che vi si fosse stabilito,
forse ricco a palate, e fummo sorpresi dal suo ritorno in
Alto Adige pochi anni dopo. Fummo pure un po’ delusi di
non poterlo raggiungere nel dorato Brasile dei nostri sogni.
Ma ecco cosa di lui mi raccontò in seguito Garberi:
“ ‘Anaconda’, al secolo Gino Poser, fu da noi così
battezzato perché ci narrava storie fantastiche di codesto
serpentone dei fiumi brasiliani, di cui nella nostra ignoranza
nulla sapevamo. Ci raccontava pure dei pesci piranha
divoratori di qualsiasi commestibile venisse loro a tiro,
inclusa la carne umana. Ma soprattutto ci dava descrizioni
dell’enorme rettile di cui ci sembravano incredibili le
favolose dimensioni: diametro di un metro, lunghezza di
quaranta metri. Gino esagerava e dall’emozione balbettava.
Ma in torto eravamo noi, perché l’anaconda è davvero di
dimensioni gigantesche.
Gino era figlio di un’austriaca di Schwaz, nella
valle dell’Inn, e di un trentino di Pergine, un paese della
Valsugana, morto in Russia come molti alpini durante la
ritirata del Don. Abitava con la madre a Bolzano in una
mansarda di via Rosmini con vista sul torrente Talvera che
attraversa la città. D’estate andava con la mamma a Pergine.
La mia famiglia era di Pergine, ed è lì che lo incontrai le
prime volte. A Pergine Gino stava nella casa dalle nonna
e della sorella della nonna, due donne dell’altro secolo,
voglio dire dell’Ottocento: vestite sempre di nero, gonne
lunghe fino ai piedi, grembiule nero a fiorellini bianchi e
capelli tirati sulle tempie e trattenuti sulla nuca da spilloni.
Non lontano dalla cucina c’era anche una mucca. Gino
ci portava da Bolzano, la città, le novità e anche tocchi
di costume sudtirolese: braghe di pelle - i Lederhosen – e
sandali “Jesuslatschen” . Più tardi mi iniziò al jazz: fu lui il
primo a parlarmi di Lee Konitz, Flip Phillips e Dave Brubeck.
Una volta, all’inizio degli anni Cinquanta, Gino arrivò con
un nuovo 78 giri. Era una musica molto differente da
quella ascoltata fino ad allora; una musica cui mancava
il fuoco nero di Louis Armstrong e Lionel Hampton, ma
di una dolcezza ed eleganza senza fine; una musica che si
214
addiceva alle nostre velleità adolescenziali estive come i
pantaloni di tela chiara, camicie bianche con le maniche
corte, sandali senza calzetti, Lambretta e Punt e Mes. Era
la musica di Gerry Mulligan, le note di “Line for Lyons” e
di “Carioca”. Quante volte avrò ascoltato quel disco? E con
quale emozione ascolto ancora quella musica…
Dal Brasile l’Anaconda tornò spezzato. Cercando di
far fortuna, aveva lavorato nei garimpos del Mato Grosso,
le miniere d’oro all’aperto, enormi crateri a terrazze scavati
nel terreno. Ci raccontava delle colonne di desperados che
come formiche salivano verso la superficie e scendevano
nel ventre dello scavo per alte scale a pioli, spesso fradici
per le piogge torrenziali, frugando nel fango alla ricerca
di pepite. Un lavoro massacrante. I fortunati scopritori
di qualche oncia d’oro poi se la giocavano a carte o tra le
braccia di qualche prostituta. Chi ritraeva un vero guadagno
dalla loro fatica erano i cinesi che con le loro bilancine
scambiavano la polvere d’oro per un modesto ammontare
di cruzeiros, per poi rivenderla ai grossisti delle città.
All’Anaconda l’esperienza aveva fruttato principalmente
mali di schiena cronici. Ma la nostalgia dei tropici gli era
restata nel sangue.
Anche in Europa, lontano dal Mato, Poser non riuscì
a far fortuna, e il mito del garimpo spesso emergeva nelle
sue conversazioni. Ai primi degli anni Sessanta, emigrati in
Germania, l’Anaconda ed io avevamo trovato lavoro come
aiuto-meccanici alla base americana di Dachau, l’ex-campo
di concentramento nazista. Gino era diventato amico di
un soldato di origine messicana, certo Mojica, addetto
alle cucine. Con Mojica giocavamo a golf all’interno della
base, e lui per consolidare l’amicizia ci portava dalle cucine
bidoncini di latta da cinque chili, pieni di marmellata o di
budino, e a volte due o tre polli lessi. Un giorno purtroppo
ci avvertirono che Mojica era stato messo agli arresti dal
truculento sergente Williams che presiedeva all’universo
delle cucine.
Per un paio di centinaia di marchi riuscimmo
a comprare da un tedesco di Dachau una motocicletta
BMW 750 con sidecar, un Beiwagen su cui la Wehrmacht
215
montava ben salde le mitragliatrici. Una volta viaggiammo
fino a Bolzano su quella meraviglia. Mesi dopo l’Anaconda
improvvisamente partì di nuovo per Bolzano con la nostra
moto carica di coperte, ganci, attrezzi, cavi d’acciaio
e due sacchi a pelo, tutte cose che avevamo rubato agli
americani e volevamo usare per una progettata prossima
spedizione al garimpo. Non ho più saputo nulla di quella
refurtiva. La sparizione della moto mi è particolarmente
dispiaciuta. Quando in seguito gli chiedevo cosa ne avesse
fatto, l’Anaconda sorrideva e si dava arie da Burt Lancaster
nel film “Vera Cruz”.
La sera a Dachau, per divertirci ci allenavamo a
lanciare coltelli, ma non contro un’asse. Bisognava riuscire
a piantarli nel manico di una scopa che stava in piedi per
miracolo. Ogni tanto ci riuscivamo, in mezzo agli applausi
degli altri Gastarbeiter, tutti – o quasi tutti – sardi. Ottime
persone e tutti – o quasi tutti – analfabeti. La domenica io
scrivevo per loro lettere alle famiglie lontane, o leggevo la
posta che gli era arrivata. Quanto all’Anaconda, forse queste
furono le sue ultime avventure. Lasciato Dachau, venduta
la BMW a metà rubata, non riuscì più a far combaciare
il garimpo dei suoi sogni con l’inesorabilità della vita in
Europa. Eppure era muito mais que um garimpeiro. In virtù
della mia laurea io avevo trovato impiego alla Camera
di Commercio italo-tedesca di Monaco e gli procurai
un lavoro, ben pagato, come rappresentante della ditta
Bilossi, la fine fleur delle ceramiche di Faenza. Ma Poser
si comportò stupidamente e la Bilossi lo mandò a farsi
friggere. Decenni fa mi è stato detto che si era sposato,
poi aveva divorziato ed era finito alcolizzato a “Tisseltorf”
(lui pronunciava alla tirolese anche Düsseldorf), passando
i pomeriggi al tavolino di qualche oscuro locale renano. Ma
forse si è rimesso in carreggiata e ha ripreso a raccontare
di anaconda e di piranha, i micidiali abitatori del Rio
delle Amazzoni, e dei bo-bordelli bra-brasiliani, dove per
uccidere u-uno con un co-colpo di rivoltella era co-come
niente. Speriamo per il meglio…”
h
216
Benché il destino non mi avesse riservato
l’esperienza di vita in garimpo, in Brasile andai un paio
di volte, ufficialmente per lavoro. Ad Angra dos Reis, nei
dintorni di Rio, era stata costruita una centrale elettrica
nucleare; la mia direzione mi aveva incaricato di esplorare
la possibilità di fornire alla centrale servizi tecnici
specializzati. Questi soggiorni furono più che altro una
vacanza. Sbrigati gli impegni di lavoro mi rimaneva molto
tempo per i percorsi obbligati dei turisti : Copacabana,
Ipanema, Corcovado col Cristo Redentore; partite di
calcio allo stadio Maracanã, dove il frastuono di fischietti,
trombette, triccheballacche e putipù accompagna ogni
goal; scuole di samba dove vecchie americane sbarcate da
una crociera in “Bermuda shorts” e camiciole delle Hawaii
a fiorami sgargianti si dimenavano ai ritmi delle baterias.
Nel Giardino Botanico c’erano stupende piante tropicali e
sparuti esemplari del pau-brasil, la pianta dal legno pregiato
per tingere stoffe di rosso che aveva dato il nome al paese,
ormai praticamente estinta, vittima dell’ingordigia dei
colonizzatori portoghesi e francesi. Una melanconica targa
ne narrava la storia.
Al mattino mi fermavo a uno dei mille chioschi che
vendono succhi di frutta esotica e prendevo un cafezinho,
la tazzina di caffè ristretto come piace ai brasiliani, più
zucchero affogato nel caffè che caffè con lo zucchero.
Poi andavo ad esplorare la città. Seduto al tavolo di un
bar della splendida Avenida Atlantica, in vista del mare,
vedevo sfilare mulatte di bellezza straordinaria: carnagioni
seriche color caffellatte, corpi da mille-e-una-notte, e un
incedere orgoglioso da regina di Saba. Erano il prodotto
di una miscegenazione gloriosa praticata per secoli. Sulle
spiagge bagnate dall’onda atlantica, coperte da bikini
filiformi le mulatinhas erano una visione da paradiso delle
urì. A Rio bisognava stare attenti a non farsi distrarre dalle
bellezze locali quando si attraversava la strada. Più d’un
malcapitato, pure usando i passaggi pedonali, era stato
arrotato dai taxi, per la maggior parte Volkswagen guidate
a rotta di collo da tassinari assassini. A Rio tutti attraversano la strada di corsa.
217
C’è una celebrata Rio per i turisti ed una meno
conosciuta. La Rio dei turisti è una striscia di terra con
alberghi e negozi eleganti, compresa tra l’oceano e una
catena di alte colline, i morros. Sulle colline invece vive
gente poverissima, accatastata nelle baracche di latta e
cartone incatramato delle favelas, che di giorno cala verso il
mare per racimolare di che sopravvivere. Sovente a causa
di piogge torrenziali il terreno dei morros slitta trascinando
con se le baracche e chi vi abita. In tutta l’America Latina
c’è questo enorme contrasto tra super-ricchi, una scarsa
minoranza, e ultra-poveri, la stragrande maggioranza.
Tristes Tropiques, scriveva Lévi-Strauss. (Ho notato pericolanti favelas anche sulle colline intorno a Caracas.) Il
carnevale di Rio è una stravaganza preparata per mesi
spendendo sudati risparmi: una sorta di oppiato per
scordare la realtà quotidiana. A Rio, se ci si siede a bere
un guaraná a un tavolo di caffè all’aperto, entro pochi
minuti arriva un bambino scalzo a chiederti di comprargli
una scatola di fiammiferi, una scusa per legittimare
qualche soldo di elemosina. Questa è terra d’infanzia
abbandonata.
Camminando per le strade perpendicolari alle
eleganti avenidas che scorrono parallele all’oceano si entra
in una rete di stradine popolate da piccoli negozi e ristoranti
a basso prezzo frequentati da una clientela con pochi soldi
in tasca. La sera è meglio starne lontani, la gente che ha
fame ha pochi scrupoli e coltelli facili. Ma anche di giorno
bisogna guardarsi dai borsaioli. Passando con mio figlio
di 15 anni per l’Avenida Nossa Senhora de Copacabana,
una grande arteria commerciale parallela all’Avenida
Atlantica, il ragazzo aveva visto un piccolo pallone da
calcio e mi aveva chiesto di comprarglielo. Per portarcelo
appresso avevo anche comprato una borsa di tela blu della
Varig, l’aviolinea nazionale del Brasile. Camminando sul
largo marciapiede in pieno sole ad un tratto avverto uno
strattone alla borsa. Istintivamente la spingo in avanti e mi
volto, senza scorgere nessuno vicino a noi. La borsa però
mostrava un taglio verticale, probabilmente fatto con una
lama di rasoio. L’unico contenuto, il pallone, non aveva
218
potuto uscirne. Era stato un incontro con un vero e proprio
tagliaborse, ma il ladruncolo si era reso magicamente
invisibile in una frazione di secondo. Alcuni di questi
lestofanti sono veri artisti. Il mio amico e globetrotter Ian
Delderfield mi scrisse di un suo incontro con malandrini di
notevole fantasia creativa:
“Arrivai ad Arequipa, Perù, un sabato mattina.
Calle San Juan de Dios, una strada nel cuore della città, era
molto affollata. Lungo la strada alberghi si alternavano a
negozi, case abbandonate a uffici, e bancarelle di venditori a
gente senza dimora e senza mezzi. Un miscuglio pittoresco e
caotico.
Avvistato un venditore di dolci e cioccolata, una
mia debolezza, mi ero fermato per un instante, abbastanza
perché un getto di sputo mi passasse vicino all’orecchio ad
alta velocità. Trasalii, ma lo sputacchio non mi colpì, andando
invece ad atterrare sul muro scrostato di un vecchio edificio,
a un metro di distanza dal punto in cui mi trovavo. Subito
mi vidi circondato da tre o quattro persone che si scusavano
dell’incidente mentre mi spazzolavano la giacca. Istintivamente infilai una mano nella tasca interna per assicurarmi che
vi fosse ancora il portafoglio. Vi trovai una mano che non era
mia. Afferrai il portafoglio e mi divincolai per liberarmi dalla
stretta. I manigoldi si sparpagliarono a destra e a sinistra.
Uno di essi aveva cercato di agguantare la mia borsa, ma non
era riuscito a strapparmela di mano. Poi tutti cominciarono a
ridere e scherzare come niente fosse successo. Io mi sforzai di
sorridere, l’unica cosa che potessi fare, e tutti si allontanarono
rapidamente. La faccenda non era durata più di trenta secondi.
Si sa che i llama sputano se irritati. Sono convinto che un
llama era stato abilmente addestrato dai marioli”.
h
219
La parte di Rio dove gravitano i turisti è la Zona
Sul, con i grattacieli, i grandi alberghi, i negozi eleganti e
le spiagge rinomate. Meno nota e poco battuta dai turisti
è la Zona Norte, dove vive la maggior parte dei lavoratori.
In una strada della Zona Norte ero entrato in un negozio
di erborista in cui vasi colmi d’erbe per la cura di qualsiasi
malanno si alternavano a statuette di santi e di diavoli,
collane di perline multicolori, candele, stecche d’incenso, e
mille altri articoli in uso nei culti afro-brasiliani che vanno
sotto il nome generico di macumba. Il venditore, a cui avevo
chiesto informazioni, mi suggerì di visitare un terreiro, un
tempio dove la sera avrei potuto partecipare a uno dei riti.
Al calare repentino della notte tropicale arrivai a
un indirizzo nel quartiere Botafogo per accodarmi a una
lunga fila di devoti, bianchi e di colore, che attendevano
di entrare in una palazzina a due piani dalle cui finestre
arrivavano echi di batuques e di canti in ioruba, la lingua
ancestrale africana. Mentre aspettavo il mio turno di
entrare nel tempio scambiai qualche parola con un giovane
di colore. Gli chiesi se era vero che in Brasile non c’è
razzismo. Il ragazzo mi disse che il razzismo del Brasile
non è paragonabile in intensità a quello degli Stati Uniti,
le unioni interrazziali sono accettate di norma. In Brasile
esiste però un classismo non meno penoso. Le opportunità
di avanzamento sono inversamente proporzionali al colore
della pelle. In pratica, quanto più si è scuri di pelle tanto
più si è relegati al fondo della scala sociale.
Un numero di addetti alla cerimonia, uomini e
donne che indossavano uniformi candide come quelle degli
infermieri, manteneva l’ordine facendo entrare nel terreiro
poche persone alla volta. D’un tratto cadde il silenzio. Gli
orixás, gli spiriti invocati dai canti e dai tamburi sacri erano
scesi a prendere possesso degli iniziati, e fummo guidati
uno ad uno all’interno di una vasta sala sul cui pavimento
brillavano centinaia di candele. In piedi sotto l’architrave
di una porta, immobile, scarmigliata, gli occhi sbarrati, una
donna vestita di una tunica bianca con al collo collane di
perline rosso sangue brandiva una piccola ascia rituale e
220
fissava senza vederli i postulanti. Era posseduta da Xangô,
il dio della guerra e della giustizia. Una visione terrificante.
Arrivato il mio turno, uno degli officianti, un pai-de-santo,
mi soffiò addosso il fumo di un sigaro borbottando formule
indecifrabili, e mi chiese se avessi una supplica per il santo.
Risposi che mi bastava la sua benedizione, e ottenutala fui
congedato. Al ritorno in autobus verso il mio albergo, una
signora bianca di mezza età, molto ben vestita, mi confidò,
emozionata, che era stato il suo primo incontro con gli
orixás ma non sarebbe stato l’ultimo. La domestica di
colore che l’accompagnava e che l’aveva introdotta al culto
sorrideva soddisfatta.
In Brasile la Chiesa Cattolica si è adattata a un
compromesso con i culti di origine africana, accettando un
sincretismo in virtù di cui nelle feste cristiane in onore di un
santo i fedeli rendono omaggio parallelo al corrispondente
orixá: san Geronimo è Xangô, Gesù è Oxalá, san Giorgio
è Ogum e Iemanjá, la regina del mare, è la Vergine Maria.
Una domenica ero entrato nella chiesa di san Giorgio a Rio.
Sopra l’altare troneggiava un grande dipinto del santo a
cavallo che infilza il drago. La chiesa traboccava di candele
accese. Molte bruciavano in pieno giorno anche lungo una
cancellata esterna. Nella prima fila di banchi donne vestite
di bianco cantavano litanie in qualche dialetto africano.
Questo sincretismo risale ai tempi della schiavitù, quando
gli schiavi erano costretti a camuffare le deità africane a
guisa di santi cattolici per non essere perseguitati dai
padroni. A Bahia la famosa Mãe Menininha del Terreiro do
Gantois al mattino andava a messa e faceva la comunione,
la sera presiedeva ai riti del candomblé, la forma di
macumba più legata alle radici africane. Mãe Menininha
era venerata da molti brasiliani: Jorge Amado, lo scrittore
bahiano di fama internazionale, non viaggiava mai senza
aver prima ascoltato le sue raccomandazioni. Vinicius de
Moraes, il poeta di “Orfeu da Conceição” (Orfeo Negro), la
visitava ogni volta che si trovava a Bahia. Che ricevesse i
suoi numerosi filhos-de-santo o rispondesse alle telefonate
che le giungevano da ogni parte del paese, o cucinasse
221
piatti saporiti di aracajé, carurú e vatapá, anche in età molto
avanzata a Mãe Menininha restava sempre abbastanza
energia per dedicarsi ai suoi compiti di guida spirituale.
h
Per le strade della Zona Norte avevo notato artisti
che esponevano ritratti raccapriccianti di un volto celato
dietro a una maschera di ferro. Incuriosito, avevo chiesto
cosa rappresentassero i disegni. Erano immagini sacre di
un altro culto, quello della Schiava Anastasia, basato su una
leggenda che risale al XVIII secolo. Anastasia era la figlia
di una schiava che, stuprata dal padrone, aveva messo al
mondo una bellissima mulatta dagli occhi azzurri. Il figlio
del fattore, invaghitosi della bella Anastasia e non ottenendo quello che desiderava dalla virtuosa fanciulla, l’aveva
prima violentata e poi l’aveva obbligata a indossare notte
e giorno la stessa maschera di ferro imposta agli schiavi
che scavavano nei garimpos per impedire che ingerissero
le pepite d’oro che raccoglievano. La maschera era rimossa
solo per dare ad Anastasia modo di nutrirsi. Sembra che
le figlie dei padroni, che morivano di invidia e gelosia
della bella mulatta, fossero le più accanite ad imporre la
maschera alla sventurata. Anastasia sopravvisse solo pochi
anni al supplizio, morendo in giovane età a Rio de Janeiro.
Nella seconda metà del XX secolo furono attribuiti
miracoli alla Schiava Anastasia. Simbolo di una millenaria
condizione femminile di asservimento al maschio, il
suo culto continua a crescere, ormai contando milioni
di devoti. Una petizione è stata inoltrata al Vaticano per
iniziare il processo di beatificazione. Non è certo che la
storia di Anastasia sia più di un mito. D’altra parte, se nel
1990 Giovanni Paolo II aveva beatificato Juan Diego, l’indio
messicano cui solo una leggenda attribuisce l’apparizione
della Vergine di Guadalupe nel XVI secolo, perché non
beatificare anche Anastasia, se non altro più carina di Juan
Diego?
h
222
223
Alla fine di una sua conferenza su “Il Nome della
Rosa” all’Università di New York – Stonybrook, Umberto
Eco era sceso dal palcoscenico chiedendo disperatamente:
“Qualcuno mi può dare una sigaretta?”. Appagata la sua
brama di nicotina, scambiai con lui quattro parole. Avevo
appena letto – e gliene avevo parlato – un suo saggio
pubblicato su L’Espresso, “Con chi stanno gli orixà?”; una
disquisizione sul contenuto teologico e sociologico dei
riti afro-brasiliani tinta di ironia e di scetticismo in ugual
misura, scritta come si conviene all’intellettuale esposto a
rituali esoterici. Eco mi confidò che a casa sua a Bologna
aveva installato un piccolo altare simile a quelli visti nei
terreiros brasiliani. Non in seguito a conversione a una
nuova fede, ma in segno di simpatia.
Eco aveva chiesto a un paio di pai-de-santo di
quale santo era filho lui. Ambedue, indipendentemente, gli
avevano detto: di Oxalá. Per sapere di chi ero filho io mi era
stato consigliato di visitare la Tenda Espirita Pai Jerônimo,
nella Rua Barão de Ubá della Zona Norte. Ci ero andato
in compagnia di mio figlio. La versione carioca dei riti
afro-brasiliani è l’Umbanda, un miscuglio di martirologio
cristiano, animismo africano e degli indios Tupi del Brasile,
e spiritualismo teorizzato nel XIX secolo dal francese
Alain Kardec. A Rio i terreiros de Umbanda svolgono
funzione di assistenza sia religiosa che sociale, sostenuti
finanziariamente da cittadini benestanti e uomini politici
che si assicurano in tal modo il supporto della popolazione
e quello della divinità.
Il pai-de-santo umbandista, Jerônimo de Souza,
era un uomo sulla sessantina dall’aspetto benevolo, ben
contento di farmi assistere alla gira, il rito programmato
per la serata, in cui gli iniziati sarebbero stati posseduti
dai pretos velhos, le anime di antichi schiavi negri assurti
all’empireo degli spiriti. La cerimonia era iniziata con canti
e rulli di tamburi per invocare la collaborazione di Exú e
della sua compagna Pomba Gira – rappresentati sull’altare
da statue di aspetto lascivo e demoniaco. In realtà gli exú –
ce n’è una numerosa serie – non hanno niente a che fare con
diavoli e diavolesse ma sono i guardiani dei portali celesti
224
225
attraverso i quali gli spiriti scendono a possedere le teste
dei medium. Assicurata la collaborazione degli exú, gli
iniziati avevano danzato in trance fino a che, posseduti dai
“vecchi neri”, avevano preso a comportarsi come vecchietti
curvi e claudicanti. I fedeli, opportunamente fumigati
da grossi sigari, erano quindi accompagnati da ciascun
medium, il quale ascoltava le richieste dei postulanti e
impartiva consigli adeguati. Io e mio figlio stavamo in
disparte, aspettando la fine della cerimonia per incontrare
Padre Geronimo.
Fummo ricevuti nel suo studio dal pai-de-santo.
Molto cordialmente Geronimo mi disse: “Tu vieni in Brasile
in vacanza. Sai dove vado io in vacanza? A Miami…”.
Poi fece a mio beneficio il jogo dos búzios, sparpagliando
sul tavolo una manciata di piccole conchiglie a forma
di vulva, e mi dichiarò figlio di Iemanjá, augurandomi
buona fortuna dopo avermi regalato una collana di perline
bianche e azzurre, i colori della dea. Gli offersi del denaro,
ma lo rifiutò gentilmente, dicendomi: “Riceviamo aiuto
economico da persone facoltose, membri della nostra
congregazione. In tal modo possiamo aiutare chi ne ha
più bisogno”. In un certo senso, il terreiro funziona come
un oratorio parrocchiale e centro di assistenza sociale. A
differenza del cristianesimo, nei culti afro-brasiliani manca
il soffocante concetto di peccato, soprattutto quello carnale;
ma persiste la nozione di bene e di male. Una religione più
allegra, insomma, che non venera poveri cristi inchiodati
a una croce. La croce è solo il simbolo del crocevia, luogo
di portenti magici. Offerte di cibo agli spiriti lasciate
ai crocevia sono rispettate anche dai cani affamati. La
devozione dei brasiliani agli orixás è apparente dovunque.
La sera, sulle spiagge di Rio brillano mille lumi vicino alle
offerte a Iemanjá, prima di venir spazzati via dalla marea.
Usciti dal tempio di Padre Geronimo, ci capitò di
trovare su una steccionata quartine ed elaborati graffiti
iscritti col gesso da qualche artista estemporaneo, a
testimonianza dell’ottimismo dei brasiliani di fronte ai
problemi quotidiani
226
TU VAIS PARA A ZONA-SUL?
DE QUE ADIANTA CHORAR
QUE LEGAL! BOA VIAGEM!
POR COISAS QUE A SOLUÇÃO
E QUE UM LINDO CÉU AZUL
RESOLVEU ABANDONAR
REGRESSE À TUA PAISAGEM!
PARA OUTRA GERAÇÃO?
[“Vai per la Zona Sud? - Che forza! Buon viaggio! - E che un bel cielo
azzurro - appaia nel tuo paesaggio!”
“È futile piangere - per cose la cui soluzione - è stata di abbandonarle
- a un’altra generazione”]
h
Le religioni di origine africana sono diffuse in tutte
le zone delle Americhe in cui schiavi strappati alle loro
terre in Africa occidentale erano stati trapiantati a forza nel
corso dei secoli. Al giorno d’oggi i discendenti degli schiavi
mantengono viva la tradizione. Da New York al Brasile i
culti mutano di nome: Santeria è la versione dei Caraibi,
Voodoo quella di New Orleans e del bayou in Louisiana,
Vodoun quella di Haiti. Cambiano i nomi dei culti e delle
deità ma la radice teologica e spirituale è identica.
227
Mio figlio Eric era stato così affascinato dai riti di
Padre Geronimo che molti anni dopo decise di dare un
tocco di macumba alla celebrazione del suo matrimonio
con Beatrice. Un suo compagno di università (cattolica) era
Jorge Santana, un giovane avvocato di origine cubana la
cui famiglia praticava la santeria da generazioni. Jorge ci
aveva invitati alla sua cerimonia di iniziazione come santero
nell’atrio di un grattacielo di Manhattan dove era stato
allestito un grande altare ai cui piedi erano state deposte
offerte di fiori, cibi e bevande. Di giorno Jorge lavorava in
uno studio legale ma la sera soprintendeva alle danze e alle
possessioni dei medium. Fu lusingato dall’invito di Eric, e
gli diede istruzioni su come preparare la cerimonia.
Le nozze furono celebrate in un giardino di Long
Island di fronte al mare. Eric aveva costruito una piccola
barca a vela dipinta di bianco e azzurro in cui erano state
poste offerte tradizionali a Yemayá, il nome cubano di
Iemanjá, la patrona delle acque: gigli azzurri, una coppa di
champagne, sigarette sottili per signora, dolci e cioccolatini.
Nel tardo pomeriggio tutti gli invitati erano scesi in spiaggia. Il mare, quasi perfettamente calmo, era solo increspato
da una leggera brezza. Recitando formule arcane in ioruba
Jorge aveva varato la barchetta. Vuole la tradizione che le
offerte veleggino verso l’orizzonte quando la dea le accetta.
Se la barchetta torna a riva, la dea le rifiuta. Tutti fissavano
il minuscolo naviglio che beccheggiando poco a poco
si allontanava verso il largo, a sollievo degli astanti. Ed
ecco verificarsi un prodigio inaspettato: due cigni candidi
sorvolando la spiaggia ammararono di fronte agli sposi,
navigando fianco a fianco a fior d’acqua, presagio di buona
fortuna.
h
Alla spiaggia di Bahia è stato dato il nome poetico
di Giardino di Allah. Tra le palme che vi crescono numerose,
bahiane nel tradizionale costume bianco fluente, la testa
avvolta in un fazzolettone a cocche, vendono su banchetti
cibi tradizionali: moqueca de peixe, acarajé, quindins…
Con pochi soldi si può vivere pigramente, giorno dopo
228
giorno, incuranti di un futuro che non è garantito si
materializzi, la morte si presenta inaspettata. Nelle vie
della città alta un giovane che camminava davanti a me
ascoltando la musica di una radiolina d’un tratto cade a
terra. Gente si china su di lui, ne ausculta i battiti del cuore,
inesistenti. Il ragazzo è morto di colpo. I negozianti del
luogo pongono alcune candele intorno al cadavere sul
marciapiede, in attesa che un’ambulanza lo trasporti alla
morgue.
Il mio albergo è nel Largo do Pelourinho, in un
quartiere storico della città alta. Il pelourinho era la gogna
cui venivano condannati gli schiavi colpevoli di qualche
infrazione alle regole dei padroni. Un monumento in ferro
ne ricorda il passato. Nel XVIII secolo, dai balconi circostanti
di case ancora esistenti, damine incipriate e cavalieri
in parrucca si godevano lo spettacolo degli sciagurati
frustati a sangue. Dalle finestre della mia stanza, nell’afa
opprimente del pomeriggio, scorgo sotto di me cortili
colmi d’immondizie, gente che vive in estrema indigenza e
condizioni igieniche spaventose. Triste Bahia.
Al tempo degli imperatori in Brasile, come in
altre parti dell’America Latina, si costruivano chiese
di un barocco esuberante. In preda a “horror vacui”, il
timore di lasciare un centimetro quadrato di superficie
privo di decorazioni, i muri esterni ed interni delle chiese
traboccavano di stucchi, statue, capitelli e qualsiasi altra
propaggine fosse disponibile, il tutto molto spesso rivestito
di lamina d’oro. A Salvador la facciata della famosa chiesa
del Nosso Senhor do Bonfim, oggetto di grande devozione, è
in confronto quasi spoglia. All’interno però le decorazioni
che ricoprono ogni superficie sono protette da guardie
armate ad impedire che malintenzionati grattino il prezioso
rivestimento.
Davanti all’Elevador Lacerda, raggomitolato su un
tappetino, vedo un incredibile mostriciattolo che ben poco
ha di umano, una sua mano tesa a chiedere elemosina.
Una visione da incubo abbarbicata alla vita, per quanto
essa sia miserevole. Scendo col grande ascensore alla
città bassa. Al porto un gruppo di giovani di colore si
229
esibisce per i turisti nel jogo da capoeira al suono dolente del
berimbau. La capoeira è un misto di danza e arti marziali,
un combattimento fatto di salti acrobatici e colpi assestati
coi piedi. Una danza mortale, se eseguita come forma di
duello e non di spettacolo.
Nel Giardino di Allah sulla sabbia riposano le
jangadas, fragili zattere di tronchi di balsa su cui poveri
pescatori che non possiedono barche si avventurano per
pescare di che vivere, sfidando correnti e marosi, affidandosi
alla misericordia di Iemanjá. Ascolto la conversazione di
un mulatto con una bahiana in costume. Parlano del potere
della macumba: “Ho visto un bue cadere al suolo, ucciso
dallo sguardo di un potente babalaorixá a capo di un terreiro
di candomblé”, racconta l’uomo. Un vecchio tedesco che
si arrostisce al sole in compagnia di una giovane nipote è
contento di scambiare qualche parola con me, un europeo.
Poco a poco dai suoi discorsi traspare un passato di cui
non può liberarsi. Anche lui menziona con orgoglio le
Autobahnen di Hitler. Chissà che non mi prenda per ebreo,
penso… Gli chiedo se torna mai in Germania. Mi risponde:
“Mi trovo troppo bene in questo sole di Bahia”. Io penso:
“Lontano dagli artigli della Mossad”.
h
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h
All’aeroporto internazionale “François Duvalier”
di Port-au-Prince Milena ed io non possiamo credere ai
nostri occhi: scesi dall’aereo siamo accolti da Aubelin
Jolicoeur, il giornalista haitiano immortalato da Graham
Greene come Petit Pierre, personaggio chiave del romanzo
“I commedianti” e del film omonimo con Richard Burton ed
Elizabeth Taylor. Di taglia minuta, vestito impeccabilmente
di bianco e appoggiandosi a una canna da passeggio col
pomolo d’oro, Jolicoeur ci riceve cerimoniosamente:
“Bounjour cheris. Monsieur Haiti, à votre service”.
Alla dogana ci chiedono cosa intendiamo fare ad
Haiti. Rispondiamo che siamo ospiti di Monsieur Avakian,
e immediatamente ci fanno passare senza ulteriori indugi.
230
Jean-Philippe Avakian, un facoltoso commerciante locale,
è conosciuto da tutti ad Haiti. Se siamo suoi ospiti dobbiamo
essere persone importanti. Verso la fine dell’Ottocento
il bisnonno di Jean-Philippe, un armeno commerciante
in tappeti che doveva recarsi a New York, aveva dovuto
fermarsi ad Haiti perché la nave su cui viaggiava era stata
messa in quarantina dagli americani in seguito a una
epidemia di colera nel paese di sua provenienza. Sceso a
terra, l’astuto bisnonno aveva presto venduto parte della
sua mercanzia. Visto il successo commerciale rapidamente
ottenuto, il bisnonno aveva fatto sbarcare la famiglia e si
era stabilito a Port-au-Prince.
Nato e cresciuto ad Haiti e avendo frequentato
l’ottimo liceo della capitale e l’università negli Stati Uniti,
Jean-Philippe parlava correntemente l’inglese, il francese, e
il créole haitiano. Dotato di eccezionale acume per gli affari
ovviamente ereditario, sulla base delle fortune di famiglia
Jean-Philippe aveva costruito un suo impero commerciale
che spaziava dalla manifattura di biancheria intima e di
palle da baseball alla concessione di automobili per tutto il
territorio di Haiti. I suoi interessi si estendevano fino alla
comproprietà di alcuni alberghi e ristoranti a Miami, una
mossa strategica che gli garantiva una scappatoia verso
la sicurezza della Florida se le politiche di Haiti, da secoli
cronicamente traballanti e di incerto esito, lo avessero
costretto all’esilio.
Avevamo conosciuto Jean-Philippe durante una
crociera nelle Antille. Ci aveva preso in simpatia, forse
perché gli parlavamo in francese, e ci aveva ripetutamente
scritto invitandoci a visitarlo. Quando finalmente ci
eravamo decisi a farlo, il dr. François Duvalier, “présidentà-vie” col nomignolo affettuoso di Papà Doc, non era
più presidente perché aveva cessato di vivere. I TonTon Macoutes, la sua milizia di stampo fascista armata di
machete, non terrorizzavano più la popolazione. Al governo
del paese a Papà Doc era succeduto il figlio Jean-Claude
Duvalier, Baby Doc, meno sanguinario e più adiposo del
padre. Su di me e Milena comunque, come ospiti di JeanPhilippe la politica locale aveva scarso effetto.
231
In quel periodo Haiti era un paese di estrema
povertà ma relativa stabilità politica. Per le strade costeggiate da rigagnoli che funzionavano come fogne all’aperto
si era costantemente assediati da venditori di merletti,
o borse di rafia, o cappelli di paglia, o qualsiasi altro
oggetto che potesse avere un interesse per il turista. Ad
Haiti con pochi dollari si poteva sfamare una famiglia
per una settimana. Noi ci eravamo impegnati a comprare
qualcosa da ciascuno dei venditori ambulanti il giorno
prima di partire, per evitare l’assalto dei postulanti ogni
volta che si usciva di casa. La cosa che più ci colpiva in
quel panorama di squallore e decadimento era l’incredibile
massa di popolazione, una folla di volti neri tra cui i pochi
bianchi spiccavano per la loro rarità. Era come se la miseria
non uccidesse la speranza di un destino migliore per i
numerosi figli messi al mondo da ogni madre. E infatti
non si notava disperazione nella gente che incontravamo;
al contrario, una gioia di vivere più genuina di quella dei
paesi abbienti. Una dieta magra in calorie non aveva creato
nessun problema di obesità, una sindrome comune negli
Stati Uniti, dove il cibo si spreca e, spostandosi sempre
in automobile, si fa poco esercizio. Gli haitiani sono bella
gente.
Purtroppo, benché Haiti avesse conquistato col
sangue l’indipendenza dalla Francia fin dai tempi di
Napoleone – la prima repubblica governata interamente
da gente di colore – il paese da sempre è travagliato da
instabilità di strutture politiche e da uno spaventoso divario
economico tra le folle di poveri e i pochi ricchi che hanno
in mano il potere. Neanche gli americani, che a più riprese
si sono impicciati degli affari di Haiti, sono mai riusciti
a stabilire un soddisfacente equilibrio politico, sociale
ed economico. In questo panorama sociale deprimente,
tuttavia una comunità di artisti era fiorita creando uno stile
pittorico unicamente haitiano, sofisticato e naïf, ad onta
dell’ossimoro. Nelle gallerie di Port-au-Prince e Pétionville
si trovano quadri pieni di colore, di notevole valore artistico
e a prezzi molto convenienti. Milena ed io ne comprammo
un buon numero.
232
Avakian ci aveva presentati a un suo amico,
Jacques Fresnel, un simpatico giovane giornalista francese
corrispondente da Haiti di Le Monde. Fresnel aveva sposato
una haitiana, Geneviève Dessalines, laureata in etnologia
alla Sorbona e praticante i riti del vudù che permeano
direttamente o indirettamente la vita di ogni haitiano.
Geneviève era una mambò, una sacerdotessa del culto che
aveva superato i complicati riti di iniziazione dopo anni di
studi sotto la guida di un maestro anziano. Jacques ci aveva
promesso di farci assistere a uno dei rituali, una cerimonia
genuina , non uno degli spettacoli truculenti messi in scena
a beneficio dei turisti ignoranti; spettacoli che fruttano
denaro agli organizzatori ma rafforzano i pregiudizi e le
false nozioni che circondano i culti di origine africana. Ma
prima, sapendo che volevamo esplorare i fondali della
costa, ricchi di banchi di corallo e di fauna sottomarina,
Jacques ci aveva portati in macchina fino a un villaggio
di pescatori a un trentina di chilometri a nord di Port-auPrince.
La spiaggia del villaggio era coperta di frammenti
di conchiglie che sfavillavano nel sole con riflessi di
madreperla. Lungo di essa si allineava una fila di casupole
di fronte alle quali gruppi di bambini seminudi giocavano
rincorrendosi. Jacques aveva assoldato un paio di pescatori
per guidarci verso i banchi di corallo a diverse centinaia di
metri dalla riva. A bordo di una barca a vela pilotata da due
uomini Jacques, Milena ed io salpammo verso un’isolotto
che affiorava a malapena dal filo dell’acqua. La vela di rozza
canapa somigliava a quelle delle feluche che si incontrano
nel Mar Rosso. Il mare era calmo, nel cielo nessuna nuvola.
I pescatori si erano messi a cantare una nenia di cui solo
Jacques poteva comprendere il senso. Era una invocazione
alla dea delle acque, La Sirène, perché assicurasse buona
pesca e sicuro ritorno a terra a chi si avventurasse sul
mare, ci disse Jacques. Sapendo che le acque ospitavano
barracuda dai denti aguzzi, avevo consigliato a Milena
di togliersi dalle dita un anello d’argento con una pietra
azzurra che avrebbe potuto essere scambiato per un’esca.
Lei lo aveva nascosto sotto un’asse dello scafo.
233
La barca all’ancora, Milena, Jacques ed io entrammo in acqua muniti di maschera e pinne. L’isolotto era un
banco di sabbia corallina su cui erano sparsi alcuni ciuffi di
vegetazione. Le formazioni di corallo erano cresciute quasi
a pelo d’acqua: corallo a ventaglio, tubolare, a forma di
arbusto o di corna di cervo, tra cui si annidavano ricci neri
dalle lunghissime spine acuminate, grandi stelle marine e
anemoni variopinti. Bisognava stare attenti a non ferirsi
sulle superfici del corallo ruvide o affilate come lame.
Tra i ventagli e le alghe oscillanti nelle onde nuotava una
varietà di minuscoli pesci tropicali multicolori, per nulla
intimiditi dalla nostra presenza. Qualche piccolo barracuda
non ci aveva prestato molta attenzione. Al ritorno a terra
Milena non riuscì a trovare l’anello che aveva nascosto. Lo
considerammo un’offerta a La Sirène.
La sera Fresnel, Avakian e le loro mogli ci
invitarono a cena al ristorante della Villa Créole, un
albergo rinomato di Pétionville. Al nostro ingresso la
piccola banda che eseguiva un calipso si arrestò e attaccò
“Volare”: evidentemente sentore della nostra presenza
era giunto fino alla Villa Créole. Alla fine della cena il
proprietario dell’albergo, un mezzosangue dal modo di
fare molto dignitoso (Jean-Philippe ci fece sapere che era
medico di professione), volle mostrarci la sua collezione di
quadri. Uno in particolare era il ritratto di una civetta con
gli occhiali e fattezze vagamente umane. “Papà Doc”, ci
confidò il dottore-albergatore ammiccando. Il giorno dopo
Jean-Philippe ci portò in un suo buen retiro in cima a una
montagna, lontano dalla congestione e dall’afa di Port-auPrince. Sul terrazzo della casa, sorbendo succhi di frutta
offertici da uno dei domestici, Milena ed io potevamo
ammirare lo scenario dei monti coperti da vegetazione
verde smeraldo, digradanti verso il mare .
L’apice del nostro soggiorno ad Haiti fu la cerimonia vudù promessaci da Jacques. Molti anni prima, ancora
studente, avevo letto un libro di Maya Deren che mi aveva
incuriosito, “I Cavalieri Divini del Vudù”, un serio trattato
di etnologia. Maya Deren, un’ebrea nata a Kiev in Ucraina
nel fatidico 1917 era morta in povertà a New York nel 1961.
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Donna dalla vita avventurosa e dai numerosi interessi,
nel dopoguerra fu uno dei maggiori esponenti del cinema
d’avanguardia americano. Molto giovane aveva iniziato
la sua carriera come ballerina della troupe di Katherine
Dunham. In visita ad Haiti restò affascinata dai riti vudù al
punto di parteciparne ed essere posseduta dai loa (gli orixá
del Brasile), gli spiriti ancestrali che possedendo i medium
in trance ne “cavalcano” la mente. Di Maya Deren a Milena
e a me sono restate una vecchia copia di “Divine Horsemen”
e una sua fotografia di un vevé, un graffito sacro in onore
dei loa, parte del cerimoniale vudù. Due oggetti lasciati a
noi in eredità da un comune amico.
h
Due giorni prima di ripartire per gli Stati Uniti, al
calare della notte Jacques Fresnel ci aveva accompagnato
all’hunfò di Madame Dessalines, un tempio alla periferia
di Pétionville analogo ai terreiros brasiliani. Il santuario
consisteva di una costruzione di aspetto molto semplice.
Al suo interno erano situate le “stanze dei misteri”, con i
muri decorati da arabeschi simbolici su cui erano appesi
paramenti e oggetti pertinenti a ciascuna divinità e con
altari consacrati ai loa patroni dell’hunfò, tavoli coperti da
drappi su cui era disposta un’accozzaglia di oggetti sacri,
ciascuno di essi con un significato esoterico chiaro agli
iniziati: caraffe d’acqua benedetta, statuine e immagini di
santi cattolici, pietre sacre immerse in olio, bottiglie di vino
e di liquore, collane di perline… Di fronte all’hunfò era
uno spiazzo quadrangolare di terra battuta, il “peristilio”,
coperto da una tettoia di paglia e aperto su tre lati. In mezzo
ad esso si ergeva un grosso palo, il poteau-mitan, decorato
con spirali multicolori, sacro veicolo tra il cielo e la terra
lungo il quale le deità invocate discendono a montare i loro
“cavalli”. Ai lati del peristilio c’erano sedie e sgabelli su cui
i visitatori potevano sedere durante le cerimonie. Su una
piccola piattaforma erano disposti tre tamburi, uno di circa
un metro di altezza, gli altri due di dimensioni decrescenti;
anch’essi sacri oggetti di culto. Sul terreno intorno al
235
peristilio due capre brucavano un’erba rada; galli e galline,
animali destinati al sacrificio, erano appollaiati sui rami di
alberi o razzolavano indisturbati.
Poco dopo il nostro arrivo la cerimonia cominciò
con l’ingresso nel peristilio di una dozzina di iniziati in fila,
gli hunssì, per la maggior parte donne di ogni età vestite
di corte tuniche candide strette alla vita da una cintura,
le teste coperte da fazzoletti annodati sulla nuca, ai piedi
sandali. Con le donne erano entrati alcuni uomini, anche
loro vestiti di bianco, pantaloni lunghi e camicia. Alla testa
della processione era la mambò che agitava l’asson, un
sonaglio sacro fatto con una piccola zucca vuota rivestita
con una rete di perline multicolori, simbolo della sua
condizione di sacerdotessa del tempio. Ai complessi ritmi
dei tamburi erano iniziati canti propiziatori e danze rituali,
durante i quali un’anziana hunssì aveva rapidamente
creato sul pavimento del peristilio i vévé, complicati disegni
simbolici ottenuti con grande abilità facendo scivolare
tra le dita farina di mais. Anche i vévé avevano carattere
sacro, ciascuno di essi dedicato a una particolare divinità
e necessario ad invogliarne la discesa tra i mortali. Intorno
ad essi e al loro centro erano state poste candele accese. La
processione guidata dalla mambò aveva poi salutato con
inchini, piroette e libagioni il poteau-mitan, i tamburi, i
vévé e ogni altro oggetto sacro nel peristilio.
Tradizionalmente il primo loa invocato deve
essere Legba, spirito ancestrale del Dahomey protettore
dei crocevia, simile agli exú del Brasile, incaricato di
aprire il portale celeste per consentire l’accesso alle altre
divinità. Dopo forse un’ora di inni, danze e invocazioni si
verificò la prima possessione. Legba era disceso nel corpo
di una vecchia hunssì, caduta per terra agitandosi in moti
convulsi come a protestare l’intrusione del dio, ma alla fine
sottomettendosi al suo volere e restando quasi immobile,
mentre gli altri hunssì salutavano con canti la presenza di
Legba. Poco dopo la vecchia era uscita di trance e aveva
ripreso a cantare e danzare con gli altri come se nulla le
fosse capitato.
236
237
Il “cavallo” della possessione successiva era una
giovane “montata” da Damballah, il dio-serpente aborrito
dalla chiesa cattolica haitiana perché considerato un
emblema di Satana. In realtà Damballah è un’antichissima
divinità africana che col diavolo ha poco a che fare ma che
può proteggere i suoi fedeli da malanni e magari aiutarli
finanziariamente con miracolose vincite di denaro. La
ragazza, sdraiata per terra e circondata da altre hunssì, si
dimenava ondulando, emettendo sibili e dardeggiando la
lingua come un crotalo. Poi a gesti – i serpenti non parlano
– aveva indicato che voleva mangiare. Condotta dalle
assistenti verso un mucchietto di farina in cima al quale era
stato posto un uovo, la giovane lo ingollò, apparentemente
senza masticarlo. Le fu poi offerto del riso in bianco e del
latte, piatti che una volta assaggiati furono deposti come
offerta sull’altare di Damballah nella sua “stanza del
mistero”. Spettatore “laico”, io stesso mi sentivo trascinato
dentro a un vortice di emozioni che affioravano confuse
dal fondo della coscienza.
Nel frattempo dal lato opposto del peristilio si
era verificata un’altra trance. Questa volta Ezilì, la dea
dell’amore, nata dalle acque come Afrodite, era scesa nella
testa di un giovane uomo. I loa non fanno distinzione di
sesso, cavalcano chi piace loro e chi li venera con maggiore
devozione. Riconosciuta l’identità della possessione, il
ragazzo era stato condotto da assistenti nella “stanza
del mistero” di Ezilì dove era stato incipriato, truccato e
adornato di collane, orecchini e foulard come si conviene a
una giovane donna. Accompagnato di nuovo nel peristilio,
aveva preso a danzare a piedi nudi una specie di minuetto,
passando da un astante all’altro e civettando con tutti.
Avendo chiesto da bere, gli era stata versata una coppa
di champagne, e senza versarne una goccia continuava a
piroettare, ogni tanto sorbendone un sorso. Arrivato davanti a me, senza che me lo aspettassi mi piantò un bacio sulla
bocca, subito applaudito con entusiasmo dai presenti. Mi
rivelarono che piacevo a Ezilì, decisamente femmina anche
se il suo cavallo era un maschio, e che dovevo considerarmi
fortunato, la dea mi avrebbe in futuro accordato favori.
238
Milena non sapeva se ridere o preoccuparsi.
Erano passate molte ore dall’inizio della cerimonia
quando assistemmo alla sua parte più misteriosa e
allucinante, la discesa del più importante membro dei
Guédé, una famiglia di spiriti di minore importanza nel
pantheon vudù che orbitano nel dominio della morte
ma che al tempo stesso soprintendono alla vita nelle sue
manifestazioni più naturali. I Guédé uniscono un aspetto
lugubre – sono vestiti di marsine nere e bombette come
becchini, gli occhiali neri sono di rigore – a un carattere
comico, esprimendosi con una voce nasale, storpiando
parole di créole in modo ridicolo e improvvisando farse di
cattivo gusto. La loro presenza conferisce alla cerimonia un
tono fortemente erotico. Sul loro altare riposa un grande
fallo ligneo che a volte lo spirito chiede di indossare. I loro
“cavalli” danzano in modo lascivo mimando la copula.
I canti d’invocazione e di saluto sono incredibilmente
osceni.
Madame Dessalines, la stessa mambò, era posseduta
dal capo dei Guédé, il leggendario Baron Samedi, signore
dei cimiteri, di cui si dice Papà Doc fosse un devoto. Gli
assistenti di Geneviève l’avevano aiutata ad indossare
una marsina nera con le code. In testa le avevano messo
un cappello a tuba e in mano una croce nera, simbolo del
crocevia sede di portenti. Con le gonne raccolte alla vita da
una cintura, la mambò a gambe divaricate ruotava sulle
anche e oscillava avanti e indietro al ritmo dei tamburi
mentre gli hunssì , imitandola, cantavano un inno fallico in
un’esaltazione dionisiaca della fertilità:
O pin’, bel pin’
Cé pin Papà Guédé!
O pin’, bel pin’
Cé pin Papà Guédé!
Pa bésoin pièce moun
Pou grouillé avê’l
Cé pin’ Papà Guédé!*
* Oh il pene, il bel pene – è il pene di Papà Guédé! - Oh ilpene,
il bel pene – è il pene di Papà Guédé! - Guédé non ha bisogno di
aiuto per farlo dimenare, - è il pene di Papà Guédé!
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Sempre danzando la mambò aveva afferrato per
le zampe un gallo nero che starnazzava, e roteandolo
toccava gli astanti con le sue ali per trasferirne il potere
vitale. Poi con un gesto rapido ne aveva strappato la testa,
spruzzando di sangue i vévé sul terreno e chi le era vicino,
e raccogliendo quanto usciva dal collo mozzo in una tazza
da cui aveva bevuto un sorso prima di passarla agli iniziati
che la circondavano. Alla fine, spossata, si era aggrappata
a una hunssì che gentilmente l’aveva aiutata ad accasciarsi
su una sedia mentre la trance divina si dissolveva.
Le candele erano spente mentre le prime luci dell’alba
entravano nel santuario e la gente poco a poco si
dileguava.
h
Due
giorni
dopo
ripartimmo
dall’isola.
All’aeroporto “François Duvalier” scorsi le nostre valigie
sulla pista, prima di essere caricate in aereo. Dal finestrino
dell’aereo che decollava potevamo scorgere un’ultima
volta la candida silhouette di Aubelin Jolicoeur, il signor
Haiti, pronto a dare il benvenuto a un nuovo contingente di
turisti. All’aeroporto di Miami, in attesa della coincidenza
per New York, un gruppo di matronali coriste negre
abbigliate in tuniche viola cantava spirituals. Nelle sale
d’aspetto dell’aeroporto circondate da negozi straripanti
di beni di consumo e da ristoranti colmi di cibo, “siamo
tornati nel Paese di Bengodi” pensai, con un po’di nostalgia
per la povera, affamata, ospitale isola: Haiti chéri, come dice
la canzone.
A casa, aprendo una valigia scopersi che un mio
paio di scarpe era scomparso. Senza dubbio qualche
haitiano di quelle scarpe aveva più bisogno di me. Fu la
mia ultima offerta ai loa.
h
h
240
h
EPILOGO
Durante la nostra convivenza Guelfo mi vedeva spesso
buttar giù note in un mio quadernetto e mi chiedeva: “ Ma che
scribacchi sempre, Glauco?”. “Oh, Guelfo, sono solo appunti per
il mio diario” gli rispondevo. E lui, leggermente sarcastico: “Non
avrai mica intenzione di scrivere le tue memorie…”. “Forse, un
giorno. Sia le mie che le tue…”.
Guelfo non mi prendeva sul serio, e io nemmeno
pensavo che un giorno avrei raccontato quello che ricordavo
di quei due lunghi anni di vita in comune. Il suo traguardo
era la pensione, uno stato di grazia che finalmente lo
avrebbe liberato dalle pastoie dell’impiego e posto in grado
di dedicarsi ai suoi mille interessi. Mi diceva: “Sai Glauco,
nel corso della mia esistenza di lavoratore dipendente
ho incontrato qualche persona dabbene e un mucchio di cialtroni. Ai primi sono grato dell’ amicizia dimostratami. Diplomaticamente ho ignorato o addirittura assecondato i secondi,
ghignando ai risultati delle loro cialtronerie. Ma ho cercato di
evitare confronti e alterchi che avrebbero compromesso la meta,
l’agognata, la pensione. E così ho nuotato senza troppa fatica in
mezzo alle acque turbolente della vita, come uno dei pesciolini
che scivolavano tra le chiappe di Tiberio, quando il Cesare andava
a sguazzare nella Grotta Azzurra in compagnia di giovinetti e
giovinette che gli titillavano i vetusti ammennicoli.” E ogni
tanto Guelfo mi canticchiava una sua versione personale di una
canzone di Totò o di Nino Taranto: “Aha, aha, che felicità, che
felicità – il signor Guelfo Torrazzi vi saluta e se ne va”.
241
Guelfo, sempre scherzando, mi diceva: “Glauco, ricordati
che se dovessi morire prima di te – tocco ferro – vorrei che sulla
mia lapide ci fosse questa epigrafe:
DULCE ET DECORUM EST…
È dolce e decoroso lavorare
E mai nell’ozio il tempo sperperare.
Più dolce ancor però, sentito ho dire
È della Patria per l’onor morire.
Lavorare e morire volli anch’io
Per far contenti il Re, la Patria e Dio.
Io, serissimo, annotavo subito nel mio quadernetto,
promettendogli di ottemperare alle sue ultime volontà. Poi
finivamo di scolare insieme una bottiglia. Naturalmente non
pensavo che l’occasione di scolpire la sua stele tombale si sarebbe
presentata entro pochi anni. In realtà, poiché non si sa come e
dove sia finita la salma di Guelfo, l’unico modo di lasciare la sua
epigrafe ai posteri è quello di trascriverla in queste memorie.
Che Guelfo sia davvero scomparso? A volte sogno che
sia sopravvissuto in quella remota giungla, e anche in mezzo agli
aborigeni abbia trovato qualche persona dabbene che ne abbia
allietato la vita. E m’illudo che forse un giorno riappaia, magro
e abbronzato, ma con lo stesso sorriso ironico e la stessa gioia di
vivere che me lo aveva reso amico.
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242
NARRATIVA ARACNE
1. Maurizio Olivieri, Appunti a posteriori
2. Collana Trame–3d
2 Kjell Espmark, L’oblio. Traduzione di Enrico Tiozzo
7 Mario Alpi, In attesa del temporale. I racconti dell’isola
3. Rosa Stipo, Deus lo volt. La crociata dei fanciulli (+ cd–rom)
4. Collana I Cedri
1 Fulvio Bongiorno, Vasi di Pandora
2 Fulvio Bongiorno, Il percorso dei segni
3 Fulvio Bongiorno, Roma orientale
6. Lamberto Antonelli, Beatrice Cenci. Cronaca di una tragedia
7. Guido Colesanti, Africa sempre. La favola della memoria: un medico in Fezzàn
8. Giuliana Iaschi, Le ciliegie sono mature
9. Mario Alpi, Il pettine bianco e altri racconti
10. Giuseppe Dattoli, Napoli 1891. Duie soldi a Cannelora e chell’amico rorme
ancora
11. Corrada Metelli, La moglie del sovversivo
12. Elisabetta Strickland, L’ombrello non è mio
13. Adolfo Sassi, Ode al meraviglioso Faito, terra d’incanto e di memoria
14. Giovanna Caraci, Via delle Quattro Palle
15. Daniela Quarta, Testimoni dell’omicidio: gli antichi dèi
16. Chiara Ferrigato, Fiori di campo
17. Ciro Ciliberto, Un essere imperfetto. Racconti
18. Marco Capodimonti, Paola Natalicchio, L’Erba random. Romanzo
19. Susanna Porco, L’impavido cavaliere Heaster e l’araba fenice
20. Luciano Rosso, La porta magica
21. Angela Gatti Pellegrini, Il luì di macchia e altri piccoli racconti
22. Roberto Contessi (a cura di), LSC. Laboratorio di scrittura creativa 2000–2005
23. Procolo Ascolese, Il complice
23. Andrea Sansoni, Oltre la diversità. Emozione e voglia di vivere
25. Luciano Rosso, Il mondo fra le righe. Poesie e racconti da viaggio
26. Tulio Ampez, La riscossa dei baroni
27. Daniela Quarta, Trame gialle
28. Enzo Grossi, Racconti della realtà sfumata
29. Riccardo Ascoli, Belle le signore
30. Giuseppe Luigi Serra, La gloriosa epopea
31. Luciano Lombardi, Di stanze
32. Icaro Fanelli, Kloster’s Wirkich Bestimmungsort e altri racconti universitari
33. Vittorio Cavallari, Duecento metri
34. Vittorio Cavallari, Sciame
35. Giuseppe Dalla Torre, Quantum memini
36. Pietro Cavara, Strani ottoni. Un sogno e alcuni frammenti
37. Giulia Jaculli, Genogramma sessuale
38. Carlo Lanza, La terza Salem
39. Glauco Romeo, Redacinta. Memorie di un giovane scapestrato
40. A Genzano: una bizzarra questione giudiziaria. Dialogo di Dino Mandrella
con un amico incredulo
Finito di stampare nel mese di maggio del 2012
dalla «ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l.»
00040 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 15
per conto della «Aracne editrice S.r.l.» di Roma