Narrativa - Aracne editrice
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Narrativa - Aracne editrice
Narrativa Aracne 39 Si ringrazia la casa editrice Garzanti per l’autorizzazione a pubblicare il breve brano tratto da I giorni in fuga, di Geno Pampaloni (Milano, Garzanti, 1994), citato a pagina 64 del presente volume. Si ringrazia il professor Luigi De Marchi per la gentile autorizzazione all’uso di diverse citazioni dal suo Sesso e civiltà (Bari, Laterza, 1959). Glauco Romeo Redacinta g Memorie di un giovane scapestrato Copyright © MMVI Glauco Romeo Fremont, California [email protected] *** Copyright © MMVI ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133 A/B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 88–548–0841–9 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Autore o dell’Editore. I edizione: novembre 2006 E non potrebbe darsi, continuò Austerlitz, che noi si abbia pure appuntamenti da rispettare nel passato, in ciò che è avvenuto prima ed è in maggior parte estinto; e là ci si debba recare in cerca di posti e persone che hanno qualche nesso con noi all’estremo lato del tempo, per così dire? W.G. Sebald, Austerlitz Tutti i loro atti sono nei Nostri libri; ogni azione, piccola o grande, vi è scritta Corano, Sura della Luna (Al Qamar, 54, 53) INDICE Premessa..................................................................................XI Ringraziamenti......................................................................XII PREAMBOLO.......................................................................1 MESSINA...............................................................................5 Nasce il feto – L’asse del cesso preriscaldata – Storie del Muricello – Il terremoto – Marchesi, sì o no?– Alla spiaggia La lettera divina – Escursioni sopra e sott’ acqua – I fatti della vita - La Vara VERSO IL NORD..............................................................23 Infanzia a Roma – Colonie marine e montane – Uva e letame A Como – Fascisti e partigiani – Un’estate a Bellagio – Pioggia di caramelle – La casa di Rivoli BELLAGIO.......................................................................... 39 Pipe fatte in casa e attacchi di diarrea – I fantasmi del cimitero Piaceri e crudeltà – Mark Twain a Bellagio – Lo zio Pasquale – Il nuovo pisciatoio – Soprannomi – Il tuffo dal battipalo – Il maestro Bobby O’Silber – Rizzino in barca – Marilù, contessa DeViel INTERLUDIO IN ALTO ADIGE................................ 57 A Bressanone – Boschi, sentieri e laghetti – I frati tedeschi – Al liceo-ginnasio “Dante Alighieri” – Madonne pellegrine Partenza per il sud – Un infortunio di viaggio APPRODO A BOLZANO...............................................61 Sfollati e alluvionati – Il Liceo Carducci – Classi miste o monosex – Gite scolastiche – Primo giorno di scuola – Preside, professori e studenti – Memorie di un maestro – Regie benedizioni – Conflitti matematici – Al cesso il miscredente! – Zia Flora e zia Hilde – Cronache medioevali – Franchir la frontière – Vassalli e valvassori – Sciare a buon mercato – Il foglio di via 7 ANCORA A BOLZANO..................................................75 Danze in montagna – L’avvinazzato in Lambretta – Vita dai Mumelter e in Via Cesare Battisti – Fascisti o comunisti? – Braghella & Testina – Di fronte al Navarro – Caste sociali – La terza liceo DA BOLZANO A PADOVA...........................................83 Il collegio universitario Don Mazza – La Casa dello Studente Arnaldo Fusinato – L’arte della coprofilia – Al calduccio dei postriboli – L’Istituto Chimico di Via Loredan – Sandonnini e Croatto – La Casa dello Studente Ippolito Nievo – Il custode Dario – Il gioco del bagolotto – Lino, Linetto... – Il bombarolo –Amici vari – La Latteria Pajaro – La Carlona – Ernesto e Pasquale – Zio Getulio e Saturnino – Le avventure di Giorgio Amoretti – Padua, ich muss dich lassen... JAZZ E AUTOSTOP.......................................................105 Jazz, passione giovanile – Il concerto di Coltrane e Miles Davis – Pernottamento e colazione in Casa Jucker – Con Luca e Carlo verso la Svezia – Sesso e Civiltà – Il Giardino del Re – Gazzelle e leopardi – Ritorno a casa TRANSFUGA A FERRARA.........................................117 La fuga da Padova – Nebbia e galline – Schifanoia – Il cuculo ozioso – Crisi letteraria – Angeli custodi – Un bel casino – Il lamento del marmittone – Naja tripudians – Neve, whisky e 7Up – Di guardia ai patrii confini – Ritorno a Ferrara – Amore e termodinamica AMARCORD DI FERRARA........................................129 Veronica e Liliana – Ninuzzo e Nunziante – Pendenza – Librai ambulanti e sognatori STORIE FERRARESI (CON LICENZA DI BASSANI).......135 Veliki Yuri! – È Lombardi il vero buon brodo – La tragica fine della povera Ortensia – Il Macrocefalo e l’Agricola – Piume, baciatemi! – Rognoni arrosto – Il Metodo Carezza – ”Hai guardato la signorina!”– Passa il Santissimo – L’azzurra visïon – Il fedele maharatto LA TRADUZIONE E ALTRE STORIE.....................149 Il “mal de l’asen” – Boca de Puta – La morte del Direttore – L’Incantevole – Schifanoia – Il Montagnone – Aurora principessa 8 NUOVE METE..................................................................165 Il miraggio della cattedra – Le damigiane di acqua distillata – Vita di commissionato – Panni da risciacquare in Tamigi – La tapa del delco – Il fatale coup-de-foudre VITA IN INGHILTERRA..............................................177 Prigioni e biscotti – Un appartamento su tre piani – I cigni della regina – Bianchi e neri – Hippies e figli dei fiori – Incontro con Yoko – Dimostrazioni a Trafalgar Square – Il Greek Pig – Meneghello e Strickland – Il Dipartimento di Chimica – Le mele dei porci – Il prof. Pruitt – Ricerche e frustrazioni – Le palline d’argento PASSAGGIO A NORD-OVEST.................................195 Rose sotto la luna – Traversata atlantica – Al Vice-consolato di Hamilton – Parolacce internazionali – I megapolli – Elefanti alla monta – Puntando a sud – Spaghetti e polpette – Premi Nobel – Gerarchie e gabinetti di decenza ESOTICA............................................................................213 L’Anaconda – Rio de Janeiro – Mulatte, tagliaborse e macumba – La schiava Anastasia – Padre Geronimo – Il santero Jorge – Bahia – Monsieur Haiti – Il munifico Monsieur Avakian – Nel mare de La Sirène – I riti del vudù – Ritorno nel Paese di Bengodi EPILOGO............................................................................241 Illustrazioni La Vara.....................................................................................19 Mata.........................................................................................20 Grifone.....................................................................................21 La Vasca...................................................................................65 Il Giardino delle Rose............................................................81 Prato della Valle.....................................................................87 Il Modern Jazz Quartet................................................108-109 Schifanoia..............................................................................159 La Schiava Anastasia...........................................................223 Iemanjá..................................................................................225 Vévé per Ezilì.......................................................................237 9 A Emmegì, senza la cui affettuosa presenza la vita non sarebbe stata così facile. 10 PREMESSA Spesso fisionomie di persone diverse possono apparire tanto simili da parlarne come di sosia. Nel caso di Elvis Presley, per esempio, a Las Vegas i suoi sosia hanno creato una vera industria dell’imitazione, al punto da far credere che “cloni” umani siano già stati creati da qualche scienziato ribelle. Così i personaggi di un racconto possono richiamare alla mente persone esistenti o esistite. Se il lettore di queste memorie dovesse ravvisare nella narrazione persone di sua conoscenza, tenga presente che i caratteri di uomini e donne, come le fisionomie, possono sembrare quasi identici, ma non per questo corrispondono necessariamente a persone reali. Con l’eccezione di personaggi storici, protagonisti ed eventi di queste memorie sono in gran parte frutto della fantasia di Guelfo Torrazzi, indimenticabile amico. Il lettore deve rendersi conto del fatto che questo è un romanzo a fumetti privo – per ora – di vignette con le nuvolette parlanti. In attesa dei fumetti reali, provveda il lettore a creare con la sua immaginazione i fumetti virtuali. XI RINGRAZIAMENTI Devo anzitutto dar credito agli scritti di Piero Chiara, Luciano De Crescenzo e Kurt Vonnegut per aver ispirato la stesura di queste memorie, con un umile inchino a Boccaccio e all’Aretino. Alcuni vecchi amici di Guelfo Torrazzi mi son stati prodighi di suggerimenti e aneddoti: da un lato dell’Atlantico Mario Bolognani, Ian Delderfield, Lia Fedeli (indimenticabile bellagina), Ettore Frangipane, Giampaolo Guasti, Giorgio Jellici, Mariano Mazzoni, il comandante Vittorio Marsiglio, pilota dell’Alitalia, e il prof. Fernando Secco dell’Università di Pisa; dall’altro lato dell’Atlantico il prof. James D. Livingston del Massachusetts Institute of Technology e il dr. Marcus P. Borom, scienziato, subacqueo e aviatore. Ringrazio pure l’avvocato Gaia Carofiglio e la prof. Gabriella Salinetti dell’Università di Roma-La Sapienza per una attenta ed efficace revisione del testo. Emmegì, da sempre mia compagna e consigliera, ha sfoltito la prima stesura del manoscritto e creato non solo grafica e illustrazioni, ma anche un’atmosfera di serenità ideale per chiunque, sia grande scrittore che oscuro scrivano come me, dia mano alla penna o alla tastiera del computer. Glauco Romeo XII PREAMBOLO Sul finire degli anni Ottanta la società per cui lavoravo mi aveva inviato come consulente presso una centrale nucleare di nuova costruzione ai bordi del lago Ontario, al nord dello stato di New York. Il mio compito era quello di organizzare i laboratori di analisi chimica e radiologica e di stilare procedure ad uso dei tecnici. La cittadina di Oswego ospitava tre reattori che fornivano energia elettrica a una vasta porzione dello stato e lavoro a un buon numero di abitanti. A Oswego incontrai un italiano, un chimico che lavorava in una delle altre centrali. Diventammo subito amici, sia per reciproca congenialità che per la lontananza dalle nostre famiglie impostaci dall’incarico ricevuto. Finimmo per affittare insieme un villino ai bordi della città, con vista su un fiume che la tagliava a mezzo prima di fluire nel lago. Guelfo Torrazzi era un uomo di una cinquantina d’anni, alto e di taglia atletica, di carnagione scura, capelli neri brizzolati alle tempie, e occhi grigio-azzurri. Mi diceva: ”Sono un misto di arabi e di normanni, come se ne trova in Sicilia.” Era nato infatti nell’isola, da un siciliano e da una milanese. “Sono per tre quarti siciliano con qualche goccia di sangue austriaco”, mi diceva, alludendo a un lontano ascendente germanico, la cui presenza nella sua famiglia risaliva ai tempi dell’occupazione austro-ungarica della Lombardia durante il Risorgimento.”Mio padre,” mi diceva Guelfo, “era un siciliano biondo e con gli occhi chiari.” Sua madre era invece di pelle scura come un’araba, figlia di un siciliano discendente dai mori e di una lombarda. Guelfo mi aveva mostrato una fotografia della madre, fatta in gioventù durante una gita al Marocco. Drappeggiata nel costume locale, sua madre era indistinguibile dalle donne arabe. 1 Le estati di Oswego erano luminose. Il lago abbagliante sotto il sole e l’aria pulita, senza traccia di inquinamento per l’assenza di industrie, ci invogliavano a lunghe passeggiate in cui Guelfo mi raccontava le peripezie della sua vita movimentata. Erano storie picaresche, forse in parte inventate, che Guelfo infarciva di citazioni letterarie e poetiche. Leggeva di tutto, Guelfo: dai fumetti alle vite dei santi. E da questa sua cultura eclettica e arruffata estraeva frasi ed esclamazioni che io trovavo buffe e al tempo stesso m’ intimidivano – io di quello di cui Guelfo parlava sapevo poco. Ad esempio: « Hé Dieu ! si j’eusse étudié au temps de ma jeunesse folle! ». Io lo guardavo senza capire e lui mi spiegava “Villon, François Villon. Criminale e gran poeta del tardo medio evo.” Oppure mi chiedeva “Sai tu che effetti fa amore?”, e continuava “quelli del tartufo, che ai giovani fa rizzar la ventura e ai vecchi tirar coregge.” La sera le nostre conversazioni continuavano nelle trattorie locali dove spesso andavamo insieme a cenare. Io trovavo questi suoi discorsi affascinanti, avendo vissuto da adolescente in modo ben poco avventuroso in un piccolo paese della Venezia Giulia. Guelfo aveva l’estro del narratore e condiva i suoi racconti di un tono sardonico e auto-deprecatorio che spesso mi faceva ridere. Mai prendersi troppo sul serio, mi ammoniva. Per la sua propensità a dissacrare miti e tabù io, di scarsa immaginazione, l’avevo soprannominato “Guelfo l’Iconoclasta”. Fin da giovane avevo preso l’abitudine di registrare in un mio diario le impressioni della giornata, e molte delle storie di Guelfo trovavano posto nelle sue pagine. Fatta eccezione per le periodiche visite alle nostre famiglie, lontane molte centinaia di chilometri, Guelfo ed io vivemmo insieme per più di due anni prima di doverci separare per perseguire nuovi incarichi. Restammo però in contatto per molti anni, per telefono e scrivendoci lettere, le sue piene di cronache e commenti riportati sempre tra il serio e il faceto, mai lamentando le asperità che ognuno incontra nel corso dell’esistenza. Fui colpito e addolorato nel ricevere una telefonata di sua moglie: Guelfo era scomparso, vittima di un incidente di aereo. Ritiratosi dalla sua attività di consulente, non si era rassegnato alla placida vita del pensionato, ma sempre in cerca di avventure e di nuovi interessi, si era aggregato a un gruppo internazionale di 2 entomologi che si occupava di ricerche su insetti esotici. Durante un viaggio di studi sulle falene della Papua Nuova Guinea, un piccolo aeroplano che lo portava verso Port Moresby dopo aver segnalato per radio un’avaria al motore era precipitato nel fitto della giungla, in una zona scarsamente esplorata che pare sia ancora abitata da cannibali. Intense ricerche erano state fatte per rintracciare l’aereo e i suoi occupanti, con la collaborazione dell’aviazione militare australiana; ma nessuna traccia fu rinvenuta, e dopo alcuni anni dalla loro scomparsa Guelfo e i suoi compagni di sventura furono dichiarati deceduti dal punto di vista legale. Anni dopo, rileggendo i miei diari e la nostra corrispondenza, decisi di mettere ordine nei ricordi di Guelfo. Lui mi diceva: “La storia non è fatta solo di battaglie vinte o perse da questo o quel generale, ma è la risultante di miriadi di storie di gente comune come me.” In omaggio a questa sua convinzione e alla sua memoria, pensai di aggiungere come minuscolo contributo alla storia dell’umanità le storie di Guelfo, con il titolo “REDACINTA”, un termine coniato da Torrazzi di sua derivazione dal dialetto siciliano. “Redacinta” significa “oltre la cinta delle mura”, un titolo emblematico della natura di Guelfo, che avrebbe voluto vivere al di là delle muraglie di convenzioni sociali. E poiché il mio amico a volte sospirava “Ah, che scapestrato ero da giovane…”, decisi di dare alle sue memorie il sottotitolo “Memorie di un giovane scapestrato”. Nel far parlare Guelfo di persona mi è sembrato di sentirlo di nuovo vicino. Spero che il suo “spirito allegro” come il personaggio di Noel Coward, nel leggere le sue parole ne sorrida. G. R. 1˚ aprile 2005 3 4 Deh, come è gran pietate de le donne di Messina, veggendole scarmigliate caricar pietre e calcina (Anon., secolo XIII) MESSINA Nasce il feto – L’asse del cesso preriscaldata – Storie del Muricello – Il terremoto – Marchesi, sì o no?– Alla spiaggia – La lettera divina – Escursioni sopra e sott’ acqua – I fatti della vita – La Vara “E vediamo questo feto!” Con queste parole il prozio Nannino, in visita di prammatica alla famiglia del neonato, annunciò il suo ingresso. Il feto ero io, nato solo da poche ore, e quindi solo di recente non meritevole della qualifica. Bettina, la mia nonna paterna, prontamente rimbeccò: “E intanto noi di questi feti ne abbiamo già due!”, ricordando a Nannino con orgoglio l’esistenza di una mia cugina, un’altra nipote nata l’anno precedente dalla figlia Camilla, Milla, come era chiamata in famiglia. Raccontano che al momento della mia nascita la levatrice emise un gridolino strozzato: ”Oddiomio!...”. Mia madre era convinta di aver messo al mondo un mostro, e solo dopo alcune ore le fu consentito di ispezionarmi e accertare che se da mostruosità ero afflitto, lo ero solo nella fantasia della levatrice che si era spaventata nel vedere il cordone ombelicale arrotolato intorno alla mia testa mentre sbucavo dal quieto ambiente dell’utero materno. Il prozio, capitano di lungo corso a riposo, con un viso austero cinto da una barba bianca e sulle spalle una 5 mezza redingote (così appare nelle vecchie foto di famiglia), era seguito dalla moglie, una donnetta minuscola vestita di nero, in lutto permanente come si addiceva ad un’anziana siciliana, e dalla figlia, una donna alta e di taglia massiccia. Anche la figlia di Nannino si chiamava Camilla, ma per distinguerla da Milla, veniva detta “la Millona”. Era afflitta da una disfunzione ormonale, la Millona, che le aveva fatto raggiungere limiti inverosimili di pinguedine, e benché in possesso di un marito, le aveva impedito di produrre prole per la soddisfazione della famiglia. Quindi la freccia di mia nonna aveva colto il prozio nel suo tallone d’Achille. A causa della disfunzione di cui soffriva, la Millona era anche pigrissima. Non faceva mai niente, ma amava le comodità al punto che prima di andare al gabinetto obbligava la cameriera a sedersi sull’asse per riscaldargliela. Venni quindi al mondo circondato da questo bizzarro corteggio di parenti. L’appartamento di mia nonna, in cui grazie alle cure di una levatrice ero venuto alla luce, stava in un grande caseggiato del Muricello, un rumoroso quartiere della zona nord di Messina con strade fitte di negozi e di bancarelle da cui si poteva comprare sia pesce che fichi d’India, entrambi i generi conservati su ghiaccio; i fichi d’India sbucciati dal venditore venivano squartati e serviti al cliente per essere consumati sul posto o portati a casa su un piatto. Una delicatezza siciliana. L’origine del nome Muricello si perde nel passato, ma forse il “muretto” poteva essere un parapetto del torrente Trapani che di lì passava, e ci passa ancora, ma sottoterra. L’appartamento della nonna stava al quinto piano, l’ultimo di un grande caseggiato sopravvissuto al terremoto del 1908 e in seguito rinforzato in accordo alle procedure antisismiche. Dai balconi si calavano panieri fino alla strada, con soldi e bicchieri vuoti che venivano riempiti dai venditori di granite al limone, che dalla strada urlavano la loro presenza. Dal lato opposto del cortile del caseggiato c’era l’appartamento di zia Milla. Con la scusa di ospitare la mia partoriente madre mia nonna aveva convinto il marito ad affittare casa dove avrebbe potuto 6 vivere a pochissima distanza dalla figlia. Nonna Bettina era una donna alta, bionda, imponente, con una grinta che intimidiva. Era la figlia di una donna del nord e di un siciliano. Giovanissima, aveva sposato il nonno, un uomo di temperamento mite, di molti anni piu anziano di lei, direttore delle dogane locali. Un onesto funzionario statale con cui aveva messo al mondo quattro figli, tre maschi e una femmina. Lei aveva approfittato del carattere accomodante del marito per fare il bello e il cattivo tempo in famiglia, con risultati a volte disastrosi. Una vittima dei pregiudizi di mia nonna e delle balorde idee della società del tempo fu la figlia Milla. La zia Milla fin da giovanissima era una pianista di non comune talento. Frequentando sia il conservatorio che le scuole medie, a sedici anni aveva conseguito il diploma di pianoforte al Conservatorio di Palermo e iniziato una carriera di concertista di cui i critici musicali tessevano le lodi, ma che aveva esacerbato la pazienza dei vicini di casa, costretti a sorbirsi interminabili ore di pratica sui concerti di Liszt e di Rachmaninoff. Nel frattempo la cugina Millona si era fidanzata, e questo era un rospo che mia nonna aveva inghiottito a fatica. Per le donne del tempo il principale obiettivo era assicurarsi un marito. Una corsa verso una meta dove era importante arrivare per prime. Durante l’estate, in spiaggia mia nonna e Milla avevano conosciuto un giovane uomo, Michele. Di bell’aspetto, elegante, benestante, di una diecina d’anni più anziano di Milla. Possedeva una barca a motore e aveva invitato madre e figlia a gite in mare. Le carte erano tutte in regola, eccetto una. Il giovane era un orefice, un artigiano, insomma. A causa di rovesci familiari aveva dovuto interrompere gli studi dopo le elementari e imparare un mestiere. Nell’Italia inguaribilmente umbertina come la famiglia De Tappetti e stratificata in classi – anzi caste – sociali, la mancanza di un titolo di studio avrebbe precluso l’ingresso nelle famiglie di professionisti se non a prezzo di conflitti familiari. Tuttavia Michele, dotato di buona volontà, di notevole acume finanziario e di un particolare aspetto del carattere, sulla base di prestiti sulla parola, ripagati al più 7 presto, aveva aperto un negozio di grande successo nel centro di Messina e accumulato una fortuna. Ciò aveva abbagliato mia nonna, che ad onta delle obiezioni del resto della famiglia spinse la figlia a sposare l’intraprendente giovane. Maggiormente contrario al matrimonio della sorella era il fratello maggiore di Milla, mio padre, che essendo andato all’università non trangugiava l’idea di un cognato non altrettanto istruito. La carriera di concertista finì alle ortiche, perché il marito, avendo dichiarato “Io non accetto il ruolo di principe consorte”, relegò Milla tra le pareti domestiche facendole fare cinque figli. Lavoratore indefesso, buon marito e buon padre dal punto di vista dei canoni sociali, Michele purtroppo aveva un lato del carattere micidiale: era di un’avarizia allucinante. Elegantemente abbigliato, ogni giorno andava nel suo negozio sul Viale San Martino in sella a una scassatissima Lambretta. Il talento della moglie non gli interessava se non per pretendere che Milla desse lezioni ai ragazzini e coi soldi guadagnati provvedesse alle necessità della famiglia. Lui i soldi guadagnati con la gioielleria li metteva in banca, e alla nascita di ogni figlio correva a depositare una grossa somma a nome del neonato. Ma in casa i figli facevano la fame e se andavano in visita dai parenti si buttavano sui vassoi di frutta e di dolci, ingozzandosi come se non ci fosse un domani. La situazione aveva raggiunto estremi tali che in occasione di un Natale un fratello di Milla convinse malignamente i ragazzi a scrivere una lettera a Gesù Bambino chiedendo come strenna una nuova asse per la tazza del gabinetto. Una richiesta commovente che convinse Michele ad allentare i cordoni della borsa. Povera Milla… La ricordo con indosso una vestaglietta sdruscita, intenta a insegnare a qualche ragazzina i rudimenti della tastiera, con i figli vocianti nelle stanze del modesto appartamento in cui vivevano. Una volta mi confidò: “Ho cinque figli, ma l’unico che capisca qualcosa di musica è mio nipote Guelfo.” g 8 Avevo tre anni quando la mia famiglia si trasferì a Roma. Naturalmente di quei primi anni di vita a Messina non ricordo niente, se non le storie udite in casa. I ricordi di famiglia arrivano sino all’anno del catastrofico terremoto del 1908 che ridusse Messina a un cumulo di macerie e provocò circa 150.000 morti nelle zone di Messina e di Reggio Calabria. Un terremoto che creò molti più lutti e distruzione di quello di San Francisco che lo aveva preceduto di un paio d’anni. Che Messina avesse una storia di antichi disastri lo mostrano i versi di Anonimo che precedono questo capitolo. Mio padre, nato da pochi mesi, sopravvisse al terremoto insieme ai genitori. Ma la famiglia di suo padre fu quasi completamente decimata. Il mio bisnonno si sarebbe salvato, ma raccolto dai marinai di una nave russa alla fonda nel porto, completamente inebetito e incapace di spiccicar parola, fu buttato a mare dai russi insieme ai morti e ai feriti gravi dati per persi. Una cruda selezione dettata dalla scarsità dei viveri a disposizione della nave che sarebbero stati sciupati per un vegliardo incoerente. Il terremoto avvenne nel pieno della notte. La gente scappava nelle strade seminuda, strappata dal letto dalle scosse che si ripetevano, a volte aprendo baratri in cui alcuni sfortunati cadevano. Era la fine di dicembre, anche in Sicilia faceva freddo. Mio nonno, il cav. Egidio Torrazzi, era uscito per cercare i suoi familiari indossando giacca e cappotto, ma tornò a casa in camicia e mutande per aver dato i suoi panni a chi non aveva indosso indumenti. Gli orrori visti da Egidio nelle strade lo fecero incanutire prematuramente. La famiglia Torrazzi era numerosa, ma il terremoto ne uccise sedici membri: genitori, fratelli, cognati, e nipoti. Si salvò solo un fratello di mio nonno, quel Nannino che avrebbe salutato la mia nascita appioppandomi la qualifica di feto. Vantavano ascendenze aristocratiche, i Torrazzi. In famiglia si parlava di un marchesato delle Torrazze, di cui io sarei stato l’ultimo rampollo. Un mio zio, fratello minore di mio padre, lo stesso che aveva suggerito come strenna una nuova asse per il gabinetto, si era fatto stampare – serissimo - biglietti da visita col titolo “Marchese delle 9 Torrazze” e uno stemma di sua invenzione: uno scudo con tre torri rosse in campo azzurro tripartito, sormontato da corona marchionale con fioroni d’oro alternati a gruppi di perle. A rigore di Consulta Araldica, essendo un cadetto lo zio avrebbe dovuto dichiararsi “dei marchesi delle Torrazze”, non usurpando il legittimo titolo di marchese che sarebbe spettato a me come primogenito del casato. Ma essendo io di tendenze proletarie, della patente di nobiltà avrei fatto miglior uso se stampata su carta igienica. Adolescente, tornai a Messina in una estate dell’immediato dopoguerra, ospite della nonna. Un’estate di sole e di mare, ubriacante come sono le estati siciliane. Le notti erano caldissime, soffocanti. Spesso dormivo sul pavimento di coccio perché i nodosi materassi di lana erano insopportabili. A volte soffiava lo scirocco, portando con sé dal Sahara veli di sabbia finissima. Sui tetti, a terrazza come nelle costruzioni nordafricane, passavo ore arrostendomi al sole, leggendo e fantasticando. Si andava in spiaggia al mattino, quando il sole era ancora amico, non un leone ruggente. Lasciavamo nel capanno in affitto i vestiti e qualcosa da mangiare prima di tornare a casa nel primo pomeriggio, scacciati dalla calura. Gli altoparlanti installati dalla gestione dello stabilimento balneare ci elargivano le canzonette del dopoguerra, in 10 gran parte un lascito delle truppe americane: “Angiolina”, “Io t’ho incontrata a Napoli – bella dagli occhioni blu”, “Ehi babariba”, la versione italianizzata di “bo-bo-rebop”; e i bughibughi del jazz, la musica “barbara” del nemico bandita dai fascisti ma ascoltata e praticata in segreto dai figli di Mussolini. Le giornate passate in spiaggia erano piene di scoperte. Davanti ai Bagni Vittoria era arenato un enorme piroscafo, il Principe di Piemonte. A pochi metri dalla spiaggia, inclinato su un fianco nella sabbia, era in parte immerso nell’acqua. Non so come la nave fosse finita a così breve distanza dalla riva. Forse era stata affondata dai tedeschi in previsione dell’invasione alleata. Noi ragazzi vi andavamo a nuoto e ci calavamo dentro ai suoi anfratti arrugginiti, affascinati dalla fauna che vi aveva trovato alloggio: pesciolini multicolori sguazzanti tra alghe oscillanti nella marea, incrostazioni di conchiglie. L’acqua, lambendo il metallo, risuonava di ritmi remoti. Lo zio Sam ci aveva iniziati alla gomma da masticare, il chewing-gum da noi ribattezzato “la ciunga”; ci aveva fatto scoprire le prime penne biro, che per lungo tempo avrebbero fatto colare inchiostro indelebile nei nostri taschini. Ma soprattutto ci aveva inondato di Coca Cola, simbolo dell’America più popolare della bandiera a stelle e strisce, elisir che avrebbe soppiantato le nostre orzate e limonate paesane. Al cinema il regime fascista ci aveva consentito di vedere solo “Biancaneve e i Sette Nani” e altri cartoni animati di Walt Disney. Per il resto, il nemico doveva essere tenuto a bada dal Minculpop impedendo che subdola propaganda ci contaminasse colando dagli schermi cinematografici. A guerra finita, la gente aveva voglia di dimenticare quel periodo funesto e di divertirsi. La produzione di Hollywood era finalmente approdata alle soglie di casa nostra. Film come “Il Sergente York” ci mostravano le virtù del pio americano, impersonato da Gary Cooper, che durante la Grande Guerra per amor patrio si era trasformato da pacifista in guerriero, mettendo a buon uso la sua abilità di cecchino - cui si era allenato sparando ai tacchini selvatici nei boschi del Tennessee - e 11 producendo da solo una mini-ecatombe di tedeschi. Altri film erano meno eroici ma più divertenti. In “Serenata a Vallechiara”, Sonja Henie sgambettava allegramente sul ghiaccio, mentre il trenino di Ciattanuga faceva ciù-ciù con l’orchestra di Glenn Miller. g Alla fine di quella estate dovetti tornare nelle nebbie del nord. Ma due anni dopo fui di nuovo rispedito a Messina, questa volta per un intero anno scolastico. Avevo quindici anni, e cominciavo a capire qualcosa del mondo intorno a me. Ai miei occhi Messina era una splendida città. A volte andavo a camminare sul lungomare, dalla zona della Fiera Campionaria fino al porto, per il piacere di osservare le onde che scintillavano sotto al sole prima d’infrangersi sugli scogli. La statua della Madonna della Lettera, patrona della città, stava appollaiata in cima a una colonna, all’estremità del molo che cingeva una vasta distesa d’acqua protetta dai marosi. La leggenda narra che nei primi anni dell’era cristiana una delegazione di messinesi si recò a Gerusalemme per rendere visita alla Madonna e impetrarne la protezione. La Vergine, commossa dalla devozione dei messinesi, si impegnò per scritto a garantire il suo soccorso in casi di necessità, e a tal fine consegnò ai postulanti una pergamena arrotolata e legata con alcuni dei suoi capelli. Da allora sembra che Messina abbia ricevuto aiuti miracolosi nei momenti di crisi, come carestie, pestilenze, o guerre. Tutto merito della Madonna della Lettera, la cui venerazione è più che giustificata. Il nome “Letterio” è tipico messinese. Io stesso lo porto: Guelfo Maria Letterio. Dalla piazza del Muricello si snodava ViaPalermo, una lunga strada che saliva verso i monti Peloritani. Lungo la strada le edicole dei giornali esibivano in quegli anni le prime pagine dei rotocalchi con le storie romanzate del bandito Giuliano, considerato da molti una specie di Robin Hood, ma alla fine fatto fuori dal cugino Gaspare Pisciotta, probabilmente in combutta con le autorità. Erano i tempi in 12 cui Finocchiaro Aprile, un politico siciliano, aveva proposto al governo degli Stati Uniti la secessione della Sicilia dall’Italia e l’annessione come stato americano distaccato nel Mediterraneo. Al Dipartimento di Stato americano la Sicilia era ben nota, da quando Lucky Luciano, il pezzoda-novanta di Cosa Nostra negli Stati Uniti, aveva favorito nel ’43 lo sbarco delle truppe del generale Patton in Sicilia tramite i suoi agganci con la mafia locale. La Sicilia come parte degli Stati Uniti sarebbe stata una enorme portaerei, ma grazieadio non se ne fece nulla. All’idea le ossa di Garibaldi e dei Mille si sarebbero rivoltate nella tomba. Alla Villa Mazzini, il parco sulla via Garibaldi non distante da casa mia, andavo a sedermi con i bambini davanti al teatrino dei pupi, il teatro di marionette in cui venivano evocate per la delizia del pubblico infantile le gesta dei paladini di Francia in lotta con i mori. I guerrieri paludati in armature variopinte ed elmi di latta si davano botte da orbi, salutate da urla di soddisfazione dei ragazzini ogni volta che una piattonata raggiungeva il segno e un saraceno spariva sotto la tenda. Grande emozione procurava la morte di Orlando a Roncisvalle, tradito dal perfido Gano di Maganza. Come vuole la leggenda, prima di morire Orlando soffiava nel corno Olifante impugnando Durlindana, la fida spada. Le storie dei paladini sono ancora dipinte sui bordi dei tradizionali carretti siciliani, ormai solo un’attrazione per i turisti. Talvolta noi ragazzi, tutti maschi, organizzavamo gite che culminavano in picnic nei boschi di conifere dei Peloritani, freschi e profumati. Salivamo per sentieri rocciosi fiancheggiati da enormi piante di fichidindia e agavi fiorite di zammare e circondate da sciami di insetti ronzanti. Alla vista delle zammare, enormi steli ritti verso il cielo, i ragazzi cominciavano a cantare versi ribaldi sull’aria di “Ciuri, ciuri, ciuri di tuttu l’annu - l’amuri ca mi dasti ti lu tornu”: Tina, Tina, jarrusa e zumpettara apri li cosci e pigghia ‘sta zammara. 13 Più spesso si andava al mare, che su di noi giovani esercitava una irresistibile attrazione. Avevo conosciuto un ragazzo di un paio d’anni più anziano di me. Vittorio abitava nelle vicinanze dell’antico bar Sciarrone, nella parte della via Garibaldi a nord della città. Aveva il bernoccolo dell’ingegneria meccanica, e invece di studiare latino e greco al liceo aveva preferito iscriversi a un istituto tecnico industriale, dove poteva imparare disegno e costruzione di macchine. Sfortunatamente questa mancanza di interesse per aoristi e spondei gli aveva precluso l’accesso all’università. Nell’arcaico, asfittico sistema d’istruzione superiore di quegli anni lontani l’unica facoltà aperta a chi non avesse un diploma di maturità era Economia e Commercio. Un tipo di studi cui Vittorio non era affatto interessato. Invece passava lunghe ore costruendo complicati marchingegni, come, ad esempio, snodi cardanici per modelli di elicotteri; e per verificare alcune sue teorie basate su simili studi di Leonardo da Vinci, costruiva accurati modellini di carta che mollava dalla cima della tromba delle scale per studiarne velocità e caratteristiche di discesa. Un’altra passione di Vittorio, alla quale io mi ero subito accodato, era il nascente sport della pesca subacquea. Una ditta italiana, la Cressi, era tra le prime industrie che fornivano equipaggiamento ai subacquei: pinne, maschere e fucili. Nessuno di noi ragazzi aveva i mezzi per acquistare quegli aggeggi meravigliosi, ma ciò non era un deterrente per Vittorio: costruiva molle avvolgendo con un tornio filo d’acciaio su una bacchetta. I meccanismi di scatto erano limati a regola d’arte e montati su tubi d’alluminio di scarto. Senza spendere più di poche lire, il ragazzo si era costruito un paio di fucili che funzionavano perfettamente. Pinne e maschere erano ricavate da vecchie camere d’aria d’automobile. Superando i laghi di Ganzirri e di Granatari, andavamo in bicicletta fino alla Punta Faro, dove dal Capo Peloro la notte brillava una luce sullo stretto ad evitare che Scilla e Cariddi, quei mitici mostri, combinassero più malanni di quanto avevano fatto in un remoto passato. Immergendoci in un mare dove una volta vivevano sirene 14 e tritoni, scendevamo in apnea a caccia di cernie che, non ancora disturbate da masse di subacquei, si potevano trovare entro pochi metri di fondale. L’acqua era cristallina, la visibilità perfetta. Sulla sabbia giacevano decine di proiettili inesplosi, un residuo delle battaglie degli anni di poco precedenti. La sera, stanchi, tornavamo a casa per mostrare con orgoglio ai genitori i frutti della nostra pesca. Vittorio aveva conosciuto per caso Masino Manunza, l’operatore subacqueo di Folco Quilici, scrittore, giornalista e regista di film e documentari di avventure sul mare. Manunza era di passaggio a Messina, diretto verso qualche ripresa nel Mar Rosso. Un omone con un viso largo e capelli incolti, una specie di gorilla irsuto. Jacques Cousteau aveva inventato solo di recente l’aqualung, il sistema di emissione controllata di aria compressa variabile con la pressione esercitata dall’acqua a diverse profondità. Manunza aveva dato a Vittorio della calce sodata, usata in primitivi sistemi di rimozione dell’anidride carbonica dall’aria respirata. Il ragazzo aveva trovato nei magazzini di residuati di guerra dei sacchi-polmone a calce sodata usati in emergenza dai sommergibilisti per raggiungere la superficie, e li aveva adattati per immersioni di lunga durata. Ma conscio del pericolo inerente all’uso dell’aggeggio, si immergeva legato con una sagola a un altro ragazzo che, nuotando in superficie, al primo segno di problemi lo avrebbe tirato su. Il giovane era ardito ma prudente. Di Vittorio mi piaceva una certa poliedricità. I suoi interessi non si limitavano alla meccanica. Ricordo che il bolero di Ravel lo affascinava per il fraseggio ripetitivo e ipnotico; e mentre costruiva le sue macchine fantastiche lo sentivo canticchiare la vecchia conga sudamericana El Cumbanchero: “A cumba, cumba, cumba, cumbanchero – a bongo, bongo, bongo, bongosero…”. Al cinema aveva visto “Hellzapoppin’ ”, una farsa caotica di Hollywood, e molto impressionato ne discuteva con me i pregi. Sempre convinto delle sue opinioni, si ostinava a dirmi del titolo di un altro film, “A Sud di Pago Pago”, che Pago Pago si 15 pronuncia pengo pengo. E forse aveva ragione. La differenza di quei due anni di età consentiva a Vittorio di trattarmi con lieve superiorità, e a volte di burlarsi di me, ancora ignaro dei fatti della vita. Spesso sentivo i ragazzi del nostro gruppo nominare una misteriosa località di Messina, che alle mie orecchie di ragazzo cresciuto al nord suonava come “redacinta”. Alle mie richieste di spiegazioni si rifiutavano di darmene, ridacchiando. Un giorno in cui, camminando per strada, avevo chiesto loro per un’ennesima volta il significato dell’oscuro nome, mi dissero “Chiedilo a Mimmo, lui senza dubbio te lo saprà dire”. Mimmo era un giovane di una ventina d’anni che avanzava nella nostra direzione con al braccio la fidanzata Adalgisa. Appena giunto al livello del nostro gruppo lo fermai e gli chiesi: “Mimmo, cos’è redacinta?”. PAM! Come risposta alla mia innocente domanda Mimmo mi appioppò uno schiaffone, e indignato si allontanò senza una parola, trascinandosi dietro Adalgisa, allibita e ancora appesa al suo braccio. Tra un coro di risate mi fu finalmente spiegato dai miei amici che “redacinta” significava in dialetto “arret’a cinta”, “dietro la cinta” delle antiche mura cittadine. Ma non parlando il dialetto messinese, “arret’a cinta” a me suonava come “a Redacinta”. Era il nome popolare del quartiere delle luci rosse, un innominabile tabù della buona società messinese. La sola menzione di quella sentina di peccati in presenza della fidanzata aveva suscitato le ire di Mimmo. In quella estate, mi fu concessa una più chiara visione dei fatti della vita grazie a due sorelle che abitavano nella zona del Muricello. Spesso le due ragazze uscivano la sera per incontrare dei loro spasimanti, ai quali avevano dato appuntamento in spiaggia. I miei amici avevano scoperto questi convegni e in loro compagnia potei assistere ai ludi di Eros. Sdraiate sulla sabbia, seminascoste dalle barche dei pescatori arenate sulla spiaggia, le ragazze offrivano ai loro uomini un conforto più romantico (ed economico) di quello che avrebbero trovato a Redacinta. Una sera una delle sorelle mi sorprese a scrutare, molto interessato, le loro ginnastiche. Il partner, chino su di lei, 16 ansimava mugolando, dimentico del mondo circostante. Per nulla imbarazzata e senza perdere una battuta del ritmo, la ragazza mi strizzò l’occhio, come a dirmi “Hai visto quanto son brava?” g L’agosto è torrido a Messina, ma è proprio il mese in cui la città celebra i suoi fasti. L’Agosto Messinese, come viene chiamata la serie di eventi, concerti e funzioni, rende la città più vibrante del solito. La Fiera Campionaria, una manifestazione al cui inizio negli anni Trenta contribuì anche mio padre, era un grande emporio di prodotti e macchinari, una mostra di cose nuove affascinante per noi ragazzi. Alla sua chiusura assistevamo incantati a una fantastica esibizione di fuochi artificiali, che esplodendo nel blu cupo della notte ricadevano scintillando nel mare. Al 15 del mese, Ferragosto, si celebrava la grande processione religiosa della “Vara” (la Bara), una “macchina” devozionale come se ne trovano ancora in alcune cittadine del meridione, consistente in una struttura alta più di dieci metri, contornata da simulacri vari, e sormontata da una statua della Madonna Assunta in Cielo. La Vara era piazzata su un’enorme slitta trascinata con grosse funi sul lastricato di lava spruzzato d’acqua da una folla di devoti a piedi scalzi. In moto, le varie sezioni della Vara giravano e oscillavano come una specie di teatro mobile. La tradizione risale a parecchi secoli fa. All’inizio, invece di statue sulla struttura si sistemavano persone vive. Ma due incidenti, nel 1681 e nel 1738, convinsero alla fine gli organizzatori a sostituire le figurazioni viventi con statue di legno o di cartapesta. Nel 1681 la Vara si sfasciò e i due giovani che rappresentavano il Padreterno e la Madonna caddero in mezzo alla folla, insieme a due bambini che rappresentavano degli angeli, ma nessuno si fece male. Nel 1738 si ebbe la rottura dell’asse attorno al quale ruotava il sole e caddero dall’alto, “da un’altezza di 54 palmi”, quattro bambini, ma anche in quell’occasione nessuno si 17 fece male. Due miracoli, naturalmente. Alla processione partecipavano migliaia di persone inneggianti alla Vergine. Attraversando la via Garibaldi, la Vara era trascinata fino al Duomo. Con la Vara erano trainate anche due grandi statue raffiguranti Mata e Grifone, in memoria della vittoria di Ruggero il Normanno sull’arabo Grifone, nel XII secolo. Al suo ingresso vittorioso a Messina, re Ruggero aveva costretto il prigioniero Grifone e la moglie Mata a seguire fino al Duomo il suo trionfo. Detti pure “I Giganti”, nell’iconografia popolare i due prigionieri non sono rappresentati come dei vinti. In sella a un cavallo bianco Mata e ad uno nero Grifone, sono due magnifici simboli di forza e dignità. Sia l’uomo che la donna proiettano questa immagine in uguale misura. Il festival della Vara, come molte tradizioni siciliane, ha radici nella complessa, policroma storia dell’isola, occupata per secoli da gente di tutte le razze e nazioni: greci, fenici, cartaginesi, romani, bizantini, normanni, spagnoli, francesi e soprattutto arabi. Nella processione della Vara si possono quindi discernere gli elementi di strepitosa devozione presenti nelle processioni del Venerdì Santo in Spagna, e anche in quelle degli Shiiti nel Medio Oriente, dove però i flagellanti aggiungono un particolare tocco di colore. g 18 19 20 21 22 VERSO IL NORD Infanzia a Roma – Colonie marine e montane – Uva e letame – A Como – Fascisti e partigiani – Un’estate a Bellagio – Pioggia di caramelle – La casa di Rivoli Avevo tre anni quando mio padre, Fausto Torrazzi, tornato incolume da una delle sue avventure belliche, la guerra in Africa Orientale, decise di trasferire la famiglia da Messina a Roma, dove aveva trovato lavoro come chimico in un Ufficio Collaudi. In guerra era andato come tenente degli Alpini, volontario. A Roma, interessato alla merceologia, aveva pubblicato qualche lavoro su nuove fibre come raion e nailon, pensando di concorrere per una libera docenza. In realtà il suo vero interesse era la politica militarista del regime fascista. Per seguire queste sue aspirazioni aveva lasciato il posto all’Ufficio Collaudi per entrare nella M.V.S.N., la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, col grado di centurione. Era l’equivalente del grado di capitano, cui sarebbe arrivato restando a far parte degli Alpini. La M.V.S.N. infatti era organizzata sulla falsariga delle antiche legioni romane. Mio padre sarebbe andato a combattere anche in Spagna, naturalmente dalla parte dei franchisti, se mia madre dopo la nascita di una mia sorella non si fosse imposta per impedirglielo. Così dovette accontentarsi di partecipare all’occupazione dell’Albania, campagna fortunatamente breve e meno cruenta. 23 Di quegli anni a Roma ricordo che abitavamo in un palazzo di via Ufente, una traversa di Corso Trieste. Non molto distante stava il Parco Virgiliano, dove la domestica, Oliva, una ragazza della campagna veneta (allora ogni famiglia della buona borghesia aveva la cameriera), mi portava a giocare con altri bambini, suscitando grande interesse nei militari in libera uscita. Con Oliva spesso andavo anche al cinema, dove per la prima volta avevo visto “Biancaneve e i Sette Nani”, il cartone animato di Disney. Ricordo pure “La Corona Di Ferro” di Blasetti, e una versione de “I Promessi Sposi”. Per portarmi a scuola, un istituto gestito da suore nelle vicinanze di Villa Torlonia, un autobus passava a prendermi sotto casa. Ne ricordo il colore, blu. Durante le ore di svago a volte le suore si affannavano a dirci “Arriva il principe, arriva il principe, bambini, state buoni.” Il principe era un anziano signore, un Torlonia che si divertiva a darci caramelle come si usa con le scimmiette allo zoo. Mia madre mi aveva insegnato a leggere quando avevo quattro anni, e in virtù di questa mia precoce capacità a scuola avevo vinto un primo premio: un biglietto per il derby Roma-Lazio. Andai alla partita accompagnato dalla cameriera, e fu allora che nacque il mio totale disinteresse per il gioco del pallone – eccezionale per un italiano – e in genere per tutti i giochi di palle. Il regime fascista non si era limitato ai salti nei cerchi di fuoco e agli alalà cari a Starace, ma qualcosa di buono aveva combinato nel corso del ventennio al potere. Non contando la bonifica delle paludi Pontine e la decantata puntualità dei treni, un’iniziativa degna di rispetto fu quella delle colonie marine e montane per tutti i bambini. Durante l’estate si andava ad Ostia, il lido di Roma, per sguazzare nell’acqua del Tirreno sotto l’occhio sollecito delle maestrine addette alla nostra sorveglianza. A mezzogiorno si marciava in fila verso la mensa. Ai lati della strada, scarabei dorati spingevano boli di sterco nella sabbia. Poi sedevamo ad enormi tavole sotto capanni di frasche, e ci veniva servita pastasciutta, frittata, e per dessert una piccola mattonella di una marmellata dura di 24 cotogne. Alla colonia montana di San Martino al Cimino, nell’Appennino laziale, dal terreno vulcanico scaturivano sbuffi di vapori sulfurei. I cappellani ci raccontavano “il diavolo vive là sotto, e se voi non state buoni, di notte vi porterà via con lui.” Ammonizione che serviva ad ammansirci solo per breve tempo. Il regime era agli sgoccioli. Lo sbarco delle truppe alleate in Sicilia era stato accompagnato da bombardamenti, prima che Roma fosse dichiarata “città aperta”. Il 19 luglio del ’43 il bombardamento del quartiere San Lorenzo aveva danneggiato parte del Policlinico Umberto I, dove mia madre lavorava nel laboratorio di analisi del prof. Frugoni, un luminare della medicina del tempo. Dal bombardamento mia madre era uscita incolume. Quando suonava la sirena dell’allarme aereo, la mia famiglia scendeva in cantina con gli altri inquilini. Mio padre portava un bidoncino pieno d’acqua e una corta pala, da usare se le bombe ci avessero bloccato sotto le macerie. Visto che l’acqua del bidoncino non si poteva bere se non in caso di estrema emergenza, dopo il primo allarme io mi ero organizzato con una bottiglia d’acqua e un cucchiaio, da usare come pala. Il 25 luglio del ’43 Mussolini era stato deposto dal Gran Consiglio del fascismo. Durante quell’estate i miei genitori decisero di spedirmi a Vedelago, in provincia di Treviso, il paese della famiglia di Oliva. Una famiglia di agricoltori, numerosa come era richiesto dalla tradizione paesana e dal regime che scornava i celibi e premiava le famiglie con otto o dieci figli. Mussolini esigeva otto milioni di baionette per conquistare “il posto al sole”! Di quella estate ricordo la grande aia in cui razzolavano galline e troneggiava la vasca del letame. In quella vasca io ci finii dentro, ripescato dai giovani contadini che smascellandosi di risate mi annaffiarono con una pompa prima di ficcarmi in una vasca da bagno. L’esperienza più esilarante fu quella della vendemmia e della pigiatura dell’uva, cui fui invitato a partecipare. Gli uomini, rimboccati i pantaloni, e le donne, raccolte le gonne alla cintura, dopo le abluzioni salivano dentro ad un enorme tino in cui venivano scaricati i cesti pieni d’uva, e zampettando sui grappoli cantavano 25 in dialetto veneto, mentre il mosto che sgorgava dal fondo del tino era raccolto in damigiane. Poi i residui dei grappoli erano conservati per fermentarli e distillarne grappa. 8 settembre del ’43, ribaltone. I tedeschi non sono più i nostri alleati, Mussolini è arrestato e spedito al Gran Sasso della Maiella sotto il controllo di pochi carabinieri. I fascisti sono presi di mira dalla popolazione che nel giro di poche ore da osannante il duce passa all’antifascismo sfegatato. Mio padre stava viaggiando in treno, di ritorno a Roma, in uniforme da centurione della milizia. Un altro viaggiatore, un suo collega, impietosito gli dice “prenda la mia giacca, dottore.” Così conciato, in giacca borghese, pantaloni grigioverdi con la banda nera e stivali, mio padre arriva a casa e decide di spedire me e mia sorella a Bellagio, il buen retiro della famiglia dove vivono i nonni materni. I nostri genitori restano a Roma. Nel frattempo un ufficiale delle Waffen-SS, Otto Skorzeny, inviato da Hitler in missione speciale, atterra audacemente al Gran Sasso su un fazzoletto di terra con un aeroplanino, libera Mussolini senza colpo ferire, e vola con lui a Monaco di Baviera. A Monaco Hitler convince, in sostanza costringe, il duce ormai invecchiato e stanco a formare un nuovo governo fascista in alta Italia, la cosiddetta Repubblica di Salò. Skorzeny era un avventuriero, un Übermensch sempre pronto ai cimenti. Da giovane duellava alla sciabola con altri studenti, come si usava nelle università della Germania, e portava con orgoglio il marchio della Mensur, una cicatrice che gli sfregiava la guancia sinistra. Nel dopoguerra visse in Spagna, protetto da Franco, accumulando una fortuna in pesos all’ombra del Caudillo. Un lieto fine. Fedele al regime fascista ormai sfasciato, mio padre trasferì tutta la famiglia a Como, dove per via della sua esperienza di merceologo Mussolini lo mise a capo della SVE, lo Stabilimento Vestiario ed Equipaggiamento per la Guardia Nazionale Repubblicana (GNR), il piccolo esercito del duce sorretto e finanziato dalla potente Wehrmacht e dalle SS. Andammo a vivere in un appartamento di un caseggiato sotto le pendici della collina Baradello. Un vasto prato separava il palazzo da una caserma del Fascio adibita 26 principalmente ad uffici. Noi ragazzini vi andavamo a giocare. In quel periodo mia madre aveva cucito per me un cappotto guarnito di alamari, di foggia vagamente medioorientale. Avrei fatto bella figura come comparsa in una produzione del Ratto dal Serraglio di Mozart, invece fui subito oggetto di risa e beffe dei miei compagni che presero a chiamarmi “Maometto”. La vita per me scorreva tranquillamente, anche se i venti della guerra soffiavano sempre più violenti. Ricordo che i miei genitori mi portarono ad un concerto di Arturo Benedetti Michelangeli, allora giovane prodigio. Impressionato dalla musica, chiesi di imparare uno strumento. Mi fu consentito il violino, attività che perseguii fino a che le vicende del dopoguerra me lo impedirono. Andavo a lezione di violino da un maestro con lo studio vicino al lago, e per tornare a casa dalla parte opposta della città – scapestrato – mi attaccavo ai respingenti del tram, mollandoli solo quando il bigliettaio mi urlava improperi. Quando non andavo a scuola o a giocare con i ragazzini della mia età, passavo il tempo a leggere di tutto. Allora un settimanale per ragazzi molto diffuso era “Il Balilla”, in concorrenza al Corriere dei Piccoli. Le storie a fumetti del Balilla non mancavano di fare propaganda contro il nemico, in particolare la “perfida Albione”, con versi come “Re Giorgetto d’Inghilterra – per paura della guerra – chiede aiuto e protezione – al ministro Ciurcillone…”, e caricature di un Giorgio VI striminzito e un Churchill panciuto come John Bull e col sigaro tra i denti. Sotto casa spesso passavano squadre di militari della GNR, cantando a ritmo di marcia strane canzoni che mescolavano imprecazioni in diverse lingue, come: Caramba, caracho, kai whisky caramba, caracho, kai gin verflucht, sacramento, Dolores, auf Wiedersehen, Marie. Nel nostro palazzo vivevano numerose famiglie. Alcune ragazze erano diventate amiche di mia madre e 27 spesso venivano per casa a chiacchierare. Una sera mia madre, avendo notato luci uscire dalle cantine e pensando ci fossero dei ladri, avvertì mio padre e un suo amico. Scesi ad indagare, nelle cantine le luci erano tutte spente e non c’era anima viva. Mia madre quella sera aveva notato un andirivieni delle ragazze sue conoscenti, ma non vi aveva fatto molto caso. Scoprimmo in seguito, dopo la Liberazione, che le ragazze erano staffette dei partigiani, piazzate a bella posta per spiare nel palazzo dei fascisti. Mancavano pochi giorni alla fine della guerra, e nelle cantine c’era stata una riunione di partigiani, prontamente dissolta su avviso delle ragazze che ci tenevano d’occhio continuamente. Verso la fine di marzo mio padre aveva incontrato Mussolini a Salò per discutere i finanziamenti della SVE. Mio padre fece presente che i fondi erano in via di esaurimento e la situazione stava precipitando. Il duce, avvilito, gli confidò “Lo so, Torrazzi. Ma sono circondato da traditori, soltanto da traditori.” La mattina del 25 aprile 1945, un mercoledì, mi svegliai per prepararmi ad andare a scuola, come ogni giorno feriale. Ma mia madre mi disse “Oggi resta a casa”, ordine da me molto gradito. Mio padre era già uscito. Dalla finestra notai nella strada un insolito trambusto. Strane figure erano apparse, in pantaloni corti, fazzoletto rosso al collo, capelli e barbe incolti, e bandoliere di munizioni a tracolla. I partigiani erano scesi dalle montagne. Mio padre, avvertito il giorno prima dal Comitato di Liberazione, era andato a trattare con altri fascisti la resa dei militari della GNR. A lui fu chiesto di restare alla direzione dello stabilimento fino a che il caos dei primi giorni non si fosse placato, ad evitare che costosi macchinari e suppellettili fossero saccheggiati. Sgattaiolando all’insaputa di mia madre fuori di casa, trovai che il prato era costellato di armi e munizioni abbandonate dai fascisti in fuga: mitra, moschetti, pistole, pallottole, bombe a mano... Alcuni dei ragazzi più vecchi avevano subito arraffato pallottole per estrarre dal bossolo la balistite e improvvisare fuochi d’artificio. Un gioco rischioso. Dal lato opposto del prato, dalle finestre della 28 caserma con gli uffici della milizia piovevano carte, mobili, classificatori, in un’orgia di distruzione che affascinava noi ragazzi. Al calare della sera, centinaia di bengala erano lanciati nel cielo a celebrazione della fine della guerra. Una luminaria che durò fino alle prime ore del mattino per almeno due settimane. Abitavamo in un appartamento al secondo piano del caseggiato. Il giorno dopo il 25 aprile suona il campanello. Mia madre apre la porta e vede due partigiani sdraiati sulle scale di marmo con i mitra puntati, e un terzo che le chiede: “Dov’è suo marito?”. “A lavorare alla SVE”, rispose lei. “Ci faccia entrare, signora” (allora i rapporti di cortesia erano ancora in uso, anche se sotto la minaccia dei mitra), “dobbiamo perquisire la casa per vedere se avete armi.” “Accomodatevi”, disse mia madre. I partigiani non trovarono vere armi, ma solo un paio di pugnali damascati per divisa da parata, di cui si appropriarono allegramente. Poco pacifica e molto cruenta fu invece la vicenda degli inquilini del piano superiore al nostro. In quei giorni caotici vendette personali e ruberie erano perpetrate impunemente. Nell’appartamento sopra al nostro viveva una famiglia originaria della Sardegna. Il capofamiglia era il colonnello Mereu, un ufficiale della milizia impiegato negli uffici di fronte alla nostra casa. Un brav’uomo di mezza età senza nessuna velleità bellica. Un innocuo burocrate, insomma, che non avrebbe dovuto dare fastidio a nessuno. Lo stesso Comitato di Liberazione lo aveva scagionato di ogni crimine. Una mattina dei primi giorni del dopoguerra Mereu era sceso insieme alla moglie e ad una bambina a prendere una boccata d’aria nel prato adiacente al palazzo. Indossava ancora la giacca del pigiama. Mia madre, sempre al balcone col timore che qualcosa di orribile succedesse, notò l’arrivo di una Lancia col cofano drappeggiato di bandiera rossa con falce e martello. Ne scesero alcuni uomini armati che salirono a bussare alla porta di Mereu. Aprì una delle giovani figlie. “Dov’è suo padre?”. La ragazza, terrorizzata, scese con loro per accompagnarli dal padre. A Mereu i sedicenti partigiani ingiunsero “Vada in casa, si rivesta e prenda con sé tutto 29 il denaro che ha e anche dei viveri, perché dovrà star via parecchi giorni per accertamenti.” Mereu obbedì, non era il caso di discutere. La famiglia lo vide per l’ultima volta. Alcuni giorni dopo udimmo un urlo straziante. Alla moglie era stato rivelato che il cadavere del marito, spogliato dei suoi averi e denudato, era stato rinvenuto in un campo alla periferia della città. Dal balcone assistevamo al passaggio di colonne di tedeschi sconfitti e disarmati, fiancheggiati da partigiani armati fino ai denti, in marcia verso il Brennero per essere rimpatriati. Anche per loro la guerra era finita, e molto probabilmente ne erano contenti. In quei giorni anche il Ben e la Clara, come li chiamava affettuosamente lo zio Ezra, avevano cercato di espatriare camuffati da soldati della Wehrmacht, ma Walter Audisio, il “colonnello Valerio”, li aveva scovati e prontamente giustiziati contro un muro di Dongo. Una giustizia coronata dal ludibrio di piazzale Loreto. Sic transit gloria mundi. In città passavano i funerali dei caduti partigiani, in un tripudio di bandiere rosse. Al passaggio del feretro era d’obbligo salutare a braccio teso e pugno chiuso. Io, ragazzetto abituato al saluto romano, ero portato a fare proprio quello. Oliva, la cameriera che mi accompagnava, mi sbatteva giù il braccio, sibilando “Saluta col pugno chiuso, stupido!” La ragazza temeva che, a servizio in casa di fascisti, le toccasse la stessa sorte delle ausiliarie della GNR, che rapate a zero erano esposte ai lazzi della marmaglia. Una rappresaglia umiliante ma non sanguinosa. In seguito si potevano notare in giro per le strade numerosi turbanti. Una moda dettata dalle circostanze. In quei primi giorni un’altra sorpresa aspettava mia madre. Un mattino si presenta alla porta dell’appartamento un omaccione alto almeno due metri, scuro di capelli e di pelle. Salutando col pugno chiuso, le dichiara: “Sono Vernazza, sono venuto a prelevare i suoi figli.” “Perché vuole portar via i miei bambini?”, chiese mia madre, sentendosi morire ma cercando di restar calma. “Perché li voglio mettere in salvo. In questo momento voi siete tutti in pericolo, ma i bambini devono essere protetti. Io sono 30 comunista, con me saranno al sicuro.” Vernazza era un operaio dello stabilimento di mio padre che era stato licenziato perché si era sempre rifiutato di richiedere la tessera del partito fascista, obbligatoria per conservare l’impiego. Viveva nella zona di Pontechiasso, a due passi dal confine con la Svizzera, e per sopravvivere si era messo a fare il contrabbando di sigarette. Attraverso i sentieri battuti dai contrabbandieri gli sarebbe stato facile mettere in salvo al di là del confine tutta la mia famiglia. A mia madre spiegò: “Sono un comunista, ma quando lavoravo allo stabilimento suo marito è stato l’unico che mi ha sempre lasciato libero di parlare e di esprimere le mie idee in piena assemblea degli operai e delle maestranze; quindi io so che suo marito è un fascista onesto, e per questo voglio salvare i suoi figli.” Mia madre subito telefonò a mio padre, che la rassicurò: “Vernazza è una persona perbene, un idealista in politica. Non ne devi aver paura. Digli che i bambini li porteremo noi da lui.” E così una domenica andammo a mangiare la polenta a casa del compagno Vernazza, dove mio padre lo convinse a lasciarci in Italia. Dopo le prime settimane di turbolenza la situazione poco a poco andava normalizzandosi. Il Comitato di Liberazione non poteva tollerare che un fascista restasse alla direzione della SVE e aveva trovato chi poteva sostituire mio padre. Insieme ai suoi collaboratori Fausto fu messo in un campo di concentramento controllato dai partigiani, nelle vicinanze di Como. Ogni giorno le mogli dei fascisti andavano in bicicletta a portare da mangiare ai detenuti. In un pomeriggio di giugno afoso, sotto un solleone infuocato, le donne dovettero nascondersi nei campi per mettersi in salvo, inseguite da una torma urlante “Sono le mogli dei fascisti, non fatevele scappare!” Dopo qualche giorno mio padre avvertì mia madre: “Ci stanno facendo fuori poco a poco. Ogni notte prelevano uno o due di noi, e al mattino non se ne sa più nulla. Cerca di avvisare il vescovo o il comando americano.” Una delle mogli dei fascisti aveva vissuto per molti anni in paesi di lingua inglese e si precipitò ad avvertire gli americani, che immediatamente caricarono i prigionieri sui camion e li 31 sottrassero ad ulteriori rappresaglie. Per un certo periodo di tempo mia madre non seppe dove mio padre fosse finito. Poi un prete antifascista, che durante il regime si era dato alla macchia ma alla fine della guerra era tornato a prendersi cura della sua parrocchia, impietosito dalla tragedia comune a colpevoli e innocenti riuscì a farle sapere che il marito era stato internato a Coltano, nella Maremma toscana. Nell’autunno mio padre, epurato e liberato, tornò a Como. Aveva perduto molto peso, era magrissimo. “Gli americani ci davano un mucchio di sapone e di dentifricio, ma poco da mangiare”, ci raccontò. Nello stesso campo di concentramento di Coltano, separati da un reticolato, aveva incontrato un suo fratello, ufficiale d’aviazione, che non vedeva da anni. g Durante quell’estate del ’45 noi bambini eravamo stati mandati a Bellagio dai nonni, a poca distanza da Como. Mia madre era rimasta in città, dove s’industriava a far di tutto, dalle lezioni private ai lavori di cucito, per guadagnare qualche soldo nell’attesa che il marito tornasse dalla prigionia. Suo fratello, cui mia madre era molto affezionata, era un veterinario aggregato alla Divisione Alpina Tridentina. Spedito da Mussolini in Russia in appoggio all’offensiva tedesca, era stato dato per disperso. Solo al ritorno dei reduci dalla ritirata del Don venimmo a sapere che era morto di stenti in prigionia. Un cappellano degli alpini, don Gnocchi, che lo aveva assistito, ci disse “Sarebbe bastata un’arancia o un uovo per salvargli la vita.” Ma non c’erano abbastanza viveri per la stessa Armata Rossa. I piani superiori della nostra casa di Bellagio, erano stati requisiti dagli americani che vi avevano sistemato le truppe a rilassarsi in attesa di essere rimpatriate. Dai balconi i soldati lanciavano a noi ragazzini sulla terrazza del nostro appartamento sottostante caramelle “Lifesaver” a forma di salvagente, piccole barre di biscotto al cioccolato “Clark”, e naturalmente “Chiclets”, le pastiglie di gomma 32 da masticare. Un bendidio inusitato e molto gradito da noi piccoli, e con l’aggiunta di sigarette Camel anche da alcune ragazze del paese. Nelle acque del lago spesso si vedevano galleggiare dei sacchettini di gomma biancastri e flaccidi, che noi pescavamo per soffiarvi dentro e farne dei palloncini. Gli americani avevano sistemato le loro cucine da campo operanti a petrolio alla “Punta”, il punto estremo del promontorio bellagino che marca la separazione tra i tre rami del Lario, quello di Como, di Lecco e di Colico. Il petrolio dei pozzi texani ha un odore speciale per un suo tenore elevato di composti aromatici. Lo stesso odore esalato dalle cucine dei soldati mi colpì molti anni dopo al mio arrivo negli Stati Uniti, riportando la mia memoria a quei tempi lontani. Sulla piazza antistante il lago, i giovani soldati, felici di essere scampati alla carneficina, passavano il tempo tirandosi l’un l’altro palle da baseball e cogliendole dentro ad enormi guantoni. La sera, dopo aver piazzato uno schermo tra due pali piantati nell’acqua vicino alla riva, proiettavano i film girati da fotografi militari in zone d’operazione. Nessuno poteva immaginare l’orrore dei bulldozer che spingevano pile di cadaveri scheletriti dentro a fosse comuni, o i visi senza speranza dei macilenti sopravvissuti ai campi di sterminio nazista. Un commento comune era: “Tutta propaganda dei vincitori.” Prima che la realtà affondasse nelle coscienze passarono diversi anni, e ancora adesso qualcuno osa disputare la veridicità dei fatti. Gli stessi dubbiosi non si peritano di accettare come oro colato “I Protocolli dei Savi di Sion”. g La casa di Bellagio era un antico edificio di fronte al lago la cui costruzione iniziale risaliva al Seicento. Sembra che inizialmente fosse un convento di monache, in seguito acquistato da una famiglia locale di cui io sono un discendente, e restaurato per convertirlo in abitazione. Un enorme portone di legno munito di sbarre e lucchetti 33 si apriva su un androne tetro dai muri a calcina che trasudavano efflorescenze per la costante umidità del lago. Al fondo dell’androne, un cubicolo a pianterreno con una tazza del gabinetto e un minuscolo lavandino forniva gli unici servizi igienici a nostra disposizione, fatta eccezione per una vasca da bagno di metallo situata in una stanza del primo piano e un lavandino nella camera da letto dei nonni. Dal pianterreno si saliva al primo piano attraverso una scala attraversata di giorno più da penombra che da luce, e illuminata di notte da una singola lampadina da pochi watt. In cima alla scala, su un muro era affissa un’immagine del Sacro Cuore di Gesù, stillante sangue e avvolto da fiamme. Una visione che da bambino invece di riempirmi d’amor sacro m’impauriva. Ero convinto che a causa dei peccati che non avevo ancora scaricato in confessionale, il diavolo si nascondesse dietro ad una porta, pronto a ghermirmi appena gli fossi passato davanti. Mi chiedo oggi quali peccati potessi aver commesso, dato che urgenze sessuali, base dei peccati più nefasti, non erano ancora parte del mio quotidiano. Questi miei terrori infantili erano potenziati dalla lettura di storie anti-massoneria pubblicate espressamente per i bambini. Un libro, “Piccoli Martiri”, autore un certo don Pilla, narrava storie raccapriccianti di giovinetti assoldati da una malefica loggia per impossessarsi di un ostia consacrata fingendo di essere comunicandi. Una volta in possesso della santa particola, il satanico Gran Maestro l’avrebbe trafitta su un altare, facendone scaturire – miracolo! – sangue. Mia nonna mi procurava queste letture edificanti e mi avrebbe quasi convinto a fare il chierichetto se, scapestrato fin dalla più tenera età, nei miei studi liturgici non mi fossi arrestato come un asino cocciuto ai primi due versetti del messale: “Introibo ad altarem Dei – ad Deum qui laetificat iuventutem meam”. Mia nonna univa alla devozione per i santi una buona dose di superstizione. Quando saliva le buie scale dell’ingresso, per ogni tre gradini superati indietreggiava di uno, borbottando inintelligibili scongiuri. A volte la sentivo recitare giaculatorie: “Buon Gesù tu sai, 34 buon Gesù tu puoi, buon Gesù tu vuoi, buon Gesù tu vedi, buon Gesù tu credi, buon Gesù provvedi.” Oppure “O Gesù d’amore acceso, non v’avessi mai offeso – o mio caro e buon Gesù, con la vostra santa grazia – non vi voglio offender più”, dando del voi a Gesù come si soleva in regime fascista. Di un peccato capitale mia nonna continuava a pentirsi, ma recidiva, continuava a commetterlo: la gola. Conservava sotto chiave tavolette di cioccolata e scatole di cioccolatini, marron glacé, caramelle avvolte in carta variopinta, biscotti di tutti i tipi. E di rado dava a noi bambini qualche assaggio, con la scusa che ci avrebbe sciupato l’appetito. Come riuscisse a procurarsi le leccornie anche in tempo di guerra, quando anche il pane era tesserato, rimane un mistero. Forse aveva degli agganci con i contrabbandieri che dalla Svizzera portavano in Italia generi di lusso per chi li poteva comprare alla borsa nera. g Nei primi mesi del dopoguerra mia madre faceva la spola tra Como, dove poteva guadagnare qualcosa, e Bellagio, dove stavano i genitori e i suoi figli. Erano tempi di carestia, e senza il Piano Marshall avremmo patito molta fame per lungo tempo. Gli americani distribuivano scatole di latte evaporato e scatoloni di una farina di piselli secchi dal sapore abbastanza disgustoso ma ricca di nutrimento. Abituati durante gli ultimi mesi di guerra a mangiare riso bollito per farne uscire i piccoli bachi che lo infestavano e insalate di cicoria raccolta nei prati e condita col limone – senza sale perché le saline verso la fine della guerra non erano raggiungibili - anche la farina di piselli era benvenuta. Era certo più appetitosa della Vegetina, un intruglio di vegetali seccati inventato dagli alimentaristi del regime fascista, di scarso valore nutritivo e di gusto raccapricciante. Ma ci si poteva lamentare in tempi di autarchia bellica? Saremmo stati tacciati di disfattismo! Ogni tanto mia madre riusciva a portarci un pezzo di lardo o di formaggio che in qualche modo era riuscita 35 a procurarsi. I trasporti nella zona non erano ancora stati riorganizzati. La Lariana, l’azienda che operava i trasporti sul lago, non funzionava. Molti battelli che in tempo di pace solcavano il lago non avevano carbone per le caldaie o avevano bisogno di riparazioni. Per spostarsi da un paese all’altro la gente si arrangiava chiedendo passaggi ai camion e alle jeep dei militari alleati, che non si facevano pregare soprattutto se chi chiedeva il passaggio era una donna giovane. Una volta mia madre e sua sorella facevano l’autostop e una jeep con due militari neozelandesi si arrestò per caricarle. Le donne subito si resero conto delle intenzioni dei due uomini, che fissandole con occhi rapaci ripetevano: “Belle segnorine, venire con noi, mangiare bono.” Appena se ne presentò l’occasione chiesero di fermarsi a un bar di un paese sulla strada, con la scusa di andare al gabinetto. Con l’aiuto del barista, cui avevano in dialetto fatto capire cosa stava per succedere, le due donne riuscirono a sgattaiolare da una porta secondaria e a rifugiarsi ai piani superiori della casa. Dalle finestre dell’appartamento scorsero i due soldati che, dopo aver aspettato per qualche tempo, alla fine, scornati, decisero di andarsene. A Bellagio le due donne arrivarono solo a sera, grazie a un camionista del luogo. g Al ritorno di mio padre dal campo di concentramento, noi bambini tornammo a vivere con i nostri genitori a Como. La scarsità di alloggi – molte case erano state distrutte dai bombardamenti – ci forzò alla coabitazione con un’altra famiglia per alcuni mesi. Ricordo che Babbo Natale quel dicembre mi portò come dono un vocabolario di latino usato e una tavoletta di cioccolata americana. Mio padre aveva ripreso i contatti con alcuni dei suoi collaboratori, e dopo poco tempo ci trasferimmo a Rivoli Torinese, una cittadina a pochi chilometri da Torino abbarbicata sulle pendici di una collina, con le 36 strade in salita pavimentate a grossi ciottoli. Un impiegato della defunta SVE, di famiglia abbiente, avrebbe fornito i finanziamenti per iniziare la gestione di una piccola fabbrica per la produzione di prodotti dietetici. Fu fondata una società, la Salbetor, dal nome dei soci, Salvetti, l’amministratore, Bernari, il finanziatore, e Torrazzi, il responsabile della parte tecnica e della formulazione dei nuovi prodotti. La fabbrica era stata installata in un vecchio edificio, rimodernato all’interno per ospitare i macchinari: mescolatori, frantoi, bilance, presse per pastiglie. Mia madre era stata arruolata per prendersi cura delle analisi di qualità. Ricordo una vasca da bagno piena di maleodoranti gusci d’uova raccolti dai contadini e nei ristoranti della zona. Opportunamente lisciviati, risciacquati, seccati e polverizzati, i gusci servivano a produrre grissini con l’aggiunta di calcio. Un altro prodotto era un amaro tonico, ottimo, a dire della sua pubblicità, per la digestione. A Rivoli andammo a vivere al primo piano di una villetta settecentesca a metà strada tra il fondo e la cima di una collina digradante verso il corso della Dora Riparia. Il secondo piano era occupato da un’altra famiglia. Mio padre era riuscito a recuperare parte del mobilio lasciato a Roma nel ’43 e a trasportarlo nella nuova casa. Il resto della roba di Roma era stato trafugato da chi si era installato nell’appartamento di via Ufente. Eravamo molto poveri, in quei primi mesi di dopoguerra. Mio padre, per risparmiare, era riuscito a connettere i fili dell’elettricità in maniera da non far girare il contatore quando accendevamo delle stufette elettriche per riscaldarci. Non potevamo permetterci cure mediche se non in caso estremo. Un mio ascesso su una gamba, di cui porto ancora la cicatrice, era sparito dopo che mia madre, incurante delle mie proteste, ne aveva strizzato fuori il pus, disinfettandolo poi con acqua ossigenata e tintura di iodio. Le donne di casa scendevano al pianterreno per cucinare a legna in un antico caminetto incassato nel muro di un fondaco annerito da secoli di fumo. Da questa cucina si poteva uscire nel giardino della villa, forse in passato una casa di villeggiatura di qualche signorotto. Il giardino 37 era in parte coltivato da noi ad orto: pomodori, piselli, lattuga. Ma l’aspetto signorile del minuscolo parco, con una gran vasca centrale in cui nuotavano pesci rossi, era stato mantenuto da noi inquilini. Ai bordi del muro di cinta mi rifugiavo in un boschetto di noccioli a leggere i libri dei miei genitori: “Pian della Tortilla” di Steinbeck, “Il Placido Don” di Sholokhov, “La Storia di San Michele” di Axel Munthe. Dai balconi della casa la vista spaziava su una fuga di prati, siepi e filari d’alberi, per perdersi nella striscia d’argento del fiume, la Dora. Quella visione mi tornò alla mente anni dopo, leggendo “Il Barone Rampante”. In quell’anno a Rivoli mi iscrissi ai Boy Scouts. Delle due fazioni esistenti in Italia, quella cattolica e quella laica, scelsi la seconda, perché di messe, vespri e processioni ero già stato rimpinzato a Bellagio. Però il mio interesse per imparare ad annodare stringhe in cento modi e ad accender fuochi sotto la pioggia si dileguò in pochi mesi. Alle riunioni non mi feci più vivo. Uno scapestrato come me non poteva tollerare nessuna forma di irregimentazione. L’esperienza mi convinse a non iscrivermi mai più ad associazioni di qualsiasi tipo, in particolare, a partiti politici. Anni dopo mi capitò di leggere una definizione dei Boy Scouts: “Una banda di ragazzini vestiti da cretini, con in testa un cretino vestito da ragazzino.” Non so se lo abbia detto George Bernard Shaw, Tom Antongini – l’arguto segretario di D’Annunzio – o Pitigrilli. La Salbetor, l’impresa di mio padre e dei suoi soci, avrebbe dato ottimi frutti nell’Italia della ricostruzione, in via di gran sviluppo dopo il passaggio del paese dall’economia basata sull’agricoltura all’industria. Ma mio padre soleva dire: “Sono a favore della dittatura purchè sia io il dittatore.” In sostanza, il disaccordo tra i soci, favorito dalla mentalità di mio padre, ebbe come conseguenza la dissoluzione della ditta. Mio padre si dedicò ad altre attività, e non avendo più nulla da fare in Piemonte, la famiglia ancora una volta si trasferì a Bellagio. g 38 BELLAGIO Pipe fatte in casa e attacchi di diarrea – I fantasmi del cimitero – Piaceri e crudeltà – Mark Twain a Bellagio – Lo zio Pasquale – Il nuovo pisciatoio – Soprannomi – Il tuffo dal battipalo – Il maestro Bobby O’Silber – Rizzino in barca – Marilù, contessa DeViel “Maledetto san Guelfo e tutta la sua progenie schifosa!”, gridava mio nonno Turi quando si arrabbiava con me, forgiando una variopinta bestemmia a mio uso personale. Colonnello della Finanza in pensione da molti anni, pur avendo vissuto al nord dell’Italia la maggior parte della sua vita non aveva scordato le sue origini di siciliano focoso, e ogni tanto i vicini potevano godere delle tenzoni familiari, quando contrariato dalla moglie o dalla figlia il nonno sbottava in pittoresche imprecazioni: “ ‘A fissa!”, gridava il nonno, un richiamo alle pudende femminili scarsamente comprensibile a chi non conoscesse il dialetto siciliano. Oppure: “Sangue d’a maronna!”. A queste sue sfuriate le donne alternavano gridolini, svenimenti, e giaculatorie a contrappasso di ogni bestemmia, fino a che la calma non tornava. Ma la maggior parte del tempo il nonno era un simpatico vecchio che passava ore pescando pesciolini dalla riva del lago, le “arborelle” che integravano il magro vitto impostoci dal tesseramento; e brontolava tra i denti contro i ragazzini che lo disturbavano “Bastasi! Figgh’jarrusa!”, imputando alle loro madri una propensità al meretricio. 39 Per passare il tempo quando non andava a pescare il nonno faceva piccoli lavori di falegnameria, sedie pieghevoli su cui sedersi con la canna da pesca in mano, o tavolini per pranzare al fresco sulla terrazza di casa in vista del lago. Ma soprattutto scavava pipe da rami di ciliegio e le decorava di intagli. Fumava di continuo, un vizio che gli costò morte prematura, e raccoglieva amorosamente ogni cicca che poteva trovare per ficcarla nelle sue pipe fatte in casa. Andavo con il nonno dai contadini a comprare per pochi soldi frutta: mele, fichi o ciliegie, secondo la stagione. Ne approfittavamo per rimpinzarci mentre la raccoglievamo sugli alberi. Poi correvamo a casa, colti entrambi da attacchi di diarrea, e chi arrivava primo usufruiva dell’unico gabinetto disponibile, mentre l’altro impazientemente batteva alla porta del cubicolo: “Fai presto!”. Una mia incombenza era quella di andare la sera dai contadini nelle frazioni in collina del paese a prendere il latte appena munto. Seduto nella stalla, li osservavo mentre mungevano e alla fine mi veniva data da bere una grossa tazza piena di schiuma tiepida. Il bidoncino del latte, portato a casa senza inciampare – sarebbe stata una tragedia - era conservato in una ghiacciaia in estate; allora i frigoriferi non esistevano. D’inverno la ghiacciaia era superflua, bastava mettere il latte al fresco sulla terrazza. Nelle notti d’inverno, rigide al punto di coprirmi di geloni i piedi, lungo la strada coperta di ghiaccio dovevo passare vicino al cimitero, e se la tramontana soffiava tra i pioppi intorno alle tombe ero convinto che fantasmi vi si aggirassero per spaventarmi. (D’estate mi aspettavo di scorgere fiammelle guizzanti a fior di terra, fuochi fatui come le anime dei morti.) Il gelo delle notti d’inverno a Bellagio è indimenticabile. Quanto il paese era incantevole d’estate, tanto era freddo e inospitale d’inverno. I negozi e gli alberghi erano aperti per i turisti solamente in estate. Solo i pescatori di lucci e di anguille si avventuravano sul lago, spesso in burrasca o sotto una coltre di nebbia. A volte il 40 brutto tempo bloccava all’ancoraggio anche i battelli che trasportavano merci e passeggeri da una sponda all’altra del lago. Il freddo e l’umidità permeavano la casa, dove una sola stanza era riscaldata da una stufetta a legna. La sera la nonna o la zia riempiva d’acqua bollente dei grossi recipienti di latta zincata e li metteva sotto le coperte per riscaldare il letto prima di ritirarsi per la nottata. Al mattino ci si staccava a fatica dalle coltri per affrontare il gelo della stanza. Per lavarsi si usava spartanamente l’acqua gelata, o si riscaldavano sulla cucina economica a carbone grandi bacili d’acqua. g Nella casa di Bellagio, dal pianerottolo con il raccapricciante quadro del Sacro Cuore in fiamme si saliva ad un secondo piano attraverso una scala stretta e ripida, fiancheggiata da grandi fotografie di parenti morti giovani ai primi del secolo. Erano i fratellastri di mia nonna, morti in battaglia durante la Grande Guerra, o d’influenza “spagnola”, o di setticemia a seguito di una banale infezione - allora gli antibiotici non erano ancora stati scoperti. Sul pianerottolo del secondo piano si aprivano tre stanze. Due di esse, piene di luce, davano su una terrazza. La terza dava su un vicolo ed era stata adibita a polveroso ripostiglio di vecchi libri, riviste e cianfrusaglie, ritrovo favorito di topi. In famiglia quella stanza, di solito chiusa a chiave, era chiamata “la miniera”. Se vincendo il timore di salire al secondo piano sotto lo sguardo severo degli antenati schierati contro il muro riuscivo ad entrare in miniera, vi trovavo tesori inaspettati: una Divina Commedia illustrata dal Doré, vecchi giocattoli, una collezione di fantastiche dispense intitolata “Piaceri e Crudeltà umane - Dalla crocifissione classica alla fustigazione parigina”; era un’enciclopedia del sadomasochismo, ma scritta in uno stile bonario e familiare, più consono all’Almanacco del Barbanera che alle fantasie del Divino Marchese. Le dispense erano illustrate 41 efficacemente da Filiberto Scarpelli, un rinomato artista dei primi decenni del XX secolo. Illustrazioni titillanti per chi a quei tempi non aveva a disposizione ogni mese una nuova copia di Playboy. Molti anni dopo, durante una mia visita a Bellagio, ritrovai alcune delle dispense, rosicchiate dai topi. Le conservo ancora. Eccone un saggio, tratto dal capitolo “Crudeli stranezze religiose”: “In quest’epoca che le genti di Talbot presero incarico di rendere indimenticabili nello spirito dei paesani, tredici villaggi pagavano le decime e le gabelle a coloro che formano le vergogne dei paesi fra Nostra Signora di Clery e Rondon. Di questo tempo avvenne che fu portato piato presso la signoria di Montbrisson, perché una ragazza, la Coquerelle aveva commercio col demonio. Il signor di Montbrisson rimase profondamente colpito. La Coquerelle, che era una graziosa ragazza, non dall’aria di strega, ma dal tipo piacente, grassottella e ben formata, dal naso capriccioso, la bocca rotonda, il petto sobbalzante, fu portata davanti al Tribunale in mezzo a quattro arcieri di Meung, gentilmente prestati dalla circostanza da Monsignore arcivescovo, il quale, pieno di buona volontà aveva anche prestato il suo carnefice meno cornuto, ma senza dubbio infinitamente più piccoso (il testo ha cornard contrasto di cornu, bisticcio intraducibile) del Diavolo. Guillaume le Poulard depose d’aver visto Satana nella persona della suddetta Anna Coquerelle di Meung, e che tanto dibatteva la strega il malefico spirito ch’ella si agitava e sbatteva come gli stendardi del Signore d’Orléans. Anna Coquerelle, la graziosa, tutta disperata per la brutta, inattesa avventura, non sapeva che piangere, sollevando il suo bel seno ricolmo, come un piccione in primavera. Sbrighiamoci, disse il Signore di Montbrisson, che non aveva finito di mangiare. Ordinando…la Corte dichiara…considerando… 42 Anna Coquerelle da Meung è condannata a subir le verghe per grazia di Monsignore il vescovo e per cura del boia, a solo fine di farle confessare il suo odioso commercio con l’Anticristo. Il boia prese la Coquerelle, che strillava come una gallina, e cominciò a sollevarle i panni come si farebbe a una ragazzina a scuola, per isculacciarla. Le gote di… quell’altro viso della giovinetta apparvero rosee come pomi da cogliere, e niente affatto cotte e rosolate come il commercio avuto col diavolo avrebbe potuto far supporre. Vedi, - disse il Signore di Montbrisson a Guillaume le Poulard (Guglielmo il Pollo) che l’aveva accusata; - ti par’egli che questa ciccia sappia d’arrosto? Eppure, signor giudice, l’assicuro che tutto ciò sapeva d’inferno come ventimila diavoli. Allora andarono avanti e il boia messa la ragazza in posizione, cominciò a frustarla sulle parti posteriori, e frustandola , frustò tanto la cicciuta fanciulla che essa, dimenandosi e inarcando la schiena e urlando come un’aquila spennata viva, en montrait plus qu’un baladin en foire (lascio stare il testo nella sua integra curiosità). Il diavolo maligno che senza dubbio era in lei , sotto quella scarica di vergate approfittò, trovandosi male a suo agio, di un buon momento e si salvò sotto forma…(e qui il lettore si aiuti da sé perché il testo mezzo Francese e mezzo Provenzale si spiega anche troppo chiaramente) sotto forma di un fiato che produsse il rumore di un pezzo di olona lungo un braccio strappato in due! Ecco, gridò Guglielmo il Pollo, mentre il boia dalla sorpresa cascava a pancia all’aria, ecco Astharoth, Belzebù, Asmodeo, insomma, chi c’era dentro!” g Il collezionista delle immorali dispense era senza dubbio un mio prozio. Pasquale era l’unico sopravvissuto dei numerosi figli di secondo letto di Eugenia, la mia 43 bisnonna materna. Vedova in giovanissima età del primo marito, e con due figli bambini, uno di loro mia nonna, Eugenia si era risposata con un “napulitàn”. Francesco, anzi Ciccillo, come lo chiamavano in famiglia, era un giovane commerciante in coralli, madreperla, pettini di tartaruga e cammei di avorio e giada; i prodotti di ditte napoletane che trovavano posto nelle vetrine dei negozi per turisti di Bellagio, uno dei quali era di proprietà della mia bisnonna. Dopo il matrimonio Ciccillo aveva smesso di viaggiare e si era stabilito a Bellagio per gestire il negozio della moglie. Con la sua collaborazione Eugenia aveva messo al mondo altri cinque figli, di cui quattro maschi, tre di loro morti anzitempo per varie cause; erano i fratellastri di mia nonna Venanzia, figlia di primo letto. I loro austeri e vagamente lugubri ritratti fiancheggiavano la scala che saliva al secondo piano della casa. Pasquale, il sopravvissuto, era il più anziano dei cinque fratelli. Ciccillo era un uomo di bell’aspetto, modo di fare soave, conversazione interessante, molto curato nella persona e sempre elegantissimo – passava ore a far toeletta e si cambiava per andare a pranzo e a cena. Un ganimede che aveva conquistato facilmente il cuore della giovane vedova. Aveva una sola debolezza: gli piacevano le donne; una pecca comune alla maggior parte degli uomini, repressa da lui a fatica e mal tollerata dalla moglie. Uno “sfizio” che gli era rimasto anche in età avanzata. Raccontano che una giovane signora francese, una cocotte di passaggio, sostava spesso davanti al negozio di Ciccillo; in vetrina c’era un pettine di tartaruga che le piaceva molto, ma forse non poteva permettersi di acquistare. Al vecchio Ciccillo invece piaceva molto la signora. Finì che i due si accordarono per uno scambio di cortesie: lui le avrebbe regalato il pettine e lei gli avrebbe ceduto le sue grazie. Il convegno che ne seguì fu di gran soddisfazione sia per il vecchio che per la signora, avendo entrambi ottenuto quello a cui miravano. Ma quando la cocotte rientrò in albergo per gingillarsi davanti ad uno specchio con il pettine tra i capelli, qualcuno le fece notare che il pettine non era quello della vetrina ma uno di falsa tartaruga. Delusa e furiosa, la donna corse dal 44 vecchio per gridargli: “Monsieur, vous m’avez foutue deux fois!”. g Per il suo clima mediterraneo addolcito dal lago e la bellezza dei dintorni, in un remoto passato Bellagio aveva ospitato ville di patrizi romani, uno di loro Plinio il Giovane. Nel corso dei secoli il paese era restato una destinazione prediletta da villeggianti e visitatori. Tra loro, anche Franz Liszt. Il musicista vi aveva soggiornato insieme all’amante Marie de Flavigny, contessa d’Agoult, che aveva mollato marito e figlia per seguire Franz, più giovane di lei di sei anni. Mark Twain, di passaggio a Bellagio, ne ha lasciato una descrizione non molto lusinghiera in un suo diario di viaggio, “Gli Innocenti all’Estero”: “Lasciammo Milano in treno. La cattedrale sei o sette miglia alle nostre spalle e montagne di sogno vaste, bluastre, coperte di neve, venti miglia davanti a noi, erano i punti salienti dello scenario. Lo scenario più immediato consisteva di campi e fattorie fuori del vagone, e un nano con una testa mostruosa e una donna baffuta dentro ad esso. Ahimè, deformità e barbe femminili sono troppo comuni in Italia per attrarre l’attenzione. Passammo attraverso una catena di colline selvagge e pittoresche, scoscese, coperte d’alberi, a forma di cono, con aspre rupi sporgenti qua e là, e con abitazioni e castelli in rovina appollaiati sulle cime, protesi verso le nubi sospinte dal vento. Pranzammo nella curiosa vecchia città di Como, ai piedi del lago, poi prendemmo il vaporetto per un pomeriggio di piacevole escursione in questo posto – Bellagio. Scesi a terra, una squadra di poliziotti (gente i cui cappelli a bicorno e appariscenti uniformi farebbero sfigurare le più belle uniformi dei militari degli Stati Uniti) ci mise in una piccola cella di pietra e ci chiuse a chiave dentro. L’intera lista dei passeggeri ci faceva compagnia, 45 ma avremmo preferito aver più spazio, perché non c’erano finestre, né luce, né ventilazione. Era uno stanzino chiuso e soffocante. Eravamo troppo stipati. Era il Buco Nero di Calcutta su scala ridotta. Ed ecco che del fumo prese a salire ai nostri piedi. Un fumo che puzzava di ogni cosa morta della terra, di ogni putrefazione e putridume immaginabile. Restammo in quel posto cinque minuti, e quando ne uscimmo era difficile distinguere chi di noi esalava la fragranza più disgustosa. Questi miserabili reietti […] ci avevano fumigato per proteggersi dal colera, benché noi non provenissimo da nessun porto infetto. Tuttavia essi devono tenere a bada le epidemie in un modo o nell’altro, e la fumigazione costa meno del sapone. Devono lavarsi oppure fumigare il prossimo. Alcuni appartenenti alle classi inferiori morirebbero piuttosto di lavarsi, ma la fumigazione di stranieri non gli crea alcun cruccio. Non hanno bisogno di fumigare se stessi. Le loro abitudini non lo rendono necessario, si portano addosso il preventivo: sudano e fumigano tutto il giorno. Io credo di essere un umile e coerente cristiano. Cerco di agire nel giusto. So che il mio dovere è di “pregare per coloro che ti trattano crudelmente”; e perciò, per quanto sia difficile, cercherò ancora di pregare per questi suonatori di organetto che fumigano e preparano maccheroni imbottiti.”. Però in seguito Mark Twain ammette, forse a malincuore ma in un tono lirico: “Dalla mia finestra qui a Bellagio ora ho una vista dell’altro lato del lago bella come un quadro[…] su questa vasta tela, il sole, le nuvole e la più splendida delle atmosfere hanno mescolato mille tinte, e sopra la sua superficie scivolano luci ed ombre trasparenti, un’ora dopo l’altra, e lo glorificano con una bellezza che sembra un riflesso del Cielo stesso. Certamente, questa è la scena più voluttuosa su cui abbiamo mai posto gli occhi.”. 46 Dai balconi di casa io potevo godere della stessa visione. Sullo specchio del lago, come un colosso pacifico ammantato di verde, il monte Crocione si ergeva contro un cielo di cobalto, la sua immagine riflessa nel lago; ai suoi piedi si stendevano paesi inerpicati sui pendii e punteggiati da ville patrizie circondate da parchi traboccanti di fiori. Nei pigri pomeriggi d’estate, l’acqua solcata da barche e vaporetti sciabordava dolcemente contro rive e pontili, in contrappunto al brusio delle conversazioni che saliva dai portici e dai giardini degli alberghi. g Tra gli ultimi decenni del XIX secolo e i primi del XX, Bellagio era diventato una meta turistica di lusso, con alberghi e ritrovi predisposti per una clientela internazionale di personaggi ricchi e altolocati. I negozi sfoggiavano sete di alta qualità, una produzione locale. I cuochi degli alberghi si sbizzarrivano in elaboratissimi manicaretti. Nei giardini delle storiche ville in riva al lago si eseguivano concerti col contributo di dive del bel canto. Tutto questo prima che il turismo di massa del secondo dopoguerra avesse declassato il paese. Non più il dominio di signori in cilindro e signore dalle gonne sbuffanti, i prati e lo stupendo lungolago ogni finesettimana si ritrovavano coperti di cicche e cartacce del salame. Dalle piazze dilagavano lungo le strette “salite” a gradoni i cori di metallurgici in gita sociale, brandenti fiaschi di lambrusco, mentre a riva i barcaioli strillavano “barchetta, signori” per invogliare le comitive a gite da una sponda all’altra. La domenica don Carlo, il prevosto, dal pulpito della chiesa di San Giacomo tuonava contro le turiste nordiche, colpevoli di esibire ai paesani appetitose visioni di poppe, cosce e deretani: “Queste donne d’oltralpe che calano sui nostri paesi a tentare i nostri bravi giovani mettendo in mostra più di quanto la decenza consenta e ponendo a repentaglio col loro cattivo esempio la purezza delle nostre giovani!”. 47 Zio Pasquale, nato e cresciuto a Bellagio ai tempi dell’eleganza, come molti bellagini aveva scelto la carriera alberghiera, e ancora giovane diventò direttore del Grand Hotel de la Ville a Milano, un ritrovo dei bei nomi del tempo. In famiglia conserviamo ancora un album rilegato in pelle con commenti autografi di gente famosa, ospiti del De la Ville: musicisti, scrittori, attori, politici, giornalisti, dive del bel canto. Toscanini e Arrigo Boito, Umberto Nobile e de Pinedo si erano limitati alla firma, ma la Bellincioni Stagno vi aveva scritto “Arte e amore…croce e delizia!”; Matilde Serao “E che è mai il viaggiatore moderno se non il pellegrino errante degli antichi tempi?”; e Trilussa vi aveva lasciato un inedito: Chi vive senza fede e senza amore nun pô sentisse l’anima tranquilla: la fede è l’acciarino che scintilla in le speranze che ci avemo in core… Ospite del De la Ville era stata anche Luisa Tetrazzini, un soprano di coloratura di fama mondiale. Pasquale ne fu tanto ammaliato che lasciò la direzione dell’albergo per diventarne il segretario personale. Ma questa attività non durò a lungo. Stanco dei capricci da primadonna della diva, tornò a Bellagio per vivere con i genitori e aiutarli nella gestione del loro negozio. Pasquale era un uomo intelligente, sensibile e di temperamento artistico. Coltivò molti interessi al di fuori della sua professione. È probabile che fosse “gay”, ma a quei tempi “l’amore che non osa dire il suo nome” non era ancora uscito dall’armadio. Una sua fotografia lo mostra vestito da donna, in costume per una recita di “La zia di Carlo”, una commedia degli equivoci della Belle Époque. Molti anni dopo la sua morte, rovistando tra le cianfrusaglie accumulate da generazioni nella “miniera” trovai in un vecchio baule una serie di poesie scritte da Pasquale e raccolte sotto il titolo “Vena Poetica”. La maggior parte delle poesie era in dialetto bellagino; alcune erano non solo in italiano, ma in francese, inglese e tedesco, 48 lingue che Pasquale nella sua professione di albergatore parlava correntemente. Figlio di una bellagina e di un napoletano, Pasquale mescolava nei suoi versi la caricatura e il grottesco tipici di molta poesia dialettale ad un pizzico di sentimento partenopeo. Un suo vecchio amico, sopravvissutogli di molti anni, mi disse che Pasquale usava il dialetto per avvicinarsi il più possibile alla comunità cui sentiva di appartenere. Nella vecchia Bellagio, tra due delle “salite” che congiungono la riva del lago con la parte superiore del paese, esisteva uno stretto vicolo in cui ai tempi di Pasquale era stato costruito un vespasiano utilizzato da chi, andando di fretta, doveva scaricarsi. Il nome popolare assegnato al vicolo era “La Streccia della Merda”. Eccone il ritratto di Pasquale: El Pissatoi Noeuv Propi attach alla rampa, giò lì ‘n fond al streccion an fà su ‘n pissatoi de quij bei, tutt quattaa. Per nun chi de Belàs, l’è na gran novitaa in confront de quel vegg lì de sott del stradon. Non ghe l’ho in simpatia e l’ho semper schivaa, varden tucc qui che passa, e go ‘n poo sudizion. Mi pittost che ‘ndà dent, la foo giò in di colzon, go pagura di volt che anca ‘l cu ciappa fiaa. Se de foeura i me senten, girarìa i coion e l’è facil, parchè quand se pissa ghè ‘l pett, se de no l’è un violin sonaa su senz’archett, e mi stoo col proverbi…e foo minga maron. [ Il Pisciatoio Nuovo Proprio accanto alla rampa, laggiù in fondo al vicolaccio han fatto su un pisciatoio di quelli belli, tutto coperto. Per noi qui di Bellagio è un gran novità in confronto a quello vecchio, lì sotto allo stradone. 49 Io non l’ho in simpatia e l’ho sempre schivato, tutti quelli che passano guardano, e ho un po’ di soggezione. Io piuttosto che andar là dentro, la faccio nei calzoni, ho paura che a volte anche il culo si lasci andare. Se di fuori mi sentono, mi girerebbero i coglioni ed è facile, perché quando si piscia c’è il peto, altrimenti è un violino suonato senz’archetto; io mi attengo al proverbio…e non faccio marronate.] Pasquale morì a soli quarantasei anni. Dicono che la sera prima avesse chiesto al parroco di confessarlo perché presentiva imminente la morte. Il sacerdote, sapendo quanto Pasquale amasse scherzare, non lo prese sul serio ma lo accontentò. Pasquale fu trovato morto nel suo letto il mattino dopo. Non fece in tempo a imparare a suonare il pianoforte, un desiderio espresso in una delle sue poesie. Suicidio? È probabile. Ma preferisco credere a una sua capacità di premonizione che rende la sua fine più poetica. g A Bellagio, con qualche eccezione, chi non si chiama Gilardoni si chiama Gandola. Forse per evitare equivoci, quasi tutti hanno un soprannome, spesso di origine oscura, ma sempre notevole per fantasia creativa. Luigino, lo spazzino comunale, era conosciuto in paese come Luisìn Papàna. Il nomignolo glielo aveva affibbiato proprio mia nonna, quando da ragazzina lo prendeva in giro per via di una sua balbuzie che gli impediva di pronunciare correttamente il suo cognome, Capanna. I capelli me li tagliava lo “Sceriffo”, il barbiere con negozio antistante il sagrato della chiesa di San Giacomo patrono di Bellagio. Non so quale nesso ci fosse tra il buon uomo e il Far West. Aspettando di sottopormi alle sue arti tonsoriali, ascoltavo Scerìff, un uomo di età e statura media, 50 che spettegolava con altri clienti: “La Berenice me piàs minga. L’è pussee brutta de un rospo e la spuzza de formai. A l’è na gran pelanda, la va in giesa e poeu la mena i ciapp del cu e fa balà i tett giò sul stradon…”. Quando arrivava il mio turno mi saltellava intorno mentre mi tosava, chiedendomi sarcastico quando mi sarei ancora una volta “trà giò dal battipalo”, una mia avventura di cui racconterò in seguito. Ricordo che ogni volta che mi sedevo sulla poltrona girevole lui mi poneva il quesito – in italiano, perché io non ero un bellagino nativo: “Dimmi Guelfo, quanto fanno sette chiappe, quanto fanno sette chiappe?”. Io fingevo ogni volta ignoranza, per sentirlo dichiarare trionfante: “Tre culi e mezzo!”. Sandrino, un giovane che con ghigno ironico sfotteva tutti, aveva preso di mira in particolare un ragazzo piuttosto corpulento, che lui chiamava “Pinguino”, e si sbizzarriva a creare variazioni sul tema. Per esempio, incontrandolo gli declamava con voce cantilenante da benedizione urbi et orbi, “Pascete i pingui polli”. Il nomignolo spesso resta in famiglia, tramandato di generazione in generazione, come un patronimico. “Rabbino” era il soprannome del nonno, del padre e del figlio, un mio compagno di giochi. La famiglia era cattolicissima, quindi non era chiaro come mai gli avessero appioppato quel soprannome. Il soprannome di Gianni “Negus” invece aveva chiara origine; il ragazzo, forse figlio di un meridionale, era scuro di pelle come un ascaro. Gianni aveva un’enorme collezione di fumetti, che mi prestava con generosità magnanima. Passavo interi pomeriggi in compagnia di Jim Toro, il marinaio dalla maglietta a strisce in perenne lotta con la Hong del Dragone nei vicoli della Città Cinese a San Francisco; dell’Uomo Mascherato e dei pigmei Bandar; di Mandrake e Lotar, di Cino e Franco. I primi fumetti di Jacovitti con le avventure di Pippo, Pertica e Palla erano usciti sul Vittorioso, un settimanale per ragazzi cattolico. Jacovitti non immaginava che un giorno avrebbe illustrato il Kama Sutra. Gianni Negus mi aveva prestato un’intera annata del Vittorioso. Questo mio interesse per i fumetti destava grande preoccupazione in mia madre perché 51 “avrebbero rovinato il mio italiano”. Chissà, forse aveva ragione. Ma a bilanciare l’influenza perniciosa dei fumetti sui miei temi in classe c’era l’antologia della letteratura italiana, un testo scolastico che leggevo con interesse in battello, attraversando il lago per andare a scuola a Menaggio, sulla sponda opposta a Bellagio. Mi piacevano molto le origini del volgare, antichi versi esotici come Rosa fresca aulentissima ch’apari inver la state le donne ti disiano pulzelle e maritate Scapestrato senza rimedio, leggevo l’antologia invece di fare i compiti. g “Ganassa” era un giovane bellagino, così chiamato per via di un gonfiore alla guancia sinistra, come se un bolo di tabacco da masticare vi si celasse perpetuamente. Era il corrispondente del Corriere della Sera da Bellagio. Un pomeriggio d’estate, nel porticciolo della Punta mi ero tuffato dalla cima del battipalo, un pesante maglio che sollevato da un argano in cima ad un alto traliccio metallico e lasciato cadere, era usato per affondare a furia di colpi sul fondo del lago i pali d’attracco ai pontili dei battelli. Finito con le gambe dentro alla melma e alle alghe del fondo, per miracolo ero riuscito a districarmi e nuotare a riva. La notizia dell’impresa rischiosa, che non mi sarei più azzardato di ripetere, aveva fatto il giro di Bellagio, dove tutti si conoscono e sanno tutto di tutti, come a Clochemerle. Ganassa, sempre in cerca di notizie da spedire al Corriere, cercava di convincermi: “Dai, Guelfo, tuffati un’altra volta dal battipalo…”. Forse sperava di mandare al giornale un servizio originale: “Giovane annega nel porticciolo di Bellagio dopo un tuffo azzardoso…” g 52 Durante l’estate, la sera orchestrine suonavano ballabili nei giardini antistanti gli alberghi, in vista del lago. Una di queste orchestre era diretta da un violinista che tutti conoscevano come Bobby O’Silber, il suo nom de guerre. O’Silber non era un irlandese come il nome farebbe supporre, ma un normale italiano. Beh, non esattamente normale. Amava circondarsi di giovinetti con cui organizzava cacce al tesoro, gite in barca, e altre attività cui io non partecipavo; preferivo leggere i libri della biblioteca comunale, arrostendomi al sole in una sedia a sdraio sulla terrazza di casa. Dalla terrazza osservavo gli andirivieni di O’Silber e della sua coterie, ma non sospettavo traffici illeciti. Sandrino, più scaltro di me, invece mi recitava una sua versione dei misteri del rosario: “Nel primo mistero gaudioso si contempla il maestro Bobby O’Silber – che col cazzo fatto a Spielberg – inculava i microbi”, unendo in un delirante connubio liturgia, Silvio Pellico e le sue prigioni, sodomia e microbiologia. Poi Sandrino se ne andava canticchiando a metà in dialetto una sua fantasia erotica, su un’aria di blues: “Alleluia alleluia – nella camera buia – i ciula, i ciula – che goduria…” ; oppure dando versi di sua invenzione a “In the Mood” di Glenn Miller: “Dammi il cul Teresa, dammi il cul Teresa…”. Anni dopo lessi un trafiletto sul Corriere: “Roberto Silberi, musicista senza fissa dimora, è stato arrestato sotto l’accusa di atti osceni nei confronti di minorenni.”. g Ero diventato amico di Maurizio, in famiglia preferivano chiamarlo col diminutivo “Rizzino”, un ragazzo di qualche anno più vecchio di me, rampollo di una ricca famiglia milanese che possedeva una villa sul ramo di Lecco del lago, quello che volge a mezzogiorno tra due catene non interrotte di monti. La famiglia di Rizzino veniva a Bellagio durante i mesi estivi, quando le scuole erano chiuse. Rizzino aveva una barca a remi ancorata in una piccola darsena ai piedi di un sentiero che dalla villa scendeva ai bordi del lago. Nei pomeriggi di sole, spesso 53 m’invitava a fare un giro in barca. Arrivati in mezzo al lago, si sedeva a prua e mi ingiungeva: ”Rema tu, e non guardare.”. Con la coda dell’occhio invece lo vedevo manipolare un voluminoso arnese che aveva estratto dal costume da bagno, cantando Va serenata celeste, celeste come gli occhi di una donna che rassomiglia tanto a una madonna, serenata celeste, e nulla piu`... La barca rollava a ritmo con il canto e le gesticolazioni che culminavano in un getto biancastro da mini-geyser , un ululato di esultanza, e un sorriso estatico che avrebbe fatto invidia alla Santa Teresa del Bernini. Dalle ville intorno al lago i villeggianti muniti di binocoli di certo osservavano con interesse le ginnastiche di Rizzino. g A Bellagio ci sono eleganti caffè-pasticcerie, dove d’estate turisti e gente del paese siedono ai tavolini per chiacchierare “al fresco”, ordinando caffè, bibite e paste. Da bambino, la domenica aspettavo con ansia che i nonni, dopo la messa grande, mi portassero a prendere il gelato al caffè dell’Hotel Du Lac. In una di quelle estati avevo incontrato un ragazzo simpatico, Enzo Jannacci; un liceale che per guadagnare qualcosa suonava, e molto bene, jazz-piano in uno degli alberghi, l’Hotel Splendide. Mi invitò a fargli visita a casa sua a Milano, e incontrai suo padre, un meridionale, e sua madre, una milanese da cui Enzo aveva imparato il dialetto meneghino. Enzo era esattamente il mio opposto: quanto io ero scapestrato e con la testa tra le nuvole, tanto lui era disciplinato e creativo. Durante una sua prolungata malattia, costretto a letto fece uso di quella pausa involontaria per imparare la chitarra. Del suo talento ebbi prova quando con le sue canzoni agrodolci in dialetto conquistò un grosso pubblico come cantautore. Alla fine del liceo Enzo 54 si era iscritto a medicina, e combinando studi impegnativi con la sua attività di artista si laureò e dedicò parte del suo tempo all’esercizio della professione medica. Un impegno eccezionale. Lo rividi molti anni dopo in un cabaret di Milano, si ricordava ancora di me. C’erano altri personaggi straordinari a Bellagio. Il dottor Lonati, un medico del circondario, viveva a Loppia, una frazione del comune. Arrivava in paese per i suoi giri professionali in bicicletta, sempre elegantemente vestito in giacca e panciotto, in testa una paglietta e pantaloni stretti alla caviglia con una molletta per non sporcarli, scappellandosi al passaggio di ogni signora. Un Maurice Chevalier di paese. Una sua parente era molto più bizzarra. Bella donna in gioventù, Maria Luisa Nava, contessa De Viel, era nota a Bellagio semplicemente come “la Maria Nava”, ma amava farsi chiamare Marilù. Da vecchia viveva in una specie di torretta in cima a una casa del paese in compagnia di gatti e pappagalli in gabbia. Non sentendosi più obbligata a convenzioni sociali, e forse un poco demente, Marilù civettava allegramente con tutti gli uomini che entravano nel suo raggio d’azione, e per questo era molto biasimata dalle beghine del paese. D’estate, al suono delle orchestrine per i villeggianti, paludata in scialli variopinti si lanciava in danze sfrenate alla Isadora Duncan sul tetto a terrazza della grande darsena a lato del Lido, lo stabilimento balneare di Bellagio. Erano danze punteggiate da capriole da far invidia a una giovane. I ragazzotti del paese, ridendo a crepapelle, la incitavano a maggiori exploits tersicorei; lei, incurante dei lazzi, si lanciava in balzi e piroette sempre più arditi, ridendo felice. Oggi la contessa Marilù riposa per sempre nel camposanto di Bellagio, un fantasma che non mi dispiacerebbe incontrare. g 55 56 INTERLUDIO IN ALTO ADIGE A Bressanone – Boschi, sentieri e laghetti – I frati tedeschi – Al liceo-ginnasio “Dante Alighieri” – Madonne pellegrine – Partenza per il sud – Un infortunio di viaggio Per frequentare l’ultimo anno del ginnasio ero finito a Bressanone, in Alto Adige – l’ex-Südtirol – a poca distanza dal confine del Brennero. La mia famiglia si era temporaneamente spostata a Varna, un paesetto a qualche chilometro da Bressanone dall’aspetto più austriaco che italiano: prati falciati alla perfezione, vigne e frutteti ben curati, casette dipinte di colori tenui, un Gasthof con la Stube rustica riscaldata da una stufa di maiolica. La lingua autoctona preferita dalla popolazione locale era il tedesco; una lingua non soppiantata dall’italiano, idioma foresto importato dal governo di Roma dopo la fine della Grande Guerra e tollerato a malapena dai proprietari di masi che a sentirlo parlare brontolavano nel dialetto locale: wolsche Focken, un improperio indirizzato agli allogeni. Sentieri tagliati tra i boschi di castagni e conifere si inerpicavano verso la cima di picchi rocciosi. D’inverno i giovani contadini, coi grembiuli blu e i feltri con le piume di gallo cedrone, scendevano in paese sui sentieri ghiacciati, scivolando a rotta di collo a cavalcioni di slitte. D’estate andavo a nuotare in un laghetto incastonato tra i boschi e circondato da ciuffi di canneti in mezzo a cui sguazzavano le anatre. Nei viottoli vedevo rotolare carri 57 colmi di fieno trainati da buoi o da cavalli. Covoni di grano di forma quasi conica punteggiavano i campi. In autunno i meli erano sovraccarichi di frutta e ai piedi dei castagni i ricci semi-aperti lasciavano scorgere lucidi cuori marrone scuro. Dai frati di un convento sulle pendici di una collina avevo appreso i rudimenti del tedesco: Ich bin, du bist, er ist…In quel convento pare si fosse rifugiato alla fine della guerra un figlio di Martin Bormann, il gerarca nazista sparito dopo il crollo della Germania senza lasciar traccia. Il giovane Bormann aveva indossato il saio e preso gli ordini sacri per espiare le atrocità del Terzo Reich. Ma dopo un periodo in Africa da missionario, era tornato in Europa, il saio lo aveva gettato alle ortiche, e si era sposato, fermo restando il suo rifiuto dell’ideologia nazista. g A Bressanone, una cittadina ai piedi di una stretta valle cinta da alte montagne, la maggiore attrazione era il “piatto dell’elefante”, un enorme vassoio di carni e affettati servito appunto all’Hotel Elefante. Il liceo-ginnasio era situato ai bordi di un giardinetto, in un vecchio edificio nella piccola piazza dell’antico duomo, sede di generazioni di principi-vescovi i cui stemmi ne adornavano le mura. La mia era una classe mista, e cominciavo a provare un nuovo interesse per le grazie acerbe delle mie compagne: Deli Accinella, Silvana Pergher, Lalla Puntone. Di quell’anno scolastico ricordo due professori, quello di latino e greco, Claudio Annaratone, bonario e paziente con gli allievi, figlio di Alessandro, noto grecista e co-autore dell’annoso ma autorevole vocabolario latino “D’Arbela, Annaratone e Cammelli”. Ricordo pure l’insegnante d’italiano, Oddo Bronzo, un giovane professore dal temperamento irritabile, insofferente delle diavolerie di noi ragazzi. Bronzo fu poi per molti anni sindaco di Fortezza, la ridente località altoatesina. 58 Benché i democristiani avessero ottenuto la maggioranza alle elezioni del primo Parlamento, nel dopoguerra il “pericolo rosso” era sempre incombente, dato l’ingente numero di voti per il partito comunista. Erano i tempi del Piano Marshall, e il Dipartimento di Stato americano aveva decretato: “Votino pure gli italiani per i comunisti, ma non si aspettino poi i nostri aiuti economici”. All’idea di tirare ancora la cinghia e posporre la ricostruzione, era imperativa l’intercessione del potere divino. Fu così che cominciarono a circolare per tutta l’Italia processioni notturne, con torme di fedeli che impugnavano candele al seguito di un baldacchino sotto al quale ondeggiava un venerato simulacro. Dalle folle si levavano cori: Mira il tuo popolo, o bella Signora, che pien di giubilo, oggi t’onora. Anch’io festevole corro ai tuoi pie’, o santa Vergine, prega per me. Erano le processioni della Madonna Pellegrina, sicuro antidoto contro la lunga mano sovietica. Noi ragazzini eravamo affascinati dal fiume di luci e suoni che scorreva sotto le nostre finestre. Grazie a Gesù e a sua mamma l’invasione dei senzadio fu scongiurata e i cavalli dell’Armata Rossa non arrivarono ad abbeverarsi nelle acquasantiere di piazza San Pietro. g Quell’anno dorato in Sud-Tirolo finì troppo presto, quando prima dell’autunno per decreto paterno fui rispedito in Sicilia. Allora non esistevano i treni veloci Eurostar, e per andare dal Brennero in Sicilia ci si metteva più di una giornata. Il treno correva lungo la costiera bagnata di sole e di mare. Noi italiani spesso non ci facciamo caso, ma gli stranieri adorano l’Italia per questa sua luce abbacinante, per questi colori inebrianti. 59 Per risparmiare si viaggiava in terza classe, insieme a intere famiglie che dalle città del nord, Torino, Milano, dove avevano trovato lavoro, tornavano a visitare i parenti in Campania, in Calabria e in Sicilia. Le donne avevano preparato pasti completi schiacciati dentro a contenitori d’alluminio inseriti l’uno sull’altro in una specie di colonna. All’ora del pranzo e della cena aprivano quelle scatole di metallo e ne saltavano fuori pastasciutta, bistecche, uova sode, salamini, formaggi, e dalle sporte di tela pagnotte, fiaschi di vino e frutta. Un bendidio che veniva offerto anche ai compagni di viaggio, nella tradizione della gente del meridione. Ci si fermava a un mucchio di stazioni, soprattutto al sud. Nell’afa estiva i viaggiatori scendevano dal treno durante le brevi fermate per riempire d’acqua le bottiglie alle fontanelle delle stazioni. A Paola, in Calabria, durante una fermata mi ero affacciato al finestrino in attesa che il treno ripartisse. Dalla pensilina la gente correva di ritorno per saltare sul predellino. Un uomo, attardatosi per riempire le sue bottiglie, era corso verso il treno che già si era messo in moto. Ma giunto all’altezza del mio vagone era scivolato e finito con entrambe le gambe sotto le ruote, sotto gli occhi allibiti dei viaggiatori. Un fischio del capostazione aveva subito arrestato il convoglio, e gente si era precipitata a soccorrere lo sfortunato. In shock sulla pensilina, perdendo sangue a fiotti, il pover’uomo si lamentava flebilmente: “Guardate cosa mi è successo…”. Poi il treno aveva di nuovo cominciato a muoversi lentamente e la scena si era allontanata, restando per sempre nella mia memoria. g 60 APPRODO A BOLZANO Sfollati e alluvionati – Il Liceo Carducci – Classi miste o monosex – Gite scolastiche - Primo giorno di scuola – Preside, professori e studenti – Memorie di un maestro – Regie benedizioni - Conflitti matematici – Al cesso il miscredente! - Zia Flora e zia Hilde - Cronache medioevali – Franchir la frontière – Vassalli e valvassori - Sciare a buon mercato – Il foglio di via Proveniente da Messina, dove per decreto paterno ero andato a vivere per un anno con sua madre, la burbera nonna Bettina, arrivai a Bolzano nel tardo autunno del 1951. Era il tempo dell’Alluvione del Polesine. Alla stazione ferroviaria giungevano in continuazione torme di alluvionati, uomini e donne con facce stravolte, bambini piagnucolanti, vecchie infagottate in lugubri panni. Tutti erano prontamente assistiti da crocerossine e dame della San Vincenzo, che distribuivano caffè, panini e vecchi cappotti a chi pensavano ne avesse bisogno. Io pure mi sentivo un po’come uno sfollato, sbalestrato da Bressanone a Messina e infine tornato in Alto Adige, a Bolzano, dove avrei dovuto frequentare la seconda liceo. Il Liceo Giosuè Carducci di piazza Domenicani era un vecchio edificio di un paio di piani che emanava un leggero tanfo di stantio. I banchi di legno scuro mostravano nomi e scritte, alcune modicamente oscene, intagliati da generazioni di studenti che ci avevano preceduti. Dal portone si entrava in un atrio alle cui pareti venivano 61 affissi dentro a una bacheca i risultati dei nostri esami, per l’ammirazione o il ludibrio dei visitatori. Alla destra del pianoterra era l’alloggio del bidello e lo scalone di marmo da cui si saliva ai piani superiori. Fui assegnato alla Seconda A, una classe di soli maschi. La Seconda B era una classe mista, per lo più di ragazze che indossavano durante le ore di scuola grembiuli neri a coprire modestamente grazie in boccio che avrebbero potuto destare qualche interesse negli sparuti maschi loro compagni. Dalle finestre della mia aula, l’ultima al fondo del corridoio, potevo scorgere solo il nudo muro della chiesa dei Domenicani, che allora non ricordo fosse aperta al culto, e sporgendomi, uno scorcio della piazza e di via Goethe. Una vista completa della piazza era consentita all’ufficio della segreteria e allo studio del preside, situati a un estremo del corridoio di forma ad “elle”. La Seconda B era meno fortunata della A, quanto a panorami. La loro aula stava sul lato corto della “elle” e probabilmente le loro finestre davano su un cortile. Forse perché esposte a minori distrazioni, le ragazze della Seconda B erano scolare più diligenti dei maschi della A. Non ricordo dove si trovassero le aule della terza liceo. D’altra parte, esisteva una certa separazione di classe sociale tra noi e la terza: a loro mancavano solo pochi mesi prima di accedere alle aule universitarie, posto che avessero superato gli scogli dell’esame di maturità. Coi ragazzi della terza – Piero Villa detto Pancho, Sergio Mazzini, Fiorini, il Tumer – ci si ritrovava invece nei pullman organizzati dalla scuola per andare a sciare la domenica. Escursioni che di solito terminavano tra canti della montagna fomentati dalle bottiglie di vino che circolavano tra coloro che, meno fortunati, non avevano una partner per pomiciare indisturbati nei sedili posteriori. g 62 Il primo giorno di scuola fui squadrato con curiosità dai miei nuovi compagni: Arrigoni, Benso, Camberle, Fenoglio, Ganzer, Gennari, Lagraste, Melazzi, e DeRobertis. Anzi, DeRobertis si aggiunse in seguito, anche lui di provenienza foresta. Gli altri erano bolzanini di data più o meno antica. Avevo incontrato Manlio Benso in via Museo, alcuni giorni prima che cominciasse la scuola. Manlio aveva un paio d’anni più di me. A me, ragazzino prepubere, era apparso come un adulto, alto, poderoso, col labbro carnoso e l’aspetto di giovane sicuro di se. Stava appoggiato indolentemente alla Vasca, la fontana all’inizio della strada, punto di ritrovo dei giovani per il paseo della sera. Mi diede alcune informazioni e si congedò con bonaria cordialità. Lo rividi dopo in classe, dove aveva già avvertito gli altri del mio arrivo. Fui esaminato, squadrato, e bene o male accettato. Al timone del Liceo Carducci stava il preside Bentivoglio. Fascista di vecchia data e ognor devoto all’ancien regime, prima della guerra era stato Provveditore agli Studi di una città della Sardegna. Epurato, era stato riciclato dal Ministero della Pubblica Istruzione ed era approdato al Liceo Carducci. Fascista o no, teneva famiglia. Di lui ricordo l’erre moscia e la propensità a tastare i glutei delle studentesse per accertarne paternamente la consistenza. Più che seguirne i dettami di funzionamento della scuola, del tutto arbitrari, i professori ne tolleravano la presenza. Quello che più mordeva i freni era il professor Cecchi, un siciliano sulla quarantina, pelle scura da saraceno e sguardo ironico; un uomo intelligente e ben poco disposto alla sottomissione gerarchica. Aveva un paio di lauree, Cecchi, una in filosofia, l’altra in legge. Uscito indenne dal crogiolo della guerra, in attesa di migliori occasioni sbarcava il lunario parlandoci di Kant e della ragion pura. Gratta gratta – ci diceva, gesticolando con una sigaretta perennemente accesa tra le dita ingiallite dalla nicotina – sotto ci trovi il noumeno. “Gratta gratta” lo diceva col suo esotico accento del sud temperato da anni di soggiorno al nord. Aveva sposato una delle sue allieve di un’altra scuola, il professor Cecchi. Una giovinetta che, 63 assai più giovane di lui, non aveva potuto resistere al suo fascino. Non si fermò molto tempo al Carducci, Cecchi, ma trovò lavoro a Milano come legale di una ditta. Molti anni dopo Arrigoni mi raccontò che aveva abbandonato la famiglia per fuggire in Brasile con una ballerina…Un personaggio che sembrava uscito da un romanzo di Brancati. Il professor Collareta era il nostro insegnante di italiano. Un uomo di taglia solida e portamento dignitoso, fiero delle sue origini contadine, dissodava le nostre teste per piantarvi i semi di una letteratura gloriosa. Era rispettato, Collareta, ma se dalle sue lezioni imparavo le storie di Orlando furioso o innamorato e quelle dei bravi manzoniani, non ne traevo grande ispirazione. Chi invece mi aveva colpito fin dal primo istante era il professor Moggio. Il primo giorno di scuola entrò in classe e senza preamboli intonò: Levommi il mio penser in parte ov’era quella ch’io cerco e non ritrovo in terra: ivi, fra lor che ‘l terzo cerchio serra, la rividi più bella e meno altera. Una quartina incisa per sempre nella mia memoria! Francesco Moggio, laureatosi in lettere antiche alla Cattolica di Milano prima della guerra, e risucchiato nel maelstrom bellico come molti altri suoi coetanei, ne era sortito indenne per continuare una carriera di docente di latino e greco nelle scuole medie superiori. Una carriera forse modesta agli occhi di chi valuta solo il soldo, ma apprezzata da tanti. Il giovane professor Moggio è ricordato da Geno Pampaloni nelle sue memorie “I Giorni in Fuga”: “Tra gli altri mi piace ricordare i due giovani professori di greco, entrambi preparatissimi ed entusiasti di insegnare. Il primo, di Bolzano, si chiamava Moggio; biondo e sottile. Quando un tema in classe mi veniva bene, lo leggeva lui ad alta voce. ‘Questo vostro compagno’, disse 64 65 una volta, ‘sembra destinato a divenire un grande critico’. A parte il ‘grande’, aveva azzeccato.” Quando lo incontrai io, Moggio non era più il biondino della giovinezza di Pampaloni. Alto, segaligno, il cranio onorato dalla calvizie, me lo immaginavo con indosso la toga di senatore dell’antica Roma, quando modulava i versi della prima ecloga: Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi Silvestrem tenui Musam meditaris avena* Non si limitava a scandire quei limpidi esametri, il professor Moggio, ma li modulava come la melodia di un sottile flauto di canna: Ti–ty-re tu pa–tu-lae re–cu-bans, la-fa diesis-re, la-fa diesis-re, la-fa diesis-re, la. Forse anche Virgilio li cantava allo stesso modo. Aveva il temperamento, la bizzarria e il senso dell’umorismo di un artista, Moggio. Un giorno, nel mezzo di una lezione, si arresta di colpo davanti alla finestra e ad alta voce esclama “Piscione!”, suscitando un coro di risate. Aveva adocchiato un poveraccio che stava orinando sul muro della chiesa di fronte... Entrava in classe, apriva il registro, e intonava: “Oggi sentiamo...”, e nella pausa gravida di apprensione noi bisbigliavamo “Arrigoni, Arrigoni...”. E Moggio trionfalmente concludeva “...Arrigoni!”. Il povero Arrrigoni, primo in ordine alfabetico, sembrava tradizionalmente condannato all’inquisizione e si schermiva “Ma no, basta, professore, mi ha già interrogato l’altro ieri...”. Moggio, impassibile – ma senza dubbio sogghignando dentro di sé – ripeteva apodittico “Arrigoni!”. Marùlo, un allievo di una classe inferiore parcheggiato temporaneamente nella nostra aula, ebbe le temerarietà di mollare un peto durante una lezione del prof. Moggio. Imperturbato, Moggio si voltò e fissandolo scandì ad alta voce: “Marùlo, l’atleta del culo!” * Titiro, tu sdraiato all’ombra d’un faggio fronzuto improvvisi una melodia agreste sul tuo flauto sottile. 66 Purtroppo la vita a Moggio fu matrigna. Mi dissero che da pensionato si era ritirato a vivere lontano da Bolzano, mi sembra a Bassano del Grappa. Resta nella mia memoria come un grande maestro. Le scienze ce le doveva insegnare la signora BajRomano, una parente del noto pittore Enrico Baj. Non so che tipo di istruzione avesse ricevuto la signora, ma da un punto di vista retrospettivo posso garantire che di chimica ne sapeva molto poco. Però si ostinava a pretendere che tutti noi si imparasse a puntino il ciclo dell’azoto. Fernando Gennari si era specializzato nella bisogna, e ne sfoggiava la conoscenza per la delizia della Baj-Romano, che ce lo additava ad esempio. Dubito che le nozioni scientifiche di Gennari si estendessero al di là del fatidico ciclo, ma à la guerre comme à la guerre. Fernando abitava con la famiglia in un appartamento di piazza Domenicani, a due passi dalla scuola. Su una delle pareti di casa c’era una sua foto di quando aveva tre o quattro anni, con la didascalia manoscritta “Il suo destino è sul mare”. Evidentemente il padre, ex-ufficiale della regia marina, nutriva sogni di trionfi marittimi per il figlio. Sfortunatamente Gennari fu riformato alla visita di leva per insufficienza toracica, e finì per laurearsi in giurisprudenza. Di lui ricordo la sconfinata devozione ai Savoia, e conservo una sua fotografia in cui, in ginocchio, invoca la benedizione regale della principessa Maria Beatrice, allora tredicenne, in visita a Bolzano e non ancora dedita agli amori coi poveri ma belli. Matematica doveva insegnarcela la professoressa Henin, una figura patetica provata dalla vita. Il suo fidanzato era morto in guerra, e da allora la donna, inconsolabile, aveva trovato qualche conforto nel vino. Mi aveva preso in simpatia, la Henin, e spesso chiudeva un occhio sulle mie lacune di studente svogliato. Al contrario, ce l’aveva con Gio’ DeRobertis, non si sa come mai. Forse perché il giovane era troppo perbene. Lui si faceva in quattro per provarle il suo attaccamento alla trigonometria, lei gli dava voti mediocri e inversamente proporzionali 67 alla sua devozione. La mamma di Gio’ era pure andata a protestare presso il preside, sbandierando a buona ragione l’impegno del figlio: “Se non prende buoni voti non ce la farà ad entrare all’Accademia!...”. Ma la Henin, dura, se la cavava dicendo che comunque il ragazzo avrebbe dovuto affrontare gli esami di maturità. Tutto è bene quello che finisce bene, come dice il Bardo di Stratford on Avon: DeRobertis entrò all’Accademia, andò alla Scuola di Guerra, e finì in pensione come generale a quattro stelle. Senza mai colpo ferire. In preparazione agli esami di maturità, io me la cavai con dieci lezioni private sovvenzionate da mio padre, mediante le quali il professor Farias dell’Istituto Tecnico Industriale mi iniziò senza troppi sforzi ai misteri del calcolo. Non posso trascurare un personaggio importante: don Vinotti, l’insegnante di religione, disciplina cui il Concordato tra il regime di Mussolini e la Santa Sede ci aveva condannato per un’ora alla settimana. Un’ora che io, seduto negli ultimi banchi, passavo a fare i compiti di matematica senza prestare la minima attenzione alle omelie di don Vinotti sulla transustanziazione. Un giorno però, assorbito com’ero dalla risoluzione di qualche equazione quadratica, non mi accorsi che don Vinotti si era avvicinato di soppiatto. Strappatomi di mano il quaderno, corse a una finestra e lo scagliò nella piazza sottostante. Il mio commento a sangue freddo fu “gesto poco cristiano”. Ne seguì l’urlo del buon pastore: “Fuori!”. E così quel giorno passai il resto dell’ora di religione nei gabinetti, meditando sui concetti di immanenza e trascendenza. Devo ammettere però che don Vinotti non mancava di un suo senso dell’umorismo. Era lui che aveva appiccicato a Piero Villa il soprannome di Pancho, soprannome diventato così popolare da aver fatto dimenticare il vero nome di battesimo. E quando andava in montagna coi giovani di Azione cattolica, don Vinotti si univa ai loro cori. Un canto favorito era una parafrasi di: “Non è ver che sia la morte – il peggior di tutt’i mali…”. I versi di Metastasio erano diventati: “Non è ver che sia la merda – il peggior degli alimenti – specie per chi non 68 ha denti – e non puote masticar”. Per fortuna la Chiesa, se non tollerava le oscenità di stampo sessuale, accettava benignamente le scurrilità di tipo scatologico. g Il primo giorno di scuola i miei nuovi compagni si preoccuparono di confidarmi le tendenze politiche di ciascuno. Io, che per la politica ho sempre avuto un interesse modico, poco a mio agio sia con i fascisti che con i comunisti, li ascoltavo senza poter dichiarare alcuna aderenza ideologica. Di Nino Lagraste mi dissero “È un fascista”, ancora oggi mi domando come mai. Forse perché Nino era un ragazzo di statura non alta ma aggressivo come un galletto bantam. A me lui era simpatico, proprio per questo suo furore giovanile. Viveva in un grande appartamento di piazza Walther, col fratello minore, la madre e due o tre zie. Una zia era una giornalista di un giornale locale: “Alto Adige”? “Dolomiten”? Un’altra era la professoressa Flora Pinelli, una collega di mia madre che insegnava francese in una delle scuole locali. Mia moglie la ricorda con affetto perché zia Flora rideva di gusto quando Milena mescolava il dialetto della Val di Non a un suo francese maccheronico. Al pomeriggio si finiva a casa di Franco Fenoglio, giovane di molteplici talenti: suonava il piano, schizzava caricature, e soprattutto era una delle stelle della scuola, designato dal preside Bentivoglio a lottare per l’onore del Liceo Carducci in tornei culturali studenteschi del genere “Lascia o Raddoppia” insieme a Camberle, il primo della classe. Camberle, miles gloriosus, avendo vinta una corsetta al campo sportivo durante l’ora di ginnastica, ci aveva dichiarato con orgoglio “primo nello studio, primo nello sport”. A casa di Franco si giocava a poker per pochi soldi, sotto il benevolo sguardo di sua madre, l’indimenticabile Tante Hilde. Io, che di soldi non ne avevo mai, mi limitavo a guardare alle spalle dei giocatori, imparando i tris e le scale. Nozioni mai applicate nel corso della mia vita, per pigrizia. 69 Franco abitava in un appartamento della casa all’angolo di via Leonardo da Vinci e via Cassa di Risparmio. Salendo le scale del palazzo dove abitavano i Fenoglio, o navigandone il vecchio ascensore, non immaginavo che a un paio di piani di distanza viveva Milena, la ragazzina con cui, a partire da alcuni anni più tardi, avrei convissuto felicemente more uxorio per una trentina d’anni e forse più. Al pianoterra, dal lato di via Cassa di Risparmio, c’erano gli uffici della RAI, che credo prima della guerra ospitassero gli uffici dell’analogo Ente Italiano Audizioni Radio, l’EIAR del regime fascista di cui ricordo le trasmissioni dei discorsi di Mussolini e le canzoni patriottiche: “La Canzone dei Sommergibili” (che passano rapidi ed invisibili); “Orticello di Guerra”; “Camerata Richard”; e “Vincere, vincere, vincere!”. Franco, dopo un breve assaggio della Facoltà di Scienze, optò per le pandette a scapito degli alambicchi e iniziò a lavorare in RAI fin da studente. Erano gli albori di una brillante carriera di cronista sportivo che lo portò in giro per il mondo, di olimpiade in olimpiade. Giornalista in erba, Franco contribuiva alle gazzette locali cronache di vita studentesca del presente, ma amava leggere e raccontarci quelle del passato; ne ricordo una, la storia di Arnaldo da Laives: Il manoscritto che va sotto il nome di Codex Arnaldicum, (C.A.) di cui incunaboli si conservano sia nella Biblioteca dei Musei Vaticani che alla Laurenziana, e` opera di Arnaldo da Laives (da non confondere con Arnaldo da Brescia, condannato a morte per eresia nel 1155). A.d.L., un chierico vagante originario del Tirolo, era il secondogenito del padrone di un maso chiuso. Non avendo pertanto diritto all’eredita` paterna cerco` dapprima fortuna nello studio delle pandette all’ateneo patavino. Cola` A.d.L. acquisto` rinomanza come Minnesänger, cantando nelle taverne le gesta della reggia di Corinto e del Mistico Fiore, accompagnandosi col liuto. I testi dei madrigali erano derivati da una sua interpretazione degli Annales Roridae Begoniae, di cui frammenti attribuiti da alcuni storiografi a Diodoro Siculo e da altri a Strabonio sono raccolti in 70 un manoscritto illuminato dall’amanuense benedettino Ataulfo di Borgogna. Imprigionato dal bargello patavino per non aver sborsato cento scudi dopo una notte di depravazione nel bordello della rinomata mezzana Ilaria del Portello, A.d.L. riusci` a fuggire e torno` in Tirolo per lavorare come umile servo della gleba nel maso paterno. Ma avendo sedotto col suo canto la pulzella Dorothea, figlia di Sigismund von Bayern principe-vescovo di Bressanone, fu costretto a fuggire anche da Laives. Alla fine trovo` rifugio nell’Abbazia di Benediktbeuren (Bura Sancti Benedicti) sotto falso nome: Arnaldo il Solitario o the Loner, come lo aveva ribattezzato Rufus Mahoney, un monaco suo amico membro dell’Ordo Sancti Patricii, confraternita di templari irlandesi. Colà Arnaldo passo` il resto della sua vita nella compilazione del codice omonimo e nella composizione di poemi in tardo latino e Alt Deutsch. E` a lui attribuito da alcuni autori il carmen buranum No. 90, “Exiit diluculo - rustica puella” , in cui Arnaldo magistralmente maschera la forma in volgare “di lu culo” con quella in latino “diluculo”. g Non ero il più giovane della classe. Mauro Melazzi era più giovane di me di alcuni mesi. Mauro era un ragazzo “con la testa sulle spalle”. Figlio unico, era molto affezionato al padre, il comm. dott. Remo Melazzi, capo della Questura di Bolzano. Ogni tanto andavo a casa sua, e suo padre mi trattava sempre con affettuosa simpatia, forse perché mi interessavo a cose senza uso, come, per esempio, la poesia di François Villon. Il dott. Melazzi, un intellettuale, era molto contento che io parlassi un po’ di francese, una lingua che gli piaceva, e che dicessi correttamente“franchir la frontière” invece di “passer”. E dava del testone al figlio, che avrebbe detto “passer”. Ma Mauro era un ragazzo con i piedi a terra e non con la testa fra le nuvole come me, e i fatti della vita ne hanno provato il successo, anche se invece di varcare frontiere si sarebbe limitato a passare attraverso di esse. Di Mauro conservo una foto fatta a Cattolica, in 71 spiaggia, seduto su un moscone insieme a una giovinetta sua amica. Non erano poveri, ma erano assai belli. Il mio compagno di scuola preferito – non so se lui lo sapesse – era Arnolfo Ganzer. Figlio di coltivatori di Laives, un sobborgo di Bolzano, aveva una mente acuta e modi di fare genuini, non corrotti dalle pretese sociali della media borghesia bolzanina. In altre parole, Arnolfo non aveva la puzza sotto al naso. Parlerò di lui più a lungo in un’altro capitolo di queste memorie. Manlio Benso era un vassallo dei tre fratelli Reucci. Attraenti, sportivi, sulla cresta dell’onda in seno al tout Bolzano, i Reucci avevano creato uno stile, prontamente adottato da imitatori-adoratori, che andava dai blue jeans con le tasche bordate da cuciture esterne di filo chiaro alle biciclette trascinate a mano su e giù per via Museo all’ora della “vasca”, il paseo serale. Ma di Emanuele – detto Manolo – in particolare Manlio era lo scudiero, il vessillifero, il fedele palafreniere. Manolo, sciatore spericolato, che periodicamente esibiva con orgoglio una gamba ingessata e abbondantemente autografata da estimatori, frutto di qualche ruzzolone fatto a velocità pazzesche. Dopo una discesa particolarmente rischiosa completata senza traumi, Manolo, di buon umore, canticchiava sull’aria di Noche de Ronda: “Dile que la quiero – che g’ho ‘l cul de fero – dile che son qua…”, oppure ci recitava un suo distico ispirato da odori e rumori: “Pet, repet, contrapet – sloffa, pavana, soffiet”. I fratelli Reucci avevano una baita all’Alpe di Siusi, dove un gruppo di ragazzi campeggiava durante le vacanze natalizie, per andar su con uno slittone e giù sugli sci spendendo pochi soldi. Un albergo delle vicinanze forniva lavandini e gabinetti per un minimo di comfort. Nello stesso albergo alloggiavano le famiglie di alcune nostre compagne, quindi non ci si sentiva soli nell’androceo della nostra baracca. Tramite le buone grazie di Manlio ero riuscito ad accodarmi al gruppo come valvassore dei Reucci. In mezzo alla baita stava una grande stufa di maiolica che ci impediva di morire assiderati durante la notte. Ma durante il giorno spesso splendeva il sole, e non 72 di rado si poteva sciare in maniche di camicia. Di quegli inverni mi restano alcune fotografie e molti ricordi. Durante l’estate a cavallo tra la seconda e la terza liceo mia madre aveva organizzato per la famiglia una vacanza in campeggio insieme a due sue amiche, giovani maestre delle elementari. Prese a prestito le tende dal Club Alpino di Bolzano, eravamo partiti verso la Toscana per piantarle nella pineta di San Rossore in Versilia, non lontano dalla spiaggia del Tirreno dove avremmo passato la maggior parte della giornata. Il campeggio non era ancora di moda e la pineta non era invasa da torme di campeggiatori. Tra i pini marittimi si vedevano poche tende. Quelle più vicine alle nostre erano occupate da un gruppo di studenti pisani che subito avevano fatto amicizia con le ragazze. La sera, intorno a un falò, quei moderni rapsodi accompagnandosi con le chitarre cantavano le esilaranti vicende di Luca Cava in piazza con la sua ragazza. Quando pioveva ci si rintanava nelle tende, ascoltando in silenzio il fruscio dei rami e il tamburellare delle gocce sulla tela che ci riparava. L’ansimare delle onde si udiva nella distanza e si mischiava al profumo degli aghi di pino. Non mi dilungo a parlare delle tamerici salmastre ed arse e dei mirti divini, a quello ci ha già pensato D’Annunzio. Ma chi leggesse “La pioggia nel pineto” dovrebbe udire come sottofondo musicale il Valzer di Musetta. Puccini al piano nella sua villa di Torre del Lago respirava il vento della pineta. Per me e le mie sorelle quella vacanza, troppo breve, fu memorabile. Dovendo tutti tornare a Bolzano, convinsi mia madre a lasciarmi per un paio di giorni a Firenze. Con una tenda mi sistemai in un campeggio vicino a Piazzale Michelangelo. Dalla grande balaustrata del piazzale la vista spaziava sulla gloria di Firenze: l’Arno, il Ponte Vecchio, la cupola di Brunelleschi, il campanile di Giotto… Scendendo in città scoprivo per la prima volta le porte del Ghiberti, gli Uffizi. I giorni passavano più veloci del previsto. A un certo punto mi resi conto che avevo speso anche i soldi per il biglietto del treno che mia madre mi aveva lasciato pensando che tornassi a Bolzano quasi subito. Al campeggio, l’ultima notte la passai all’addiaccio 73 non avendo di che pagare per l’uso della tenda. Il mattino dopo, affamato ma imperterrito, mi presentai in Questura. Il commissario di turno ascoltò la mia storia dopo avermi chiesto documenti che ovviamente non avevo. Nello zaino avevo solo un paio di libri di scuola col mio nome. Il buon commissario si accontentò. Dopo aver scartabellato i suoi registri e appurato che non ero un fuggiasco, mi fece telefonare a mia madre per rassicurarla, e mi congedò con il foglio di via per indigenti e una piccola somma di denaro che mi consentì di sfamarmi prima di salire in treno e arrivare trionfalmente a Bolzano. Avevo 16 anni. g 74 ANCORA A BOLZANO Danze in montagna – L’avvinazzato in Lambretta – Vita dai Mumelter e in via Cesare Battisti – Fascisti o comunisti? – Braghella & Testina – Di fronte al Navarro – Caste sociali – La terza liceo All’Alpe di Siusi noi ragazzi si stava in baita, ma le ragazzine nostre coetanee andavano in albergo. Loro avevano portato da casa i dischi preferiti, e la sera si ballava: “Only youuuu” dei Platters, “Le retour des saisons” di Trenet, “In un palco della Scala” del Quartetto Cetra. Gli altri ballavano, io, brutto anatroccolo, guardavo e ascoltavo. Non si andava a sciare solo all’Alpe di Siusi. Si andava a Malga Zirago, a Corvara, a Cortina, ma soprattutto in Val Gardena, a Selva e a Ortisei. Io mi ero comprato un paio di vecchi sci, ma con gli attacchi Kandahar (modernissimi!), alla Compravendita Gries, un negozietto al principio di via Fago, a due passi da dove abitavo nei primi tempi di vita a Bolzano. Nei dintorni c’era un vecchio cimitero dove la notte qualche coppietta trovava asilo; e il Tennis Club, dove l’anziano maestro Nemety, muovendosi a scatti come una marionetta per colpa dell’artrite, insegnava ai ragazzini i rudimenti della racchetta. La Compravendita Gries era un fondaco zeppo di cianfrusaglie, di proprietà di un uomo sulla quarantina, perennemente ubriaco. Mi additava la moglie - una donna ancora giovane e 75 abbastanza piacente, ma cui una vita scarsa di soddisfazioni aveva marcato la fronte di rughe premature - e mi diceva sogghignando “Poco pettoruta, poco pettoruta...”. Poi saltava su una Lambretta antidiluviana e scompariva verso Sarentino. Mia madre, le mie due sorelle ed io, in attesa di tempi migliori avevamo trovato alloggio in una mansarda in cima a una casa a tre piani, tra Viale Principe Eugenio di Savoia e via Guncina. Un vecchio edificio di proprietà della famiglia Mumelter, all’angolo di via Fago con un viottolo che terminava a ridosso del colle Guncina. A pianterreno i Mumelter gestivano un’osteria da cui la sera salivano canti di avvinazzati. Noi vivevamo in due stanze. In una, che comprendeva una piccola cucina in una torretta che sporgeva “an der Ecke”, stavano mia madre e le ragazze. Io avevo l’altra stanza tutta per me. L’avevo tappezzata con dei pannelli di cannicci, come una capanna da isolano dei Caraibi, e la sera ascoltavo con una radio a galena Alberto Sordi, appena esordiente con “I compagnucci della parrocchietta”; oppure Mike Bongiorno, un oscuro annunciatore che allora trasmetteva dagli Stati Uniti notizie, commenti e jazz per conto della Voce dell’America. Bongiorno ancora non aveva trasportato in Italia il popolare programma televisivo americano “The $64.000 Question”, ribattezzandolo “Lascia o Raddoppia” e facendo la sua fortuna. g Durante la mia terza liceo finalmente fu assegnato a mia madre un appartamento in via Cesare Battisti, in un blocco di due fabbricati gemelli. Ogni palazzina era di quattro piani e otto appartamenti, progettati dall’architetto Piontelli, che andò a vivere in uno degli appartamenti. Per una bizzarra decisione del buon architetto gli appartamenti non erano connessi a un impianto di riscaldamento centrale, ma termosifoni erano stati installati in tutte le stanze, e quindi ci si arrangiava con caldaie a carbone o a legna individuali poste in mezzo 76 alla casa, sopportando fumi e puzze fino a che mia madre non convinse quattordici coinquilini a condividere le spese di un impianto di riscaldamento centrale. Due rifiutarono di aderire all’impresa, uno di essi Piontelli. L’uomo aveva preferenze del tutto personali, anche in campi che avevano poco a che fare con l’architettura. Ma di queste sue preferenze particolari ne sanno più di me i giovanetti di allora appartenenti all’Azione cattolica. In coincidenza al nostro trasferimento nella nuova casa stava per essere completato un nuovo e molto più elegante edificio proprio di fronte ai nostri balconi. In questa casa si trasferirono la famiglia del questore Melazzi, padre del mio compagno Mauro, quella del preside Bentivoglio, e i Mazzei – il dott. Mazzei mi sembra fosse il vicequestore. I Mazzei avevano tre figlie, Tina, Mimì e Vera, dolci dirimpettaie del quinto piano e oggetto di inconfessate passioni. Il preside Bentivoglio aveva due figli maschi e una o due femmine. Col figlio maggiore, Benito, ho avuto qualche rapporto. Ero invitato ogni tanto alle sue festine in cui si ballava il liscio a luce soffusa, in un’atmosfera densa di sussurri e sospiri. Benito, come suo padre, in principio era fascista fino al midollo. Penso che gli fossi simpatico – o forse gli servivo a far numero – perché una volta mi convinse ad andare con lui a Trieste, spese pagate, a un raduno di neofascisti. L’ospite d’onore sarebbe stato Sir Oswald Moseley, il capo delle camicie nere britanniche al tempo del regime, vilipeso durante e dopo la guerra nella perfida Albione ma osannato dai nostalgici italiani a botti di eja, eja, alalà, come si usava fare con un camerata verace. A un certo punto però, con metamorfosi kafkiana, sia Benito che suo padre passarono dal Msi al Pci, dandosi animo e corpo al marxismo-leninismo e ripudiando labari e gagliardetti a favore di bandiere rosse. In Benito restò costante una buona dose di anticlericalismo. Una volta stavo chiacchierando con lui, appoggiato alla ringhiera delle case dell’Incis in piazza Vittoria. Di colpo Benito si arrestò, e voltatosi verso un prete di passaggio, di punto 77 in bianco prese a lanciargli insulti. Il prete ribatté con pari foga. Io li guardavo sbalordito... In quel gruppo di case dell’Incis, abitavano altri amici e conoscenti. Ricordo Beppe Franzini, di cui farò cenno in seguito, e Toni Russio. Toni, un altro studente di chimica, aveva una ricca collezione di numeri di “Signal”, rivista della Wehrmacht. Perciò non mancavo mai di salutarlo gridando “Sieg Heil!”, quando lo incontravo. Nella stesse case mi pare abitasse Pino Balla, studente di chimica, manco a dirlo. (Non sapevamo che in futuro le analisi le avrebbero fatte gli strumenti, non i chimici.) E mi sembra vi abitassero anche i fratelli Bianci, che grazieadio con la chimica avevano poco a che fare. Di Balla conservo nella mia piccola biblioteca il testo di Esercizi di Fisica – il corso affettuosamente detto “di fisichetta”. Il frontespizio è illustrato di suo pugno dal Pino, con cherubini esalanti dal culetto sbuffi di mercaptani. In via Museo, all’ora della vasca, si incontravano i personaggi più disparati. Ne ricordo due in particolare, Braghella e Testina, così soprannominati da Giulia Fenoglio, la sorella di Franco: Braghella, perché indossava anacronistici pantaloni alla zuava e Testina perché, di altezza superiore alla media, sul suo collo si ergeva un cranio da microcefalo. Peraltro Testina era persona normalissima, un serio impiegato di banca. Braghella invece era un po’ ritardato, e veniva fatto oggetto di lazzi da parte di noi giovinastri. Lui ci guardava con disprezzo, appoggiato alla sua bicicletta, e con sussiego decretava: “Nullatenenti, nullafacenti!”. Un giorno, quando già lavoravo come rappresentante della Merck, Sharp & Dohme per il Trentino-Alto Adige, stavo oziosamente scrutinando la locandina del Navarro, il night club all’inizio dia via Museo, sentina di modesti (allora non ci si bucava) vizi a disposizione del Bürger bolzanino. Il Navarro era di proprietà di un sudtirolese con un cognome tipicamente locale come Perathoner o Kusstatscher, che aveva però adottato come nom de guerre l’esotico “Navarro”, reminiscente di corride e nacchere. Ogni sera el señor Navarro ammoniva in Ersatz 78 castigliano i clienti immersi nelle luci blu e nel fumo delle Nazionali: “Aqui Radio Andorra. Quien no consuma que se corra!”. Dalle mie reveries di soubrettes molto pettorute fui distratto dalla voce di una ragazza. “Guelfo, che fai di bello?”. Mi voltai a guardare Marina Gervasi, la promessa di Arrigoni, giovane donna di preclare virtù. “Sto aspettando di visitare il dr. Giro. Devo presentargli l’ultimo prodotto della mia società, Indocid, un anti-infiammatorio molto efficace in casi di artrite...”. Lei, mossa a pietà dalla mia lamentevole condizione sociale di “commissionato”, titolo conferitomi dai pazienti nelle sale d’aspetto dei medici, mi disse con tono pieno di sollecitudine “Eh sì, Guelfo, ormai sei un fallito.” Abbozzai, pensando tra di me “Scapestrato, magari. Ma fallito? La diagnosi è prematura.” Avevo solo trent’anni. Quando mi congedai dalla Merck poiché stavo per partire per l’Inghilterra, raccomandai che prendesse il mio posto Celestino Biglia, un compagno della Casa dello Studente Ippolito Nievo di Padova. “Con un nome come Celestino Biglia”, mi disse Piero Flaim, proprietario della farmacia Aquila Nera e zio della ragazza che stavo per sposare, “farà fortuna. Nessun medico lo potrà dimenticare.” Non so se Celestino abbia fatto fortuna, ma me lo auguro. Era un simpatico ragazzo, di cui conservo una fotografia presa a Padova nel giardino della Casa dello Studente Ippolito Nievo. g Ormai parte integrante del corpo studentesco del Liceo Carducci, in terza liceo vidi spuntare nuovi compagni. Milletti, un giovane alto e robusto, tanto forte quanto mite. Un bel ragazzo simpatico e cordiale. C’era poi un ragazzo di cui non ricordo per nulla il nome, calato dalle valli e ad esse tornato senza lasciar traccia; e infine l’impareggiabile pluriripetente Gigi Mattei, gran poeta del sesso, che durante un compito in classe infilò la punta di un temperino nel 79 sedere di Arnolfo Ganzer, perché quest’ultimo si rifiutava di soffiargli suggerimenti. Alle furiose proteste di Arnolfo, “professore, mi hanno ficcato un coltello in culo!”, il professor Moggio si limitò a sorridere beffardo. Indimenticabile anche Mandante. Assomigliante al peggior Charles Laughton di Notre Dame de Paris, con un incarnato da tenia solium e occhi da batrace, non faceva un bel niente ma in compenso per tutta la mattina fingeva di strimpellare su una tastiera di pianoforte che si era disegnato sul banco; se si accorgeva che lo guardavi ti sussurrava ghignando, nascosto dietro al compagno davanti a lui, “Chopin”. Dall’ultima fila di banchi lo vedevo fissare rapito i rigogliosi seni della giovane supplente di storia dell’arte che, molto a proposito, ci parlava di Rubens; e chissà quali andanti “con foga” le avrà dedicato. Per la verità, quei seni erano oggetto della concupiscenza non solo di Mandante, ma dell’intera classe di noi adolescenti mandrilli. g 80 81 82 DA BOLZANO A PADOVA Il collegio universitario Don Mazza – La Casa dello Studente Arnaldo Fusinato – L’arte della coprofilia – Al calduccio dei postriboli – L’Istituto Chimico di via Loredan – Sandonnini e Croatto – La Casa dello Studente Ippolito Nievo – Il custode Dario – Il gioco del bagolotto – Lino, Linetto... – Il bombarolo – Amici vari – La Latteria Pajaro – La Carlona – Ernesto e Pasquale – Zio Getulio e Saturnino – Le avventure di Giorgio Amoretti– Padua, ich muss dich lassen... Superate le forche caudine degli esami di maturità, decisi di iscrivermi a Chimica Industriale a Padova. Allora sembrava che la chimica fosse la professione ideale del futuro. Natta aveva scoperto il polipropilene isotattico che gli avrebbe fruttato un Nobel dopo pochi anni. La Montecatini avrebbe potuto essere il buen retiro del laureato. A casa mia di chimica si era sempre masticato, visto che babbo e mamma vi si erano entrambi dedicati. Ma il mio amore per la disciplina era subordinato ad altri interessi. Per risparmiare, feci domanda di ammissione al Collegio Universitario Don Mazza di Padova. Il Don Mazza era un istituto diretto da religiosi situato in un vecchio palazzo, non lontano dal Prato della Valle. A capo dell’istituto stava don Tosi. Gran parte dell’amministrazione era però maneggiata da un prete molto più giovane, don Perosi. Alle interviste per l’ammissione mi 83 presentai insieme a Lino Arrigoni. A coronamento delle interviste, tutti in chiesa! Alla fine del rito i giovani credenti si misero a cantare: Inni e canti sciogliamo, fedeli, al divino, eucaristico re... Io attaccai, sgolandomi di buzzo buono e continuando : “... che nascoso nei mistici veli – cibo all’alma fedele si die’.” Lino, che di inni liturgici ne sapeva meno di me, mugolava di conserva. Forse il mio fervore di canterino fu notato, perché la mia domanda di ammissione fu accettata. Ma non avendo il collegio letti sufficienti per ospitarmi, fui spedito ad alloggiare in una stanza d’affitto presso una famiglia sovvenzionata dal convitto. Una decisione di mio gradimento, dato che fin d’allora la mia devozione a nostra santa religione era discutibile. Però ospiti del collegio come me erano altri giovani miscredenti. L’inno ufficiale della casa, sull’aria di “Dalmazia, Dalmazia”, era “Don Mazza, Don Mazza – cosa importa se si muore...”. Quei giovani sciagurati cantavano invece “Don Mazza s’incazza - se alla messa non si va...”. In quel mio primo anno di vita universitaria, avevo incontrato al Mazza Gianni Testori, uno studente di medicina che s’industriava a guadagnare qualche lira trascinando un’enorme valigia colma di testi e dispense e offrendo la sua mercanzia a chi ne avesse bisogno nei numerosi collegi universitari e case dello studente. Nel giro di pochi anni era passato dal valigione a una piccola libreria, presto ampliata e diventata persino editrice di testi universitari, situata strategicamente – bisognava passarci davanti - tra il Bo, la sede centrale dell’università, e gli istituti delle varie facoltà. Ovviamente il ragazzo aveva il bernoccolo del commercio. Nel frattempo era pure riuscito a laurearsi in medicina. Dio solo sa dove avesse trovato il tempo o gli inghippi per farlo, ma ci era riuscito. Misteri dell’università italiana. 84 Il Mazza ospitava anche ragazzi stranieri. C’era un italo-americano che frequentava medicina a Padova perché il numero chiuso delle scuole di medicina americane forzava molti aspiranti medici a emigrare verso lidi più ospitali. Si esprimeva in un suo italiano reminiscente del modo di parlare di Stanlio e Ollio. Bologna e Padova erano le mete preferite degli studenti stranieri. Io avevo fatto amicizia con Ghebreziebiker Woldeghiorghis, detto Ghebrù, un etiope che a Padova si trovava benissimo perché le ragazze locali – mi confessava – apprezzavano certe sue dimensioni anatomiche inusitate. Laureatosi, invece di tornare in Etiopia era restato a lavorare in ospedale. Pochi anni dopo perse la vita in un incidente d’automobile. Avevo fatto un paio di esami con voti decorosi, e feci domanda per essere ammesso al secondo anno alla Casa dello Studente Arnaldo Fusinato in via Marzolo, istituto completamente laico. Riuscii ad entrare anche alla Casa dello Studente. Quando andai a comunicare la buona notizia a don Perosi, il giovane prete mi fece un lisciabusso. Secondo lui avrei dovuto avvertirlo in anticipo della mia intenzione di concorrere al posto. Non capii la ragione di tanta animosità, e mi congedai tranquillamente. Scopersi in seguito che il Don Mazza incoraggiava i suoi studenti a far domanda per un posto-letto alla Casa dello Studente. Una volta vinta la borsa, il Mazza avrebbe proposto all’amministrazione dell’Università di continuare a prendersi cura dello studente in cambio dell’ammontare della borsa. In tal modo due piccioni sarebbero stati presi con una fava: lo studente avrebbe continuato ad essere avviato sulla strada della santità, e un posto-letto si sarebbe liberato alla Fusinato. Un inghippo geniale. Molti anni dopo, per scherzare, chiesi a mio figlio che aveva studiato in un’università di gesuiti – eccellente istituzione – se per caso non lo avessero convinto a prendere la tonaca. Mi rispose “Neanche per sogno, papà. La loro scuola è un business.” Mi tornò alla mente il Don Mazza. g 85 Gli anni di Padova furono divisi tra la Fusinato e un’altra Casa dello Studente, l’Ippolito Nievo in Piazzale San Giovanni. Questa casa, più piccola della precedente, si trovava nella zona del Bassanello, non distante dalla Specola, lo storico osservatorio astronomico. Ma torniamo per ora alla Fusinato. Io occupavo una stanza al terzo piano, dalla finestra si vedeva in lontananza un caseggiato alle cui finestre a volte si affacciavano ragazze. Erano gli anni del testosterone ruggente, e ogni sentore di profumo di donna, anche se solo immaginato, bastava a stimolare la fantasia. Una delle ragazze, Lia, se ricordo bene, era corteggiata a notevole distanza, alla moda di Jaufré Rudel (che usassero bandierine di segnalazione da marina?), e finì per sposare uno degli studenti di medicina, Haussler, un triestino con cognome austro-ungarico. Altri studenti, preda di arrapamenti cronici, si industriavano in mille modi per dar sfogo alle urgenze di madre natura. C’era chi addirittura aveva perfezionato un modo di fornicare col cuscino. Non mancavano esempi di perversione. Ogni piano aveva gabinetti comuni. Le stanze però avevano lavandini celati dentro a un armadio. Per diversi giorni le donne che si occupavano delle pulizie e di rifare i letti – tutte in età canonica ad evitare complicazioni – si lamentavano di orrendi fetori che uscivano da una delle stanze. Il direttore della Casa, insospettito, fece irruzione e scoprì nel lavandino un mucchietto di cacca, che il coprofilo occupante la stanza si divertiva a modellare come fosse creta, derivandone piaceri a noi comuni mortali ignoti. Per fortuna Padova offriva agli studenti diversioni erotiche più sostanziose. La senatrice Merlin non era ancora riuscita a mettere in pensione tutte le Wande d’Italia, e a noi studenti piaceva visitare quegli stabilimenti eufemisticamente chiamati “case chiuse”, in realtà aperti al grosso pubblico. Ci si andava un po’ per giovanile curiosità, a volte spronati dal dio Eros, o anche solo per passarvi il tempo al caldo, facendo amicizia con le signorine fino a che la maitresse ci buttava fuori, visto che non davamo ascolto agli imperiosi incoraggiamenti: “Su giovanotti, su ragazzi, in camera! Le signorine aspettano!”. Alcune delle 86 87 “signorine” avevano un modo di fare accattivante, quasi materno. Ci sarebbe sembrato di commettere un incesto... Quei casini avevano nomi strabilianti. “Al Cazzo d’Oro” era un nome che Apuleio avrebbe potuto dare a un lupanare nella suburra dell’antica Roma, “Penis Aureus”. Un altro bordello era “Alla Maria Onta”. La Maria, una virago bassa, tozza e con la voce roca, era detta “Onta” per via dei capelli stillanti sego. Io avevo scoperto solo a Padova le gioie del postribolo, dato che a Bolzano la mia giovanissima età mi avrebbe impedito di penetrare nel tabernacolo di via Conciapelli. A Bolzano ne conoscevo solo quello che diceva il Sergio Modesto, quando nelle trasmissioni della RAI locale faceva il verso ai bacani scesi dai masi delle valli nei giorni di mercato: “Zai ben no du, son stato al puff...” A Padova ogni tanto vedevamo scorrere una cortina di separazione tra la sala d’aspetto principale e le scale che portavano alle stanze: “Passa il monsignore, passa il monsignore...”, si sentiva sussurrare. Evento non eccezionale, data l’alta concentrazione di ecclesiastici nella Marca patavina. g Il grande vantaggio della Casa dello Studente Fusinato era la breve distanza dagli istituti universitari, soprattutto da quello di chimica, in via Loredan, di fronte a un canale del Bacchiglione. L’Istituto Chimico era alloggiato dentro a un annoso edificio, forse dei tempi di Lavoisier. Sedevo nei banchi semi-circolari ad anfiteatro dell’aula principale, insieme a un centinaio di matricole, il cui numero dopo il secondo o terzo anno di corso si sarebbe notevolmente assottigliato. Più della lezione accademica mi interessavano gli intagli prodotti da generazioni di studenti, la cui natura spesso faceva arrossire le poche compagne di corso. (A Lettere il rapporto maschi/femmine era inverso. Beati quei maschi...) Le aule dell’istituto emanavano un tanfo di reazioni chimiche secolari. Nei laboratori ci si cimentava in analisi al bordo tra la chimica e l’alchimia: ancora oggi mi chiedo 88 a cosa sarebbe servito il cannello ferruminatorio, una volta approdati alla Montecatini. Le cappe in cui mescolavamo intrugli che sprigionavano gas venefici funzionavano per modo di dire; più di una volta un incauto che aveva avvicinato di troppo la testa alla loro apertura e respirato una zaffata di acido solfidrico aveva perso i sensi. Rischi normali che correva chi doveva far precipitare gli elementi del secondo gruppo. Quando ci misi piede io, a capo dell’istituto era il prof. Sandonnini, chimico di vecchia scuola che infatti andò in pensione l’anno seguente. Feci con lui l’esame di Chimica Generale e Inorganica. A lezione l’anziano ma arzillo professore aveva detto a proposito del sistema periodico:”Ah, quel Moseley, se non fosse morto così giovane chissà che scoperte avrebbe fatto!”. Sandonnini parlava di Henry Moseley, che aveva stabilito coi raggi-X le basi per il concetto di numero atomico, ma morì molto giovane in battaglia a Gallipoli. Memore di quella frase, la sciorinai al momento opportuno all’esame. “Dove ha trovato questa notizia, Torrazzi?”, mi domandò il professore. “A lezione lo ha detto Lei, professore”, risposi. Colpito da tanta attenzione alle sue parole, Sandonnini mi disse: “A questo punto le do 26. Vuole continuare?”. Io, che in inorganica mi sentivo traballante, e non ho mai giocato alla roulette, risposi: “26 mi va bene, professore.” Il successore di Sandonnini a capo dell’istituto fu il prof. Croatto. Comunista sfegatato, aveva molta simpatia per i suoi compagni di partito, meno per chi non condivideva le sue opinioni politiche. Una volta uno studente che aveva trovato la porta dell’istituto chiusa commentò ad alta voce “Ma che è questo, il Cremlino?”. Lo sentì un bidello, e lo riportò a Croatto. Mi sembra che di conseguenza quello studente abbia dovuto trasferirsi a Bologna. Passai in seguito a vivere in una stanza della Nievo, che condividevo con un ragazzo di Venezia, Giampi Giberti. Si era iscritto anche lui a Chimica Industriale. Diventammo amici, siamo ancora in contatto. Giampi, di forme apollinee, amava studiare sdraiato in costume da bagno sui bastioni medioevali che ancora recintavano il 89 giardino della Casa dello Studente. A furia di prendere sole era sempre scuro come un sudanese. La domenica tornava a casa sua per poi rispuntare a Padova il lunedì. La sua numerosa famiglia – cinque sorelle, tutte carine, e un fratello – abitava al Lido di Venezia. Ero spesso loro ospite. Il fratello minore, Gualtiero, gran giocatore di poker, aveva scovato un sistema per infilarsi nei cinema senza pagare il biglietto. Un metodo ingegnoso di cui beneficiavano tutti i suoi amici e di cui anche io potevo avvantaggiarmi. Senza spendere una lira, grazie a Gualtiero avevo visto in prima visione “I due nemici” con Alberto Sordi e David Niven, e “I soliti ignoti” con Gassman. Una delle sorelle minori di Giampi, Giuliana, una ragazzina di quattordici anni, usciva dal bagno ammantata in una vestaglia che le arrivava ai piedi e con in testa una asciugamano arrotolato. Io la fissavo attonito, e le sospiravo: “Giuliana, sei con-turbante!”, facendola arrossire. D’estate Giampi faceva furore con le turiste tedesche o scandinave, da lui sistematicamente ammaliate in spiaggia. Per un motivo poco chiaro i suoi amici di Venezia gli avevano dato il soprannome “Pelo”, benché le sue villosità non fossero eccezionali. Lui invece diceva a tutti “Il Guelfo ci ha il pelo di mammut”, perché contrariamente al suo riccioluto, il mio era liscio come quello di una foca, ma di maggiore lunghezza. Con Giampi e Gualtiero a bordo della Fiat 1100 di famiglia, insieme ad altri amici andammo in gita in Toscana. Ci si fermò a Pisa, a Siena e a San Gimignano, prima di far tappa a Firenze a casa di un suo zio. Preoccupato per l’uso smodato del gabinetto che stavamo facendo, lo zio ci ammoniva “mi raccomando, tirate lo sciacquone”, termine per noi, più o meno di origine veneta, esilarante. La Toscana mi piacque tanto che più tardi ci tornai con Jeanine, una mia amica arrivata da Kremlin-Bicêtre, nella banlieu parigina. Jeanine, che una notte d’estate sui Lungarni di Pisa colse soavemente il fiore della mia virtù. g 90 Il custode della Nievo era un ex-carabiniere toscano. Si chiamava Dario, e a causa di una sua eccessiva mitezza nei confronti di noi ribaldi era conosciuto come il Dario Mona. Dario era sposato, sua moglie, non scevra di grazie muliebri, era oggetto di concupiscenze studentesche. La fame era sì grande che tutto avrebbe fatto brodo. Il Dario ci dava rispettosamente del “signor”. Mi chiamava dal fondo della tromba delle scale, col suo accento toscano, “Signor Torrazzi, signor Torrazzi, c’è una signorina he lla cerca....”. Probabilmente era Mirca Taghioff, ragazza di non comune avvenenza che di passaggio a Padova era venuta a trovarmi, suscitando l’invidia dei miei amici. Quasi di fronte alla Nievo c’era un bar in cui gli studenti andavano a giocare al “bagolotto”. Così venivano chiamati il calcio da tavola e il “flipper”, cioè la pinball machine, da cui sferette di acciaio venivano scagliate con una molla su un percorso punteggiato da suonerie di campanelli. La televisione era appena arrivata in Italia, e nei primi giorni del ‘59 in quel bar assistemmo all’ingresso in Havana dei ribelli di Castro. “El Jefe” è ancora là, vivo e vegeto in barba allo zio Sam. Un altro svago infantile escogitato da alcuni studenti in vena di emozioni a poco prezzo era quello di lasciar cadere sul marciapiede dalle finestre del secondo piano dei palloncini di gomma pieni d’acqua. Gli sciagurati aspettavano che una coppia di fidanzati arrivasse sotto le finestre, mollando la bomba idrica immediatamente dopo il loro passaggio. Urla e proteste della coppia erano assaporate da spettatori che non potevano essere accusati del malfatto, perché si erano appostati a finestre situate a una certa distanza di fronte ai malcapitati. Il Dario Mona, richiamato in strada dalle grida, si torceva le mani non sapendo che pesci pigliare. Alla Nievo c’era una fauna di studenti variegata. Dagli stalli dei gabinetti comuni spesso sentivamo cantare Lino Arrigoni un samba del carnevale carioca: Brigitte Bardot, Bardot, Brigitte béjo, béjo… 91 oppure romanticamente: Sayonara, Japanese goodbye, dolce fior di loto… Meno romantico, uno studente di ingegneria, Battaglia, ogni volta che incontrava nei bagni Arrigoni gli canticchiava sogghignando “Lino, Linetto, nel culo te lo metto.” Se poi incontrava Mimmo Bardelli, altro studente d’ingegneria, per non peccare di parzialità canticchiava invece “Mimmo, Mimmetto, nel culo te lo metto.” Non l’ho mai sentito canticchiare “Guelfo, Guelfetto...”, e mi sentivo quasi dispiaciuto di essere ignorato da Battaglia, giovane pieno di risorse. Ammazzava il tempo disegnando donnine nude dal sedere spropositato, anatomia di cui era un cultore fanatico. Si serviva del crocifisso in dotazione alla sua stanza per sostenere una gamba del tavolo troppo corta e zoppicante, e ammiccando mi diceva: “E poi dicono che la religione non serve a niente…”. g Che fantastici personaggi, alla Ippolito Nievo di piazzale san Giovanni !… C’erano i residuati bellici, gente iscrittasi alla fine della guerra che non riusciva a portare a termine gli studi. “Testa di Cavallo” andava in bagno quasi completamente nudo, vestito solo del sospensorio, e raccontava di avere un fallo di dimensioni tali da essere radiato anche dai casini di Padova. Per fortuna ogni tanto era intrattenuto da una vedova caritatevole, ma la poveretta piangeva sempre, dopo il fattaccio. Era un caso che il Kama Sutra avrebbe definito di scarsa compatibilità, come tra il lingam del cavallo e la yoni della cerbiatta. Spero che nel corso della sua esistenza Testa di Cavallo abbia incontrato qualche yoni dell’elefantessa, più consona secondo gli antichi testi tantrici alla mole del suo lingam. Giovanni Santoro, un meridionale sempre ben vestito che sbarcava il lunario cercando di piazzare le stampe d’arte dei Fratelli Fabbri, ci decantava le meraviglie 92 dei nudi di Modigliani, affascinato dal “pubbbe”. Chissà che commenti avrebbe fatto se avesse visto “L’origine du monde” di Courbet, meta favorita dai liceali in visita al Musée d’Orsay di Parigi. Un tal Tesserini, studente di medicina non poi tanto anziano, appena arrivato aveva esposto sullo scrittoio la foto della barbuta fidanzata, e tutti noi ci divertivamo a domandargli se era sua madre, e ricevuta la risposta appropriata, ad informarci: “L’hai già scopata?”. g Di giorno si era sempre occupati tra lezioni e laboratori. Nei cortili del Bo ricordo di aver incontrato Toni Negri, non ancora assurto a teorico delle Brigate Rosse, ma già molto impegnato nelle politiche universitarie. Mi chiese di votare per lui per qualche carica in seno al consiglio degli studenti. La sera si andava al cinema di seconda visione, e poi tornati a casa ci si dilungava a discutere di politica, di religione o di ragazze fino a tarda notte. In momenti meno illuminati c’era chi dimostrava l’infiammabilità dei gas intestinali, spegnendo le luci e avvicinando una candela al produttore di gas che aveva assunto la posizione opportuna all’esperimento. Ogni tanto si partecipava a festine in cui la droga d’obbligo era il vino. Una notte, ubriaco patocco, fui sedotto da una studentessa cui si poteva solo attribuire la “bellezza dell’asino”. Fossi stato nel pieno delle mie facoltà, mi sarei ben guardato dal toccarla. Ma tra i fumi dell’alcol fui trascinato in un androne, agguantato e brancicato. Riacquistati in parte i sensi, riuscii a staccarmi da quella menade e corsi sotto i portici verso la Casa dello Studente come inseguito dal demonio, sputando e scatarrando. Uno degli ospiti della Nievo era il futuro dr. Carlo Maria Maggi, studente di medicina e alto esponente di Ordine Nuovo, condannato in primo grado all’ergastolo dalla seconda Corte d’Assise di Milano per la strage di piazza Fontana del dicembre 1969, ma successivamente 93 assolto. È mai possibile che si fosse scordato del giuramento di Ippocrate? Di Maggi ricordo lo sguardo aggressivo, penetrante, leggermente diabolico. A me tutto sommato era simpatico e ogni volta che lo incontravo nei corridoi lo salutavo con slogan come “È l’aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende”, oppure “Credere, Obbedire, Combattere”, o “Vinceremo!”. Talvolta anche gli cantavo una strofetta della Canzone dei Sommergibili, quelli che partono rapidi ed invisibili, cuori e motori di assaltatori, ecc. ecc. E il Carlo Maggi, per niente permaloso, rideva divertito. Gli piacevano le burle pesanti: si divertiva a sgattaiolare in punta di piedi nella stanza di qualche studente addormentato, che svegliandosi inorridito si trovava il pene di Carlo a un dito dal naso. Del Maggi ricordo anche che teneva una sua foto presa ai funerali di Graziani appesa dietro un’anta dell’armadio di metallo in dotazione alla sua stanza. Il camerata Carlo, nostalgico, reggendo un gagliardetto faceva il saluto romano. Maggi ci aveva fatto conoscere due studentesse, che per qualche suo misterioso motivo lui chiamava “le zozze”. Che fossero di sinistra? Ne vedo ancora una, per nulla zozza, anzi una bella bionda, alta, con gli occhi azzurri, molto ben vestita e – frutto delle cure di dentisti americani – con in bocca la macchinetta per raddrizzare i denti. Era infatti appena tornata da uno stage di un anno in un’università degli Stati Uniti, e ci raccontava ridendo di come gli studenti americani riuscissero a storpiare i versi di Virgilio, declamando: “Infándom regiaina giabs rinovare dolorem…”. Incontrai tempo dopo a Riva del Garda l’altra “zozza”, una brunetta piccola di statura ma molto graziosa, che somigliava un poco a Leslie Caron. Era ormai sposata e madre di famiglia. Anni dopo rividi Carlo Maggi a Bolzano, seduto su una panchina del viale della stazione a confabulare con altri due figuri. Non mi parve affatto entusiasta di rivedermi. Erano gli anni dei revanscisti germanici, quelli che facevano saltare piloni e sparavano ai militari di guardia (militare di guardia sono stato pure io in quel periodo). Che il Maggi stesse complottando un botto alla sede della Volkspartei? 94 Che fine, quel Maggi! Meglio cento giorni da pecora che uno da leone, dico io. Un altro studente di medicina della Nievo, Enzo Bermini – credo fosse un vicentino – insospettito da alcuni miei interessi non esclusivamente accademici – che so io, la Commedia del Ruzante o i concerti al Liviano – una volta che ci trovavamo da soli in una stanza mi disse con tono circospetto: “Dime mo’, Guelfo, ti ti xe cua?”. Gli buttai di scatto le braccia al collo, sospirando “Sì, sì, Bermini, dame un basìn...”. Il che lo convinse della mia incontrovertibile eterosessualità. Sempre alla ricerca di metodi di studio facili ed efficaci, mi aveva incuriosito un sistema adottato da Beppe Franzini, studente di ingegneria. Seminudo e in ginocchio su una sedia, i gomiti puntati sulla scrivania, Beppe studiava attentamente il testo di Meccanica Razionale stiracchiando contemporaneamente tra due dita il suo prepuzio. Mi ci provai anche io (col mio, naturalmente), senza purtroppo ottenere migliori risultati. Nel caso di Franzini il metodo deve aver funzionato, perché si laureò brillantemente di lì a poco. A ciascuno il suo, come dice l’Osservatore Romano. Alla Nievo c’era anche un ungherese, Janos Nagy, rifugiatosi in Italia dopo i moti insurrezionali ungheresi del’56 contro gli occupanti sovietici. Janos aveva comprato insieme a un suo compatriota una motocicletta, e ci si sdraiava sopra palpeggiandola amorosamente quando non le montava a cavallo e scompariva tra rombi e scoppiettii. Era, a mio parere, di una bruttezza orripilante: capelli rossastri, occhi cisposi, carnagione lattiginosa da semialbino, labbro pendulo, insomma il genere viscidorepellente. E ciononostante si era fatto una bellissima ragazza della Casa della Studentessa, di cui ammiravo gli occhi stellanti. Vai a capire le donne… Ancora oggi sono perplesso al pensiero di quali arti di seduzione avesse impiegato. Di lui però ricordo i racconti lubrichi di esperienze erotico-esotiche nei bordelli di Budapest che non avrebbero sfigurato in uno scritto del Marchese de Sade. g 95 La domenica si andava alla “Specola”, una balera nelle vicinanze dell’omonimo osservatorio astronomico. Ai ritmi del Festival di Sanremo studenti e sartine volteggiavano a preludio di nascenti amori, come in una scena di massa di un melodramma pucciniano. Mauro Melazzi vi aveva incontrato una ragazza con un lieve difetto fisico. Lui l’aveva soprannominata “La Zoppetta”, per via della sua andatura claudicante. A parere di Mauro ciò ne aumentava i pregi, promettendo misteriosi piaceri non consentiti da ordinarie strutture ossee pelviche. Arnolfo Ganzer ci narrava storie mirabolanti. Di ritorno da una visita al manicomio di Monselice, parte del corso di Medicina Legale condiviso dagli studenti di giurisprudenza, ci narrava del suo incontro con un malato che parlava solo in rime senza senso: “Dove vai, cosa fai, come stai, Uruguay, Paraguay...”. Spesso Arnolfo andava a mangiare alla mensa dell’Anpi, dove gli studenti erano benvenuti. A volte al suo tavolo si sedeva un altro studente veneto, che gli faceva sfoggio delle sue prodezze di cunnilinguista a beneficio della fidanzata: “Parchè mi, sato, che magno tuto. Vedeto sti brusegoti?...”, e si toccava il mento costellato di bruffoli,”...xe el velen che ghe cola, ‘e secressioni...”. Arnolfo lo ascoltava, allibito e divertito. Rividi Arnolfo a New York. In gita di turismo con la moglie, la figlia e il suocero, si era fatto vivo per telefono. La figlia, una bambina intelligente di 10 o 12 anni, mi aveva colpito per il suo modo di fare semplice e gentile. Aveva preso senza dubbio da suo padre. Purtroppo in Central Park fu morsa da uno scoiattolo di cattivo umore con cui aveva cercato di fare amicizia. g Un toscano studente di ingegneria della Nievo, afflitto da turgori irrepressibili, ci confidava “oggi gli è baccellorone”. Bellissimo termine, subito adottato dalla Banda del Cappello. Haussler aveva notato in una cappelleria del centro un certo numero di cappelli in 96 svendita stile “fedora”, quelli preferiti dai mafiosi, e ci aveva convinto a comprarli. Andavamo così conciati in giro per Padova, divertendoci alle occhiate stupite dei passanti. Poi tutti a cena alla Latteria Pajaro sotto a un portico che da piazza Erbe andava verso la Nievo. Qualche volta si associava a noi Beniamino Furiello, un ragazzo simpatico, prossimo alla laurea in medicina. Ben era appassionato di aviazione, e ogni tanto andava a pilotare piccoli aerei da turismo. Già laureato, sopravvisse a un incidente di aereo che lo lasciò parzialmente sfregiato e ne mutò il carattere allegro. La latteria Pajaro era di proprietà di una piccola famiglia: padre, madre e ragazzino di 6 o 7 anni. La madre cucinava nel retrobottega, il padre, Gasperino, serviva i clienti. Il menù era molto semplice: uova fritte, bistecche, insalate. Ci si andava spesso a cena, perché costava poco e la roba da mangiare era fresca. E magari vi si poteva incontrare qualche ragazza disposta a prenderci in considerazione. Ne ricordo una che avevamo battezzato “Lingua Rasposa” per una sua peculiarità anatomica che era stata scoperta e decantata da uno di noi per i pregi della papilla guizzante. Al nostro gruppo si era associato Marcaurelio Bembo, uno studente di chimica più giovane di me di un anno, che avevo conosciuto alla Fusinato. Bravissimo giovane, cattolico devoto, studioso, il suo destino era la carriera universitaria. Mi diceva: “I miei genitori mi hanno chiamato Marcaurelio come mio nonno e come l’imperatore romano. Per fortuna non mi hanno chiamato Caracalla. Tu chiamami Marc.” Poi mi recitava versi pieni di ispirazione: ”L’uom che non posa, l’uomo che non dorme – polve che stampa nella polve l’orme...”. Tutti quanti s’iscrivevano a Chimica Industriale, sperando di arricchirsi con impieghi favolosi nell’industria. Bembo si era iscritto a Chimica “pura”, perché voleva fare della ricerca. Insomma, il Bembo era nato professore di chimica. Già al secondo anno era corso a comprarsi il Glasstone, “Textbook of Physical Chemistry”, in inglese perché il testo non era ancora stato tradotto, e si era prontamente messo a studiare termodinamica anche se 97 la firma di Chimica Fisica gli sarebbe stata data solo l’anno seguente. Impegno mirabile agli occhi di uno scapestrato par mio, che invece di ponzare sui testi di chimica passava il tempo a leggere Garcia Lorca con traduzione a fronte di Carlo Bo. Il Bembo univa alla passione per la chimica quella per le barzellette, e si portava in tasca un quadernetto zeppo di facezie che ci ammanniva durante il pasto serale in latteria. “Sentite questa”, ci diceva, e alla fine della freddura, seguita da una pausa di misterioso – o minaccioso – silenzio, un urlo rintronava tra le pareti del locale: “BUONA QUESTA!”. I soliti Mauro, Giampi, Aldo Frumenti, Celestino Biglia & Co. dimostravano così la loro sarcastica approvazione sotto gli occhi increduli del lattaio Gasperino. Un dì Marcaurelio, paventando un mio incontro col fratello minore, la cui innocenza credo dovesse essere protetta dalle mie influenze corruttrici, mi tenne a bada rivelandomi in tono cospiratorio “È con la sua fidanzata.” Siculo per tre quarti qual sono, pensai “Minchia, pure ‘a fidanzata tiene u picciotto! Forse Marcaurelio teme che gliela porti via...”. Ma come dice il Vangelo, si dia al Bembo quel ch’è del Bembo. Il nostro non era scevro di afflati culturali, e si era comprato la serie di dischi “Panorama di Musica Immortale” pubblicata da Selezione dal Reader’s Digest. Per non essere da meno la comprai anch’io. E ancora oggi la conservo tra le cose che mi sono portato appresso nelle mie peregrinazioni, come il ricordo affettuoso di Marcaurelio Bembo, che finì per diventare ordinario di Elettrochimica, c.v.d. g Si incontravano personaggi affascinanti per le strade di Padova. Per esempio, la Carlona. Era una padovana di età avanzata, donna di rinomata bellezza in gioventù che le vicende della vita avevano ridotto in miseria. Ad aggravare la sua condizione umana si era 98 aggiunta un’afflizione comune in paesi tropicali ma rara dalle nostre parti: l’elefantiasi. Le gambe della Carlona erano due tronchi di carne di diametro mostruoso che le impedivano di camminare normalmente. Ma lei aveva trovato una ingegnosa soluzione al problema dei suoi spostamenti: navigava su una bicicletta il cui sellino era basso a sufficienza perché i piedi si appoggiassero al suolo, consentendole di spingersi dovunque, su e giù dai marciapiedi, dentro e fuori dai negozi, alleviando la fatica che la forza di gravità le avrebbe imposto. E nessuno incontrandola osava batter ciglio sotto il suo sguardo severo. Ernesto, il guardiano delle automobili nella piazza del Pedrocchi, lo storico caffè di Padova frequentato nell’ Ottocento dai carbonari, era un’altra figura indimenticabile. Era un ibrido tra un fauno e il campanaro Quasimodo. Sciancato, barbetta a pizzo da ardito della Decima Mas, giacca di uniforme d’incerto esercito, costellata di medaglie, patacche e fronzoli come i cappelli dei goliardi, Ernesto saltellava da una macchina all’altra, raccogliendo frizzi e mance dai numerosi “dottori” che parcheggiavano in piazza prima di andare a prendersi un caffè. A lato della piazza c’era un altro caffè, il Racca. Durante la buona stagione al Racca c’era sempre un’orchestrina che suonava per lo svago dei clienti, consumatori di bibite al fresco. Negli anni Cinquanta una canzone di gran moda era “Tom Dooley”, la ballata di un condannato a morte, grande successo in America del Kingston Trio. L’orchestrina del Racca non mancava di eseguirla, e per il godimento dei clienti invece del verso “T’impiccheran, Tom Dooley” la banda cantava “T’impiccheranno, Ernesto”. E ogni volta lui faceva compiaciuto un inchino. Ernesto era diventato un grande amico di Pasquale, uno studente iscritto a Fisica, l’unico figlio di una vedova, maestra elementare in Cadore. Il padre, un napoletano, era morto in guerra. Questo figlio era tutto quello che restava alla madre, che faceva sacrifici per mantenerlo agli studi. Ma Pasquale più che alla fisica era interessato ai ludi goliardici e dedicava la maggior parte del suo tempo a 99 frequentare con gli amici le numerose osterie di Padova e a partecipare a feste della matricola nelle varie università italiane. Ernesto lo seguiva dappertutto, e maggiore contrasto tra i due tipi fisici non poteva esserci: Pasquale era un ragazzo alto, robusto e attraente; Ernesto una specie di ragno claudicante con fattezze umane. Un giorno, durante il mio terzo anno di università, Pasquale si presentò alla mia porta per chiedermi di prestargli il mio cappello di studente. Glielo diedi volentieri, Pasquale aveva un modo di fare gentile e amichevole. Fu l’ultima volta che lo incontrai. Gli anni di bagordi nelle bettole alla fine lo avevano trascinato nella spirale dell’alcolismo. Lo persi di vista. Anni dopo venni a sapere che era finito a vivere nel retrobottega di una birreria di Bologna. Una notte, in macchina con un altro alcolizzato e completamente ubriaco, si schiantò contro un albero. Naturalmente la madre ne fu disperata. Ma disperato fu pure Ernesto, che aveva perso l’amico cui si era attaccato come un cane al padrone. Mi raccontarono che ogni anno, all’anniversario della morte, Ernesto prendeva il treno e andava nella cittadina del Cadore per deporre insieme alla madre del suo amico un mazzo di fiori sulla tomba di Pasquale. g Fuori corso, per un breve periodo mi impiegai come istitutore presso il Convitto Nazionale di Bolzano, in via Fago. Il direttore era il dott. Laterna, che aveva due figli, Bobo e Teto, e una figlia con un diminutivo altrettanto insolito, Lullì. Del convitto era stato direttore in precedenza uno zio della mia futura moglie, il dott. Carruba. Ma questo allora non lo sapevo. Altri nomi non comuni di gente del convitto sono restati nella mia memoria. Per esempio quello del portiere, Getulio Capodaglio. Zio Getulio aveva un nipote con lo stesso cognome, Capodaglio, e un nome di battesimo che mi sembra fosse Saturnino. Un ragazzo più anziano di me, 100 molto cordiale, che faceva l’istitutore in attesa di laurearsi in matematica. Laureatosi, andò a insegnare in una delle scuole di Bolzano. Anni dopo mia madre mi portò i suoi saluti in America. Al convitto non mi trovavo male, ma poiché lo studio della chimica comporta impegni di laboratorio a differenza degli studi di giurisprudenza o di economia, a un certo punto dovetti congedarmi. Il direttore mi sorprese dicendosi dispiaciuto della mia decisione, perché a suo dire ero l’unico in grado di mantenere una certa disciplina. Non sospettavo di avere talento di kapò. Incontrai per caso Teto Laterna a Merano, quando facevo il propagandista di medicinali. Aveva ottenuto di recente un posto di dirigente nell’amministrazione di un ospedale, e mi ricevette molto affabilmente nel suo studio. Un altro incontro fortuito fu con Silio Mastrucci, un compagno di gite con gli sci che aveva studiato a Cinecittà. Io ero andato a visitare medici dalle parti di Brunico o Vipiteno. Lui si trovava nella zona insieme a un collega per girare un documentario per conto della televisione. Ricordo che il suo collega, che mi aveva chiesto quale tipo di studi avevo fatto, mi disse: “Ah, proprio quello che consiglio di fare a mio figlio, invece di mettersi in questo mio mestiere.” L’erba del vicino è sempre più verde. g Tornato a Padova, ancora una volta avevo trovato posto alla Casa dello Studente Ippolito Nievo. In una villetta nelle vicinanze abitava Giorgio Amoretti con suo padre, un anziano ingegnere che aveva accettato benevolmente gli exploits sportivi del figlio. Giorgio aveva deciso di attraversare a nuoto in pieno inverno il Lago di Garda, in lunghezza! E ci era riuscito senza morire assiderato, dopo essersi allenato coscienziosamente in Bacchiglione. Non contento di prodezze natatorie, partito da Padova con la sorella sul sellino posteriore di una 101 Lambretta, il Giorgio era andato fino a Rovaniemi, al circolo polare. Dopo aver fatto quattro chiacchiere coi lapponi, era tornato a casa, sempre con la sorella che probabilmente non aveva trovato congeniale la vita tra le renne. Ripartito da Padova privo di sorella, il nostro era andato fino a Città del Capo, passando per deserti e foreste vergini. Mi raccontava che dopo aver guadato un fiume nel centro dell’Africa la Lambretta era così fradicia da rifiutarsi di partire, e Giorgio aveva dovuto smontare il motore pezzo per pezzo perché si asciugasse. Mentre era intento allo scopo, si era visto circondato da una banda di pigmei usciti dalla boscaglia, che gli offrirono banane e altri viveri di conforto dopo essersi inginocchiati davanti a lui. Per via del suo barbone lo avevano preso per un missionario! Incapace di stare inattivo, a Padova Giorgio aveva preso a scalare pareti di roccia nei Colli Euganei. Una domenica in cui Mauro Melazzi ed io lo avevamo accompagnato in una di queste sue escursioni semialpinistiche, Giorgio mise un piede in fallo, per fortuna cascando da un’altezza di pochi metri ma sufficiente a procurargli la frattura di una gamba. Volevamo portarlo in ospedale, ma Giorgio si rifiutò, chiedendo invece di essere portato da un conciaossi di sua conoscenza. Così fu, e dopo un urlo di dolore la frattura fu ridotta e ingessata. Di ritorno dall’Africa, Giorgio aveva scoperto un interessante aggeggio, il paracadute ascensionale: una specie di aquilone appesi al quale ci si poteva librare al disopra dei comuni mortali se trainati da un’automobile o da un motoscafo. (Allora era una novità, ma adesso il marchingegno lo si trova in molti siti frequentati dai turisti, come i vari Club Méditerranée. E ogni tanto qualcuno ci lascia la pelle, sbattuto da un colpo di vento su superfici meno misericordiose dell’acqua.) A corto di fondi per finanziare nuove avventure, con una sua amorosa Giorgio aveva escogitato un ingegnoso sistema per far soldi: cucivano cuscini per gli inginocchiatoi delle cento chiese di Padova e di altre città italiane. Pare che in Italia ci fossero 72.000 inginocchiatoi bisognosi di imbottitura. Una miniera d’oro per un imprenditore astuto, e un sollievo per 102 le rotule e gli stinchi dei credenti. In tal modo Giorgio e amorosa avevano raggranellato un gruzzolo sufficiente ad acquistare due piccole jeep. Alla guida dei loro veicoli i due intrepidi avventurieri erano andati in Marocco. Sullo sfondo dei picchi dell’Atlante, Giorgio, appeso al paracadute e legato alla jeep da una fune, si faceva trainare librandosi a molti metri di altezza sulle sabbie sotto gli occhi esterrefatti di cammelli e cammellieri. Uno stunt che non passò inosservato. La rivista americana LIFE ne pubblicò la documentazione fotografica, insieme a quella di analoghe prodezze: Giorgio fu il primo a paracadutarsi sull’Alaska appena assurta al rango di 49mo membro degli Stati Uniti. Giorgio si librò anche su San Francisco e New York. Ma a New York, mentre veleggiava sopra Park Avenue, una improvvisa folata di vento lo fece sbattere contro un palo col cartello di parcheggio vietato, fortunatamente senza gravi consequenze per lui, ma demolendogli il paracadute ascensionale. E da allora di Giorgio non ho altre notizie. Immagino abbia sperimentato le ali di Rogallo, cosa che mi fu proibita, a buona ragione, da Milena. g Avevo ormai deciso di trasferirmi in un’altra università, più piccola e meno dispersiva di Padova, per terminare quegli studi protratti troppo a lungo. Volendo però sostenere a Padova un ultimo esame, andai a vivere poco prima della sessione autunnale nell’appartamento che Mauro Melazzi aveva affittato e divideva con sua zia. Di Mauro ammiravo la disciplina, completamente estranea al mio modo di essere. Si alzava al mattino e andava in istituto a lavorare alla sua tesi. A mezzogiorno mangiava e poi andava a fare un pisolino. Quando si svegliava gridava “caffè!”, e sua zia Clara sollecita glielo portava a letto. Poi studiava per i pochi esami che gli mancavano, cenava, 103 e andava al cinema. Un comportamento edificante. Io cercavo, a fatica, di imitarlo. Bene o male finii di preparare il mio esame. Mi presentai dal prof. Bezzi, ordinario di Organica, e gli sciorinai quel tanto che sapevo. Bezzi, che mi aveva mandato via senza voto in precedenza “per non rovinarmi il libretto”, sant’uomo, con un risolino mi diede 28 e segnò la mia dipartita da Padova. Il grido di “caffè” è restato nella mitologia della mia famiglia. Lo usiamo indiscriminatamente sia io che mia moglie dopo la pennichella, a perenne ricordo del mio amico Mauro. Me ne andai da Padova, e il distacco non fu privo di ripensamenti. A volte mi veniva alla mente il Lied di Heinrich Isaac “Innsbruck, ich muss dich lassen”, a commento musicale dei miei stati d’animo. Ma poiché ad ogni svolta la vita apre nuovi orizzonti, quella decisione mi portò fortunatamente verso sponde cui altrimenti non avrei mai puntato. g 104 JAZZ E AUTOSTOP Jazz, passione giovanile – Il concerto di Coltrane e Miles Davis – Pernottamento e colazione in Casa Jucker – Con Luca e Carlo verso la Svezia – Sesso e Civiltà – Il Giardino del Re – Gazzelle e leopardi – Ritorno a casa Fin da quando nell’immediato dopoguerra i soldati americani di stanza negli alberghi di Bellagio facevano girare sui loro grammofoni i grossi V-Disc di musica in dotazione alle truppe, la musica “degenerata” dell’ex-nemico mi aveva conquistato. Erano i tempi dello “swing”. Le “big band” di Glenn Miller, Duke Ellington, Benny Goodman, Count Basie, Artie Shaw e molte altre dai complessi arrangiamenti e orchestrazioni riempivano l’aria di nuovi ritmi e colori. Negli anni seguenti il mio interesse per il jazz era aumentato. Erano gli anni in cui Louis Armstrong e Sidney Bechet erano accolti in Europa da folle entusiaste, per nulla preoccupate del colore della loro pelle. Un colore che invece era fonte di amare ripercussioni nel loro paese d’origine. Ricordo che all’aeroporto di Milano Louis Armstrong, scendendo dalla scaletta dell’aereo, era stato sorpreso e commosso di trovare ad attenderlo un gruppo di musicisti locali che nello stile di New Orleans, la sua città natale, suonavano “Basin Street Blues”. Anni dopo, nell’augusta Aula Magna del Liviano a Padova, assistetti a un concerto del Modern Jazz Quartet. John Lewis, Milt Jackson, Percy Heath e Connie Kay, 105 elegantissimi nei loro smoking, quasi ieratici, confutavano la nozione diffusa in quel periodo che il jazz è musica semi-cacofonica, non seria, solo buona per pestare i piedi a ritmo, da non prendere in considerazione se paragonata alla musica cosiddetta “classica”. Mentre il MJQ eseguiva i suoi pezzi, un pubblico di studenti e professori ascoltava in perfetto silenzio fughe e strutture armoniche ispirate al barocco di Bach, su cui si innestavano come trapunti di un merletto melodie e ritmi al tempo stesso robusti e delicati. Incontrai molti anni dopo John Lewis al Blue Note, un locale di Manhattan, e molto gentilmente mi diede informazioni sullo spartito di una sua suite impressionistica incisa da un quartetto d’archi e un complesso jazz che includeva anche un contrabbassista zigano. La suite era stata composta a Milano in sei giorni, su richiesta di Eriprando Visconti per la colonna sonora del film “Una Storia Milanese”. Di quel film la parte più memorabile fu appunto la colonna sonora. Al Liviano ascoltai pure Ornella Vanoni, esordiente con un programma di canzoni rinascimentali. Ancora non si era data “senza fine” alla musica leggera. In un teatro di Padova fui presente anche a un concerto del quartetto “piano-less” di Gerry Mulligan e Chet Baker; e mi capitò di incrociare Mulligan sotto i portici di una delle strade padovane: alto, allampanato, i capelli a spazzola, con al braccio una bella ragazza. La perfetta immagine dell’AllAmerican Boy. g Fu proprio mentre sovrapensiero fischiettavo “Bernie’s Tune” di Gerry Mulligan, che incontrai Marco Borlandi, uno studente più giovane di me, anche lui iscritto a Chimica e come me appassionato di jazz. Marco aveva notato che tenevo sotto il braccio una copia di “Musica Jazz”, il mensile di Giancarlo Testoni e Arrigo Polillo, la più autorevole rivista italiana di critica e divulgazione, e si era avvicinato per fare la mia conoscenza. Eravamo nel cortile 106 principale del Bo, e scoprimmo che abitavamo nella stessa Casa dello Studente. Diventammo amici, lo siamo ancora. Nel marzo del ’60 dovevano arrivare a Milano per un concerto John Coltrane e Miles Davis, grossi nomi del jazz d’oltreatlantico. Marco ed io non potevamo perdere l’occasione, ma squattrinati come eravamo, non potevamo permetterci il viaggio in treno e il soggiorno in albergo. Decidemmo di fare l’autostop, affidandoci al fato per il pernottamento. Di camion in camion, e grazie anche a qualche benefica automobile, arrivammo a Milano in tempo per il concerto, che risultò di notevole importanza e impatto polemico sulla critica, perché gli italiani non erano preparati alla musica d’avanguardia di Trane e Miles. Nella balconata del teatro mi capitò di incontrare una ragazza italiana di Mogadiscio, con cui da tempo avevo iniziato uno scambio di lettere, in visita a dei suoi parenti milanesi: Mariola, la Vergine Somala. Era stata soprannominata così dal mio amico e compagno di stanza Giampi Giberti, che mai mancava di risparmiarmi la sua ironia. All’uscita del concerto, Marco era riuscito a ottenere sul programma gli autografi degli artisti. Io nel frattempo avevo attaccato bottone con un ragazzo, Paolo Jucker, anche lui in cerca di autografi. Gli dico “Senti, non abbiamo dove passare la notte. Non avresti un posticino per noi, che so io, in cantina a casa tua, magari per terra. Domattina ripartiamo per Padova.” Paolo, sorpreso ma non indifferente alla nostra sorte di apprendisti barboni, ci dice: “Ragazzi, non è il caso che vi faccia dormire per terra in cantina. A quest’ora di notte non vi posso portare in casa, ma se volete restare a dormire in una delle automobili nel mio cortile, siete benvenuti.” “Benissimo, grazie Paolo,” rispondiamo noi. E così ci ritroviamo verso l’una di notte nei paraggi della Fiera Campionaria, in un cortile cintato da muri e inferriate, ai cui lati stanno tre case. Paolo ci dice “In quella casa sta la mia famiglia, nell’altra mia nonna, e nella terza alcuni zii. Adesso vado a letto. Buonanotte, ci vediamo domattina.” Intimiditi e grati di tanta magnanimità, gli auguriamo la buonanotte e ci rintaniamo in una delle 107 Z JA DE RN IL M O 108 Z RTET A U Q 109 automobili, per fortuna ben più vasta di una Fiat 500. Raggomitolati uno sul sedile anteriore e l’altro su quello posteriore, bene o male ci addormentiamo. Al mattino ci sveglia un picchiettio sui vetri: “Il signorino Paolo vi invita a colazione,” ci annuncia il maggiordomo. Stropicciandoci gli occhi e rassettandoci i panni, lo seguiamo docilmente dentro casa, dove una tavola è già imbandita: caffè, latte, brioches, marmellata, insomma quanto ci voleva per placare la nostra fame da lupi. Seduto a capotavola, ci riceve amabilmente il padre di Paolo, il sig. Jucker. Un uomo dall’aspetto molto distinto e leggermente distaccato, che dissimula la sua sorpresa nel trovarci a colazione grazie all’ottima educazione borghese d’oltralpe, nella quale la tolleranza ha un ruolo fondamentale. Ci chiede: ”Come mai a queste ore antelucane?”, e noi rispondiamo, scusandoci, che dovevamo prender a prestito urgentemente un libro di Paolo. Lui, che forse vedeva e capiva tutto, accetta le nostre scuse. Come compagni di scuola di Paolo avremmo dovuto essere due ripetenti cronici, specialmente io, grande e grosso e con la barba di due giorni. Mangiando, gli raccontiamo storie di nostra invenzione estemporanea. Lui ci ascolta incuriosito dalle nostre ciarle, e avendo notato un nostro commento – per fortuna appropriato – a uno dei quadri alle pareti, ci invita a visitare la sua collezione. E così scopriamo il motivo di muraglie, inferriate e cancellate. Il sig. Jucker, consigliere delegato e grosso azionista della Cucirini Cantoni Coats Spa., possiede una fantastica collezione di artisti del primo Novecento: Morandi, Carrà, De Chirico, Rosai…Roba da far gola a musei e lestofanti. Alla fine si accomiata da noi con signorile cordialità, il suo pensiero probabilmente già volto alla imminente riunione del consiglio d’amministrazione e al fatturato dell’azienda. Paolo poi ci portò con se al suo liceo, dove il suo racconto delle nostre avventure ci fruttò grande popolarità tra i suoi amici, affascinati dalle nostre modiche infrazioni al costume della buona società. g 110 In quella lontana età felice, uno dei miti che circolavano tra noi giovani era quello della Svedese, la ragazza di facili costumi. In realtà, le ragazze svedesi non erano affatto di facili costumi, ma non essendo in maggior parte vittime della distorsione mentale imposta dalle religioni monoteistiche in materia di sesso soprattutto nei paesi del sud dell’Europa, si comportavano come persone normali, senza remore e pregiudizi inibitori. Facevano all’amore, insomma, coi ragazzi che a loro piacevano. A questo proposito vorrei ricordare un saggio di Luigi De Marchi, “Sesso e Civiltà”, coraggiosamente pubblicato alla fine degli anni Cinquanta da Laterza, che sulla base di dati storici ed etnologici dimostra come le religioni, e in particolare dalle nostre parti la Chiesa cattolica, abbiano instillato nelle menti dei giovani, e purtroppo di molte ragazze, il tabù del sesso non rivolto esclusivamente alla procreazione, meglio se praticato solo “alla missionaria” e nei sacri vincoli del matrimonio. Un lavaggio del cervello paragonabile a una forma di infibulazione psicologica. Come riporta De Marchi, san Paolo scriveva ai Corinzi: “Egli sarebbe bene per l’uomo non toccare donna. Ma per le fornicazioni, ogni uomo abbia la moglie ed ogni donna il suo proprio marito…Io dico questo per concessione, non per comandamento, perciocchè vorrei che tutti gli uomini fossero come son io…”. Dei Padri della Chiesa, Origene si era auto-castrato in gioventù per fare un “fioretto”. Clemente d’Alessandria scrive nel suo Paedagogus: “Praticare il coito, salvo a scopo di procreazione, è far ingiuria alla natura”. Per sant’Agostino, notoriamente promiscuo da giovane, “il sesso è il peccato per antonomasia”– scrive De Marchi – “il peccato originale di Adamo”: “Ex hoc vitio peccatum originale”. E ancora: “Inter feces et urinam nascimur”. Più in là nei secoli, san Bernardo esprime la sua ripugnanza per la nostra condizione di primati in questi termini: ”Se consideri attentamente quello che fuoresce dalla bocca, dalle narici e da tutti gli altri meati del corpo umano, ti accorgi di non aver mai veduto letamaio più 111 repellente… L’uomo non è altro che sperma fetido, ammasso di sterco, cibo di vermi…”. E sant’Oddone di Cluny: “Ma se rifiutiamo di toccare lo sterco o un flemmone anche con la sola punta del dito, come possiamo desiderare di baciare una donna, un sacco di sterco?”. Per questi sant’uomini le donne non sono che pozzi di libidine, abissi di putredine. Ciò non impedisce a san Gerolamo di scrivere in una lettera alla vergine Eustocchia, sua discepola: “Le mie membra erano coperte di un sacco lacero. Il mio corpo straziato giaceva sulla nuda terra. Eppure io, che per timore dell’inferno mi ero condannato a questa prigionia ed alla compagnia degli scorpioni, mi vedevo con la fantasia in mezzo a donne lascive. Il mio volto era terreo per il digiuno, e la mia mente, dentro quel corpo gelido, bruciava di libidine. Il fuoco della lussuria divampava dentro al mio povero corpo ridotto quasi in fin di vita. Ricordo che più volte passai la notte intera urlando e singhiozzando e percuotendomi il petto…”. La cronaca non ci dice se la buona Eustocchia abbia provveduto, cristianamente, un minimo di sollievo al poveruomo. De Marchi riporta pure che questa sessuofobia esacerbata si spingeva al punto di evitare qualsiasi occasione di denudarsi, per non esporre il corpo a tentazioni. Perciò sant’Abramo Eremita evitò di lavarsi per cinquant’anni, vivendo quindi in odore di santità. Santa Eufrasia visse in un convento le cui monache non avevano mai fatto il bagno; e sant’Ammone da vecchio si vantava di non essersi mai visto nudo. g Questi esempi di santità di certo non erano presi in considerazione da due studenti di mia conoscenza, Luca Tomasi e Carlo Pallanza, che mi avevano convinto a seguirli in un viaggio in autostop verso la Svezia, il paradiso delle urì nordiche, a loro dire. Mi diceva Luca: “Non mi importa che sia bella o brutta, basta che respiri.” E Carlo di rincalzo: “Anche morta, purché ancor calda!”. Luca era un ragazzo di media statura, con una faccia rosea paffuta e una forte 112 miopia corretta da spesse lenti. Pizzicava le corde di una chitarra e cantava languidamente, senza dubbio a scopo di irretire prede ancora in grado di respirare dopo averlo ascoltato: “ ‘Na voce, ‘na chitarra e ‘o poco ‘e luna…”. Carlo invece era alto e scheletrico, con una carnagione biancastra e purulenta, pelo rosso e pizzo rado e filiforme che dal mento gli ricadeva sul petto. Lo ricordo d’estate al Lido di Venezia, la pelle color aragosta sotto il solleone, pavoneggiarsi in spiaggia cercando di adescare le turiste tedesche. Indossava un costume di lana a maglia che, bagnato, calava pericolosamente al disotto dell’inguine, rivelando di lato all’occhio dell’esterrefatto osservatore penzolanti pudende ordinariamente celate al ludibrio degli astanti. Partimmo insieme, Luca, Carlo ed io, attraversando la Germania e la Danimarca. Ricordo che al nostro passaggio il campo di concentramento nazista a Dachau, nei dintorni di Monaco di Baviera, conservava ancora le baracche che avevano ospitato i detenuti. Le pareti di legno mostravano graffiti di povera gente ormai a corto di speranze. A Colonia, la cattedrale era rimasta miracolosamente intatta in mezzo a una grande piazza ridotta a un cumulo di macerie dai bombardamenti. Per fortuna le autostrade – le rinomate Autobahnen, opera faraonica di Hitler – erano ancora in funzione. Di ritorno pochi anni dopo, trovai che Dachau era stato reso asettico eliminando le vecchie, dolorose baracche e conservando solo il loro perimetro marcato da blocchi di pietra, al cui interno era stata sparsa ghiaia. La cattedrale di Colonia era di nuovo circondata da case e da strade ripulite da ogni maceria, a testimonianza della determinazione dei tedeschi di sopravvivere allo sfacelo del Terzo Reich. Arrivati a Stoccolma, mi separai da Luca e Carlo, e quindi non seppi mai quante ragazze vive, moribonde o morte di recente avessero conquistato. Io trovai lavoro come sguattero nei ristoranti, a volte lavorando per due turni di fila, per poi finire la notte, stanco morto, in qualche club ad ascoltare il jazz locale. Una mattina, tornando in tram verso la casa che mi ospitava, mi addormentai sul sedile e fui svegliato al capolinea dal conduttore. 113 Per fortuna il lavoro mi lasciava tempo per qualche svago. Il posto preferito dai giovani, in quella luminosa estate nordica, era il Kungsträdgården, il giardino del re, vicino al palazzo reale, nel centro di Stoccolma e a poca distanza da un braccio di mare. Una specie di parco e giardino botanico, con caffè e ristoranti, dove la gente sdraiata sull’erba o sulle panchine cercava di assorbire ogni raggio di sole della breve estate. Era facile sedersi a un tavolino di caffè e fare amicizia con qualche ragazza, locale o in visita alla capitale. Ne ricordo due in particolare: Ingrid, la Figlia del Pastore, e Marianne. Ingrid era la figlia di un pastore luterano di Malmö, nel sud della Svezia. Mi aveva invitato a casa sua per un weekend, in una grande villa sul mare. La notte, quando i genitori dormivano, arrivava in camicia da notte nella mia stanza per infilarsi nel letto e bisbigliarmi antiche leggende scandinave, storie di giganti, di elfi e di spiriti delle acque. Marianne invece era una vera vichinga. Alta, robusta e di spirito pratico, era una giovane donna indipendente e sicura di se. Un perfetto esemplare di svensk flicka. Venne a trovarmi in Italia l’anno seguente, e la ricordo con gran simpatia. Al Kungsträdgården incontrai anche Mario Andreucci, un giovane giornalista di Lucca. Al passaggio di ogni bella ragazza si voltava e facendo buon uso della sineddoche salmodiava una sua giaculatoria: “Bella mi’ topa, bella mi’ topina…”, una tradizionale invocazione toscana al sacro tabernacolo della femminilità. Poi si metteva a cantare mezzo in inglese e mezzo in francese “Darling, je vous aime beaucoup - Je ne sais pas what to do…”. Le prodezze canore degli italiani hanno un potere di seduzione preternaturale, soprattutto sulle straniere. Lina Wertmüller ce ne ha dato un saggio col personaggio di Pasqualino Settebellezze. Una sera, in macchina con un altro italiano, Mario ed io inseguimmo per le strade che tagliano i boschi della periferia di Stoccolma un’altra automobile con tre ragazze. Il sole di mezzanotte era ancora alto quando le ragazze, impressionate dalla nostra ostinazione, come gazzelle inseguite dai leopardi alla fine si arresero e ci accolsero 114 nelle tende di un loro campeggio. Furono amplessi al sapore di sale, le ragazze non avevano avuto il tempo di far la doccia… Alla fine di quell’estate, con un po’ di soldi in tasca guadagnati lavando piatti e sparecchiando tavole, ripresi la strada di casa, questa volta per conto mio. Luca e Carlo erano svaniti molte settimane prima nei viottoli della Gamla Staden, la città vecchia di Stoccolma. Ormai io ero un veterano dell’autostop, ed è notevole che in quel dopoguerra non ci si sentisse in pericolo girando di notte per le città o chiedendo un passaggio a sconosciuti. Ma allora l’unica droga a disposizione del grosso pubblico era l’alcol, sotto forma di vino, birra e liquori. Di quel viaggio di ritorno ricordo qualche episodio. In un pomeriggio di pioggia, ai bordi di una strada danese era ferma una Lancia targata Italia che aveva investito un piccolo cerbiatto. I suoi occupanti, preoccupati, non sapevano se mettere il cadaverino nel bagagliaio o farlo sparire in qualche altro modo. Paludato in un poncho di plastica col cappuccio li avevo raggiunti a piedi. Come se in Danimarca tutti parlassero italiano, gli assassini involontari di cervi mi avevano subissato di parole nella mia lingua materna, spiegandomi quello che era successo, e che il cervicidio non era colpa loro ma dell’incauto Bambi. Ero tentato di rispondere in un mio danese raffazzonato per l’occasione, ma poi il buon senso prevalse sulla mia scapestrataggine, e in buon italiano li rassicurai che non dovevano temere l’incarcerazione, i cervicidî sono cose che capitano. E loro, strabuzzando gli occhi: “Ma come parla bene l’italiano questo giovane”. E io: “L’ho imparato a casa mia, in famiglia lo parlano tutti…”, proseguendo per la mia strada senza fornire ulteriori schiarimenti. Avvistato il mio pollice al vento, su un’autostrada tedesca una Volkswagen si ferma per offrirmi un passaggio. A bordo un uomo di mezza età, grasso e calvo. Dopo pochi chilometri e un abbozzo di conversazione, il guidatore sposta una mano dal volante e me la piazza sulla coscia. Io, imperturbato, la sollevo con due dita come fosse un ranocchio e gliela riporto dal suo lato. Lui, senza far motto, 115 mette fuori la freccia , si sposta al lato della strada, e mi ingiunge: “raus!”. In meno di mezz’ora il mio pollice si ritrovò al vento. Dopo numerosi, infruttuosi tentativi di fermare macchine, in una stazione di servizio in Germania vedo un’Alfetta che sta facendo benzina con due giovani uomini a bordo. Mi avvicino col mio zaino in spalla, e titubante gli chiedo se possono darmi un passaggio verso il sud. Loro, elegantemente vestiti con giacche sportive, foulard al collo, occhiali da sole di marca, mi squadrano sospettosi. Io gli propino una litania commovente: “Sono uno studente padovano, sono stato tre mesi in Svezia per lavorare durante l’estate e mantenermi agli studi. Sto tornando a casa in Italia prima dell’inizio dell’anno accademico. Mia mamma mi sta aspettando.” Evocare la figura materna non manca mai di smuovere i cuori più acerbi, e i due mi dicono: “Salta dentro”. Erano due giovani ingegneri, uno di essi un rampollo – di cognome Gallo o Pomi – dei titolari della Gallo Pomi Spa. di Milano, una compagnia che allora forniva attrezzature per il design e la progettazione. Durante il tragitto si rassicurarono che non ero un ricercato dall’Interpol. Andò a finire che mi portarono con loro a cena in un ristorante. Benedetti, non li ho mai dimenticati. g 116 TRANSFUGA A FERRARA La fuga da Padova – Nebbia e galline – Schifanoia – Il cuculo ozioso – Crisi letteraria – Angeli custodi – Un bel casino – Il lamento del marmittone – Naja tripudians – Neve, whisky e 7Up – Di guardia ai patrii confini – Ritorno a Ferrara – Amore e termodinamica Verso la fine degli anni Cinquanta mi ero reso conto che a Padova i miei studi stagnavano. L’ambiente era per me diventato alienante. Non ero mai stato bocciato a un esame, ma spesso non mi decidevo a darne, non sentendomi mai preparato a sufficienza. In retrospettiva, le mie paure erano del tutto infondate. E sempre in retrospettiva, più che di mancanza di voglia di studiare penso di aver sofferto di insicurezze, prodotto di numerose cause che un buon psicologo avrebbe potuto curare facilmente. Ma nessuno me lo aveva consigliato. Ricordo che una volta un assistente, dopo aver esaminato il mio libretto mi disse: ”Ma lei, Torrazzi, se la cava bene. Perché non vuole fare esami più spesso?”. Questa mia fobia per l’esame sparì quando emigrai negli Stati Uniti. Superai diversi esami da “graduate student” nelle università americane, sempre con ottimi voti. Evidentemente il nuovo ambiente e maggiore maturità mi avevano guarito. La goccia che fece traboccare il vaso e mi decise al trasferimento verso altre università fu l’esame di Organica I, sostenuto con l’ordinario, il prof. Bezzi buonanima. Bezzi, non soddisfatto del numero di preparazioni delle 117 aldeidi che gli avevo sciorinato, dopo aver dato un’occhiata al mio libretto mi disse di tornare alla successiva sessione autunnale. Cosa che feci, preparandomi il meglio possibile per ripicca. Bezzi, con un risolino ironico, mi diede 28. Io avevo già deciso di andarmene, e ingrugnito afferrai il libretto e mi dileguai. A Padova c’erano troppi studenti per sperare in un rapporto coi docenti che non fosse quello della lezione accademica. In principio avevo pensato a Bologna, ma dopo aver visitato l’università mi resi conto che, anche se convivere coi bolognesi sarebbe stato più divertente che coi padovani, quell’ambiente di studi intimo che cercavo non lo avrei trovato a Bologna. Tra Padova e Bologna c’era Ferrara, città poco più distante di Padova da Bolzano, dove stava la mia famiglia. Un mattino di fine ottobre presi il treno e arrivai alla stazione di Ferrara avvolta nella nebbia. Chiesi della sede dell’università e m’indicarono la direzione del Castello Estense. Camminando per Corso Cavour poco a poco la nebbia andava diradandosi. C’era poco traffico, la strada era quasi silenziosa. Arrivato all’altezza del Castello, dei passanti mi dissero come andare in segreteria per ottenere informazioni sui corsi e le iscrizioni. La sede centrale dell’università non era distante, mi sembra fosse in via Scienze, una trasversale di via Mazzini. Vi arrivai in pochi minuti. Erano circa le undici del mattino, la nebbia era scomparsa, e mi trovai di fronte a una vecchia palazzina di stile tra il rinascimentale e il barocco, che tra l’altro ospitava l’antica biblioteca ritratta nel film di De Sica “Il Giardino dei Finzi-Contini”. Attraverso un grande portone entrai in un cortile acciottolato e subito fui accolto da un branco starnazzante di galline che si dispersero al mio passaggio. Un ragazzo che aveva notato il mio sguardo esterrefatto mi disse: “Fanno parte di un progetto di studi.” “Bene – pensai – ho trovato il posto che fa per me.” In segreteria mi consigliarono di andare a parlare col prof. Barnabè all’Istituto Chimico di via Scandiana. Ferrara, o almeno la parte antica della città recintata da massicce mura, si attraversa facilmente a piedi. Nel pomeriggio mi presentai da Barnabè. Allora l’Istituto 118 Chimico era alloggiato in una porzione dell’antico palazzo Schifanoia, una “delizia” voluta nel XV secolo da Borso d’Este, il primo degli Estensi a fregiarsi del titolo di duca. Per fortuna i fumi della chimica non potevano raggiungere gli incomparabili affreschi della Sala dei Mesi. Dall’altro lato del cortile c’era la Facoltà di Farmacia. I laboratori chimici erano in gran parte negli scantinati, antichi fondaci dove forse il Paracelso aveva cercato di creare l’omuncolo. Avevo affondato i piedi nella storia della chimica. Barnabè era un uomo tra i quaranta e i cinquant’anni con i capelli lisciati all’indietro sul cranio, “alla mascagna”, come usava pettinarsi il compositore di Cavalleria Rusticana. Mi ricevette molto cordialmente, e dopo aver ascoltato le mie vicende, resosi conto di quello che volevo concluse il nostro incontro dicendomi “Venga da noi, Torrazzi. Studi, e vedrà che con noi si troverà bene.” E così fu. Il prof. Barnabè era un residuato di guerra. Richiamato alle armi durante gli inani sforzi bellici dell’Italia nei primi anni Quaranta, si ritrovò in divisa come ufficiale del regio esercito. Non so come se la sia cavata dopo l’8 settembre del ’43, ma alla fine della guerra tornò a Ferrara, e prontamente laureatosi restò all’Istituto Chimico come Aiuto del prof. Marotta, il capo d’istituto. A quei tempi tutti i reduci venivano giubilati senza troppa fatica. Dopotutto si meritavano qualche riconoscimento per essere riusciti a salvare la pelle in quel marasma cui era ridotta l’Italia. In pratica, Barnabè divenne il factotum dell’istituto e il Ragazzo Venerdì di Marotta. Ogni decisione amministrativa, ogni acquisto di strumenti e di materiali, passava attraverso Barnabè. Era il deus-exmachina dell’istituto. In linea di principio Barnabè era in carica dell’insegnamento di Chimica Analitica. Infatti in un corridoio che dal mezzanino scendeva negli scantinati troneggiava un mastodontico gascromatografo a valvole termoioniche – ben pochi a quei tempi sapevano cosa fossero i transistor. (Anni dopo a New York incontrai John Bardeen, uno degli inventori del transistor e Premio Nobel). Con il mastodonte Barnabè e i suoi laureandi, questi ultimi 119 definiti con reminiscenze pascoliane dal collega prof. Respighi “del cuculo ozioso i piccolini”, perpetravano oscure ricerche. A me Barnabè piaceva per quel tanto di fureghino che gli consentiva di navigare, ad onta della sua opinabile natura di scienziato, le spesso burrascose acque della vita accademica. Non dimenticavo la cordialità quasi paterna con cui mi aveva accolto, direi a braccia aperte. E anche se a volte durante le sue lezioni mi redarguiva “Torrazzi, vuol prestare attenzione!” avendo sorpreso i miei occhi vaganti sulle compagne di corso, non potevo impedirmi di trovarlo estremamente simpatico. E poi parlava mezzo in italiano e mezzo in dialetto emiliano, abitudine a mio parere affascinante. Trasferendomi da Padova a Ferrara mi ero ripromesso di non leggere niente che non avesse a che fare con la chimica. Quindi basta Vittorini, niente Garcia Lorca, sul comodino vicino al letto al posto dell’Imitazione di Cristo (leggevo di tutto, ma la prosa di Tommaso da Kempis era utilissima per addormentarsi) doveva stare il libro di Chimica Analitica, per rammentarmi di imitare il prof. Barnabè che mi avrebbe giudicato e mandato secondo che mi avesse avvinghiato. Devo confessare che questa mia rinuncia agli ozi con le lettere aveva creato in me un senso di privazione intellettuale palpabile. Che s’ha da fare per potersi laureare... Per mia fortuna in quei frangenti avevo incontrato Amedeo Pornari e Alessio Scalchi. Erano studenti seri, Deo e Alex, con cui l’associazione avrebbe dato frutti. Bravissimi ragazzi, l’uno un po’più, l’altro un po’ meno cattolico. Li consideravo entrambi i miei angeli custodi. Deo era un transfuga dalla facoltà d’ingegneria. Dopo diversi scontri con l’ordinario di matematica, il prof. Zwirner, Deo aveva optato per la chimica, dove l’insegnamento della matematica era meno rigoroso. Io stesso ebbi a che fare con Zwirner, ordinario a Ferrara ma incaricato dell’insegnamento di Istituzioni di Matematiche I e II per chimici a Padova. Me la cavai con un 25 e un 24, rispettivamente. Il mio terzo incontro con Zwirner, 120 incruento, avvenne sul pullman da Venezia a Padova, dove per caso andai a sedere proprio dietro al professore e a un suo collega. Ricordo che i due congetturavano il recente suicidio del prof. Caccioppoli, genio matematico dell’università di Napoli, pianista a livello professionale, e nipote del famoso anarchico Bakunin. Io li ascoltavo interessato. Benché non mi ritenga anarchico, la mia morale è condensata in questo detto di Bakunin: ”La libertà, la moralità e la dignità umana dell’individuo consistono precisamente in questo; che non si opera il bene perché si è forzati a farlo, ma perché lo si concepisce liberamente, lo si desidera, e lo si ama.” g Il passaggio di Deo da ingegneria a chimica fu, a mio parere, alla base delle sue fortune e, di conserva, delle mie. Deo si laureò nel ’63, restando come assistente-ricercatore del Cnr in Istituto Chimico a Ferrara. Da lì sbocciò la sua carriera accademica, che passando per la Francia si concluse trionfalmente con una cattedra in un’università del nord. Ricordo che durante il mio primo soggiorno ferrarese avevo trovato alloggio in una stanza la cui finestra dava su un vicolo. La casa di fronte ospitava il bordello cittadino. Deo, non ancora laureato, veniva spesso a studiare da me. Preparavamo insieme un esame complementare di cui non ricordo il nome, ma ricordo che un test da imparare comportava l’applicazione di “cento colpi di maglietto”, sa il cielo a cosa. Durante le pause per rilassarci sbirciavamo dalla finestra l’andirivieni nel vicolo sottostante. La senatrice Merlin non aveva ancora privato il focoso maschio italiano di quella secolare istituzione che dando sfogo a naturali umori non metteva allo sbaraglio madri e sorelle, preservandone le domestiche virtù. Era risaputo infatti che, fatta eccezione per mamma e sorelle, tutte le donne sono puttane. A volte l’eccezione veniva fatta anche per la moglie. Tutto stava andando a gonfie vele. Facevo esami e contavo di laurearmi insieme a Alex e Deo nell’estate 121 del ’63. Ma il diavolo mette sempre la coda tra le migliori intenzioni. Nel mezzo del ’62 il distretto militare mi notificò la imprescindibile chiamata alle armi. E così, dando addio agli studi fecondi, nell’autunno del ’62 mi presentai mogio mogio al Car (Centro addestramento reclute) di Verona. Ricordo che un ex-compagno di liceo, ufficiale di carriera, mi incontrò in divisa da marmittone e mi fece “ma che bel soldatino!”. Roba da vomitargli addosso. In precedenza ero stato mal consigliato da un assistente di Chimica a Padova che aveva prestato servizio presso l’ospedale militare e insegnava un suo corso indossando il camice sopra la divisa. Mi aveva detto “avrai più libertà come soldato semplice che come ufficiale”, e credendogli feci del mio meglio per non essere accettato al corso ufficiali. Grave errore, di cui pagai le conseguenze, ma che mi convinse di un assunto fondamentale: meglio salire verso la cima, quando se ne ha l’opportunità. Dopo i regolamentari tre mesi di Car arrivò il giorno del giuramento di fedeltà alla patria, il cui testo era recitato da qualche maresciallo e doveva essere coronato dal grido corale di noi reclute: “Lo giuro!”. Eravamo stati in precedenza redarguiti “Non sognatevi di gridare ‘l’ho duro!’ ”. Era un invito a fare esattamente quello. Poi fui assegnato ad un ufficio di Verona. Là incontrai un paterno maresciallo che mi prese a benvolere e mi disse “tu studia, non preoccuparti d’altro”. Ma stupidamente mi diedi da fare per essere trasferito a Bolzano, pensando di avere ancora più libertà. E invece, artigliere da montagna, finii nella più rigida naja alla Caserma Huber, ricordata anche da Sergio Saviane in una delle sue schioppettate ai mezzibusti e loro compagni di strada ne “L’Espresso Desnudo”. Ricordo che nei giorni del blocco navale a Cuba ordinato dal presidente Kennedy, noi truppe Nato dovemmo dormire in completo assetto di guerra per tre giorni, zaino affardellato e carabina Winchester ai piedi della branda, pronti ad essere impegnati in qualche teatro di operazioni europeo. g 122 Non mi dilungherò troppo a parlare di un periodo della mia vita che, lungi dal migliorare il mio carattere, lo aveva incrudito al contatto con beceri in divisa. E più alto il rango, più beceri li ritrovavo. Al loro confronto mi parevano più signorili i commilitoni scesi dai paesi delle montagne e perciò assegnati alle stalle dei muli, anche se il loro divertimento preferito era quello di stuzzicare i genitali delle mule con manici di scopa, ridendo sgangheratamente alle reazioni delle povere bestie. Il comandante della caserma Huber, in particolare, era un obeso colonnello che credeva di ottenere il rispetto dei subordinati inchiodandoli sull’attenti con una grinta altezzosa al limite del ridicolo. Di fattezze simile a un porcello, i subordinati lo avevano soprannominato “Il Maiale”. Il responsabile del mio gruppetto di artiglieri montani addestrati al calcolo dei dati di tiro era l’inoffensivo tenente Malerba, che scompariva dentro al Circolo Ufficiali appena possibile per farsi una partita a carte coi commilitoni e bersi un cicchetto. In modo da non passare un sol giorno più del necessario in quei panni, io mi sforzavo di esser ligio ai regolamenti al punto che una volta il capitano Manfredini, comandante della mia compagnia, mi disse “ma tu non sarai mica malato di naja”, intendendosi per malato di naja un patito della vita militare. Ricordo anche il sadico tenente Ronchetti che si divertiva a sfottermi non tollerando il fatto che io stessi per laurearmi mentre lui aveva fatto “solo” ragioneria. Onoratissima professione a mio parere, ma non in quello della classista borghesia italiana. La sera noi reclute dovevamo subire le tradizionali, moderate angherie degli “anziani”. Loro, i “veci buferati”, potevano andare in libera uscita e a noi “cappelloni” che restavamo in caserma cantavano: “Brutta cappella va in branda, va a dormir – mentre l’anziano va fuori a divertir…”. “Su con le sbardele” era l’incoraggiamento dei miei commilitoni quando al campo invernale ci inerpicavamo per i “crozi” coperti di neve attaccati alle code dei muli. (Cerco ancora di tenerle su, le vecie sbardele, salendo per i crozi della vita). A noi marmittoni avevano 123 dato in dotazione per dormire nei fienili solo due coperte. Dormivamo con gli scarponi ai piedi, perché al mattino sarebbe stato difficile calzare quei blocchi di ghiaccio. Agli ufficiali, che avevano il permesso di passare la notte nel più vicino albergo, avevano invece dato in dotazione il saccopelo. Una pratica assurda. Chiesi a un sottotenente di complemento di lasciarmi usare il suo saccopelo, e il giovanotto acconsentì. Alla fine del campo lo restituii in ottime condizioni al mio benefattore. Ma non passò un giorno, il comandante della compagnia cui ero stato assegnato per la durata del campo mi chiamò a rapporto, e davanti a un gruppo di najoni e sottufficiali mi tirò un lisciabusso. Pochi giorni prima era morto un alpino, travolto da una valanga. Lo stronzo gallonato mi urlò con tatto da cercopiteco: “Sai quello che è morto l’altro giorno? Ormai tutti lo hanno dimenticato, anche la sua famiglia. Ma se tu mi perdi un saccopelo, son cazzi amari!”. “Ma io non ho perso il saccopelo, sior capitano. L’ho restituito al tenente che me l’aveva prestato...”. Il resto di quella scena da film surrealista l’ho dimenticato. g Nell’inverno del ’63 facevo parte di un distaccamento a Corvara il cui compito era di insegnare a un gruppo di militari americani i metodi della guerra di montagna. Gli americani alle cinque di sera si mettevano in borghese e se ne andavano a cena in qualche albergo, strizzando l’occhio alle turiste tedesche. A noi, “brutte cappelle” non era mai consentito di toglierci di dosso il grigioverde, quel panno che ispirava ribrezzo alle fanciulle di buona famiglia. La notte di Natale, smontando dal mio turno di guardia, gli americani mi invitarono a dividere con loro dei dolci, innaffiandoli con whisky e 7Up. Le vettovaglie e altri generi di conforto erano arrivati dalla base americana di Verona in elicottero! Altro che i viveri della nostra sussistenza: minestre distribuite all’addiaccio e bistecche che ci venivano scagliate nel gavettino e a volte 124 finivano nella neve. Poco male, le si spolverava prima di azzannarle, affamati com’eravamo. D’accordo, queste erano bazzecole a paragone di quello che avevano sofferto gli alpini nella campagna di Russia. Trascorsi gli ultimi tre mesi di servizio militare come responsabile – mi avevano promosso a caporalmaggiore – di un piccolo gruppo di soldati a guardia di una centrale idroelettrica in Val Gardena. Era il periodo in cui terroristi pangermanici valicavano il confine con l’Austria e facevano saltare tralicci ammazzando le truppe italiane di guardia. Io e i miei commilitoni dovevamo fare la guardia al perimetro della centrale, ogni notte illuminato a giorno da riflettori. Calzavamo sopra agli scarponi degli zoccoloni di legno per isolarci dal terreno ghiacciato. La nostra mobilità era molto limitata. Sarebbe stato molto facile per un terrorista calarsi tra i boschi, inquadrarci nel suo mirino, e poi dileguarsi. Ancora oggi mi chiedo come i nostri comandi avessero potuto mettere sia noi alpini che la stessa centrale a tale sbaraglio. Del mio soggiorno coatto in Val Gardena resta in bilancio positivo solo il permesso dei buoni valligiani di usare le sciovie gratis quando eravamo in libera uscita. Senza ulteriori malanni alla fine mi ritrovai per strada, congedato a tempo illimitato. Uscii di caserma ancora in divisa insieme a un tedescotto delle valli, che appena fuori dal portone si stracciò i pantaloni al ginocchio, e così conciato trottò baldanzoso sotto gli sguardi allibiti dei passanti. Appena spuntava all’orizzonte un militare abbottonava il cappottone grigioverde a coprire l’oltraggio alla divisa che lo avrebbe di nuovo sbattuto chissà per quanto tempo in caserma. Io andai a casa e mi buttai nella vasca da bagno. In tutti i diciotto mesi di naja riuscii a fare solo un complementare, Chimica Bromatologica, amministrato da un simpatico professore di Farmacia con cui a Ferrara avevo spesso diviso la tavola in un ristorante di famiglia a menù unico. Mi trattò con affettuosa cordialità quando mi presentai all’esame in divisa. Al momento del congedo pensai: mai più mi rivedranno in questi panni. La predizione si avverò. 125 Dopo un periodo di riadattamento alla vita civile, tornai a Ferrara nell’autunno del ’64. Mi mancavano ancora i due esami di Chimica Fisica, Organica II, e forse un paio di complementari. Io mi sono sempre trovato bene nel preparare esami in compagnia di qualche altro studente. Ma i miei due angeli custodi si erano ormai laureati. Incontrai però una dolcissima fanciulla, Mirella Prini, molto più giovane di me, che a grazie muliebri univa un’incrollabile dedizione allo studio. Giusto quanto andava bene per me, fin dalla più tenera età ammiratore dell’eterno femminino in tutte le sue varianti. Mirella era il frutto degli amori giovanili di un’attraente ragazza ferrarese, il cui partner si era dileguato dopo aver sganciato lo spermatozoo fatale. Ciò ovviamente aveva creato una spiacevole situazione per la madre di Mirella, costretta a sbarcare il lunario da sola in un ambiente sociale poco caritatevole nei confronti delle madri nubili. Le due donne abitavano in un appartamento di una strada trasversale al Corso Giovecca e al Corso Porta Mare. Mirella ed io passavamo il pomeriggio nel soggiorno, ingurgitando le formule e le equazioni del Glasstone, finalmente tradotto in italiano. Ma galeotto fu il Glasstone. Un pomeriggio, tra un principio e l’altro di termodinamica, soccombemmo a pressioni, volumi e temperature d’altra natura. L’idillio neonato fu bruscamente interrotto dall’arrivo della madre di Mirella, accompagnata dal suo boyfriend, un fattore della Bassa Padana. “Lo dicevo io che sarebbe finita così”, urlò la madre, molto preoccupata per l’illibatezza della figlia messa in pericolo da uno che – ahinoi! – non si era ancora laureato. Rassettatomi, tentai di rabbonirla con una frase che avevo imparata nelle seconde visioni dei cinema di periferia e nei romanzi di Carolina Invernizio: “Le mie intenzioni sono onorevoli, signora Prini”. Alle spalle della madre il bonario fattore ridacchiava. Per tagliar corto, da quel giorno fui accettato come un semi-fidanzato. E durante l’estate riuscii persino a fare un viaggio in Liguria con Mirella. Ricordo di esser stato con lei a Lerici, nell’antico castello a strapiombo sul luminoso 126 golfo di La Spezia, nelle cui acque era annegato un secolo prima Percy Bysshe Shelley. Il castello era stato costruito dai normanni a difesa dai pirati turchi. Parte di esso era stata convertita in ostello della gioventù. La vista dall’alto degli spalti era incomparabile. Per un ripido sentiero si poteva scendere fino alla spiaggetta e nuotare intorno alla scogliera, cogliendo granchi e ricci di mare. Ricordo pure una gelida notte di capodanno a Ferrara, passata insieme a lei a qualche veglione, e terminata con uno scivolone sul ghiaccio davanti all’Arcispedale Sant’Anna che quasi ci aveva spedito proprio all’ospedale. Il mio rapporto con la signora Prini era nel migliore dei casi agrodolce. La mia suocera morganatica, per così dire, non mancava di lanciarmi strali se le si presentava l’occasione. Per esempio, ogni tanto mi diceva “e come sta il dottor Pornari?”, calcando sarcasticamente sul “dottor”, in tal modo contrapponendo senza possibilità di equivoci la gloria dell’Unto dal Signore all’abiezione del verme che ancora strisciava nel sottobosco universitario. Ma Deo con me non metteva su arie da Unto. Anzi, si prodigava per aiutarmi. Già sposato con la bella Annora e con un figlio infante, viveva dei magri proventi di ricercatore all’Istituto Chimico. A volte andavo a casa loro, e se c’era una sola bistecca se ne privavano per darla a me. Deo mi raccontava che il prete della parrocchia locale spesso li visitava, spronandoli a fare altri figli. E Deo mi diceva, neanche me li mantenesse lui... Perlomeno però il prete non gli fregava la bistecca! Comunque, sia la madre di Mirella che la mia, per motivi più chiari a loro che a me, non vedevano di buon occhio la nostra relazione. Credo che avessero deciso di comune accordo che non eravamo fatti l’uno per l’altra. E, visti i successivi eventi, non avevano tutti i torti. Poco a poco la mia relazione con Mirella si sfaldò. Io alla fine mi laureai. Lei continuò i suoi studi e finì per fare il lavoro di tesi sotto la guida del prof. De Benedetti, con cui in precedenza anche io avevo lavorato. Nel 1961 era stato inaugurato a Pisa il primo calcolatore scientifico italiano, la Cep (Calcolatrice elettronica pisana). Una delle prime 127 macchine “mainframe” messe in funzione in Italia dalla Olivetti. De Benedetti, ottenuta la cattedra di Chimica Teorica, aveva sistemato Mirella come sua assistente addetta alla programmazione in Fortran. Sembra che tale compito avesse procurato notevoli frustrazioni alla povera ragazza, forse compensate da un interesse di De Benedetti per la sua protetta che debordava dai limiti del professionale. (Così almeno la contava Deo. Alex invece era di solito un campione di discrezione.) A me di Mirella è rimasto un ricordo affettuoso, e spero che la vita le abbia dato più soddisfazioni di quelle ottenute a Pisa in quei lontani anni Sessanta. g 128 AMARCORD DI FERRARA Veronica e Liliana – Ninuzzo e Nunziante – Pendenza – Librai ambulanti e sognatori Questi miei ricordi gorgogliano dal fondo della memoria come l’acqua che dopo un temporale tracima dai tombini in fiotti e singulti e si dirama in rigagnoli ai bordi delle strade, prima di gettarsi nel gran fiume che prima o dopo tutti dovremo attraversare. Ricordo Veronica, l’emblema della pudicizia, con un’espressione perennemente melanconica e una bocca che D’Annunzio avrebbe trovato “nu poco pocorillo appassuliatella”. Abitava in un appartamento di via Mazzini, di fronte alla vecchia sinagoga ortodossa di cui parla Bassani nei suoi racconti. Sulla facciata della sinagoga una grande lapide ricorda i nomi dei ferraresi che, solo colpevoli di appartenere alla comunità israelita, furono deportati in Germania o in Polonia per morire nei campi di sterminio nazisti. Quella lapide mi ispirava una strana commozione ogni volta che le passavo davanti, come se nelle mie vene scorresse del sangue semita. Eppure mio padre, fascista convinto, prima di sposarsi aveva fatto ricerche genealogiche appurando che almeno per sette precedenti generazioni non c’erano ebrei nelle famiglie. Però probabilmente c’erano arabi, poiché il cognome di mia madre era De Mori. Tutto sommato, qualche goccia di sangue semita forse mi è rimasta nelle vene. 129 Veronica sfioriva anzitempo, io credo perché come una vestale custodiva gelosamente la sua verginità, da espugnare solo dopo consacrati imenei. Ma ho un ancor più vivido ricordo di una sua sorella minore che mi fissava con occhi di giovenca mansueta quando cercavo di provocarla con qualche blanda ribalderia. Lei abbozzava un timido sorriso e il suo corpo, un peana alla fertilità, ondeggiava imbarazzato. Io ero abbagliato dai suoi seni, erti come diamanti di bugnato, luminosi pomi da giardino delle Esperidi straripanti dalla camicetta troppo stretta. Seni degni di un’elegia di Ramon Gomez de la Serna. Candidi promontori a guardia della vallata in cui si celava un’oasi verdeggiante per il refrigerio del viandante assetato. Ricordo pure Liliana, giovinetta di buona famiglia con occhi azzurri sognanti e chiome dorate. Purtroppo era afflitta da una leggera imperfezione, una pronunciata arcuatura delle gambe, la “sindrome del cavallerizzo”. A mio parere questo aumentava i suoi pregi, consentendo arcani amplessi. Ma certi giovinastri screanzati che bivaccavano al bar dei vitelloni, al suo passaggio non si peritavano di farne oggetto di lazzi e sarcasmi: “A’ gh’passa el tren!”. “A’ l’è nada ‘n su ‘na bott!”. g Durante il mio primo soggiorno a Ferrara, dall’autunno del ’60 all’estate del ’61, trovai alloggio alla Casa dello Studente, sull’ampio Corso Giovecca, dal lato opposto all’Arcispedale Sant’Anna, a poca distanza dalle Mura degli Angeli. Molti degli studenti erano, come me, transfughi dall’Università di Padova. Molti provenivano dal sud dell’Italia. La fauna più colorita che abitava nella Casa dello Studente era quella che popolava la Facoltà di Medicina. Tra gli aspiranti medici uno dei più memorabili era Ninuzzo, un meridionale che ripeteva ogni esame un numero incredibile di volte fino a che, un po’per pietà e un po’per toglierselo dai piedi, non gli rifilavano un diciotto. E così, di bocciatura in caritatevole promozione, Ninuzzo era arrivato verso i quarant’anni alle soglie della laurea. 130 Bassissimo di statura, quasi uno gnomo, si meravigliava che ad ogni esame di patologia i professori gli ponessero sempre la stessa domanda: “nanismo e cretinismo”. Di lui si diceva che nel corso dell’esame di semeiotica il professore, volendo che Ninuzzo gli descrivesse il riflesso del Mingazzini, gli chiese ”Mi trovi il Mingazzini”. Ninuzzo corse fuori dalla corsia gridando “Mingazzini, il professore vuol vedere Mingazzini!...”. Ma forse questi sono aneddoti polverosi che fanno il giro di tutte le università. Come la storia dello studente di ingegneria cui all’esame di Chimica Generale era stato chiesto di definire il pH. E lui intonò “pH o HP, cavallo vapore...”. Ricordo il barese che alla Casa dello Studente cercava di venderci le dispense dei Fratelli Fabbri. Anche lui transfuga a Ferrara, era quello che a Padova era affascinato dai “pubbbe” di Modigliani. “Guelfe, Guelfe – mi diceva – vieni a vedere quanto sono bbelle queste riproduzzioni, Vanghegogg, Goghenn, Tulùs Lindregg...”. Ma soprattutto indimenticabile è Nunziante Donnarumma, anzi Donnarumma Nunziante, come usava presentarsi. Un napoletano che sembrava uscito da una litografia a colori della festa di Piedigrotta. Donnarumma Nunziante era di media statura, corpulento, capelli neri lustri di brillantina, naso rincagnato e labbro inferiore carnoso e pendulo. Un uomo di eccezionale bruttezza. Si era messo in testa di sedurre una giovane sarta che io avevo conosciuto in una balera di Codigoro e che, trovandomi simpatico e sempre disposto ad ascoltarla, mi confidava i suoi problemi. Anzi, il suo unico problema: Donnarumma Nunziante. Il quale non faceva mistero con nessuno delle sue intenzioni predatorie, dichiarando le sue carte come un giocatore di poker, tanto che gli amici ridacchiando gli chiedevano continuamente “A Nunzia’, allora te sei fatto ‘sta sartina?”. Lui rispondeva sibillinamente “aumma aumma”. Un giorno incontro la ragazza in via Borgo di Sotto. Lei mi ferma e mi racconta in dialetto (purtroppo la mia scarsa conoscenza del vernacolo mi impedisce di riportare la conversazione in tutta la sua efficacia), ” Sapessi cosa 131 mi è successo, Guelfo. ‘Sto boia di un Donnarumma suona il campanello di casa mia. Vado ad aprire la porta e me lo trovo in ginocchio, con un mazzo di fiori in una mano e l’altra mano sul cuore. Mi guarda con occhi di pesce bollito e mi dice ‘Anita, quando sarai mia?’. Io non sapevo cosa fare, ma poi mi è venuto da ridere tanto che non riuscivo più a fermarmi. Lui, offeso, si alza e sparisce giù per le scale. Speriamo che sia l’ultima volta che lo vedo, st’imbezil.” g Sul portone della Casa dello Studente talvolta mi imbattevo in Pendenza appoggiato all’inseparabile bicicletta e circondato da studenti che si divertivano a sentirlo sproloquiare. Appena mi vedeva mi si presentava: “Sciono Pendensa”. Io non mancavo di rispondergli “Sciono Guelfo”. “Elfo?”. “No, no, Guelfo. Guè, Guè”. “Gueguè? Sciono tutto confuso...”, e partiva sul marciapiede a cavallo della bicicletta, spingendosi coi piedi senza pedalare. Avevo già notato a Padova questa tecnica ambulatoria adottata dalla Carlona. Pendenza era stato così soprannominato per via di un suo andare sbilenco che accoppiato a una scarsa agilità mentale lo aveva innalzato al rango di scemo ufficiale del villaggio. Del suo nomignolo era molto fiero. Pendenza era l’equivalente ferrarese di Ernesto, il guardiano delle automobili nella piazza del Pedrocchi a Padova, amico di Pasquale, lo studente finito tragicamente. g Diventai amico di Pietro Senna, che al mio arrivo a Ferrara nel Sessanta gestiva una piccola libreria universitaria, mi sembra in via Mazzini, commerciando principalmente in libri usati. Era un personaggio patetico, studente di legge senza più speranza di laurearsi. Ne ero diventato amico perché ci accomunava la stessa dedizione ai libri, non necessariamente di chimica, nel mio caso. Per me 132 ogni libreria era un tempio misterioso dove si potevano fare mirabolanti scoperte. Nel retrobottega di un’altra libreria di Ferrara scovai una vecchia edizione dei Canti di Maldoror di Lautréamont che ancora possiedo. Il grande attore Richard Burton soleva dire “La mia casa è dove sono i miei libri”. I miei li ho portati con me nelle mie peregrinazioni. Le librerie sono i santuari della mia religione. L’odore della carta stampata m’ispira reverenza come quello dell’incenso. Gutenberg, Aldo Manuzio e Bodoni sono i miei santi. I libri sono oggetti sacri, e chi faccia orecchiette alle pagine come segnalibro commette sacrilegio. Questo lato del mio carattere deve essere parte del mio DNA, perché mia figlia Francesca dice: “La domenica mattina la passo da Strand.* È la mia chiesa.” Senna aveva preso ispirazione per la sua attività di libraio da Gianni Testori, lo studente di medicina che a Padova aveva iniziato a vender libri usati trascinandosi appresso una enorme valigia colma di testi e dispense, offrendo la sua mercanzia nei numerosi collegi universitari e case dello studente. Ma quanto Testori era intraprendente, tanto Senna era negato per il commercio. L’uno era nato per far soldi, l’altro era un gran sognatore. Ritrovai Pietro al mio ritorno a Ferrara dopo il servizio militare. Vittima del fato come un personaggio da tragedia greca, aveva venduto la sua piccola libreria a un altro studente meridionale, molto più scaltro di lui come commerciante, che credo abbia fatto fortuna con l’espansione dell’ateneo ferrarese nella prima metà degli anni Sessanta. Il negozio di questo terzo libraio era situato a pochi passi dalla rinnovata sede centrale dell’università, in via Savonarola. Pietro invece si era ridotto a vender libri da una bancarella, dopo aver immagazzinato il suo vasto inventario. Nello stesso magazzino aveva organizzato una zona-letto, con cucinino e microscopico bagno. Viveva letteralmente in mezzo ai libri. C’era posto per un altro letto e andai a vivere con lui. La nostra convivenza era di mutuo * Strand è una grande libreria di Manhattan. “18 miglia di libri” è il loro slogan. 133 soccorso. Io avevo pochi soldi, e lui pure. Ricordo che mi ero comprato una bagnarola zincata in cui bollivo sui fornelli di cucina il mio bucato costituito principalmente di fazzoletti da naso, di cui facevo grande uso perché il clima nebbioso degli inverni ferraresi era ideale per favorire un mio raffreddore cronico. Una vita di Bohème... h 134 STORIE FERRARESI ( CON LICENZA DI BASSANI ) Veliki Yuri! – È Lombardi il vero buon brodo – La tragica fine della povera Ortensia – Il Macrocefalo e l’Agricola – Piume, baciatemi! – Rognoni arrosto – Il Metodo Carezza –“Hai guardato la signorina!”– Passa il Santissimo – L’azzurra visïon – Il fedele maharatto Durante il mio soggiorno a Ferrara andai ad alloggiare in numerose case in cui mi veniva affittata una stanza con uso di bagno. In un precedente capitolo di queste memorie avevo parlato della stanza di fronte al postribolo cittadino in cui Deo ed io ci preparavamo agli esami; un fondaco zeppo di libri che dividevo con un libraio ambulante, ex-studente di legge; e la Casa dello Studente in Corso Giovecca, in cui il mio compagno di stanza fu Giorgio Garberi, uno studente di giurisprudenza proveniente da Pergine, ridente cittadina della Valsugana rinomata per la presenza di un grande manicomio. In quel periodo Yuri Gagarin, il cosmonauta, (non “astronauta”, termine accaparrato dagli americani) era andato in orbita, e i compatrioti entusiasti lo osannavano chiamandolo “Veliki Yuri”, il Grande Giorgio. Nomignolo immediatamente da me affibbiato al mio compagno di stanza, che ne era modestamente lusingato. Ricordo che Giorgio mi mostrava fotografie di eroici gruppi statuari sovietici inneggianti alla gloria del socialismo, e le paragonava a foto di neri di Harlem ciondolanti ad angoli 135 di strade piene di pattume, abbrutiti da alcool e droghe. “Guarda che differenza, Guelfo”, mi diceva. E io guardavo e assentivo, perché Yuri era veliki. Oppure mi riferiva le rimostranze di un altro trentino, studente di medicina, che esposto alla nozione del cunnilinguo, pratica millenaria, indietreggiava inorridito: “Mi, endo’ che la pissa?!..”. Aficionado di Hemingway, Giorgio teneva sopra la scrivania una fotografia dello scrittore presa a Pamplona durante la corsa dei tori. Fu devastato dalla notizia del suo suicidio. Quando lo prendeva l’estro concertante, Giorgio afferrava la chitarra e cantava una canzone delle nosse montagne: Spunta la luna ciara – sora Castel Toblin, mi ‘ncordo la chitara – ti ‘ncorda ‘l mandolin, e nente ‘n barca… oppure, Tote ‘nsema ‘na putela e na boza de bon vin per goder la Paganela e la vista del Trentin Dal Brasile ci erano giunti i primi ritmi di bossa nova, e Giorgio sperimentava gli accordi di “Desafinado” e di “Samba de uma nota só” sulla sua chitarra, spesso frustrato dalla loro complessità. Questo suo hobby era fonte di rimbrotti paterni: “El sona la chitara inveze de studiar!”. Recriminazioni ingiustificate, perché ogni tanto Giorgio smetteva di strimpellare per ponzare sul testo di Diritto Penale. E infatti la sua successiva carriera di notevole successo in Germania sfatò le preoccupazioni di suo padre. Preoccupazioni tipiche di molti genitori, di cui io stesso ho sperimentato il peso. Secondo mia madre, santa donna, sa il cielo quale fine avrei potuto fare, scapestrato com’ero – e probabilmente ancora sono. 136 Per un breve periodo condivisi con altri studenti pure un appartamento in una casa di nuova costruzione dalle parti del grattacielo al fondo di viale Cavour. Ma sono tre le dimore che hanno lasciato un marchio indelebile nella mia memoria: la casa delle tre sorelle (con licenza di Cechov buonanima), la casa da me detta “del bersagliere”, e la casa della Delia. h Ortensia, Giuseppina e Olivia Lombardi abitavano in una palazzina a tre piani di loro proprietà, all’angolo di via Formignana con via Scandiana. Il portone di casa si apriva direttamente sulla strada, una carreggiabile stretta e animata di traffico, a due passi dal Montagnone. Le tre anziane proprietarie erano le sorelle dell’industriale Lombardi, quello del buon brodo. Ma benché fornite di fratello danaroso (e presumo taccagno), le tre sorelle s’industriavano di arrotondare i loro proventi affittando camere agli studenti. A due passi dall’Istituto Chimico non avrei potuto trovare sistemazione più soddisfacente. E infatti me ne staccai a malincuore quando dovetti interrompere gli studi per andare a far l’alpino. Ortensia, Giuseppina e Olivia erano ormai prive delle grazie della giovinezza e pure di quelle della mezza età. Sfiorite, ma non decrepite, trattavano i loro inquilini con sollecitudine quasi materna. E forse fare l’affittacamere dava loro la possibilità di aver sempre giovani per casa. Coltivavano un giardinetto nel cortile antistante la palazzina, all’interno del massiccio portone. Un leggero odore di fiori appassiti aleggiava all’interno della casa, non aggressivo come quello dei cimiteri, ma tale da creare un’atmosfera di sottile malinconia, un sentore di rimembranze alla Jacopo Ortis. Una delle sorelle, credo Giuseppina, aveva avuto un marito, deceduto per cause a me ignote e la cui memoria era ormai ridotta a sfocati commenti e fotografie ingiallite. Le altre due erano rimaste nubili. E tutte e tre, come si conviene alle zitelle, erano molto pie. 137 Uno dei miei compagni di stanza - le mie magre risorse mi forzavano alla coabitazione - fu per un certo periodo un giovane etiope. Il ragazzo di pelle scura ed io condividevamo una piccola stanza, la più economica, una mansarda sotto al tetto. Il prof. Barnabè, sempre incuriosito dalle mie attività extra-accademiche, mi diceva “Ma che fa, Torrazzi, dorme col negro?”. Credo di aver épaté il professor Barnabè più di una volta. Per esempio, quando a pochi passi dalla mia laurea il mio amico Alex Scalchi, già laureato, mi aveva convinto a saltare da un aereo dopo essermi munito di paracadute. E Barnabè, paterno: “Torrazzi, lei è matto!”. Tornato a Ferrara dopo la fine del servizio militare, andai subito a cercare alloggio dalle sorelle Lombardi. Mi aprì il portone Olivia, e avendomi riconosciuto, mi fece entrare e subito mi disse “Ha saputo cosa è successo alla povera Ortensia?”. “No – risposi – sono appena arrivato.” “La poverina, uscendo di casa una mattina per andare a messa è stata travolta e uccisa da un’automobile...”. In effetti uscendo da casa Lombardi era imperativo guardare attentamente a sinistra e a destra, ad evitare incidenti dovuti all’assenza di marciapiede. Ortensia, che aveva vissuto almeno sessant’anni nella casa, avrebbe dovuto esser cauta automaticamente. L’unica spiegazione fornitami da Olivia : “La volontà di Dio...”. h Essendosi il giovane etiope dileguato nei meandri dell’università, cercai un altro compagno di stanza con cui dividere la mansarda delle Lombardi. Lo trovai in un altro studente di chimica. Moraldo aveva l’aspetto di un mostriciattolo: mingherlino, testa da macrocefalo, la pelle cerea del viso tirata sulle ossa del teschio, vene bluastre in rilievo, gli occhi sporgenti dal cranio. A guardarlo mi veniva in mente “Il Grido” di Edvard Munch. I nostri docenti lo consideravano un po’ ritardato, ma in realtà non lo era, come la temporanea convivenza con lui mi consentì 138 di appurare. Aveva una sorella, di aspetto più piacente, vagamente neurotica, che frequentava Farmacia dall’altro lato del cortile di Schifanoia. Non si capiva bene a che punto dei suoi nebulosi studi fosse Moraldo, ma di certo il ragazzo gravitava nei dintorni dell’Istituto Chimico ed era ben noto ai membri della Facoltà. Infatti Barnabè non mancò di dirmi “Ma che fa, Torrazzi, sta in stanza con Moraldo?”. E io, allargando le braccia e con tono da baciapile: “Anche Moraldo è un figlio di Dio, professore...”. Moraldo apparteneva a una famiglia di agricoltori del Polesine. Ogni fine settimana partiva verso casa per riapparire al lunedì. Io gli chiedevo “Cosa fai quando vai a casa, Moraldo?”. Lui mi rispondeva “Vado ad aiutare la mia morosa che lavora nei campi.” Alla mitica morosa io avevo dato il soprannome di Agricola. Quando lo rivedevo al lunedì, ogni volta gli chiedevo “Allora, Moraldo, com’è andata con l’Agricola?”, e lui ridacchiando mi rispondeva “Tutto bene, tutto bene”, lasciando capire che gli incontri settimanali nei campi non si limitavano a dissodare zolle. La mia conversazione con Moraldo non andava molto più in là. Ma la sua compagnia non mi dava fastidio, anzi rallegrava le ore passate sui libri. Chissà che fine avrà fatto, Moraldo. Forse è andato in cattedra anche lui, bontà del prof. Cernuschi, il capo dell’istituto succeduto al prof. Marotta, di cui parlerò in un altro capitolo. h A volte girovagavo per le strade di Ferrara, rimuginando formule chimiche o pensieri che poco avevano a che fare con la scienza. Nelle sere di prima estate, camminando sotto le Mura degli Angeli, folate di vento giungevano cariche di profumi ed echi di risa, come se provenissero dal giardino di Micòl Finzi-Contini. Gironzolando, spesso finivo per andare a trovare Gigi Cles e Renzo Vitelli. Entrambi studenti di medicina di origine trentina, i due vivevano in una stanza d’affitto in un enorme appartamento, parte di un antico edificio nel centro di Ferrara. Cles era alto e magro, con una voce soave che 139 celava un rovello interiore, un carattere ambiguo. Di Vitelli ricordo la testa da antico romano, con folti capelli ricciuti. “Was für ein schöner Römerkopf …”, gli sussurravano le ragazze tedesche che bazzicava durante le vacanze estive. A Capodanno, in un albergo di montagna dove c’era pure l’anziano Gino Bartali in vacanza con la famiglia, Vitelli collaborava a un orchestrina diretta da Yuri Garberi, prima chitarra, percuotendo accanitamente il bongo come un bongosero di professione. Scriveva poesie, Renzo Vitelli, e un suo lavoro fu persino pubblicato su La Fiera Letteraria. Sia Vitelli che Cles avevano dilazionato la laurea. Entrambi mostravano una preoccupante predilezione per le bevande alcoliche che anni dopo, per almeno uno di loro, fu causa di seri problemi. Cles si laureò il giorno dopo della mia laurea. (Io gli dicevo scherzando, tu che ti sei laureato tanto dopo di me... ). E a riprova del suo singolare carattere fece a pugni con un altro studente la stessa sera in cui gli amici lo festeggiavano. Vitelli, più giovane di un paio d’anni, si laureò in seguito. Ambedue praticarono la medicina con successo, Cles nello studio dentistico di suo padre, Vitelli come docente in una università della Lombardia. Dopo aver completato gli studi, Vitelli era entrato come interno in una clinica di Trento. Andai a trovarlo insieme a Giorgio Garberi. Vitelli mi propose, già che c’ero, un prelievo sanguigno, non ricordo a quale scopo se non quello di far pratica di flebotomia. Acconsentii, ma appena il neo-dottore m’infilò l’ago nella vena di un braccio persi i sensi. Un accaduto che mai più si verificò nel corso della mia vita. Penso che l’inconscio terrore di affidarmi alle sue cure avesse agito a mia insaputa sul sistema nervoso del simpatico. h L’appartamento in cui a Ferrara vivevano Cles e Vitelli era di proprietà di alcune vecchie signore. Vi si accedeva da uno scalone perennemente buio. Porte di legno scuro a vetri smerigliati separavano stanze dagli altissimi soffitti, allineate lungo un corridoio sepolcrale. In fondo 140 al corridoio una finestra incorniciata da pesanti tendaggi lasciava filtrare una luce lattiginosa. L’arredamento della stanza dei miei amici era del genere fin de siècle: carta da parati a fiori scuri, tavolini rotondi coperti da tovaglie ricamate penzolanti fino ai piedi, letti monumentali con coltri all’uncinetto, abat-jour con paralumi ricoperti di stoffe damascate e bordati da tubicini e perline di vetro. Alle pareti, annose fotografie di parenti scomparsi o paesaggi ad olio di dubbio valore artistico. Nella stanza di Cles mi aveva colpito la fotografia di un bersagliere con la seguente indimenticabile dedica manoscritta: Mamma, mamma, se lungi ti sono ch’io ti scordi giammai non temer. Della mamma la dolce parola porta in cuore ogni buon bersaglier. Piume, baciatemi! Cles e Vitelli avevano un giradischi, e tra le vetuste pareti della loro stanza spesso risuonava la voce di Mina Mazzini o di Ornella Vanoni. Più spesso si organizzavano gite gastronomiche nei dintorni di Ferrara. Una meta preferita era un’osteria a pochi chilometri dal centro, sulla strada di Bologna. Un buco lercio, ma rinomato per i rognoni che la sera il proprietario arrostiva su una griglia e per pochi soldi serviva insieme a pagnotte e caraffe di vino su una rozza tavola di legno sotto a un pergolato. Questo cuoco era un personaggio da farsa Atellana: obeso, sudicio, stillante sudore sulla griglia, arrostiva gli sfrigolanti rognoni alla luce di fiamme infernali che scaturivano dai carboni ardenti ogni volta che pezzi di grasso scivolavano nel fuoco. Quando erano pronti, accolto dai lazzi di noi studenti semi-ubriachi ci portava i rognoni fumanti su grandi piatti, grugnendo commenti inintelligibili per chi non conoscesse il ferrarese stretto . h 141 Per un breve periodo affittai una stanza in casa della Delia. Delia e sua madre si erano trasferite da un piccolo appartamento in una vecchia casa di via Mazzini in un appartamento spazioso in un moderno edificio di via Borgo di Sotto, con finestre che davano da un lato sul cortile e dall’altro sulla strada principale. Delia era il frutto di amori giovanili (non lo siamo noi tutti?) della madre, non sanzionati da chiese o municipi. Una brunetta dallo sguardo malizioso che attendeva l’occasione di sposare un “buon partito”. La madre era una donna di mezza età, magrissima, col viso prematuramente incartapecorito dall’uso smodato del tabacco. Si nutriva principalmente di caffè e sigarette. Non ricordo di averla mai vista senza una sigaretta in bocca o in bilico sul portacenere. Spirali di fumo si libravano sopra la macchina da cucire che ronzava in continuazione. La donna si guadagnava da vivere con lavori di sartoria e affittando tre delle stanze da letto a studenti o impiegati. La ricordo china sulla macchina da cucire, la testa girata verso di me per parlarmi. I suoi occhi dalla cornea ingiallita, ingigantiti da spesse lenti, mi fissavano sogghignando mentre mi confidava succosi pettegolezzi locali, sempre succhiando una sigaretta bilanciata fra dita color zafferano. A me l’anziana signora piaceva per quel suo fare spigliato così comune tra le ferraresi. Era una simpatica megera. In casa della Delia il telefono suonava in continuazione. Alcune telefonate erano di amici o clienti. Molto spesso però chi telefonava era un giovane che invaghitosi di Delia, aveva preso a perseguitarla per ottenerne le notevoli grazie. Ma non essendo per nulla un buon partito, le sue avances erano state rigettate da Delia senza possibilità di equivoci. Imperterrito, lo sfortunato corteggiatore continuava a telefonare. A volte Delia o sua madre lo coprivano di improperi in dialetto, che dal fondo delle nostre stanze noi ospiti a pagamento assaporavamo. Se poi in assenza delle due donne capitava a uno di noi di sollevare la cornetta, ci si sbizzarriva a tormentare lo sciagurato facendogli credere che, tutto sommato, la Delia non fosse del tutto sorda alle sue profferte amorose. 142 Oppure a urlargli insulti feroci per aver disturbato i nostri sonni pomeridiani. A casa della Delia, nel periodo in cui vi ho vissuto, abitavano anche Renato Ghisetti, studente di farmacia, e un giovane impiegato di banca. Di quest’ultimo ricordo che possedeva una specie di manuale di tecniche amatorie, certo meno poetico di quello di Ovidio e meno informativo del Kama Sutra, ma delle cui istruzioni mi aveva particolarmente colpito il “Metodo Carezza”. Secondo il manuale questa antichissima pratica di origine orientale avrebbe consentito l’ascesa a vette insospettate di prolungati piaceri se il concubito fosse praticato in completa immobilità. Naturalmente io proponevo a Delia l’esperimento. Lei si schermiva ridendo. Di noi tre affittuari il miglior buon partito era Ghisetti: bel giovane, simpatico, alle soglie della laurea e con futuro di abbiente farmacista assicurato da genitori benestanti. Era inevitabile che le grazie muliebri della Delia facessero breccia nel cuore di Ghisetti, per non parlare di altre zone della sua anatomia. Ghisetti aveva bizzarre richieste per Delia. Per esempio, le diceva “chiamami Tordo”. Cosa che Delia si guardava bene dal fare. A suo tempo Delia e Ghisetti convolarono a nozze. Ma il periodo del fidanzamento non fu scevro di tenzoni dovute soprattutto al focoso carattere della Delia. Una volta li vidi correre per via Mazzini, Delia che urlava “Hai guardato la signorina!”, e Ghisetti che cercava di parare i colpi di borsetta che la fidanzata cercava di assestargli. Sembra che la gelosia della Delia fosse stata scatenata da un’innocente occhiata di Ghisetti a qualche bella ragazza di passaggio. Una mattina – doveva essere una festa religiosa – affacciandomi alla finestra che dava sulla strada vidi che finestre e balconi delle case di fronte erano decorati da drappi e coperte ricamate. Stava per passare la processione con sotto a un baldacchino l’ostensorio! All’insaputa delle mie padrone di casa mi precipitai a far penzolare dalla finestra lenzuola e coperte del mio letto. Appena Delia si rese conto di quello che avevo fatto, un po’ ridendo e 143 un po’ seria cercò di farmi ritirare tutto quello che avevo sciorinato. Già la processione si stava avvicinando, si udivano canti liturgici: T’adoriam, Ostia divina, t’adoriam, Ostia d’amor… Andò a finire in una specie di colluttazione, per nulla spiacevole, tra me e la Delia. Lei cercava di tirar via le coperte e io le trattenevo ferme alla finestra. In quel momento la processione passava sotto casa, e dietro al Santissimo, salmodiante, scorsi il professor Malfatti…e io dovevo ancora sostenere con lui l’esame di Organica II! Immediatamente mollai le coperte e mi allontanai dalla finestra, lasciando libero il campo alla Delia che subito rimosse il sacrilego disordine creato dal miscredente. Il professor Arrigo Malfatti, un allievo della scuola del compianto (o scarsamente tale) Direttore, era uno dei docenti sotto le cui forche caudine dovevo passare. Un uomo sui quarant’anni di piacevole aspetto, con una pipa perennemente tra i denti e una cordialità da ferrarese vagamente burbera, era uno specialista di corrosione – il mago degli inibitori, quello che mandava avanti il Centro di Studi sulla Corrosione Aldo Daccò, quattro stanze dal lato del cortile di Schifanoia opposto a Scandiana. Malfatti era un devoto credente, un tradizionalista per cui fede e ragione erano perfettamente compatibili. Lo incontrai molti anni dopo a un congresso internazionale sulla corrosione a Rio de Janeiro. Sorpreso di rivedermi in tale esotico ambiente, scambiò con me quattro parole, mi diede l’indirizzo di un albergo conveniente, e se ne andò per i fatti suoi. Io avevo ottenuto il permesso di presentare un mio lavoro a Rio dopo aver convinto un grosso manager, che mi aveva obiettato “Ma è proprio necessario andare fino in Argentina?”[sic]. Gli risposi che al congresso “in Argentina” era importante mandare un rappresentante della società per il lustro che ne sarebbe derivato. Ovviamente la mia partecipazione al congresso si limitò alla presentazione 144 del mio lavoro e al paio di domande postemi dal pubblico. Dopo di che sparii dalle severe aule della scienza per passare una fantastica settimana nel cuore di Rio, che come dice la famosa marcia di Carnevale e inno ufficiale carioca, è “cidade maravilhosa – cheia de incantos mil”. E già che c’ero restai in Brasile una seconda settimana, volando a Salvador, Bahia, “terra da felicidade”. Quanto a Delia e a Ghisetti, li incontrai ancora a Bolzano. Ghisetti vi era stato trasferito come rappresentante per il Trentino-Alto Adige di una ditta di medicinali. Ormai da tempo sposati, avevano con loro una bambina di pochi mesi. Invitarono a cena a casa loro me e Milena. Delia avrebbe voluto che lui finalmente si sistemasse in una farmacia. Per Ghisetti l’idea poteva essere posposta. Fu l’ultima volta che li vidi. Appena laureatosi, Alex – uno degli angeli custodi del mio primo periodo ferrarese – aveva trovato impiego presso una ditta di prodotti chimici. Ma presto si era reso conto di quanto le politiche e le gerarchie aziendali rendessero meno piacevole il lavoro. (Una rivelazione anche per me, in seguito. Ma a conti fatti io decisi che mi conveniva adattarmi alla cultura dell’organizzazione cui appartenevo e che mi dava uno stipendio. Tenevo famiglia…). In cerca di maggiore libertà, Alex chiese al professor De Benedetti – il relatore della sua tesi – di tornare in università. De Benedetti gli offrì on posto di assistente, inizialmente a Camerino. Così mi capitò di andare anche a Camerino, ospite di Alex. Camerino, da secoli la sede di una piccola università, è una cittadina delle Marche arroccata in cima a un colle. Ricordo che Alex, un gruppetto di studenti suoi amici ed io ci trovavamo su una terrazza cinta da una balaustrata. La giornata era luminosa, e nella distanza avremmo potuto intravedere “l’azzurra visïon di San Marino”. Alex strimpellava una chitarra cantando una canzone popolare sarda: “Annamo alla carrera di zia Cuddona – ch’è ‘na figghiola bbona, ecc. ecc.”, mentre uno dei suoi amici mi confidava “Che palle, sta zia Cuddona...”. 145 L’Università era situata in un antico palazzo che secoli fa era appartenuto ai Varano, Signori di Camerino. L’Istituto Chimico era sistemato nella parte inferiore dell’edificio, quasi dei sotterranei cui si accedeva attraversando un corridoio scuro e fiancheggiato da vecchi armadi in cima ai quali troneggiavano storte e alambicchi, di certo usati in passato per la ricerca della pietra filosofale. In fondo all’antro, in un laboratorio semibuio, stava Bonsante, un altro assistente di De Benedetti, curvo sul polarografo a goccia di mercurio che il professore gli aveva affibbiato. Bonsante, di aspetto mite e di scarse parole, condannato dal destino a vivere nei sotterranei del palazzo dei Varano come l’abate Faria nelle segrete del Castello d’If, fu sorpreso da me a scrutare lo stillicidio di gocce di mercurio che cadevano al fondo dell’apparecchio, implacabili come le gocce d’acqua del supplizio cinese. h Fui testimone anche di tragedie, a Ferrara. Uno studente di chimica, ubriacatosi con dei suoi amici, era caduto dall’alto del Montagnone, le massicce mura rinascimentali. Dopo alcuni giorni in coma era morto in ospedale. La famiglia voleva aprire un’inchiesta sospettando omicidio. In realtà uno stupido incidente aveva privato il ragazzo della vita. Un altro studente, molto giovane, forse una matricola, si era dato fuoco dopo essersi cosparso di benzina. Paura degli esami? Depressione? La morte di questi giovani colleghi mi aveva molto impressionato. Solo questi sono i ricordi tristi di Ferrara. Nell’ultima fase del mio soggiorno a Ferrara incontrai uno studente di chimica al secondo o terzo anno di corso, molto più giovane di me. Franco Palizzo proveniva da Montefalcione, in provincia di Avellino. Diventammo amici. Palizzo – non l’ho mai chiamato altrimenti – mi seguiva dappertutto e mi considerava come una specie di guru, sia perché ero più anziano di lui, sia perché aveva più difficoltà con i testi scientifici di quanta ne avessi io. Lo ricordo molto preoccupato di una sua incipiente 146 pinguedine, che in effetti sembrava aumentare di giorno in giorno. Gli dicevo “Palì, sei il mio fedele maharatto”, come Kammamuri lo era per Tremal-Naik nei romanzi di Salgari. Oppure lo presentavo ad altri studenti come “Palizzo ‘e Montefalcione”, poiché a quei tempi tutti i rotocalchi stampavano le cruente storie di Pascalone ‘e Nola e di Totonno ‘e Pomigliano, caporioni della camorra campana. Gli davo anche paterni consigli, come per esempio “Palì, astieniti da eccessiva masturbazione. Ti potrebbe condannare alla cecità, o come minimo ti farebbe crescere peli sul palmo delle mani. Praticala solo tre volte al giorno, prima dei pasti”. Palizzo rideva divertito alle mie celie. Invitato alle mie nozze, lo rividi per l’ultima volta a Bolzano. Poi ne persi le tracce. Ancora oggi ogni tanto penso a lui, sperando che la vita gli abbia dato più soddisfazioni della chimica. h 147 148 LA TRADUZIONE E ALTRE STORIE Il “mal de l’asen” – Boca de Puta – La morte del Direttore – L’Incantevole – Schifanoia – Il Montagnone – Aurora principessa In quegli anni solari della gioventù, anche se angosciati dagli esami che ogni tanto mi decidevo a fare, ho incontrato personaggi epici. Di due ragazzi incontrati a Ferrara ho un ricordo incancellabile, e sarei disposto a premiare con una salama da sugo, indispensabile intingolo della cucina ferrarese, chi me li facesse di nuovo incontrare: Fagotto e Ghisetti, la Volpe e il Gatto. Mirco Fagotto, un trevigiano dai capelli neri e ricci e una grinta astuta e perennemente ironica, aveva sviluppato abilità da prestigiatore per ricavare il meglio dal suo soggiorno di studente a Ferrara. Gli scocciava sentirsi apostrofare ogni volta che in commissione d’esame c’era il prof. Candoli: “Fagotto? Ghe demo desdotto.” Ma poi Candoli finiva per dargli ventotto. Ho condiviso con Fagotto esperienze ineffabili. In un giorno di una lontana primavera me ne andavo pacificamente in bicicletta con Fagotto in Giovecca, un largo viale, quando improvvisamente lo vidi piegarsi sul manubrio, e storcendo il viso e digrignando i denti sino ad assumere tratti da demone michelangiolesco, lanciarsi 149 senza una parola in una frenetica fuga a pedale sciolto. Lo raggiunsi dopo un paio di chilometri, e gli chiesi ragione di un tale inesplicabile comportamento, e soprattutto delle ridicole smorfie. Mi spiegò che aveva scorto sul marciapiede un suo locatore, cui doveva alcuni mesi di pigione. Le spaventose facce servivano, a suo dire, a non farsi riconoscere. Ricordo le conversazioni di Fagotto con un’affittacamere – Fagotto cambiava spesso di residenza – una vecchia megera di dubbi trascorsi. I discorsi, stimolati da Fagotto a mia edificazione, centravano quasi sempre sul supposto priapismo di un altro studente, Riprandi, che, secondo la virago, era afflitto dal “mal de l’asen”. Fagotto, che come affittuario era un vero chierico vagante, condivise in quei lontani giorni un alloggio anche con Ottavio Firmian, che mi dicono sia in seguito arrivato alle vette della cattedra per bontà del prof. Cernuschi. Prodigi dell’università italiana… La padrona di casa spesso si lamentava con Fagotto di esser costretta a vuotare il pitale che il Firmian nottetempo riempiva. Sogghignando, Fagotto mi raccontava questi pettegolezzi, tra un’equazione e l’altra. Firmian era arrivato da Padova a Ferrara insieme a Mastroventi, un padovano omonimo del cugino Ordinario di Chimica Fisica nell’ateneo patavino. Purtroppo il Mastroventi transfuga non aveva la stessa propensità del cugino per le equazioni differenziali. Mastroventi era di robusta costituzione quanto Firmian era mingherlino. Visti insieme mi ricordavano due personaggi di Alice nel Paese delle Meraviglie, il Tricheco e il Carpentiere. Di loro ricordo il terrore all’idea che il dott. Pedrotti, un assistente, adottasse il Sillen-Lange-Gabrielson come testo per gli esercizi di chimica-fisica. “Massa duri, Torrazzi. I xe massa difizili. Semo scampa’ de Padova parché i voleva doperar el Sillen...”. Ah, Pedrotti… In Istituto era affettuosamente conosciuto come Pedro. La laurea in chimica aveva agito su di lui come catarsi di oscure pene, e non si stancava mai di dirci, un po’ cupamente, che si era laureato a quarant’anni, 150 lavorando di giorno, studiando di notte, e dormendo solo la domenica. Io, che studiavo solo una domenica sì e una no e quando non dormivo mi dedicavo ai fumetti di Jacovitti, mi sentivo intimidito. Ma, a contrasto, c’era Silento, l’assistente spesso garrulo, sempre gaio. E Respighi, che sbirciando nel laboratorio di Barnabè rallegrava del cuculo ozioso i piccolini con quiz del genere : “Quis fuit horrendus primus qui protulit enses?”*. Io lo ascoltavo, rapito dalla sua perfetta scansione del verso tibulliano. Chi non potrò dimenticare era l’incantevole dottoressa Masironi, una bellissima neolaureata incaricata dell’insegnamento di Scienza dei Metalli. Me n’ero innamorato sentendola parlare di dislocazioni, eutettici e ricristallizzazioni, e forse lei se n’era accorta, da come mi trattava. Durante la mia temporanea assenza da Ferrara ero ben deciso a combattere per la conquista dell’ Incantevole, magari facendo tre esami a sessione per convincerla che ero scapestrato-ma-non-troppo. Purtroppo al mio ritorno dal servizio militare l’Incantevole si era già sposata e aveva lasciato l’università per l’insegnamento nelle scuole medie. Gli amori non consumati lasciano i ricordi più dolci e duraturi. (Però anche i ricordi di quelli consumati non sono da buttar via...). h Ero in divisa militare quando Alex mi mandò questa lettera che ancora conservo: “Caro Guelfo, per non tenerti all’oscuro di quello che sta succedendo in Istituto, eccoti le ultime notizie. Mancava solo una settimana alla mia laurea quando alle nostre orecchie sempre ritte di interni arrivò la notizia che il prof. Marotta, Direttore e nostro * “Chi fu l’orrendo [essere] che per primo creò le spade?” Tibullo, Libro I, Elegia X. 151 padre-padrone, era morto in circostanze per noi misteriose. Ti puoi immaginare il trambusto, l’agitazione, la fibrillazione di Pedro che vedeva la sua carriera sprofondare nel buio, e l’andirivieni del sogghignante Fagotto, che in quella situazione tinta di giallo “ci bagnava o panuzzo”, come dicono a Napoli. Data l’emergenza, ci siamo riuniti a a casa di Giulio Travisan, un futuro chimico di Udine approdato a Ferrara, credo all’epoca di Firmian e Mastroventi. Travisan era ricchissimo, suo padre aveva una fabbrica di vernici con appalti esclusivi per verniciare tutte le navi che facevano scalo a Trieste, e viveva in un confortevole appartamento non lontano dal duomo, con la moglie, friulana di attraenti fattezze e ottimo carattere. La riunione, indetta da Fagotto, aveva lo scopo di stabilire il comportamento che noi ancora studenti, ma per vari motivi vicini alle segrete stanze, avremmo dovuto tenere in questo doloroso frangente. Doloroso più per gli assistenti, che vedevano nella dipartita del pur odiato padrone l’inizio della loro fine, che per noi studenti il cui scopo principale era quello di sogghignare (cosa che faceva soprattutto l’ “omo del desdotto”) davanti alle contrite facce di Silento e Pedrotti, ma anche dei più altolocati Barnabè, De Benedetti, Respighi e Malfatti. Neppure la cara Renata, che forse era addolorata per davvero, veniva risparmiata. Per farla breve si decise, tra una grappa e un wiskino che la bella friulana ci serviva in abbondanza, di andare all’Istituto a porgere l’estremo saluto al nostro Direttore. Così, la mattina seguente mi ritrovai con l’ineffabile Fagotto e altri nello studio del defunto, che per l’occasione era stato trasformato in camera ardente con tanto di tappezzeria nera orlata d’ argento stesa intorno alle pareti, e ceri funebri ad altezza d’uomo. E man mano che gli assistenti mestamente si avvicendavano davanti al cadavere, Fagotto, strategicamente dispostosi sulla porta di uscita, puntava sui loro volti preoccupati quei sogghignanti 152 occhi gialli scintillanti al di sopra di una faccia scurita da una barba ispida da novello Gambadilegno…” Questo episodio aveva un interessante antefatto, dei cui particolari venni a conoscenza molto tempo dopo, al mio ritorno in Istituto dopo aver completato la ferma di leva. Ascoltavo divertito e incredulo i pettegolezzi di Fagotto pensando fossero solo il frutto della sua immaginazione. Era poco credibile, per esempio, la sua versione della fine del Direttore, che in vacanza con Renata, la sua fedele segretaria e ancella, pare fosse rimasto vittima di un orgasmo assassino, spirando tra le braccia di Renata in una stanza d’albergo. La ragazza, disperata, chiama gli aiuti del Maestro, che saltano in macchina e si precipitano a prendersi cura dell’incresciosa situazione. In qualche modo, ad onta del rigor mortis e del portiere notturno, il defunto viene trascinato in macchina, messo a sedere sul sedile posteriore, e come in un film noir, trasportato nottetempo fino a Ferrara, dove viene sistemato, forse con l’ausilio del custode – Marotta era corpulento – dietro alla scrivania del suo studio. Al mattino la scoperta del cadavere. Il professore era rimasto vittima di un attacco cardiaco mentre rivedeva le bozze di una pubblicazione. La morte lo aveva ghermito al suo posto di lavoro... Era difficile prestare attenzione alle fole di Fagotto, che ne contava sempre una più di Bertoldo. Potevo credere a tali fandonie? Ah, quel Fagotto, che boca de puta! Tra l’altro andava in giro dicendo che tra Cernuschi e Pardelli c’era un legame ben più intimo di quello di co-autori del rinomato testo di Chimica Analitica. Una repellente insinuazione, tenendo presente l’esimia personalità del prof. Cernuschi, scienziato e artista. Infatti ricordo che, in occasione di qualche celebrazione dell’ateneo estense, Cernuschi aveva disegnato un bellissimo pataccone commemorativo. Ma le dicerie di Fagotto, quel satiro ghignante, non si fermavano alla presunta “traduzione” del cadavere. Quella lingua satanica sosteneva che lo studio del prof. Marotta, normalmente chiuso a chiave quando il professore non era in istituto, alla sua morte aveva rivelato una 153 enorme collezione di libri gialli disposti ordinatamente negli scaffali sulle pareti. E che il professore era andato in cattedra solo perché aveva sposato la figlia di Zaniboni, il luminare della chimica a Roma. E che il professore non era alieno, in gioventù e a caccia di una libera docenza, dall’apporre strategicamente un paio di punti sul grafico di una funzione lineare, tanto per ribadire il concetto di linearità... Roba da matti! Malignità senza fondamento! La verità sulla fine del Direttore mi fu però rivelata proprio da un protagonista della vicenda, il relatore della mia tesi. Il prof. De Benedetti aveva preso a benvolere questo suo laureando. Un pomeriggio, durante una pausa del lavoro di ricerca, il mio Maestro mi sorprese confidandomi quello che era successo in quel fatidico frangente. Eccone la narrazione: “Il professore aveva dei problemi di salute, sicuramente dovuti a cattiva circolazione e negli ultimi tempi si era stancato molto a causa di un congresso che aveva organizzato. Aveva quindi deciso di trascorrere un periodo di riposo in un luogo tranquillo. La fedele Renata lo accompagnava nella triplice veste di amica, infermiera e segretaria. In Istituto, lungi dal prevedere la disgrazia che si sarebbe abbattuta sopra di noi, sospiravamo di sollievo e ognuno, gradualmente, rientrava in possesso delle proprie caratteristiche caratteriali, attentamente controllate fino alla soppressione quando il Direttore era presente. Una notte, verso le due, vengo svegliato improvvisamente da una telefonata di Barnabè, l’Aiuto dell’Ordinario, il quale, con guardinga concitazione, mi dice che dobbiamo partire, per andare dal Direttore che sta male, e che dobbiamo portarlo a casa. Barnabè è l’unico a sapere dove si trovi il Professore ma alle mie domande non risponde dicendomi di fare presto, di passare subito a prenderlo con la mia macchina, mi darà istruzioni durante il viaggio. Mi preparo rapidamente, dico qualcosa a mia moglie che non ha capito bene il problema (del resto non ne avevo afferrato i dettagli neppure io), e mi precipito da Barnabè che già mi aspettava sulla porta di casa. In 154 dialetto – Barnabè si esprimeva quasi sempre in dialetto – mi dice di puntare verso il Veneto e mi racconta che è stato svegliato nel cuore della notte da una telefonata di Renata, disperata, che lo informava che il Professore stava malissimo, che non poteva mettere in agitazione l’ albergo, ma che la situazione era grave, per cui si precipitasse egli, l’ Aiuto, a prestare soccorso. Man mano che venivo a conoscenza della gravità dei fatti, la pressione del mio piede sull’acceleratore andava aumentando, affinché il mio contributo al salvamento dello sfortunato Direttore potesse avere un qualche risultato. Arrivammo infatti a destinazione in un paio d’ore, ancora nel buio della notte. Barnabè, sia detto a suo onore, quando si tratta di agire con fermezza non ha uguali. Infatti attraversa l’atrio dell’hotel e si avvia all’ascensore con il passo fermo e la nonchalance del più abituale dei clienti, mentre io rimango ad attenderlo in macchina. Passa un tempo indeterminato, ma non lunghissimo, durante il quale ho fumato almeno quattro nazionali semplici. Finalmente Barnabè ritorna e mi indica di portare la macchina sul retro dell’albergo. Eseguo la manovra e i fari della mia millecento illuminano due figure in piedi ed una in carrozzella. Riconosco immediatamente Renata e dopo alcuni istanti ravviso nel secondo personaggio il portiere notturno per via degli alamari dorati che ornano il bavero della grigia giacchetta. Infine, il mio sguardo cade sulla carrozzella dove, avvolto in qualcosa che avrebbe potuto essere scialle o coperta e che, stranamente, aveva i colori della nostra bandiera (il tricolore mi è rimasto impresso nella memoria), riconosco il nostro Maestro. Aveva la stessa espressione severa di sempre, solo che gli occhi – lo ricordo benissimo – sembravano assenti e parevano non seguire i movimenti notturni del gruppetto di persone che lo circondavano. Attribuii lì per lì lo strano comportamento del Direttore al suo stato di salute – era grave? non avevo modo di saperlo – e scesi dalla macchina per salutarlo con la devozione che sempre il discepolo deve mostrare nei confronti del Maestro. 155 Mi avvicinai trepidante alla carrozzella, desideroso di offrire il mio aiuto e dare, o forse ricevere, conforto, ma giunto a tre passi mi accorsi che gli occhi del Direttore non erano i suoi. Erano gli occhi bianchi ed opachi che ben ricordavo per averli visti vent’ anni prima nei visi bellissimi e inespressivi delle SS, gli angeli neri dalla fronte alta e pura che i caschi d’acciaio velavano d’un’ombra segreta, mentre pattugliavano le stradine del ghetto di Ferrara, ogni notte, in quel lunghissimo inverno del ’43. In quell’istante capii che quelli erano gli occhi dei morti e che l’angelo nero aveva ghermito il cuore del Direttore. Dopo, ricordo solo una successione di movimenti convulsi, un affannoso rientro nel buio. Mi ritorna in mente con chiarezza, ma è solo un flash, il momento in cui dobbiamo fermarci per fare benzina. Il benzinaio sembra più interessato a controllare l’interno della vettura che non l’avvicendarsi dei numeri sul contatore di litri e di lire. In effetti, la distribuzione dei posti in macchina è alquanto anomala. Il sedile al mio fianco è vuoto mentre il sedile posteriore è occupato da tre persone strette strette. Pago rapidamente. Il benzinaio, assorto nel puzzle, dimentica di darmi il resto che io non chiedo pur di scappare, e non oso rivolgere la parola ai miei compagni che, impegnati a mantenere il cadavere in dignitoso assetto, stanno peggio di me; fino a quando, al primo albeggiare, arriviamo a palazzo Schifanoia. La città è addormentata. Qualche nottambulo rientra in bicicletta portandosi dietro il ritmo del chacha-cha e l’odore della balera. Solo Borso d’Este e le nobildonne della sua corte, affacciati alle bifore del primo piano, osservano sorridendo la nostra concitata fatica per caricarci sulle spalle la salma, aprire la porticina e scomparire all’interno. Dobbiamo salire la rampa di scale con il cadavere sulle spalle di Barnabè che è il più forte, scendere dall’altra parte, attraversare il cortile sotto lo sguardo divertito di Borso e delle sue dame – che intanto sono passati alle bifore opposte e scommettono sull’Aiuto, ce la farà o avremo morto su morto? – e poi, cadavere in spalla, entrare al Daccò, salire ancora una rampa e 156 finalmente guadagnare lo studio, dove tutti ci accasciamo, vivi e defunto, in un unico, indistinto groviglio.” In un’altra sua lettera Alex aggiunse qualche commento alla vicenda della “traduzione” e alla vita di studente ferrarese: “Gli abitanti della città appresero della dipartita del nostro Direttore da un trafiletto apparso sulla stampa locale che suscitò non poche perplessità nelle menti di molti. Infatti, l’articolo riportava all’incirca: il Prof. Marotta, noto docente dell’Ateneo cittadino, è stato trovato accasciato sul tavolo di lavoro nello studio dell’Istituto Chimico di via Scandiana all’ore nove della mattina. A nulla sono valsi i tentativi di rianimazione perché il professore era deceduto per arresto circolatorio. Il fatto, già strano di per sé, diveniva maggiormente degno di meditazione se si considera che quel giorno era domenica. Dunque, quelle che per i cittadini erano vaghe perplessità destinate all’oblio, per noi interni erano fonte continua di dibattute congetture, alimentate dai resoconti fantastici di Fagotto. Questi, con faccia di mistero, si presentava al gruppo riunito in casa Travisan raccontando di avere interrogato Silento sull’accaduto, ma che, nonostante avesse operato con tatto e deliberata prudenza, non era riuscito a sapere nulla di più di ciò che tutti già sapevamo, ossia che il luminare aveva trascorso un periodo di riposo ai laghi o in montagna (sulla collocazione geografica del luogo regnava in quel momento la massima incertezza). Le circostanze e il luogo del decesso continuavano ad apparirci singolari; per noi un cattedratico di tale peso avrebbe dovuto passare a miglior vita in modo più soave: Scriveva Lorca: “Quiero morir decentemente en mi cama... dejad el balcon abierto... y luego, un velon y una manta en el suelo “. Quale differenza tra la tranquilla fine proposta del poeta e l’esito concitato del nostro creatore di chimici... (Ma il Poeta finì anche peggio, 157 ammazzato dai franchisti). Sta comunque di fatto che la vita procede con ritmo e forza non contrastabili e tutti noi, dopo le esequie, siamo rientrati nei ranghi del quotidiano e le voci sull’accaduto si sono andate affievolendo nel tempo, fino a cessare…”. ........................... Il palazzo Schifanoia fu edificato per “schivare la noia” da Borso d’Este, Granduca di Ferrara nel XV secolo, come residenza di campagna anche se allora, come oggi, si trova non in aperta campagna ma solo alla periferia est della città, quasi a ridosso del Montagnone, il nomignolo affettuoso con cui i ferraresi indicano le antiche mura. Il salone al primo piano del palazzo, la Sala dei Mesi, è meravigliosamente affrescato da Dosso Dossi e Francesco del Cossa con scene di dame e cavalieri della corte di Borso. Il piano terra e gli scantinati del palazzo erano occupati fino agli anni Ottanta dall’Istituto Chimico. A questo proposito vorrei dire che la nostra situazione di studenti dell’Istituto Chimico, alloggiato nel più favoloso e misterioso palazzo mai costruito, non la cambierei per nulla al mondo. Forse quelli tra i nostri compagni che inseguivano furiosamente il 30-e-lode non se ne rendevano conto, ma altri come noi, cercatori di stelle, sentivano l’incanto di vivere la propria vita di studenti prima, e laureati poi, sotto lo sguardo benevolo di Borso e delle sue dame. Certamente i campus di Stanford o del Caltech offrono opportunità indicibilmente più vaste. Ricordi la bibliotechina dell’Istituto aperta solo ai laureandi, praticamente dotata dei soli Chemical Abstracts perché le riviste, da noi inconsultabili, le deteneva il Direttore nei suoi appartamenti? Però il nostro Istituto, non tanto per merito dei professori – eccettuate Penzo e Masironi che stimerò in eterno come grandi maestre di scienza e vita – quanto per 158 159 merito di Borso, di Ercole, di Isabella e di Marfisa emanava un’ aura incantata che non sarà mai più possibile rievocare. E poi, la collocazione a pochi metri dal Montagnone è stata di fondamentale importanza per generazioni di chimici che in Schifanoia si sono forgiati. All’epoca i costumi non erano quelli di adesso (che facciamo, mi scopi subito o più tardi?) per cui ogni decisione esigeva il suo tempo e ogni azione veniva costruita secondo un ritmo non programmabile ma che veniva modulato istante per istante. Ed ecco che un ragazzo e una ragazza, uscendo dal laboratorio, potevano piegare a destra per andare subito a casa, oppure piegare a sinistra dirigendosi, chiacchierando, verso il Montagnone che con il piccolo bar ed il juke box e poi con l’incanto dei suoi profumati sentieri avrebbe offerto un ambiente ideale per lo sbocciare di un idillio “unter den Linden”. Se, durante il tragitto, le cose non avessero preso la piega desiderata, era possibile arrivare fino al piccolo bar, ascoltare un 45 giri e rientrare in città insieme agli aficionados dell’analisi che uscivano dal laboratorio solo quando Pagnoni, il custode, li cacciava con la scopa, se ben ricordi.” Ad Alex risposi: “Ricordo anch’io con nostalgia i nostri laboratori a Schifanoia per quel tanfo di fondaco medioevale che ancora emanavano. Li rivisitai anni fa, di passaggio a Ferrara per un solo giorno, purtroppo piovoso. E fui piacevolmente sorpreso di trovare al loro posto un piccolo, elegante museo in cui gli affreschi commissionati da Borso sono ancora affascinanti come ai tempi degli Estensi. Milena ne fu incantata. Ferrara! Che città mirabile per urbanistica e popolazione! Tutto merito di Borso, di Biagio, di Ercole, di Isabella, e delle soavi madonne che tuttora ne allietano le strade. Sono anch’io orgoglioso di aver completato i miei prolissi e sanguinosi studi in quell’ateneo. 160 Ti ringrazio di aver menzionato l’incantevole Masironi, donna amata in silenzio e mai obliata, come ai tempi dei troubadours; e le sere sul Montagnone, teatro di tenere tenzoni.” E ancora Alex: “ Non so se la ragazzina bionda con gli occhi sognanti e con il lieve difetto fisico che tu ricordi sia la stessa a cui sto pensando, Aurora. Anche lei soffriva di un lieve difetto: era leggermente claudicante ma certamente non “nada ‘n chora na bott” . Conobbi Aurora alla fine del secondo anno grazie a Marisa, il mio primo vero amore. Marisa, mia bellissima coetanea romana, che veniva in autunno a Ferrara per visitare i suoi zii, israeliti, e che mi fece conoscere Giorgio Bassani, Carlo Levi e Calvino. Ma di questo ti racconterò un’altra volta. Aurora era una di quelle creature che anche allora poteva definirsi di altri tempi. Aveva all’incirca la nostra età ma viveva in un’altra epoca. Ragazza di nobilissima famiglia (sua madre, l’austera contessa V., possedeva interi paesi nella bassa Ferrarese e anche in Polesine) era tuttavia di comportamento e di aspetto modesto. Viveva nel palazzo avito in fondo a via Savonarola, un palazzo del Quattrocento con un enorme parco che si estendeva verso Giovecca. Ricordo che lei stessa mi disse che l’area su cui attualmente esiste la Casa dello Studente di Ferrara faceva parte del suo parco e che durante il ventennio suo nonno ne fece dono all’Università perché ci costruisse appunto una dimora per gli studenti universitari. In questo palazzo esisteva un appartamento con camere, salotti, bagno e cucina abitato solo da bambole antiche. Erano le bambole di Aurora e delle sue sorelle. Bambole di tutti i tipi. Alcune 161 grandi come bambine con la faccia di porcellana, vestite di pizzi e trine, stavano sedute su poltroncine Luigi Filippo come vere damine dell’Ottocento. Altre, in piedi accudivano ai lavori domestici. Una faceva il bucato, un’ altra sventolava i fornelli a carbone mentre nella camera da letto la bambola padrona scendeva dal letto e iniziava la toilette aiutata da bambole cameriere. Aurora sicuramente stava al di sopra della Ferrara “bene”, la sua famiglia apparteneva a un ceto superiore; la classe di coloro che, con l’avvento del fascismo,”si sono ritirati”, direbbe la Canino, e che ai nostri tempi vivevano ritiratissimi. Però lei questo ritiro credo non lo gradisse completamente; non lo aveva scelto, ma non lo viveva come imposizione. Forse per lei era qualcosa di naturale che però non le impediva di provare una forte curiosità per il mondo esterno, per il mondo dei suoi coetanei. Marisa e io rappresentavamo questo mondo e credo sia per questo che diventammo amici. Una volta – o forse più d’una – siamo andati insieme, tu, Fagotto ed io, a trovare Aurora nel suo palazzo. Attraversavamo saloni corruschi di armature, quindi imboccavamo una fuga di dorate stanze per essere accolti nel piccolo boudoir, dove ci stravaccavamo su divani e poltrone incuranti della tappezzeria a piccolo punto e ci lanciavamo subito in accese discussioni di carattere chimico. Ricordo ancora una tua lezione sull’ibridizzazione del carbonio dedicata a me e Fagotto, che ovviamente per gli altri era incomprensibile. Ma proprio questa incomprensibilità, certamente da noi non desiderata ma generata da un genuino desiderio di discutere un argomento a noi utile, anzi necessario per capire la chimica, ci elevava, agli occhi di Aurora, al di sopra della banalità dei presenti; per cui penso ancora che fosse molto edificata dalla nostra compagnia. E pensare che io stavo sempre sulle spine perché dovevo continuamente convincere Fagotto a rimettere 162 sui tavolini veneziani portaceneri, cornici e altri oggetti d’argento che il nostro Gambadilegno si ficcava velocemente nelle tasche. Non l’ho più rivista. Ho saputo molti anni fa che si è ritirata (ulteriormente) in uno dei suoi possedimenti nel Polesine. A me resta il rimpianto di non avere approfondito la conoscenza di questa indubbiamente singolare “princesa enamorada sin ser correspondida”. h 163 164 NUOVE METE Il miraggio della cattedra – Le damigiane di acqua distillata – Vita di commissionato – Panni da risciacquare in Tamigi – La tapa del delco – Il fatale coup-de-foudre Nel miei ultimi anni di vita di studente lavorai sotto la guida del professor Manlio De Benedetti a una tesi sperimentale: una variazione sul tema delle cinetiche di scambio in ioni complessi. Il mio problema era quello di misurare gli effetti di catalisi eterogenea procurati da diversi tipi di resine a scambio ionico. Il professor De Benedetti era un uomo sui quarant’anni, di media statura, con una fronte bassa da cui spuntava una zazzera di capelli neri e spessi sopra a un viso giovane che non tradiva la sua età. Un tipo fisico più da meridionale che da emiliano. Ma sotto la fronte di dimensioni ridotte si nascondeva il cervello più fertile dell’Istituto Chimico. A differenza dei suoi colleghi che si sarebbero staccati da Ferrara a fatica, rimpiangendo la mancanza di salama da sugo, De Benedetti aveva lavorato nei laboratori americani prima di tornare nella sua Ferrara. In Istituto gli era stato assegnato l’insegnamento più arduo per noi studenti, quello di chimica-fisica. De Benedetti sapeva di sapere il fatto suo come chimico, e non si celava dietro a false modestie. Questo suo atteggiamento gli aveva creato opposizione da parte 165 di docenti più anziani preposti all’assegnazione di cattedre nel bizantino sistema universitario italiano. Uno di essi in particolare aveva giurato “Finché sarò vivo io De Benedetti non andrà in cattedra.” Manco a dirlo, De Benedetti ottenne la cattedra di Chimica Teorica all’Università di Pisa solo dopo la morte del suo inimico. Nel frattempo, al suo laureando De Benedetti diceva “E pensare, Torrazzi, che il Tal dei Tali è già in cattedra e io a quarant’anni sto ancora qui.” “Qui” era il purgatorio dell’Istituto Chimico di Ferrara, tappa obbligatoria nell’ascesa verso l’empireo della cattedra. Non so se agli albori del XXI secolo il sistema universitario italiano sia migliorato. Fatto sta che quarant’anni fa per farsi strada non era necessario il talento di De Benedetti, ma era essenziale ruffianarsi i potenti baroni che facevano il bello e il cattivo tempo. Non mi è chiaro come io sia riuscito a farmi accettare da De Benedetti come suo laureando. Penso che Alex e Deo ci abbiano messo una buona parola. E forse non me la sono cavata tanto male agli esami di chimica-fisica. A me interessava lavorare con De Benedetti soprattutto per la sua fama di essere “er mejo de tutti”. E anche per ripicca: vediamo se sono capace di cavarmela vis-a-vis con il genio locale, visto che io non mi sono mai considerato il genio della chimica. De Benedetti era un fanatico del lavoro. Nella sua corsa verso la cattedra, quella specie di Santo Graal, non si risparmiava, guidando a rotta di collo da Ferrara a Padova, dove collaborava a progetti di ricerca coi padovani, e da Ferrara a Camerino, dove aveva dei suoi laboratori, le segrete in cui era rinchiuso il polarografista Bonsante. E per di più De Benedetti fumava come un proverbiale turco Nazionali senza filtro e beveva caffè ristretto per tenersi sveglio. Era prevedibile che prima o dopo pagasse il fio di questo regime da marce forzate. Deo mi fece sapere che il professore era morto prematuramente. Una notizia che mi rattristò, perché De Benedetti aveva avuto fiducia nelle mie capacità e mi aveva dato una mano perché mi sistemassi dopo la laurea. h 166 Nel suo laboratorio di Ferrara il professore aveva installato un bagno termostatico dentro a una grande vasca di vetro da pesci rossi, con un termostato a mercurio, anche quello fatto in casa, che gli consentiva di mantenere la temperatura del bagno a 25 gradi centigradi. L’acqua distillata veniva fornita all’Istituto in enormi damigiane. (Che differenza con i laboratori che incontrai all’Università di Reading in Inghilterra! A Reading l’acqua distillata arrivava direttamente a un rubinetto sul bancone del mio laboratorio). Per purificarla, e cioè ulteriormente deionizzarla, la si faceva passare attraverso altissime colonne di vetro piene di resina a scambio ionico. L’acqua della damigiana veniva sifonata alla cima della colonna; al fondo della colonna usciva acqua “di conducibilità”. In pratica, io dovevo preparare reagenti e soluzioni, e misurare velocità di reazione con uno spettrofotometro Beckman. L’unica prova di quanto i miei sforzi avessero dato dei risultati fu una pubblicazione di De Benedetti e Pornari, di cui Deo mi fece aver copia. Mi sembra di esser stato menzionato nei crediti. L’alba di un caliginoso giorno di novembre, il giorno della mia laurea, alla fine spuntò! Di questo giorno, come di quello delle mie nozze, ho confusi ricordi. Forse l’emozione mi aveva anestetizzato il cervello. Ricordo di aver atteso fuori dall’Aula Magna dell’università il mio turno di discutere la tesi, rimuginando la presentazione del lavoro che avrei fatto di lì a poco. Insieme a me e ad altri laureandi c’era Mirco Fagotto circondato da un nugolo di parenti che ciacolavano animatamente in dialetto trevigiano. Ci dovevano essere anche Alex e sua madre, perché ricordo che De Benedetti corse a baciarle la mano, gesto da cavaliere antico che io molto apprezzai. Mia madre ed io ce ne stavamo in disparte. La santa donna vedeva finalmente coronati i suoi sforzi. Infatti le avevo chiesto di esser presente alla cerimonia per rassicurarla che i sospirati allori non sarebbero stati solo frutto della mia immaginazione, come era capitato a un paio di bolzanini di mia conoscenza. 167 Fagotto entrò in Aula Magna prima di me. Dopo una mezz’ora ne uscì sorridendo, e subito i parenti sciamarono eccitati intorno a lui: “Chino, Chino, sei dottore, sei dottore...”. L’importanza di questo titolo per gli italiani non può essere sottovalutata. Io credo che il Padre Dante ne sia responsabile, visto che più volte nel divino poema parla di Virgilio come del “suo dottore”. Il Doré poi ci mostra sempre Virgilio col capo cinto d’alloro. Laureato, insomma. Né trattiene gli italiani dallo sfrenato uso del titolo accademico – soprattutto da parte dei guardiani di posteggi – il sapere che i francesi lo conferiscono solo ai medici, gli inglesi danno del “Mister” anche ai chirurghi, e i tedeschi sghignazzano quando – a lor dire – gli italiani ne fanno sfoggio abusivo. Mi dicono che ormai in Italia, dopo la revisione degli ordinamenti universitari sul modello anglosassone, il titolo viene conferito anche a chi ha completato solo tre anni di studi. Una volta si diceva che una laurea e un pezzo di pane non si negano a nessuno. A quei tempi però ci si metteva più tempo ad addottorarsi. Arrivò il mio turno. La porta dell’Aula Magna si chiuse dietro di me e mi trovai di fronte e undici giudici che ascoltarono pazientemente e vagamente annoiati il mio discorsetto. Dopo aver risposto al paio di domande di prammatica fui finalmente proclamato “Dottore in Chimica”. Non partecipai a festeggiamenti, ma caricata con le mie masserizie la Fiat 850 di famiglia, e salutate con commozione le superstiti sorelle Lombardi, mia madre ed io partimmo la sera stessa per Bolzano in una bufera di neve. Per strana coincidenza, un paio d’anni dopo una tempesta di neve accompagnò Milena e me quando partimmo da Bolzano per l’Inghilterra la stessa sera delle nostre nozze, a bordo della stessa 850. h Finalmente laureato, un po’ per celia e un po’ per non morir d’inedia a Bolzano mi precipitai a cercare un lavoro per tacitare i cori delle prefiche che 168 mi davano “perso p’al caìgo”*. E cosa può trovare a portata di mano il neolaureato in chimica se non un posto di rappresentante di medicinali, sempre che non si butti a insegnare scienze nelle scuole medie? Il lavoro di rappresentante, umile ma ben retribuito, era una tappa obbligata per molti appena usciti dall’università o che dall’università non sarebbero mai usciti. Una laurea in chimica, farmacia o persino medicina garantiva l’assunzione nell’industria farmaceutica. Mio padre, portato a categorizzare il prossimo in base al modo di guadagnarsi il pane, mi disse “Ma cosa ti metti a fare... Ho fatto il rappresentante di medicinali anche io, ma solo prima di laurearmi.” Abbozzai, non essendo capace di promettere mari e monti e preferendo dichiarare le mie carte al momento opportuno, invece di bluffare. E pensare che Baruch Spinoza poliva lenti per vivere… Prontamente nel giro di un paio di settimane entrai a far parte della scuderia Merck, Sharp & Dohme italiana come Rappresentante di Medicinali per la Regione TrentinoAlto Adige. In termini meno aulici, come “commissionato”. Tale era infatti il titolo che mi veniva affibbiato, a volte brontolando e a volte stentoreamente, da chi mi vedeva spuntare nella sala d’attesa del medico: “Ostia, xe ‘rivà n’altro comisionatto! I ne fa perder tempo, ‘sti comisionatti de la madona...” . Le ditte farmaceutiche infatti avevano da tempo adottato il marketing a rullo compressore, in base al quale il medico vedeva spuntare due o tre rappresentanti al giorno, che per coprire più territorio durante la giornata cercavano di scavalcare i pazienti in sala d’aspetto. I benpensanti, anche se pronti allo scorno della mia modesta attività, perlomeno non mi accusavano più di essere ancora appeso alla tetta materna. Se non altro alla Merck imparai il motto dell’industria farmaceutica: “Auguriamo alla nostra clientela vita lunga e malaticcia”. h * “perso nella caligine, nella nebbia”. È un modo di dire veneto. 169 Ma – e ciò i benpensanti non potevano immaginare – nel corso di quei torpidi anni avevo immagazzinato un bel po’di nozioni di chimica. Di questo penso si fosse accorto il relatore della mia tesi, il quale forse si era commosso notando la devozione alla ricerca da me dimostrata nel passare interminabili ore allo spettrofotometro collezionando cinetiche di reazione. Fatto sta che durante l’estate successiva alla mia laurea Deo mi fece sapere che il professor De Benedetti, ormai salito in cattedra, dopo avergli chiesto del mio destino gli aveva detto che avrei potuto incontrarlo per discutere prospettive. In quell’estate De Benedetti era andato in villeggiatura in Val di Fassa. E così durante un weekend, arrampicandomi con la 850 per i tornanti delle valli alpine, andai a trovare il professor De Benedetti insieme alla ragazza che dopo pochi mesi avrei sposato. De Benedetti mi chiese: “Torrazzi, cosa vuole fare? Forse potrebbe lavorare con me a Pisa.” Io gli risposi che sarei stato ben contento di lavorare con lui, ma che prima di tutto mi sarebbe stato utile passare qualche tempo in un laboratorio in Inghilterra, principalmente per risciacquare i panni in Tamigi. De Benedetti trovò la mia richiesta ragionevole, e mi promise di corrispondere con un suo collega inglese per arrangiare un mio soggiorno nell’università del luogo. Nell’autunno di quell’anno tornai a Ferrara per sostenere anche l’esame di stato per l’abilitazione alla professione di chimico. Quest’ultima pergamena non mi servì mai a niente, anzi andò a finire che la ritirai di persona dalla segreteria dell’università una trentina d’anni dopo, di passaggio a Ferrara con mia moglie. Ascoltata la mia richiesta, senza batter ciglio l’impiegato della segreteria scartabellò un polveroso registro e, miracolo, dal fondo di un cassetto tirò fuori l’antico papiro. Anche questo pezzo di carta, insieme ai diplomi di laurea mio e di Milena, è conservato in una cassetta di sicurezza in banca, a prova d’incendio e ad edificazione dei nostri posteri. h 170 Tra la fine dei miei studi formali e l’inizio del lavoro di rappresentante partecipai a un interludio di un paio di settimane in Spagna. De Benedetti aveva ospitato nei suoi laboratori per alcuni mesi una ricercatrice spagnola, Maria Luz Vizcaya. Lei si era portata appresso il marito, Manuel, un avvocato che di chimica sapeva poco o niente ma aveva molte opinioni di carattere socio-politico, principalmente di sinistra, di cui amava discutere inesauribilmente. Forse Manuel si sentiva al sicuro in Italia nel dar sfogo ai suoi sentimenti di solidarietà col proletariato, dato che la Spagna ancora soffocava nella morsa del Caudillo e dell’Opus Dei. Però la logorrea di Manuel dava sui nervi a De Benedetti, un monarchico nostalgico dell’ ancien régime che avrebbe salutato con entusiasmo la riconversione dell’Italia da repubblica a regno sabaudo. Infatti il professore fu disgustato dall’affaire di Beatrice di Savoia con il fusto – povero ma bello – Maurizio Arena. Una Savoia che si accoppia con un commoner, e per giunta un burino emerso dal fango delle borgate romane come un pinnipede del Giurassico in via di evoluzione! Ma se non altro l’affaire divenne un grande affare per i rotocalchi nazionali. Alex, giovane di larghe vedute, era diventato amico dei Vizcaya e mi propose un viaggio in Spagna nel periodo delle feste natalizie, insieme a sua madre. Aveva appena acquistato una versione sportiva della Fiat 850, una piccola, elegante automobile la cui carrozzeria mi pare fosse un progetto di Pininfarina. Partimmo prima di Natale, facendo tappa a Lourdes, supermercato dei miracoli infestato da negozietti traboccanti di madonnine di plastica piene d’acqua santa, cartoline con l’effigie di vari papi e banderuole con simboli sacri che sventolando avrebbero potuto attrarre divine grazie, come le girandole da preghiera esposte ai venti nei monasteri tibetani. Dopo aver varcato i Pirenei puntammo su Madrid, solcando vaste, aride pianure e superando camion e greggi di pecore. Alex guidava come se non ci fosse un domani, abbordando a rotta di collo curve che strappavano a sua madre gridolini e sibili di paura. Io non ero più coraggioso della signora Scalchi, ma mi astenevo da commenti per non disturbare 171 il guidatore. Dopo una curva pericolosa affrontata da Alex con nonchalance da Mille Miglia, un suono di sirene poliziesche ci costrinse a fermarci. Il pizzardone motociclista, dopo la rituale richiesta di documenti, ci appioppò una multa. Cercammo di parare la botta piagnucolando “Siamo poveri studenti...”. Figuriamoci, poveri studenti con una macchina sportiva che ogni volta che la parcheggiavamo attraeva l’invidia di nugoli di spagnoli, condannati da Francisco Franco a economie da Medio Evo. Il poliziotto aveva un suo senso dell’humor, e ci rispose “Vi do la multa, ma poiché siete poveri studenti vi invito a cena a casa mia per stasera.” A un certo punto sulla strada di Madrid la macchina si rifiutò di funzionare. Sia Alex che io non potevamo spiegarci la recalcitranza del veicolo, e preso contatto con un garagista ne attendemmo il verdetto. La “tapa del delco”, la calotta dello spinterogeno, così detta dal nome della fabbrica che la produceva, era danneggiata e occorreva sostituirla. Ma per farlo bisognava prima ordinarla a un distributore Fiat. Aspettammo pazientemente l’arrivo della tapa di ricambio, e finalmente potemmo proseguire verso Madrid. Arrivati nella capitale scendemmo in un albergo del centro. Eravamo d’accordo di lasciare la mamma di Alex a Madrid, dove avrebbe incontrato alcuni suoi amici. Alex ed io avremmo proseguito per Gijon, sulla costa basca, per ritrovarci con i Vizcaya di cui saremmo stati ospiti. (Molti anni dopo ebbi a che fare con progetti relativi alla centrale nucleare di Santa Maria de Garoña, situata nella stessa zona). Mentre eravamo in albergo qualcuno lanciò un piropo, un complimento alla signora Scalchi, donna assai piacente: “¡Que guapa!”. La signora sapeva benissimo il significato di “guapa”, ma si divertiva a dirci “Mi hanno detto che sono una guappa...”, fingendo oltraggio ma in realtà lusingata. A Gijon fummo ricevuti dai Vizcaya con la cordiale ospitalità tipica dei latini, e per alcuni giorni ci divertimmo, avendo fatto conoscenza con un paio di bellezze locali. Il 172 nome di una di esse, Francisca, “Chiqui”, è per sempre scolpito nella mia memoria. Negli anni Sessanta la Spagna era un paese molto arretrato socialmente ed economicamente, essendo ancora sotto al giogo della dittatura franchista impostasi con la forza al governo legittimo. Ribellione finanziata con truppe, armamenti e denaro da Mussolini e da Hitler. Ma lo spirito degli spagnoli non era stato completamente soffocato dal pugno di ferro del bigotto e crudele dittatore, di cui si dice che amasse farsi servire alla scrivania cioccolata calda e churros mentre firmava sentenze di morte per garrota. Una domenica mattina Alex ed io eravamo in un caffè molto affollato del centro di Gijon. Un giovanotto entrò e a voce alta dichiarò “¡Cuanta gente! Hay mas aquí que en la iglesia...”. Per fortuna, pensai io. h I giorni di Gijon passarono troppo velocemente. Ripartimmo per Madrid dove ci aspettava la signora Scalchi. E da lì per l’Italia. A Bolzano cominciai subito il mio lavoro di rappresentante di ditta farmaceutica. Con la 850 andavo in giro per tutta la regione TrentinoAlto Adige, fino a Brunico e Vipiteno a nord e Riva del Garda a sud. Distribuivo campioni gratuiti ai medici, illustrando brevemente l’efficacia dei farmaci quando non mi veniva detto “Lasci i campioni sulla scrivania, sono molto occupato”. Un lavoro stancante per dover guidare continuamente da un paese all’altro e di totale mancanza di soddisfazione, se non pecuniaria. Nella primavera di quell’anno avevo conosciuto una ragazza che mi era molto piaciuta. Milena era la sorella di una compagna di scuola di una mia sorella. Queste nostre sorelle dovevano partecipare a un dibattito organizzato dalla scuola, e fu lì che vidi per la prima volta Milena, che era venuta ad assistere al dibattito in compagnia di sua nonna, una simpaticissima vecchietta. Alla fine della riunione mi offrii di dare un passaggio a nonna e nipote. E quando aprii la portiera della macchina Milena disse “Che buon odore! 173 È lo stesso odore delle automobili dei miei zii.” L’odore era quello, niente affatto buono, dei medicinali. Gli zii di Milena erano proprietari di tre farmacie nella zona. In retrospettiva, e tenendo presenti i contatti amichevoli degli zii con altri farmacisti, se avessi continuato a fare il rappresentante dopo aver sposato Milena ci saremmo arricchiti. Ma saremmo stati fagocitati dalle famiglie. Bravissime persone, Dio ci scampi. Però per me era più importante del denaro la mia libertà di azione. E del mestiere di rappresentante ne avevo piene le scatole. Quando De Benedetti mi invitò a parlare con lui mentre era in villeggiatura in Val di Fassa, colsi la palla al balzo, incurante dell’incerto futuro anteposto al lucro del presente. Avevo un’idea romantica della ricerca. (Un’illusione che la realtà si premurò di cancellare.) L’idea di andare in Inghilterra mi attraeva: nuove esperienze, nuova cultura, una lingua importante che conoscevo poco e desideravo imparare. Milena studiava ancora Economia e Commercio a Roma. A quei tempi la sua facoltà non si era ancora spostata alla Sapienza ma era situata nel centro di Roma, in un palazzo di piazza Fontanella Borghese, tra piazza di Spagna e il Tevere. Fanfani vi insegnava Storia dell’Economia, Caffè – sparito poi senza lasciar traccia – Economia Politica, e Bosco – il relatore della tesi di Milena – Diritto Internazionale. Dopo il nostro breve incontro Milena era tornata a Roma per sostenere alcuni esami. La rividi durante l’estate, e andai a trovarla dove villeggiava con gli zii a Siusi. Un suo cuginetto, avrà avuto quattro anni – adesso ne ha più di quaranta – mi chiese “Come mai le tue sopracciglia sono così folte?”. Io risposi “Perché crescono in primavera e cadono come le foglie in autunno”. Milena mi dice che questa mia uscita la convinse che io andavo bene per lei. In autunno Milena tornò a Roma. De Benedetti mi aveva fatto sapere che il professor Pruitt dell’Università di Reading, nel Berkshire, a pochi chilometri da Londra, aveva accettato di ospitarmi nei suoi laboratori. Munito della promessa di una borsa di studio e dei miei pochi risparmi, avevo deciso di chiedere a Milena di sposarmi. Una sera di ottobre presi il treno e sbarcai il mattino seguente a Roma. 174 Le telefonai alle sette del mattino. Sorpresa, mi domandò: “Ma dove sei?”. Al bar all’angolo, risposi. Le feci perdere un esame ma la convinsi ad accettare la mia proposta. Non prima però di tre giorni di tentativi. Il primo giorni la portai a Ostia, e di fronte al mare le chiesi senza preamboli, allora ci sposiamo a Pasqua? Lei, colta di sorpresa, non disse né sì né no. Non si aspettava una proposta del genere, conoscendo le mie idee orientate più verso il libero amore che i rituali degli imenei. Al massimo, sospettava che le chiedessi di scappare con me in Inghilterra. La sera del secondo giorno passeggiavamo nei dintorni dei Fori. Già era buio quando arrivammo di fronte al cancello che di solito la sera viene chiuso con un lucchetto. Ma stranamente quando provai ad aprirlo si spalancò. Un auspicio fausto. Entrammo richiudendo il cancello alle nostre spalle. La notte era tiepida e silenziosa, un’atmosfera magica. Seduti su un rudere, le chiesi ancora una volta di sposarmi. Milena mi disse che ci doveva pensare su. Il terzo ed ultimo giorno – dovevo tornare a Bolzano per lavoro – la portai a San Pietro. Quando il papa era Montini ci si poteva ancora affacciare alla balaustra della grande terrazza, quella con le statue che sorvegliano la piazza. (Karol Vojtila ne ha bloccato l’accesso.) Le dissi “O mi sposi o mi butto di sotto”. Più che altro perché non mi spiaccicassi sul selciato della piazza sottostante, Milena finalmente acconsentì. Celebrammo l’evento con una Fanta comprata al chiosco che allora esisteva sul terrazzone e andando a mangiare in una rosticceria dietro al colonnato del Bernini. Ancora oggi la donna mi rimprovera di averla indotta a consumare degli infami piedini di porco sotto aceto che io ero convinto fossero una delle Delikatessen locali. Andai a Reading nell’autunno per volare di ritorno a Bolzano alla metà di marzo dell’anno seguente, lasciando a Milena l’incombenza di organizzare la cerimonia nuziale nel frattempo. Ci saremmo sposati in chiesa per evitare infarti ai numerosi parenti, molto preoccupati per la salute delle nostre anime. Le nozze furono celebrate in una cappella medioevale in piazza Domenicani. Di 175 costituzione religiosa gracile, non potendo tollerare più di un sacramento al giorno fui esentato dalla comunione. Il problema della confessione preliminare era stato risolto da un giovane prete, molto simpatico, che si dichiarò per nulla interessato alle mie fornicazioni. Fui assolto in quattro e quattr’otto. Per penitenza scolai insieme a lui una bottiglia di vino. Partimmo la sera stessa delle nozze in macchina verso il Berkshire, passando attraverso Austria, Germania e Francia in un frettoloso viaggio di nozze. Ci fermammo a Parigi solo un giorno, con grande rammarico di Milena. Le promisi di tornare. Mantenni la promessa, ma non prima che passassero trent’anni. (Però allora ci restammo un intero mese.) Poco mancò che finissimo in un incidente appena sbarcati sul suolo inglese, perché gli inglesi si ostinano a guidare a sinistra. Poiché né io né Milena avevamo fatto pubblicità a un nostro impellente matrimonio, i benpensanti sorpresi dalla decisione decretarono “La ragazza è incinta!”. La prospettata gravidanza fu molto prolungata, perché il nostro primo figlio nacque due anni dopo. Milena era stata strappata da me ai suoi studi a Roma. I benpensanti decretarono: “Se la ragazza si sposa non si laureerà mai.” E invece, andando avanti e indietro da Londra a Roma e discutendo una tesi sull’ingresso del Regno Unito nel Mercato Comune, allora tema di dibattito, Milena sfatò la profezia un paio di mesi prima di salpare con me da Liverpool per la foce del San Lorenzo. Secondo un’altra profezia, questo nostro matrimonio non avrebbe potuto durare più di sei mesi, per via della mia innata scapestrataggine. Guarda caso, a tutt’oggi è durato più di trent’anni. Anzi, a volte penso che se esistesse il diavolo gli proporrei: ”Mefistò, se mi concedi di vivere un’altra vita con Milena, ti vendo l’anima.” Ma purtroppo il diavolo non esiste, è solo una delle tante invenzioni di chi vuole tenere i babbei sotto controllo. h 176 VITA IN INGHILTERRA Prigioni e biscotti – Un appartamento su tre piani – I cigni della regina – Bianchi e neri – Hippies e figli dei fiori – Incontro con Yoko - Dimostrazioni a Trafalgar Square – Il Greek Pig – Meneghello e Strickland – Il Dipartimento di Chimica – Le mele dei porci – Il prof. Pruitt – Ricerche e frustrazioni – Le palline d’argento Attraversata la Manica con la Fiat 850 caricata su un piccolo ferry aereo, eravamo sbarcati su suolo inglese ed evitato uno scontro con la prima macchina che ci veniva incontro, dimentichi del fatto che gli inglesi guidano a sinistra. Dopo un’ora di guida dal lato giusto – per gli inglesi – della strada ci avevamo fatto l’abitudine. Viaggiavamo attraverso un paesaggio sereno di colline ondulate, coperte da boschi di querce e prati verdissimi solcati da lunghe file di siepi. Ogni tanto appariva un villaggio di minuscole case, ciascuna con un giardinetto cintato da un piccolo steccato. Nel tardo pomeriggio, ci eravamo fermati per mangiare un boccone in una tea room al pianterreno di una costruzione isolata ai bordi della strada. Un’ enorme vetrata dava su un giardino con aiuole di fiori molto curate tra vialetti coperti di ghiaia. La sala in cui eravamo entrati era piena di gente, ma a malapena si sentiva bisbigliare. Milena mi disse: “Che ci sia stato un funerale?”. “No – le risposi – siamo in Inghilterra, qua non si fa caciara”. 177 Mussolini aveva affibbiato all’Inghilterra l’appellativo di “Perfida Albione”, ma nei miei due anni di soggiorno a Reading, nella valle del Tamigi, tra i verdi prati del Berkshire, di perfido ho trovato solo la cucina locale: per il lunch gli inglesi si accontentano di un sandwich al cetriolo; una loro specialità è steak and kidney pie, una specie di grossa cialda ripiena di pezzetti di carne e rognoni affogati in una besciamella anodina; e nei pub la birra è servita a temperatura ambiente, una condizione che richiama alla mente escrezioni naturali. Non è da stupirsi se in Inghilterra i ristoranti italiani sono spesso affollati: ben pochi piatti possono competere con gli spaghetti all’amatriciana e il risotto alla milanese. Peraltro ricordo quei due anni con nostalgia. Reading è una città industriale e universitaria, situata presso la stradale M4, a metà strada tra Londra e Oxford. I due siti di importanza storica erano la fabbrica di biscotti Huntley and Palmers, nota in tutto il Regno Unito e il Commonwealth britannico, e la prigione dove era stato incarcerato Oscar Wilde, colpevole di aver preso una cotta per il giovane “Bosie”, al secolo Lord Alfred Douglas, terzogenito del Marchese di Queensberry. Il marchese padre fu l’artefice della sfortuna di Wilde, condannato per “indecenza” a due anni di lavori forzati, dopo i quali aveva composto la “Ballata della Prigione di Reading”. Milena ed io eravamo sposati da pochi giorni quando andammo a vivere in un flat, una delle quattro suddivisioni di una villetta a due piani. Per far fronte alla scarsità di alloggi a buon mercato, gli inglesi avevano ideato ingegnosi modi di ripartire costruzioni in cui al massimo due famiglie invece di quattro avrebbero dovuto trovare sistemazione. In seguito all’immaginosa ristrutturazione dello stabile, il nostro minuscolo appartamento era disposto su tre livelli. Dal portone d’ingresso si saliva una ripida scala fino alla porta del nostro flat. All’interno, attraverso un corto e striminzito corridoio da un lato si accedeva al bagno e a pochi metri in fondo si entrava nella modesta cucina con un tavolino, un fornello a gas e una piccola dispensa. In mancanza di frigorifero si metteva il burro in 178 fresco in un boccale d’acqua posto su una mensola fuori dalla finestra. Dal lato opposto al bagno, salendo alcuni gradini si passava a un soggiorno con un divano letto, al cui arredamento noi avevamo aggiunto un tavolo e quattro sedie acquistate da un rigattiere. Una finestra dava sul cortile. Per rendere più gradevole il soggiorno, Milena ne aveva dipinto le pareti di un rosa salmone e vi aveva appeso alcuni suoi acquerelli. Dal soggiorno, salendo una scala a chiocciola, si arrivava alla stanza da letto in una mansarda sotto al tetto, spartanamente arredata con un letto a due piazze, un paio di comodini e un armadio. Però da un lato della stanza una larga vetrata ci offriva la vista – romantica secondo noi – di un vecchio cimitero. Il nome del nostro quartiere era infatti “Cemetery Junction”, perché il cimitero era di forma triangolare e al suo vertice si congiungevano tre strade. Il nostro alloggio ci era invidiato da altri giovani che gravitavano intorno all’università. Se non altro il nostro bagno aveva un gabinetto, un lavandino e una vasca da bagno, tutto per noi due soli. In altri flat a volte la vasca da bagno, se c’era, era posta al centro della cucina, e il gabinetto era spesso condiviso con altri inquilini. Arrivati dall’Italia, dove la maggior parte degli appartamenti di città avevano il riscaldamento centrale, eravamo stati spiacevolmente sorpresi di trovare stufette a gas funzionanti a gettone, nella migliore ipotesi. Nella peggiore, ci si doveva arrangiare con maleodoranti stufette a cherosene. Gli inverni a Reading non erano rigidi come quelli dell’Italia del nord, ma il freddo e l’umidità erano sufficienti a farmi saltare dal letto al mattino, tremolante, per accendere la stufa – spenta di notte ad evitarci la morte per soffocazione – e risparmiare a Milena, seppellitasi sotto al piumino dono di nozze, lo shock termico. Nella buona stagione, contrariamente a quanto si crede dell’Inghilterra, le giornate di sole non erano poche. La domenica, se non dovevo andare in laboratorio, Milena ed io andavamo a passeggiare nel parco di Caversham, alla periferia della città, e gettavamo pezzi di pane ai cigni “della regina”, che fluttuavano sull’acqua del Tamigi. 179 A volte vedevamo passare veloci canotti con gli equipaggi di Oxford o Cambridge che si allenavano per le tradizionali regate studentesche, incitati con grida ritmiche e gutturali dai timonieri. Altre volte, dopo aver comprato il Sunday Times nella massiccia edizione domenicale, passavamo ore a leggerne le storie. Un pomeriggio di domenica eravamo andati a passeggiare nel giardino pubblico antistante la storica prigione. In un gazebo una banda suonava valzer e marcette, umpa-umpa-pa. Ma quando la banda smetteva di suonare ci arrivavano di lontano echi di altre melodie e di ritmi molto più esotici. Incuriositi, avevamo seguito la musica, che come un filo di Arianna ci aveva guidati alla base di una torre, parte del blocco della prigione. Varcato un portale, dopo aver salito una scala eravamo entrati in una grande stanza con banchi e inginocchiatoi come in una chiesa. Quasi tutti i banchi erano occupati da neri che cantavano oscillando al ritmo dalla musica di un harmonium. Noi ci eravamo seduti timidamente nell’ultima fila di banchi. Milena, che in Italia non aveva mai visto molti neri, era un po’preoccupata. Quando la musica cessava, qualcuno si alzava e in un accento che non ci consentiva di decifrare tutte le parole testimoniava ad alta voce di aver commesso qualche peccato. Tutta la congregazione gli rispondeva con grida di “Yes, brother!”, o “Jesus saves!”, e poi tutti riprendevano a cantare inni. A un certo punto tutti fanno dietro-front. Noi pure, non potendo esimerci, ci ritroviamo con le spalle alla congrega e davanti a noi un muro. Un vago timore irrazionale ci aveva assalito. “E adesso cosa succede?”, mi fa Milena, come se da un momento all’altro diventassimo preda di qualche oscuro rito sacrificale. Ma non successe niente di cruento, anzi il ministro del culto venne a stringere la mano a noi “white brothers” e ad invitarci a tornare la domenica seguente per sciorinare i nostri peccati davanti ai fedeli. Spesso andavamo a Londra, sempre una festa mobile. Le nostre mete erano il museo Victoria and Albert, o il British Museum, o la Tate Gallery. Andavamo a Portobello Road per curiosare tra i venditori di chincaglierie, o a Hyde 180 Park ad ascoltare le divertenti farneticazioni di oratori improvvisati, in piedi su cassette da frutta. I “figli dei fiori”, ragazzi e ragazze più giovani di noi, ci offrivano garofani in segno di pace. Gruppetti di Hare Krishna con la testa rapata eccetto per un codino e avvolti in tuniche zafferano, ci circondavano ballonzolando, picchiando tamburelli e salmodiando la maha-mantra: “Hare Krishna. Hare Krishna. Krishna Krishna. Hare Hare. Hare Rama. Hare Rama. Rama Rama. Hare Hare”. Le prime minigonne erano apparse a Carnaby Street. Milena ne aveva comprato un paio, che indossate con calze a rete color carne avevano scioccato parenti e amici a Roma, dove era andata per sostenere un esame. “Yellow Submarine” dei Beatles era diventato l’inno di una generazione di hippies. Il Maharishi Mahesh Yogi aveva lanciato la moda della meditazione trascendente, che praticata coscienziosamente ci avrebbe consentito di levitare come su un tappeto magico in un tripudio di suoni e colori psichedelici, specialmente dopo aver inalato qualche boccata di cannabinolo o inghiottito un paio di gocce di acido lisergico. Circolava lo slogan “Vita migliore con la chimica”, e io non potevo non essere d’accordo. Camminando con Milena lungo Audley Street, nei pressi di Marble Arch, avevamo notato nella vetrina di un negozio semivuoto dei ritagli di giornale con fotografie di una giovane orientale insieme a John Lennon, già famoso come uno dei Beatles. Nel negozio, una specie di fondaco con le pareti a calce, alcune persone stavano allestendo ua mostra d’arte concettuale. Incuriositi, eravamo entrati e ci avevano diretto ad una scala che scendeva al piano inferiore. Là sotto, in mezzo a un guazzabuglio di oggetti disparati, il caso ci fece incontrare Yoko Ono, allora poco conosciuta ma futura moglie di Lennon e pomo della discordia dei Beatles. La donna, non ancora perseguitata da giornalisti e paparazzi, scambiò con noi alcune parole illustrandoci gentilmente il significato della sua mostra. In quel periodo erano di moda spille di metallo di poco valore, grossi bottoni a colori vivaci con i messaggi del momento: “Peace”, “Make love, not war”, “Jesus saves”. In contrasto, 181 Yoko Ono esponeva spille di sua creazione di estrema semplicità nipponica. Ne comprammo una di smalto bianco, non più grande di un bottone da cappotto con la scritta microscopica: “You are here”, purtroppo smarrita in uno dei nostri traslochi. In compagnia di John Lennon Yoko raggiunse il vertice della fama, contribuendo alle incisioni della John Lennon/Plastic Ono Band con miagolii, stridii e ululati da far invidia a una banshee, lo spirito fatato delle leggende irlandesi che di notte gira per le strade piangendo e lamentando con gemiti strazianti la morte di qualcuno. Pare che i servizi di controspionaggio americani facessero buon uso dei vocalizzi di Yoko Ono, adottandoli come una delle tecniche di coercizione psico-sensoriale durante gli interrogatori. Per far “cantare” gli indiziati li forzavano ad ascoltare per ore le prestazioni di Yoko, fino a che la loro resistenza crollava e gli sciagurati gridavano: “Basta! Basta! Confessiamo tutto, ma fateci ascoltare Mozart…”. Era il tempo della guerra in Vietnam, e quasi ogni domenica Vanessa Redgrave, Tariq Ali e altri importanti esponenti del movimento di opposizione al conflitto concionavano dalla balaustrata davanti al monumento a Nelson in Trafalgar Square, a beneficio di una folla sottostante che sventolava bandiere nordvietnamite o bandiere americane in cui le stelle erano state sostituite da piccoli teschi. Poi tutti marciavano, Vanessa in testa, verso l’ambasciata americana in Grosvenor Square, cantilenando slogan come “hey, hey, L.B.J., how many kids have you killed today?” per sfottere il presidente americano Lyndon Baynes Johnson. Davanti all’ambasciata era parcheggiata una barricata di autobus a prevenzione di assalti. Milena ed io ci mettevamo vicino al nugolo di poliziotti armati di manganelli, per rassicurarli che non avevamo intenzioni bellicose. Non passava molto tempo prima che qualche scalmanato cercasse di valicare le barriere, scatenando le manganellate della polizia. Alcuni dei facinorosi per sfuggire ai randelli si arrampicavano sugli alberi della piazza come scimmie in fuga dalle iene. A lato della piazza era l’Hotel Hilton. Dalle finestre i turisti americani ci lanciavano monetine – un riflesso condizionato dalla 182 fontana di Trevi – e giravano filmini con le loro macchinette cinematografiche formato super-8. h Eravamo arrivati a Reading muniti della promessa di una borsa di studio del Cnr. Ma la borsa tardava a spuntare, e Milena si industriava di far fronte alle spese cercando lavoro dove possibile. Per un certo periodo aveva pulito la grande sala da pranzo e preparato le tavole nella mensa di una delle case dello studente. Ma il suo impiego più proficuo fu quello di sguattera in un grosso ristorante di proprietà di un greco. La mattina e il pomeriggio Milena li passava in biblioteca a raccogliere dati per la sua tesi in Diritto Internazionale. Verso sera andava al ristorante, dove si cambiava nei panni di assistente ai lavori di cucina per restarvi spesso fino a mezzanotte, quando mi presentavo per accompagnarla a casa. Al ristorante si dedicava a compiti vari, come lavare mucchi di patate che una specie di centrifuga avrebbe pelato e tornito a forma d’uovo, o nettare insalata e riempirne enormi bacili, o caricare la macchina per lavare i piatti. Il personale di cucina consisteva in un’anziana cuoca, e in aggiunta a Milena, due cuochi subalterni, un pachistano e un indiano, che eseguivano senza obiezioni le istruzioni della capo-cuoca e per amor di pace avevano messo da parte divergenze di politica nazionale. La cuoca si rivolgeva a Milena chiamandola sempre honey: “Honey, do this, honey, do that…”. E Milena si divertiva a sentirsi chiamare “miele”. La cucina del ristorante era un antro cavernoso dalle curve pareti di pietra a grezzo. Ci si arrivava scendendo per una ripida scala sdrucciolevole. La scala, le pareti e le superfici dei banconi erano annerite da depositi secolari di fuliggine e untuose per i vapori delle fritture. Uno scenario da Oliver Twist di Dickens. L’ambiente era così sudicio che Milena si chiedeva come mai gli ispettori 183 preposti ai controlli d’igiene consentissero al proprietario, soprannominato dai suoi dipendenti the Greek Pig, di tenere aperto l’esercizio. Una sera in cui dovevamo attendere una delle funzioni sociali dell’università, alla fine del suo turno Milena si era cambiata dentro al bagno del ristorante nel vestito che aveva portato da casa in una borsa, si era pettinata rimuovendo i bigodini celati da un foulard, e aveva calzato scarpe coi tacchi alti. Così rimpannucciata non era stata riconosciuta dal Greek Pig, che prendendola per una cliente, cerimoniosamente aveva offerto alla sua sguattera di accomodarsi a uno dei tavoli. Lo stage di un paio di mesi nel ristorante del Greek Pig terminò quando il prof. Luigi Meneghello, a capo del Dipartimento di Studi Italiani dell’università, offrì a Milena l’incarico della conversazione in italiano con gli studenti. Nel frattempo la mia sospirata borsa di studio si era materializzata e le nostre finanze avevano ripreso a veleggiare. Il prof. Meneghello era un vicentino di una quarantina d’anni, approdato a Reading per insegnarvi lingua e letteratura italiana dopo il tumultuoso periodo della guerra che lo aveva visto prima in divisa di ufficiale degli Alpini e dopo l’8 settembre del ’43 nei panni del partigiano. Meneghello nutriva una sua mal celata frustrazione professionale: non aveva ancora conquistato rinomanza di letterato. Questo suo disappunto era aggravato dai commenti sardonici di alcuni suoi colleghi di altri dipartimenti, che pettegoli e impertinenti, facevano i conti delle pubblicazioni in tasca al prossimo. Di tutti gli ambienti di lavoro, quello accademico non è fra i meno velenosi. A parere di quelle bocche la pecca del buon prof. Meneghello era quella di aver pubblicato “solo” un paio di romanzi. In quell’ambiente era di rigore l’ammonizione “pubblicare o perire”. E quindi a stabilire il pregio di un membro di facoltà più che la qualità delle sue pubblicazioni era il loro peso in chilogrammi. Con questo metro di giudizio un genio della chimica-fisica come J. Willard Gibbs, che aveva pubblicato pochi ma fondamentali lavori, avrebbe dovuto essere relegato all’oblio nella 184 storia della scienza. Ma il destino avrebbe vendicato il prof. Meneghello, la cui produzione letteraria gli avrebbe in seguito acquistato meritata fama, a scorno dei pettegoli dell’università. h C’erano però persone molto simpatiche tra i docenti di Reading. Ne ricordo una in particolare, Geoffrey Strickland, un giovane professore di letteratura francese. Geoffrey possedeva una completa collezione delle chansons di Georges Brassens, e gli piaceva farci ascoltare Brave Margot o la Ballade des Dames du Temps Jadis. A Geoffrey piaceva soprattutto raccontarci buffi episodi della sua vita. Eccone uno: “Dovendo fare delle ricerche per un mio articolo su Abelardo di Nantes ero andato a Parigi in cerca di documenti alla Bibliothèque Nationale. Il venerabile edificio della Bibliothèque ha un fascino particolare per il bibliofilo. Dalle alte vetrate filtra una luce plumbea che bagna lunghe file parallele di schedari. Un odore di carte ingiallite permea l’atmosfera. Un pomeriggio, dopo aver estratto uno dei lunghi cassetti dello schedario pieni di schede in ordine alfabetico, chinandomi per cercare un titolo avevo percepito il contatto del fondo della mia schiena col fondo di un’altra schiena. Girando la testa senza spostarmi, avevo scorto una bella ragazza intenta alla ricerca bibliografica nella stessa posizione in cui ne avevo notato la presenza. Devo confessare che l’incontro fortuito di deretani mi aveva procurato un frisson di piacere. Continuando la mia ricerca nello schedario, dopo alcuni minuti si verificò lo stesso evento, questa volta intensificato da uno strofinio foriero di sviluppi. Ma voltandomi speranzoso, al posto della ragazza avevo trovato un vecchio barbuto con un ghigno di complicità sulla labbra…”. h 185 Il nuovo campus dell’Università di Reading era stato costruito in un grande parco, Whiteknights Park, con antichi, bellissimi alberi e prati rasati alla perfezione. La moderna biblioteca con enormi pareti di vetro era riempita di scaffali da cui i libri potevano essere rimossi e consultati senza bisogno di intermediari. I bibliotecari erano a disposizione di studenti e docenti per assisterli nelle ricerche bibliografiche. L’unico edificio di vecchia data era una grande villa convertita in Senior Common Room, il club e mensa dei professori. Il Dipartimento di Chimica, una moderna costruzione di quattro piani a forma di “L”, era situato al fondo di Whiteknights Park, a una distanza di alcune centinaia di metri dalla strada d’accesso. Il prof. Pruitt, sotto la cui guida avrei lavorato per un paio d’anni, vi si recava in automobile benché abitasse dal lato opposto del parco. Una mancanza di esercizio fisico che in seguito gli sarebbe costata cara. Nel lato più lungo della L erano sistemati i laboratori e le aule per gli studenti; in quello più corto stavano i laboratori e gli uffici dei docenti e dei ricercatori. A me era stato assegnato un piccolo laboratorio personale, con un lungo bancone contro una parete munito di lavandini, condutture, rubinetti e valvole per l’acqua distillata e i gas, apparecchiature e strumenti di misura, e armadietti e cassetti pieni di becchi Bunsen, burette, pipette, beute, bicchieri, crogioli, filtri, imbuti e termometri, insomma tutti gli aggeggi usati dai chimici. Gli scaffali sopra al bancone erano coperti di bottiglie, flaconi e boccette pieni di reagenti. Una scrivania col telefono e uno scaffale per libri e carte completavano l’arredamento. Sulla porta della stanza avevano affisso una targhetta con l’iscrizione “Dr. Torrazzi”. Era un ambiente ideale per lavorare in pace. A pochi passi dal mio laboratorio era la common room, una stanza arredata con enormi poltrone di pelle. Adiacente era una attrezzata cucina per preparare soprattutto il tè delle cinque, sempre servito col latte, mai col limone; un rituale di tono quasi liturgico, come la cerimonia del tè in Giappone. L’acqua non doveva esser bollita troppo a lungo, il tè doveva essere aggiunto al latte 186 e non viceversa. Con questo rigoroso rispetto per le regole – così alieno dallo spirito di noi italiani – l’Inghilterra era riuscita a conquistare un impero. Alle cinque del pomeriggio ci si riuniva per prender il tè con le paste e discutere i fatti del giorno. Ricordo che in quel periodo era appena uscito “La Doppia Elica”, il racconto tra il serio e il faceto di Jim Watson di come insieme a Francis Crick avesse decifrato la struttura molecolare del DNA. Un particolare che aveva suscitato molta ilarità era come i due avessero scoperto i progressi di Linus Pauling nel cercare di risolvere lo stesso problema – roba da premio Nobel – trafugando dalle tasche del cappotto di Peter, il figlio di Linus che pure lavorava a Cambridge, le lettere del padre. In guerra, in amore e nella ricerca scientifica tutto è lecito… Un particolare del dipartimento mi aveva colpito: i pavimenti erano in legno pregiato tirato a lucido, anche nei laboratori, come se nessuna goccia d’acido vi potesse mai cadere. Mi fu spiegato che il dipartimento era stato progettato secondo le istruzioni del direttore, il rinomato prof. E.A. Guggenheim, un pezzo-da-novanta della termodinamica teorica che con le manipolazioni di acidi e alcali aveva avuto di rado a che fare. Al mio arrivo a Reading il professore era già andato in pensione. Lo incontrai durante un garden party nella sua villetta; era un vecchietto gentile, con un modo di fare cerimonioso contrastante la sua fama di despota del dipartimento. Per decisione del prof. Guggenheim l’ingresso principale del dipartimento era dotato di un magnifico scalone in legno chiaro a doppia chiocciola, una struttura ispirata a un progetto di Leonardo da Vinci per il castello di Chambord nella Loire. A Chambord la doppia chiocciola avrebbe consentito al re Francesco I di salire e scendere una spirale senza mai incrociare la servitù che doveva far uso della spirale opposta. Sono sicuro che la scelta del prof. Guggenheim, senza dubbio più democratico di Francesco I, era stata basata solo su criteri estetici. E forse il professore aveva voluto lo scalone a doppia elica anche perché ispirato dalla recente scoperta di Crick e Watson. h 187 Al tempo del mio soggiorno in Inghilterra l’erario del Regno Unito non era ancora stremato da un enorme afflusso di immigrati provenienti dai paesi dell’ex-impero e dai corrispondenti impegni sociali del welfare state. Il governo aveva investito ingenti somme nello sviluppo delle università che erano diventate un paradiso per i ricercatori, specie quelli non abituati a tale larghezza di fondi. Nel basamento dell’edificio che mi ospitava erano stati sistemati i magazzini dai quali si poteva prelevare qualsiasi reagente, un laboratorio con due soffiatori di vetro, e una piccola officina con tre o quattro meccanici addetti alla costruzione di speciali apparecchiature per la ricerca. John Rowley, il soffiatore di vetro capo, era molto fiero della sua abilità che gli procurava commissioni al di fuori del dipartimento: aveva creato pezzi complicati anche per il Museo della Scienza di Londra. Arrivava al mattino a bordo di un’automobile a tre ruote, un veicolo la cui apparizione non faceva batter ciglio a nessuno nell’eccentrica Inghilterra. In una continua competizione per la nomea di artigiano più bravo del dipartimento, il rivale di Rowley era Ronald Ashland, un meccanico di eccezionali capacità. Ashland era molto preoccupato per l’invasione di immigrati, soprattutto quelli di pelle scura o giallina. Benché nel suo accento cockney mi avesse più volte incoraggiato a tornare nel mio paese d’origine, mi aveva preso in simpatia, forse perché la tinta della mia carnagione era di suo gusto. Milena ed io fummo persino invitati a cena a casa sua, dove ci mostrò un ingegnoso trenino in miniatura di sua costruzione che correva intorno al giardinetto. Naturalmente per cena ci ammannì steak and kidney pie. A tavola sedeva con noi una sua figlia, simpaticissima, che ogni tanto mollava un rutto o un peto, accolti con grandi risate da suo padre. h In effetti, a Reading la nostra vita sociale era notevolmente intensa. Eravamo spesso invitati da colleghi a cena o a parties. In quel periodo era diventato di moda 188 il wife swapping, lo scambio di mogli o di partner. Ad ogni invito Milena mi chiedeva preoccupata: “Guelfo, pensi che ci si debba cambiare di biancheria? Non si sa mai…”. Ma la temuta, o forse inconsciamente desiderata “ammucchiata” non si verificò mai. In quei primi mesi di vita in Inghilterra la nostra conoscenza dell’inglese era rudimentale. Poiché non avevamo un frigorifero Milena faceva la spesa degli alimentari deperibili in quantità sufficienti per un paio di giorni. Col suo vocabolarietto tascabile lei andava dal verduraio di Cemetery Junction, e non conoscendo la pronuncia delle parole indicava a gesti quello che voleva. Poi, non capendo quanto doveva pagare, si riempiva la mano di monete e le porgeva al verduraio, che pigliava quello che Milena gli doveva. Poiché questa storia continuava giorno dopo giorno, il buon uomo era convinto che Milena fosse sordomuta, e per farsi capire cercava di articolare parole con smorfie della bocca, sperando che la ragazza potesse leggere le labbra. Ma un giorno, dopo qualche settimana, Milena finalmente si fece sentire: “Four bananas, please!”. Il verduraio, strabuzzando gli occhi, non poteva credere alle sue orecchie: miracolo! Una credenza diffusa nei paesi di lingua inglese è che l’inglese pronunciato lentamente, distintamente e ad alta voce, può essere capito da chiunque. Potevamo sperimentare questa bizzarra idea ogni volta che andavamo all’ufficio postale di Cemetery Junction. L’ufficiale postale, sapendo che eravamo stranieri, ci rivolgeva la parola esattamente in quel modo: lentamente, chiaramente e a voce alta. Ovviamente noi non capivamo un accidente. Non avevamo la televisione, grande maestra di lingue, dialetti e parolacce, e per migliorare il nostro inglese andavamo al cinema del rione. Per pochi scellini assistevamo a due proiezioni, sempre precedute dall’inno nazionale, God save the Queen, che tutti ascoltavano religiosamente in piedi. Milena aveva imparato proprio al cinema una delle sue prime parole, fire!, urlata da Michael Caine nel film “Zulu” per incitare i suoi fucilieri a sparare addosso ad orde di zulù che assaltavano il loro avamposto in Sudafrica. 189 Dovevamo in qualche modo ricambiare i numerosi inviti. Un pomeriggio ero tornato a casa prima del solito per annunciare a Milena: “Tra un paio d’ore avremo una diecina di ospiti”. Colta di sorpresa, la tapina mi rispose: ”E che gli serviamo?”. Avevamo un pacco di spaghetti, dei pomodori in scatola e un cespo d’insalata. Sul fondo della dispensa era rotolato un salame che qualcuno ci aveva dato alla nostra partenza dall’Italia e che non avevamo mai assaggiato. Nel giardino-cortile della nostra casa cresceva un melo che produceva frutti striminziti, tanto che noi li chiamavamo “le mele dei maiali”. Presa alla sprovvista ma piena di risorse, Milena era corsa a raccogliere un buon numero di quelle mele, che cotte al forno e spruzzate di zucchero, per metamorfosi erano diventate un dessert rispettabile. Gli ospiti avevano portato un paio di bottiglie di vino, e gli spaghetti al pomodoro erano stati accolti con entusiasmo. Come secondo piatto Milena aveva affettato il salame, da servire con l’insalata. Uno degli ospiti cominciò a masticare una delle fette. Ma subito, a bocca spalancata e occhi che si riempivano di lagrime, il malcapitato prese a scatarrare emettendo suoni inarticolati. A questo punto Milena, memore di Michael Caine, gridò “Fire!”, e qualcun altro, tra le risate generali, “Water!”. Il salame, farcito di grani di peperoncino rosso, per gli inglesi abituati a cibi molto blandi aveva un sapore da sabba infernale. h Al Dipartimento di Chimica di Reading il mio compito era quello di misurare minuscole variazioni di forza elettromotrice in celle elettrolitiche. In parole più povere, dovevo misurare minuti voltaggi tra due elettrodi immersi in soluzioni di varia composizione e concentrazione. I risultati delle misure sarebbero serviti a verificare la validità di certe equazioni. Robert Pruitt era il professore interessato ai risultati del mio lavoro. Pruitt era un uomo prossimo alla cinquantina, alto, massiccio, imponente. Il suo atteggiamento nei miei confronti era quasi paterno. Accettava con pazienza la 190 mia mancanza di esperienza e mi incoraggiava quando incontravo difficoltà. Amava molto scherzare, e poiché come italiano mi riteneva inevitabilmente cattolico, lui anglicano ogni tanto infilava nella conversazione qualche battuta ironica a spese del papa, sperando di stimolare una mia reazione. Io alle sue battute ridevo di gusto. Già anziano, Pruitt aveva sposato una collega di un altro dipartimento e viveva con la moglie a non molta distanza dai laboratori. Fumatore accanito, preferiva la buona cucina all’esercizio fisico. Questa inattività fisica gli aveva aggravato disfunzioni cardiache serie al punto che il suo medico curante gli aveva ingiunto di recarsi a piedi in ufficio, lasciando l’automobile in garage. Un avvertimento ascoltato troppo tardi: alcuni mesi dopo la mia partenza dall’Inghilterra mi giunse la notizia che il prof. Pruitt era rimasto vittima di un infarto letale a soli cinquant’anni. Pruitt trattava i subalterni in modo cordiale, ma si aspettava un rispetto che non consentiva eccessiva familiarità. In Inghilterra non era di moda l’informalità degli ambienti accademici americani in cui tutti si chiamano per nome di battesimo, l’equivalente in inglese di darsi del tu. Ma il suo mantenere una certa distanza non imbarazzava me e Milena, in sua compagnia ci sentivamo a nostro agio. Insieme a Pruitt visitammo Stonehenge, il sito preistorico forse di origine druidica; la cattedrale di Salisbury; e alcuni ristoranti di Londra da lui prediletti. h Il mio lavoro non mancava di difficoltà, problemi e frustrazioni. Allora non esistevano computer, stampanti e sistemi automatici per l’acquisizione di dati. Per eseguire misurazioni a intervalli di due ore spesso passavo la notte sonnecchiando su una branda nel mio laboratorio-ufficio, dopo aver caricato una sveglia. Milena, fedelissima, mi faceva compagnia dormendo su una poltrona della adiacente common room e preparando al mattino il breakfast nel cucinino. Passavamo più tempo in laboratorio che a casa. 191 Una sera il prof. Pruitt aveva sorpreso me e Milena mentre osservavamo bollicine d’idrogeno che salivano dentro a un tubo pieno di soluzione a una velocità che controllavamo contando quante se ne sviluppavano al minuto. Pruitt, incuriosito, ci aveva chiesto: “Cosa state facendo?”. Noi gli avevamo risposto: “Contiamo le bollicine”. E lui: “Posso contarle anch’io?...”. Un giorno dovevo preparare dell’acido cloridrico puro. L’acido cloridrico è un gas normalmente disponibile in soluzione acquosa. Per purificarlo occorre spostarlo dalla soluzione commerciale e raccoglierlo in acqua pura. A questo scopo si fanno cadere da un imbuto separatore gocce d’acido solforico dentro alla soluzione commerciale. L’acido solforico assorbe l’acqua e forza il gas a uscirne e gorgogliare dentro alla nuova soluzione. La regola vuole che si aggiunga poco a poco acido solforico a molta acqua, e non il contrario, per evitare una reazione violenta. Io avevo seguito la regola, ma avevo dimenticato di far partire un agitatore al fondo della soluzione commerciale. L’acido solforico, cadendo goccia a goccia, si era stratificato sulla superficie dell’acqua senza reagire. A un certo punto però la reazione tra acido e acqua esplose. Per fortuna avevo sistemato l’apparecchiatura dentro ad una cappa. Dalle pareti gli acidi scendevano in rivoletti verso il fondo, sotto i miei occhi imbarazzati e quelli divertiti del prof. Pruitt. Un’altra esperienza educativa - la pazienza è una virtù necessaria a chi fa della ricerca - fu la preparazione di elettrodi ad argento/cloruro d’argento, necessari alle mie misurazioni. Il metodo di preparazione, lungo e laborioso, comportava la precipitazione e purificazione di una pasta di ossido d’argento. Una spirale di filo di platino veniva poi ricoperta di quest’ossido, formando sferette di un mezzo centimetro di diametro. Infine, l’ossido era ridotto termicamente ad argento dentro a una piccola fornace. Ne risultavano palline d’argento avvolte intorno alle spirali. Dopo ulteriori trattamenti, gli elettrodi così costruiti dovevano comportarsi in modo identico, e cioè differire solo di una frazione di millivolt se misurati l’uno verso l’altro. Dovetti provare e riprovare il metodo di preparazione 192 per alcune settimane prima di ottenere i risultati desiderati. Pruitt ogni tanto mi chiedeva: “Allora, come va con questi elettrodi”, e io, imbarazzato, dovevo confessargli la mia ignominia. Alla fine però ero riuscito a preparare un numero sufficiente di “buoni” elettrodi per proseguire nel lavoro. La melanconica storia con lieto fine delle palline d’argento doveva aver circolato al di fuori dell’Università di Reading. Alcuni mesi dopo, di passaggio con Milena a Pisa, eravamo nel Campo dei Miracoli, l’immenso prato da cui spuntano come funghi candidi il Duomo, il Battistero e la Torre pendente, allietato da bancarelle che spacciano cartoline con gli affreschi medioevali dei diavoli che infilzano i peccatori, piccole torri pendule di marmo, e ritratti sul velluto di Papa Giovanni XXIII e John Kennedy. Stavamo ammirando col naso in aria la Torre, quell’enorme simbolo fallico che si erge nel cielo a richiamo della potenza del maschio italico, quando mi sentii chiamare: “Dottor Torrazzi, dottor Torrazzi!”. Un giovanotto arrivò correndo verso di noi e mi chiese trafelato: “Mi può insegnare i trucchi per preparare gli elettrodi ad argento/cloruro d’argento?”. Anche lui, poveretto, aveva inciampato nella preparazione di quei dannati elettrodi! h Durante l’ultima estate di vita in Inghilterra Alex Scalchi era arrivato come nostro ospite per fare esperimenti nei laboratori del prof. Pruitt. Quasi ogni giorno tornando a casa ci raccontava: “Oggi ho scoperto cose molto interessanti”, oppure “una giornata proficua anche oggi”. E Milena mi diceva: “Guelfo, com’è che tu mi parli solo delle tue frustrazioni e mai di scoperte?”. Evidentemente il dramma delle palline d’argento aveva inciso sulla mia psiche. Però ad onta delle diaboliche palline riuscii a completare il programma di lavoro a Reading. Ne saltarono fuori un paio di pubblicazioni e l’offerta di Pruitt di aiutarmi ad ottenere un impiego all’ICI, Imperial Chemical Industries. Nel frattempo un collega canadese, Bob Chlebeck, mi aveva consigliato di scrivere all’Università 193 McMaster nell’Ontario, sapendo che alcuni dipartimenti avevano bisogno di ricercatori. Seguii il consiglio di Bob e fui sorpreso di ricevere entro due settimane l’offerta di un contratto di lavoro presso il Dipartimento di Metallurgia e Scienza dei Materiali. Il tema della ricerca propostomi era completamente diverso dalle mie esperienze di soluzioni elettrolitiche: corrosione ad alta temperatura di superleghe al nichel-cromo usate nelle turbine a gas e nei motori a reazione. Non avrei avuto a che fare con liquidi, ma con gas e solidi. Una nuova avventura, insomma: contratto per due anni, spese di viaggio pagate per me e mia moglie, incluso, a mia scelta, il ritorno in Europa. Non potevo rifiutare un’offerta così allettante, e dopo aver ringraziato il prof. Pruitt della fiducia accordatami, ci preparammo a varcare l’Atlantico. Nel frattempo Milena si era laureata, e altri impegni non ci trattenevano in Europa. h 194 PASSAGGIO A NORD-OVEST Rose sotto la luna – Traversata atlantica – Al Vice-consolato di Hamilton – Parolacce internazionali – I megapolli – Elefanti alla monta – Puntando a sud – Spaghetti e polpette – Premi Nobel – Gerarchie e gabinetti di decenza Salpammo da Liverpool un pomeriggio d’autunno con un piroscafo della Canadian Pacific. Sulla nave potevamo imbarcare la maggior parte delle nostre masserizie, perciò avevamo passato la notte precedente la partenza a fare i bagagli, aiutati da Bob Clebeck. Dopo le nove di sera eravamo andati a salutare il prof. Pruitt e sua moglie. Sul muro vicino alla porta della casa si era arrampicata una spalliera di rose. La notte era serena, le rose erano illuminate dalla luna quasi come fosse giorno. Presa per mano Milena, Pruitt la condusse davanti alle rose e le disse: “Voglio che questo sia il tuo ultimo ricordo di Reading”. Milena, commossa, non si aspettava da un omaccione come Pruitt un gesto tanto poetico. Con il ricordo delle rose Milena avrebbe portato dentro di sé un piccolo germoglio, il nostro primo figlio. Al mattino presto un furgone della compagnia marittima aveva caricato i nostri bagagli e ci aveva portato alla stazione ferroviaria da cui saremmo partiti per Liverpool. Tutti i nostri averi erano stati accatastati su una piattaforma di legno, il bancale che un carrello a forca avrebbe sollevato e depositato in un vagone di un 195 treno merci separato. Quando il nostro treno cominciò a muoversi, ci accorgemmo con orrore di aver lasciato sul bancale la borsa con biglietti, passaporti e denaro. Dal finestrino vedevamo poco a poco scomparire la pila dei bagagli con in cima la borsa fatale. Il viaggio in treno da Reading a Liverpool fu un incubo. Non potevamo fare altro che torcerci le mani per l’angoscia. Ma il destino fu benigno. La borsa era stata affidata al capotreno dagli onesti facchini britannici, e arrivati a Liverpool ci fu riconsegnata intatta con nostro grande sollievo. La traversata dell’Atlantico mosso dai venti d’autunno fu memorabile per il mal di mare che ci impediva di assaporare la cucina di bordo. Ma dopo cinque giorni di rollio e beccheggio, finalmente entrammo nelle calme acque dell’estuario del San Lorenzo. Da Quebec City un treno ci trasportò ad Hamilton, la nostra destinazione finale. Alla stazione fummo ricevuti da un uomo di mezza età in maniche di camicia. Milena, abituata alla prosopopea di certi docenti italiani, credeva che fosse l’autista del professore. Era invece proprio il prof. Walter Bentzner, un canadese coi capelli a spazzola e un modo di fare totalmente informale con cui avrei lavorato per i prossimi due anni. Bentzner ci disse subito di chiamarlo “Walt”, e con la sua Volkswagen ci portò fino all’appartamento che aveva prenotato per noi. L’appartamento con una stanza da letto, un soggiorno, bagno e cucina, era parte di un complesso di dodici piani dal nome esotico di “Beverly Hills”, con quattro ascensori, piscina, campo da tennis e garage sotterraneo. Una sistemazione di gran lunga migliore del flat di Reading. Il giorno dopo Walt mi fece trovare sulla scrivania un assegno corrispondente a un mese di stipendio anticipato. Migliore benvenuto non mi sarei potuto aspettare. Hamilton è una grossa città industriale, un porto di gran traffico commerciale ai bordi dell’enorme lago Ontario e a poche diecine di chilometri da Toronto. Il Dipartimento di Metallurgia e Scienza dei Materiali occupava una porzione di un vasto edificio al centro del campus dell’Università McMaster. Il dipartimento 196 era finanziato in gran parte da INCO Limited, una delle maggiori società del mondo dedite all’estrazione e lavorazione del nickel e di altri metalli, con interessi in campo internazionale che si estendevano fino all’Indonesia. Avevo iniziato a familiarizzarmi con nuove tecniche di ricerca e il mio lavoro procedeva senza intralci. Di quel periodo ricordo solo un incidente. Dovendo usare acido solfidrico, un gas dal forte odore d’uova marce, un piccolo sbuffo era sfuggito a una delle bombole che lo contenevano e circolando attraverso i condotti di aerazione aveva fatto il giro dell’edificio. Qualcuno, spaventato, aveva azionato le suonerie d’allarme e i quattro piani di uffici e laboratori si erano svuotati in pochi minuti. Studenti, insegnanti, segretarie e tecnici, circa un centinaio di persone, erano scappati all’aperto temendo di essere stati aggrediti da gas venefici. Toccò a me, colpevole del presunto tentativo di sterminio, di rassicurare chi di chimica era digiuno: la puzza che li aveva allarmati non avrebbe avuto conseguenze per la loro salute. Se non altro l’incidente aveva convinto Walt Bentzner a seguire il mio consiglio iniziale e far costruire una cappa munita di aspiratore per contenere le bombole dei gas e le apparecchiature dei miei esperimenti. h Dopo i due anni d’Inghilterra Milena parlava l’inglese a sufficienza per districarsi da sola nel nuovo mondo. Avevamo comprato una piccola automobile, una Morris 1300, e Milena spesso mi lasciava in università e se ne andava in giro per conto suo. Poiché io passavo la maggior parte della giornata in laboratorio, lei, annoiandosi, aveva pensato di cercar lavoro. Un mattino, munita di documenti e certificati, si era presentata all’Ufficio Collocamenti di Hamilton. Il funzionario che l’aveva ricevuta dopo aver esaminato le sue credenziali le aveva dichiarato: “Lei è troppo qualificata. Qua le donne badano all’andamento della famiglia o, nella migliore delle ipotesi, fanno le segretarie o le infermiere. Nessun uomo si adatterebbe a lavorare insieme a lei o 197 addirittura a trovarsi alle sue dipendenze”. A quei tempi il movimento di liberazione della donna aveva appena cominciato a muovere i primi passi, e i primi reggipetti erano stati bruciati pubblicamente, a protesta simbolica. Milena era uscita furiosa dall’Ufficio Collocamenti. Lungo la strada aveva notato sul muro di un palazzo la placca “Vice-Consolato d’Italia”, una propaggine del Consolato Generale di Toronto installata ad Hamilton per prendersi cura dei numerosi immigrati italiani locali. Decisa a protestare presso le autorità ufficiali il trattamento discriminatorio cui era stata assoggettata, Milena era salita al quinto piano del palazzo e aveva chiesto alla segretaria che l’aveva ricevuta di parlare col viceconsole. Fu ricevuta da un anziano gentiluomo che dopo aver ascoltato pazientemente le sue rimostranze e aver notato che si era laureata con una tesi in diritto internazionale, le disse: “Senta signora, io spesso mi devo assentare dall’ufficio. La mia segretaria non è sempre in grado di sostituirmi. Le interesserebbe collaborare con me?”. Fu così che Milena diventò l’aiuto del viceconsole Lorenzo De Liguori, incarico vario e pieno di sorprese. De Liguori era un ex-ufficiale di cavalleria di modi aristocratici. Congedatosi alla fine della guerra era entrato a far parte del corpo diplomatico, una sinecura che consentiva a lui e alla moglie un tenore di vita agiato e una libertà di movimenti inconsueta. Una pacchia, insomma. Non aveva figli, noi giovani gli eravamo simpatici ed eravamo diventati amici. Con la sua Thunderbird al weekend si andava insieme a pescare sui laghi. Sia la segretaria che Milena cominciavano a mostrare segni di gravidanza, e De Liguori si divertiva a farsi vedere in loro compagnia perché la gente sospettasse lui come responsabile del loro stato. Quando andava con Milena a comprare prosciutto e gorgonzola dal pizzicagnolo o frutta dal verduraio, i commercianti, tutti italiani, si profondevano in salamelecchi e vendevano i prodotti a sconto sia a lui che a Milena. La segretaria del viceconsole era incaricata di battere a macchina, archiviare pratiche e documenti, rispondere al telefono e ricevere i visitatori. Milena 198 doveva solo fare da vice-viceconsole e ascoltare postulanti che spesso non si limitavano a chiedere il rinnovo del passaporto ma si aspettavano aiuto consolare (o consolatore) per la risoluzione di problemi finanziari e domestici. Hamilton ospitava un gran numero di italiani, la maggior parte provenienti dal sud dello Stivale. A volte Milena faticava a decifrare quello che le raccontavano in un miscuglio di dialetto, italiano e inglese: “…perché, signora mia, mio marito aveva ficcato tutti i tuli nella sella e io non potevo trovare la pompa del clistere per il bambino che stava male…”; “Abito nella ottava, passati i tracchi de lu treno…”. I “tuli” erano gli attrezzi, tools; la “sella” era la cantina, cellar. La “ottava” strada non esisteva, però c’era una Ottawa Street dall’altra parte dei tracks, le rotaie del treno. Un pomeriggio si presenta una giovane donna in lagrime, che chiede di parlare col “signor consolato”. Milena, chiamata dalla segretaria, le dice: “Il console non è disponibile, signora, ma può dire a me quello che la preoccupa. Venga, si accomodi nel mio ufficio”. La segretaria, incuriosita, tendeva l’orecchio per non perdere una parola, forse pensando che il “signor consolato” l’avesse fatta grossa. Invece chi l’aveva fatta grossa, letteralmente, era il cognato della donna. “Allora mi dica, signora”, fa Milena. E la ragazza, vergognandosi e arrossendo: “È che io sto con mio marito, e nella nostra casa ci sta pure suo fratello. E quando mio marito è via lui vuole che io…insomma vuole fare quelle cose…Ma io quelle cose non le voglio fare con lui, perché sennò mio marito mi ammazza. E allora lui per farmi dispetto mi ha cacato nel letto!”. Milena si sforzava di star seria: “Cosa ha fatto?”. E lei, concitata: “Sì, sì, mi ha fatto il dispetto, mi ha cacato e pisciato sulle coperte, ‘sto disgraziato…”. Milena cercava di consolarla: “Si calmi, signora. Appena torna il console lo avvertirò. Nel frattempo lei dovrebbe chiedere aiuto al suo parroco, perché parli con suo cognato e lo convinca a smettere di darle fastidio”. “Sì, sì, ci dico tutto al prevete…”. La segretaria, scompisciandosi di risa, per non farsi sentire si era rifugiata nel bagno. 199 h Il turpiloquio ha un impatto su chi ascolta che è funzione della cultura in cui si è cresciuti o vissuti a lungo. Insulti e parolacce in una lingua straniera sono suoni che acquistano un valore solo dopo che ci si è abituati al loro significato. Patrick O’Sullivan, un giovane professore di fisica dell’università, era un collezionista di oscenità in tutte le lingue e ne faceva uso appena gliene capitava l’occasione. Avrebbe potuto trovare impiego da “Cencio-La Parolaccia”, il ristorante di Trastevere di fama internazionale, dove i clienti con tendenze masochiste si divertono a farsi insultare dai camerieri; lui conosceva parolacce anche in swahili. Patrick (lui voleva che io lo chiamassi Patrizio) aveva lavorato per alcuni anni a Ispra, sul Lago Maggiore, come ricercatore del Cern, e vi aveva accumulato un impressionante vocabolario del turpiloquio italiano che non mancava di sfoggiare con me e Milena. Di media statura, con un leggero inizio di pinguedine, spessi occhiali da miope e una zazzera di capelli precocemente incanutiti da far invidia a Einstein, ogni volta che lo incontravo mi apostrofava “Ciao, stronzo”, oppure “Come sta tua moglie putana?”, senza rendersi veramente conto dell’effetto delle sue parole. Si rivolgeva ai colleghi di origine ispanica con cordiali appellativi come “pendejo”, “cabrón” o “maricón”, e noi dopo un po’ non ci si faceva più caso, perché Patrick era simpatico a tutti per questo suo modo innocente di dispensare oscenità. Aveva imparato persino un termine napoletano, “a pucchiacchia”, l’equivalente di “fregna” in romanesco, “topa” in toscano e “fritola” nei dialetti delle Venezie. Affascinato dall’onomatopeia del vocabolo lo spargeva come interiezione nei discorsi che mi faceva in un suo peculiare italiano. Invece di “perbacco!” lui esclamava “a pucchiacchia!”. Sabine, la moglie tedesca di Patrick, aveva confidato a Milena che a prologo di amplessi coniugali si strofinava i capezzoli con cubetti di ghiaccio per stimolarne l’erezione. Milena me lo aveva raccontato chiedendomi: “Che te ne pare, Guelfo?”. “I capezzoli ‘on the rocks’ non 200 mi attirano, ma quelli alla marmellata di fragole non mi dispiacerebbero…”, le risposi. Lo svago preferito di Patrick era il teatro. A lui piaceva recitare, soprattutto in costume. Per la parte di Petrucchio ne “La Bisbetica Domata” indossava un costume di sua ideazione, con giustacuore e brache di velluto. All’altezza dell’inguine aveva piazzato una patta frontale imbottita, e si pavoneggiava in palcoscenico, sgambettando a gambe larghe e inarcando il busto per sfoggiare questa sua spropositata protuberanza. Alla tradizionale festa di Natale dell’università O’Sullivan aveva portato suo figlio, un bambino di 5 anni nato in Italia, a cui i genitori avevano dato il nome – per loro esotico – di Giancarlo. Si avvicinano due signore italiane, mogli di docenti, e con vocette leziose fanno i complimenti a Giancarlo: “Ma che bel bambino! E come si chiama?”. E Patrizio, giulivo: “Giancazzo!”, lasciando le signore – è il caso di dire – di merda. h Nel campus di McMaster funzionava anche un piccolo reattore nucleare con una potenza massima di cinque megawatt, un livello irrisorio se paragonato a quello dei grandi reattori che generano elettricità a più di mille megawatt. Il reattore era usato per l’insegnamento dell’ingegneria nucleare, per esperimenti, e per la produzione di isotopi per la medicina e l’industria. Al reattore era stato assegnato personale specializzato nel controllo dell’emissione di radiazione e della contaminazione da materiale radioattivo. Milena ed io avevamo incontrato uno di questi specialisti, Romolo Vanzetta, un italiano di mezza età, calvo e corpulento. Aveva una moglie molto più anziana di lui che non si rassegnava al passaggio degli anni e si vestiva come se fosse ancora un’adolescente. Dalle sue minigonne spuntavano due gambette risecchite che mi ricordavano certi scheletrini agghindati a festa esposti nelle vetrine delle città messicane quando si avvicina la ricorrenza del “Dia de los Muertos”. 201 Vanzetta si era messo in testa di fare esperimenti per conto suo. In alcune zone del reattore a livello medio di radioattività aveva posto delle uova di gallina, convinto di ottenere pulcini di dimensioni superiori alla media. E in effetti, dopo mesi di prove, alcuni polli sembravano essere cresciuti fino a raggiungere una taglia statisticamente superiore alla media dei polli non irradiati. Purtroppo Vanzetta non aveva annotato accuratamente le condizioni dei suoi esperimenti: tempi d’irradiazione, flusso radioattivo, temperatura d’incubazione delle uova, ecc., e non era più riuscito a riprodurre gli stessi risultati. Quei suoi megapolli erano stati alloggiati in uno speciale pollaio che Vanzetta mostrava con orgoglio ai visitatori. Un giorno però qualche studente in vena di scherzi aveva di nascosto aperto il cancelletto del pollaio, e i volatili si erano sparpagliati starnazzando per i prati dell’università, inseguiti da Vanzetta col camice svolazzante, tra le risate degli astanti. h Una sera, di ritorno a casa, avevo parcheggiato la macchina nel garage sotterraneo di “Beverly Hills” e stavo per dirigermi verso l’ascensore quando un essere di aspetto strabiliante, uscito da un camioncino parcheggiato alla mia sinistra, si avvicina e mi apostrofa: “Hai già visitato la nuova sinagoga?”. L’uomo era un enorme ammasso di lardo, una montagna di carne oscillante con in cima due occhi porcini che mi fissavano inquisitori. Il suo ricordo mi fa venire in mente Jabba Dé Hutt, il personaggio di Guerre Stellari definito dal pilota Han Solo “quella disgustosa massa putrescente e verminosa”. Io gli rispondo: “Purtroppo non l’ho ancora visitata”. Lui mi scruta più attentamente e poi mi chiede: “Ma tu sei ebreo?”. “Mi duole dover confessare che non lo sono”, gli rispondo. Mi fa una smorfia di scorno e si gira per andarsene, ma poi si volta e mi ficca in mano un biglietto da visita su cui da un lato leggo “Moishe Yankelovich – Servizio Rimozione Spazzatura – Nessuna 202 impresa è troppo ardua per noi”. Sull’altro lato del biglietto il motto era illustrato da un elefante intento alla monta di un’elefantessa. Fu l’ultimo incontro memorabile prima di trasferirmi “nella terra della libertà e nella sede del coraggio”, perlomeno a detta dell’inno nazionale. h Alcuni mesi prima della scadenza del mio contratto con l’Università McMaster avevo ricevuto un’offerta d’impiego da una grossa azienda americana. Avevo fatto presente che non avevo un visto d’ingresso negli Stati Uniti, ma mi era stato detto di non preoccuparmi, ci avrebbero pensato loro. Un pomeriggio di domenica, entrato in una delle biblioteche comunali di Hamilton, avevo adocchiato un romanzo di Kurt Vonnegut, “Ghiaccio-Nove”, e avevo cominciato a leggerlo. Era una storia di fantascienza con finale apocalittico, ambientata ad Ilium, nello Stato di New York. Dopo poche pagine avevo pensato: “Ecco dove sto per andare a finire…”. Kurt Vonnegut per breve tempo era stato assunto dalla stessa società come addetto alle relazioni pubbliche. Vuole la leggenda che Vonnegut per alleviare la pressione del lavoro spesso si rifugiasse nei gabinetti a leggere prosa più avvincente dei comunicati stampa della società. Quell’impiego aveva però fornito l’ispirazione per Ghiaccio-Nove. Il Centro di Ricerca e Sviluppo era un vasto complesso di edifici in cima a una collina che ospitava più di 500 scienziati e un numero doppio di personale di supporto: segretarie, tecnici, operai, custodi, ecc. Tra i ricercatori c’erano alcuni orientali, ma era rilevante l’assenza di neri e donne. Il Centro era in gran parte un androceo di maschi bianchi, un riflesso dei costumi del tempo. Nei laboratori circolavano vecchie storie sul primo Premio Nobel conferito a un dipendente della società, il dott. Ernie Muirwood, scienziato di gran talento e comparabile svagatezza. Per esempio, uscendo da un ascensore Muirwood non si era accorto che un imbianchino 203 aveva lasciato per terra un recipiente piatto e largo pieno di vernice bianca. Muirwood senza accorgersene vi aveva immerso un piede, e senza arrestarsi aveva continuato a camminare verso il suo ufficio, lasciando dietro di se una scia di orme candide. Uno dei progetti che avevano colto l’interesse di Muirwood era l’inseminazione delle nuvole con cristalli di ioduro d’argento per innescare la formazione di gocce di pioggia. Quei cristalli avevano colpito la fantasia di Vonnegut e innescato Ghiaccio-Nove. Ernie Muirwood era stato l’ispirazione per il personaggio del dott. Hoenikker nel romanzo. Arrivai con la mia minuscola famiglia a Ilium nel giorno del Ringraziamento, la più importante ricorrenza americana con lo stesso significato del Natale in Italia. (In America il Natale è una grande kermesse commerciale, dove chi più vende nel nome di Babbo Natale alias Santa Claus è più benemerito). Thanksgiving è il giorno dedicato alle riunioni di famiglia e alla grande cena a base di tacchino arrosto e patate dolci, in memoria dei primi pionieri sbarcati nel Nuovo Mondo e sopravvissuti grazie ai tacchini selvatici e alle patate dolci condivisi con gli indiani locali. All’aeroporto eravamo stati ricevuti per breve tempo dal manager del mio gruppo, che ci aveva riservato una stanza d’albergo e si era scusato di doverci lasciare perché appunto impegnato nella riunione di famiglia con cenone. Noi non sapevamo che in America a Thanksgiving tutti i negozi e i ristoranti sono chiusi e le strade sono deserte. Affamati, giravamo nella macchina noleggiata all’aeroporto in cerca di un posto qualsiasi per mangiare qualcosa. Finalmente in mezzo a una spianata coperta di neve, annidato tra radi alberi spogli, troviamo un bar aperto con la rassicurante – per noi paisà – scritta luminosa “Bar Italia”. I bar americani sono luoghi considerati dai benpensanti puritani come peccaminosi; a differenza dei bar europei pieni di luce dove vanno intere famiglie a prendere il caffè con le paste o il gelato, in America i bar sono luoghi tetri, immersi in una luce bluastra, con un televisore che blatera di baseball o football sopra a un 204 bancone lungo il quale si allineano alcolizzati a vari livelli, tutti per legge al di sopra dei 21 anni di età. A questo proposito occorre notare che in America ci si può arruolare nelle forze armate a 18 anni – anche a 17, se col consenso paterno – e allenarsi ad ammazzare ed essere ammazzati, ma fino al compimento dei 21 anni non si può bere birra, vino, o altri alcolici. Il barista fu stupito di veder spuntare noi tre – due adulti e un bambinetto di poco più di un anno – ma avendo capito la situazione si premurò di avvisare la cucina. Dopo poco ci fu servito il piatto forte della cucina italo-americana: una montagna di spaghetti fumanti dalla cui cima colava una marea di salsa rossa in cui nuotavano grosse polpette di carne; era il famigerato piatto noto come “spaghetti and meatballs”, considerato – a torto – il simbolo culinario dell’Italia. Mesi dopo ci fu rivelato che quel particolare bar era un abbeveratoio preferito dalla mafia locale. h Ricordo che in quel primo inverno a Ilium, guidando verso il laboratorio tra mucchi di neve spazzati ai lati della strada, la radio trasmetteva quasi in continuazione “My Sweet Lord”, la canzone-mantra di George Harrison con effetti ipnotici da spinello. Una sera avevo ascoltato in un bar locale Chet Baker, che aveva perduto in qualche rissa gli incisivi – una tragedia per chi suoni la tromba – ma miracolosamente era ancora in grado di esibirsi, suonando e cantando stancamente “My Funny Valentine” per racimolare i soldi necessari a bucarsi, ormai un fantasma di se stesso. Passavo in laboratorio la maggior parte della giornata e spesso della sera. Non c’erano molti svaghi a Ilium, cittadina puritana come la maggior parte degli Stati Uniti. C’era però, a mitigare il puritanesimo locale, un cinema in cui proiettavano pellicole pornografiche. Allora era di gran moda “Gola Profonda”, alcuni miei colleghi ne decantavano i pregi con occhi lustri di emozione. Uno di essi voleva che lo accompagnassi in quelle escursioni erotiche virtuali. Io, che trovo la pornografia alquanto 205 noiosa, gli dicevo: “Ma perché invece di fare il guardone al cinema – a bocca asciutta, per così dire – non ti fai qualche bella ragazza, passando dal virtuale al reale?”. “Non farei mai questo affronto a mia moglie”, mi rispondeva lui indignato… Era un moralista, non uno scapestrato come me. Al Centro mi era stato assegnato uno spazioso laboratorio-ufficio che subito si era riempito di strumenti. Dalla finestra vedevo scorrere un fiume tra distese di prati punteggiati da alberi e siepi. In cima a un palo una grande bandiera a stelle e strisce sventolava quasi sotto al mio naso. Un mattino, mentre stavo sfogliando delle pubblicazioni, sento salire dal fondo del corridoio un mormorio che lievita in un crescendo di voci: “…premio Nobel, premio Nobel…”. Sbircio dalla porta e vedo gente che corre verso il lussuoso atrio del Centro inondato di luce da una enorme vetrata con vista sul fiume. Da una limousine scende un giovane uomo, alto e dinoccolato, subito circondato da un nugolo di adoratori che si affannano a stringergli la mano e a congratularsi, tra uno scoppiettio di tappi di bottiglie di champagne. Il secondo premio Nobel della società, Gunnar Svensen, aveva ricevuto alle sei del mattino la telefonata da Stoccolma. Il dott. Svensen abitava a un centinaio di metri dai laboratori e ogni giorno vi si recava a piedi. Quel fatale mattino però la società si era premurata di mandargli sotto casa una limousine, così da consentirgli un ingresso trionfale. Fino a quel momento la direzione non aveva prestato molta attenzione a Svensen, ma appena si era sparsa la notizia della sua candidatura al premio, in seduta speciale si erano affrettati a conferirgli l’onorificenza più ambita del Centro, la Medaglia Edison. Era inconcepibile che un Premio Nobel non avesse mai ricevuto tale riconoscimento locale. Questo me lo aveva raccontato il dott. Remus Boron, ricercatore di talento eccezionale arrivato alle soglie della Medaglia Edison, mai ottenuta a causa del pollice verso di un solo membro del comitato per l’assegnazione della medaglia. Politica, politica… Molto meno stravagante di Muirwood, tuttavia 206 anche Svensen mostrava quel tanto di eccentricità che si conviene a un vero scienziato. Per esempio, di solito non calzava scarpe ma zoccoli di legno. La mattina del premio Nobel aveva fatto eccezione alla norma ed era arrivato, in limousine, con ai piedi un paio di scarpe. Ma spentasi l’euforia creata dal premio era tornato a zoccolare per i corridoi del Centro. Dopo la fausta giornata la gente quando sentiva il clop-clop degli zoccoli sussurrava deferente “passa il Premio Nobel, passa il Premio Nobel”. E Gunnar aveva ammesso: “Dopo il Nobel ho avuto una vita molto più facile, qua al Centro”. Il premio dell’Accademia svedese Svensen lo aveva diviso con altri due scienziati. Lui aveva confermato con certi suoi esperimenti fatti in gioventù le teorie di un canadese, teorie confermate indipendentemente dagli esperimenti del terzo nobelista. Remus Boron – un cognome profetico, dato che il suo campo d’azione erano i borati, i silicati e i borosilicati – non mandava giù il fatto che Svensen non gli prestasse la minima attenzione quando lo incontrava nei corridoi del Centro. Un giorno sentendo arrivare gli zoccoli del neo-Nobel-laureato, gli si parò davanti e lo sfidò a una gara di destrezza. Gunnar accettò senza sapere cosa lo aspettava. Remus, in piedi solo sulla gamba destra, tenendo con la mano destra la punta della scarpa sinistra e formando così una specie di cerchio davanti alla gamba destra, saltò con questa gamba dentro al cerchio senza allentarlo. Gunnar ci provò alcune volte senza riuscirci. Remus mi disse che la sconfitta lo aveva realmente ferito nel suo Ego. Il giorno dopo Gunnar gli riferì che una sua figlia di 12 anni ci era riuscita. Non conta, lo ammonì Remus, pensando che dopo questa tenzone Gunnar gli rivolgesse la parola quando si incrociavano nei corridoi. Non capitò mai più. A Boron piaceva fare scherzi. Durante i primi viaggi di esplorazione della luna gli astronauti avevano raccolto campioni di rocce lunari che avevano distribuito per analisi ai principali laboratori della nazione. Uno dei ricercatori, Bob Reiner, era stato scelto per ricevere alcuni campioni. Remus aveva preparato un pacchetto di aspetto molto 207 ufficiale con timbri della NASA, indirizzato al dott. Robert Reiner. Dentro ci aveva messo pietre raccolte per terra e una roccia speciale, un pezzo di formaggio avvolto in stagnola – ai bambini si racconta che la luna è fatta di formaggio. Reiner non scoprì mai il mittente. Harry Rosenfeld per un suo lavoro di biologia raccoglieva campioni di urina in una bottiglia con imbuto piazzata nei bagni. Remus vi aveva appiccicato sopra il cartello “Vasetto per la pipì di Harry”. A un certo punto Boron aveva dovuto condividere il suo laboratorio con Marvin Beecham, un vero e proprio stronzo – mi diceva Remus; un ricercatore paranoico e niente affatto disposto a collaborare coi colleghi; uno che nascondeva le sue note di laboratorio e non parlava del suo lavoro con gli altri per paura che gli rubassero le idee. Mi raccontava Remus: “Dovevo lavorare con soluzioni di soda caustica a pressioni e temperature elevate in autoclave. Una valvola si era rotta e aveva cominciato a riempire rapidamente il laboratorio di fumi venefici. Io avevo gridato a Marvin di evacuare il laboratorio. Lui mi gridò in risposta: ‘Non vedi che sono al telefono?!’. Corsi fuori dal laboratorio senza ulteriori avvertimenti e feci quello che avevo sempre voluto fare: rompere il pannello di vetro e azionare il segnale d’allarme. Alla fine Marvin uscì dal laboratorio, tossendo e scatarrando. Paranoico com’era, sono convinto che abbia pensato che io avessi creato l’incidente per fargli dispetto”. h Il Centro di Ricerca e Sviluppo era organizzato in una struttura gerarchica piramidale. In cima stava il direttore e vicepresidente della società. Alle sue dirette dipendenze c’erano i manager di settore, da cui dipendevano i manager dei laboratori, ai quali si presentavano a rapporto i manager di gruppo per riferire i progressi del lavoro degli scienziati di ciascun gruppo chini sui banconi a sudare e ricercare, nella speranza di gridare ogni tanto 208 “Eureka!”. Era un’organizzazione quasi para-militare, e infatti molti dei manager erano ex-ufficiali delle forze armate. Al Centro era di prammatica una specie di uniforme: pantaloni scuri un po’ troppo corti da cui spuntavano i calzini; scarpe nere ultralucide; camicia bianca con le maniche corte e col taschino; cravatta a stringa strozzacollo o papillon. Dal taschino, con foderina di plastica a scanso di perdite d’inchiostro, spuntava una dozzina di penne e matite. I capelli erano a spazzola, stile militare. Non si può dire che tutti i manager fossero di intelligenza e capacità superiori. Per scalare le cime dell’organizzazione era più importante saper manovrare un sistema di alleanze. Uno di questi manager ad alto livello era abituato a dare alla segretaria gli incarichi di ordinaria amministrazione. Una sera, continuando a lavorare dopo che la segretaria era andata a casa, volendo fare delle fotocopie e credendo di usare la copiatrice aveva ridotto in coriandoli un suo manoscritto inserendolo nella macchina per distruggere documenti. Un altro manager aveva scambiato per urinali i grandi lavandini circolari con rubinetti azionati a pedale installati nelle officine meccaniche, e più di una volta li aveva usati come tali, fino a che gli era stato fatto notare che gli operai non apprezzavano quella sua iniziativa. Il capitalismo puro non è molto misericordioso; i licenziamenti non sono rari, specie se non si raggiungono i pronostici trimestrali dei guadagni. Il comune denominatore di dirigenti e dirigibili* è la paura di perdere il posto. Alla notizia dell’imminente ispezione del Presidente della Società, il mammasantissima Reynaldo McSmith (di madre messicana e padre scozzese), il dott. Aaron Berkel, direttore e vicepresidente del centro, era entrato in fibrillazione: tutto doveva risplendere di perfezione. Nelle fonderie c’erano solo gabinetti per operai e maestranze, ma nel giro di poche ore Berkel aveva fatto costruire un gabinetto di lusso per dirigenti, nel caso si fosse reso necessario * Non quelli del comandante Nobile alla conquista del Polo. 209 raccogliere gli escrementi dell’augusto visitatore in un ambiente più consono al suo stato. Alcuni pioppi lungo il viale di accesso al centro, affetti da una moria che li aveva risecchiti, erano stati sradicati e al loro posto erano state piazzate delle grandi zolle d’erba. L’erba però non aveva attecchito, assumendo un colore giallo-itterizia. I muri del percorso progettato per il corteo erano stati dipinti a nuovo. Già che gli imbianchini erano al lavoro, Berkel gli aveva ordinato di spruzzare di vernice verde anche l’erba malaticcia. Peggio che mai! Alla fine qualcuno aveva avuto l’idea di ricoprire di erba tagliata di fresco le zolle giallastre, poco prima dell’arrivo di McSmith, mascherando così l’obbrobrioso colore e tranquillizzando il vicepresidente. Nel pavimento dell’atrio alcune mattonelle erano scolorite, e Berkel aveva spedito un anziano e dignitoso chimico a riparare il danno. Il vecchio signore, strofinando carponi le mattonelle incriminate con qualche suo composto, era miracolosamente riuscito a pareggiare il colore di tutto il pavimento, un successo che penso gli abbia fruttato un aumento di stipendio. Il tocco finale ai preparativi era stato dato proprio da Berkel: secondo lui le maniglie d’ottone delle porte dell’atrio non erano lustre a sufficienza, e munito di apposito preparato e di stracci si era messo a lucidare di persona le maniglie, sotto gli occhi sbalorditi della segretaria addetta alla ricezione dei visitatori. Un mattino il presidente McSmith dal suo ufficio di New York aveva chiamato il Centro poco dopo le 8, per una comunicazione importante. Le segretarie non erano ancora alle loro scrivanie, e nessuno aveva risposto alle chiamate di McSmith. Bisogna tener presente che buona parte del personale del centro spesso la sera lavorava ben dopo le ore d’ufficio, a volte tornando in laboratorio anche dopo cena. Arrivare dopo le 8 del mattino per molti era la norma. Quando finalmente il presidente era riuscito a parlare col direttore, gli aveva fatto un cazziatone perché la giornata di lavoro al centro iniziava così tardi. Berkel aveva subito emesso un editto: tutti dovevano trovarsi al posto di 210 battaglia non dopo le 8 del mattino. Poi per alcuni giorni si fece trovare sul portone, augurando il buongiorno a chi arrivava in tempo e picchiettando il suo orologio da polso ad ammonizione dei ritardatari. Nel mio periodo di permanenza al Centro di Ricerca e Sviluppo ebbi solo una volta l’occasione di un tête-à-tête con il direttore e vicepresidente, da cui mi separavano molteplici strati di management. Fu in uno dei gabinetti per dirigenti, cui io avevo privilegio di accesso. Mi trovai il dott. Berkel a fianco, intento alla bisogna. Alla fine, dopo il rituale scrollone si voltò verso di me per dirmi sorridendo: “Ah, questa è una delle poche soddisfazioni della vita!...”. Questa confidenza fatta in quell’ambiente intimo a un subordinato dal direttore e vicepresidente della Società, il culmine della gerarchia manageriale, mi convinse: questa è democrazia! h 211 212 ESOTICA L’Anaconda – Rio de Janeiro – Mulatte, tagliaborse e macumba – La schiava Anastasia – Padre Geronimo – Il santero Jorge – Bahia – Monsieur Haiti – Il munifico Monsieur Avakian – Nel mare de La Sirène – I riti del vudù – Ritorno nel Paese di Bengodi Quando ero molto giovane avevo visto al cinema un coloratissimo cartone animato di Walt Disney, “I tre caballeros”, con visioni di Rio – l’enorme statua del Cristo Redentore con le braccia aperte a benedire la baia di Guanabara – e di Salvador, Bahia, con l’ascensore “Elevador Lacerda” che univa la città bassa alla città alta sullo sfondo di un tramonto di porpora. Nella biblioteca comunale di Bellagio avevo anche scovato un romanzo poco noto di Jules Verne, “La Jangada”, il nome della zattera di tronchi di balsa usata dai pescatori sulle coste del Brasile. Questi racconti e immagini avevano colpito la mia fantasia di adolescente: il Brasile era una paese che prima o dopo dovevo visitare. Molti anni dopo questa mia fantasia fu rinfocolata dalle storie dell’Anaconda. “Yuri” Garberi, il trentino mio compagno di studi a Ferrara, mi aveva chiesto se conoscevo Gino Poser, un ragazzo di Bolzano appassionato di jazz. Avevo infatti incontrato Gino diversi anni prima, ma l’avevo quasi subito perso di vista. Garberi mi disse che, stufo di fare il cassiere di banca, Poser era partito per il Brasile in cerca di 213 fortuna. Yuri ed io immaginavamo che vi si fosse stabilito, forse ricco a palate, e fummo sorpresi dal suo ritorno in Alto Adige pochi anni dopo. Fummo pure un po’ delusi di non poterlo raggiungere nel dorato Brasile dei nostri sogni. Ma ecco cosa di lui mi raccontò in seguito Garberi: “ ‘Anaconda’, al secolo Gino Poser, fu da noi così battezzato perché ci narrava storie fantastiche di codesto serpentone dei fiumi brasiliani, di cui nella nostra ignoranza nulla sapevamo. Ci raccontava pure dei pesci piranha divoratori di qualsiasi commestibile venisse loro a tiro, inclusa la carne umana. Ma soprattutto ci dava descrizioni dell’enorme rettile di cui ci sembravano incredibili le favolose dimensioni: diametro di un metro, lunghezza di quaranta metri. Gino esagerava e dall’emozione balbettava. Ma in torto eravamo noi, perché l’anaconda è davvero di dimensioni gigantesche. Gino era figlio di un’austriaca di Schwaz, nella valle dell’Inn, e di un trentino di Pergine, un paese della Valsugana, morto in Russia come molti alpini durante la ritirata del Don. Abitava con la madre a Bolzano in una mansarda di via Rosmini con vista sul torrente Talvera che attraversa la città. D’estate andava con la mamma a Pergine. La mia famiglia era di Pergine, ed è lì che lo incontrai le prime volte. A Pergine Gino stava nella casa dalle nonna e della sorella della nonna, due donne dell’altro secolo, voglio dire dell’Ottocento: vestite sempre di nero, gonne lunghe fino ai piedi, grembiule nero a fiorellini bianchi e capelli tirati sulle tempie e trattenuti sulla nuca da spilloni. Non lontano dalla cucina c’era anche una mucca. Gino ci portava da Bolzano, la città, le novità e anche tocchi di costume sudtirolese: braghe di pelle - i Lederhosen – e sandali “Jesuslatschen” . Più tardi mi iniziò al jazz: fu lui il primo a parlarmi di Lee Konitz, Flip Phillips e Dave Brubeck. Una volta, all’inizio degli anni Cinquanta, Gino arrivò con un nuovo 78 giri. Era una musica molto differente da quella ascoltata fino ad allora; una musica cui mancava il fuoco nero di Louis Armstrong e Lionel Hampton, ma di una dolcezza ed eleganza senza fine; una musica che si 214 addiceva alle nostre velleità adolescenziali estive come i pantaloni di tela chiara, camicie bianche con le maniche corte, sandali senza calzetti, Lambretta e Punt e Mes. Era la musica di Gerry Mulligan, le note di “Line for Lyons” e di “Carioca”. Quante volte avrò ascoltato quel disco? E con quale emozione ascolto ancora quella musica… Dal Brasile l’Anaconda tornò spezzato. Cercando di far fortuna, aveva lavorato nei garimpos del Mato Grosso, le miniere d’oro all’aperto, enormi crateri a terrazze scavati nel terreno. Ci raccontava delle colonne di desperados che come formiche salivano verso la superficie e scendevano nel ventre dello scavo per alte scale a pioli, spesso fradici per le piogge torrenziali, frugando nel fango alla ricerca di pepite. Un lavoro massacrante. I fortunati scopritori di qualche oncia d’oro poi se la giocavano a carte o tra le braccia di qualche prostituta. Chi ritraeva un vero guadagno dalla loro fatica erano i cinesi che con le loro bilancine scambiavano la polvere d’oro per un modesto ammontare di cruzeiros, per poi rivenderla ai grossisti delle città. All’Anaconda l’esperienza aveva fruttato principalmente mali di schiena cronici. Ma la nostalgia dei tropici gli era restata nel sangue. Anche in Europa, lontano dal Mato, Poser non riuscì a far fortuna, e il mito del garimpo spesso emergeva nelle sue conversazioni. Ai primi degli anni Sessanta, emigrati in Germania, l’Anaconda ed io avevamo trovato lavoro come aiuto-meccanici alla base americana di Dachau, l’ex-campo di concentramento nazista. Gino era diventato amico di un soldato di origine messicana, certo Mojica, addetto alle cucine. Con Mojica giocavamo a golf all’interno della base, e lui per consolidare l’amicizia ci portava dalle cucine bidoncini di latta da cinque chili, pieni di marmellata o di budino, e a volte due o tre polli lessi. Un giorno purtroppo ci avvertirono che Mojica era stato messo agli arresti dal truculento sergente Williams che presiedeva all’universo delle cucine. Per un paio di centinaia di marchi riuscimmo a comprare da un tedesco di Dachau una motocicletta BMW 750 con sidecar, un Beiwagen su cui la Wehrmacht 215 montava ben salde le mitragliatrici. Una volta viaggiammo fino a Bolzano su quella meraviglia. Mesi dopo l’Anaconda improvvisamente partì di nuovo per Bolzano con la nostra moto carica di coperte, ganci, attrezzi, cavi d’acciaio e due sacchi a pelo, tutte cose che avevamo rubato agli americani e volevamo usare per una progettata prossima spedizione al garimpo. Non ho più saputo nulla di quella refurtiva. La sparizione della moto mi è particolarmente dispiaciuta. Quando in seguito gli chiedevo cosa ne avesse fatto, l’Anaconda sorrideva e si dava arie da Burt Lancaster nel film “Vera Cruz”. La sera a Dachau, per divertirci ci allenavamo a lanciare coltelli, ma non contro un’asse. Bisognava riuscire a piantarli nel manico di una scopa che stava in piedi per miracolo. Ogni tanto ci riuscivamo, in mezzo agli applausi degli altri Gastarbeiter, tutti – o quasi tutti – sardi. Ottime persone e tutti – o quasi tutti – analfabeti. La domenica io scrivevo per loro lettere alle famiglie lontane, o leggevo la posta che gli era arrivata. Quanto all’Anaconda, forse queste furono le sue ultime avventure. Lasciato Dachau, venduta la BMW a metà rubata, non riuscì più a far combaciare il garimpo dei suoi sogni con l’inesorabilità della vita in Europa. Eppure era muito mais que um garimpeiro. In virtù della mia laurea io avevo trovato impiego alla Camera di Commercio italo-tedesca di Monaco e gli procurai un lavoro, ben pagato, come rappresentante della ditta Bilossi, la fine fleur delle ceramiche di Faenza. Ma Poser si comportò stupidamente e la Bilossi lo mandò a farsi friggere. Decenni fa mi è stato detto che si era sposato, poi aveva divorziato ed era finito alcolizzato a “Tisseltorf” (lui pronunciava alla tirolese anche Düsseldorf), passando i pomeriggi al tavolino di qualche oscuro locale renano. Ma forse si è rimesso in carreggiata e ha ripreso a raccontare di anaconda e di piranha, i micidiali abitatori del Rio delle Amazzoni, e dei bo-bordelli bra-brasiliani, dove per uccidere u-uno con un co-colpo di rivoltella era co-come niente. Speriamo per il meglio…” h 216 Benché il destino non mi avesse riservato l’esperienza di vita in garimpo, in Brasile andai un paio di volte, ufficialmente per lavoro. Ad Angra dos Reis, nei dintorni di Rio, era stata costruita una centrale elettrica nucleare; la mia direzione mi aveva incaricato di esplorare la possibilità di fornire alla centrale servizi tecnici specializzati. Questi soggiorni furono più che altro una vacanza. Sbrigati gli impegni di lavoro mi rimaneva molto tempo per i percorsi obbligati dei turisti : Copacabana, Ipanema, Corcovado col Cristo Redentore; partite di calcio allo stadio Maracanã, dove il frastuono di fischietti, trombette, triccheballacche e putipù accompagna ogni goal; scuole di samba dove vecchie americane sbarcate da una crociera in “Bermuda shorts” e camiciole delle Hawaii a fiorami sgargianti si dimenavano ai ritmi delle baterias. Nel Giardino Botanico c’erano stupende piante tropicali e sparuti esemplari del pau-brasil, la pianta dal legno pregiato per tingere stoffe di rosso che aveva dato il nome al paese, ormai praticamente estinta, vittima dell’ingordigia dei colonizzatori portoghesi e francesi. Una melanconica targa ne narrava la storia. Al mattino mi fermavo a uno dei mille chioschi che vendono succhi di frutta esotica e prendevo un cafezinho, la tazzina di caffè ristretto come piace ai brasiliani, più zucchero affogato nel caffè che caffè con lo zucchero. Poi andavo ad esplorare la città. Seduto al tavolo di un bar della splendida Avenida Atlantica, in vista del mare, vedevo sfilare mulatte di bellezza straordinaria: carnagioni seriche color caffellatte, corpi da mille-e-una-notte, e un incedere orgoglioso da regina di Saba. Erano il prodotto di una miscegenazione gloriosa praticata per secoli. Sulle spiagge bagnate dall’onda atlantica, coperte da bikini filiformi le mulatinhas erano una visione da paradiso delle urì. A Rio bisognava stare attenti a non farsi distrarre dalle bellezze locali quando si attraversava la strada. Più d’un malcapitato, pure usando i passaggi pedonali, era stato arrotato dai taxi, per la maggior parte Volkswagen guidate a rotta di collo da tassinari assassini. A Rio tutti attraversano la strada di corsa. 217 C’è una celebrata Rio per i turisti ed una meno conosciuta. La Rio dei turisti è una striscia di terra con alberghi e negozi eleganti, compresa tra l’oceano e una catena di alte colline, i morros. Sulle colline invece vive gente poverissima, accatastata nelle baracche di latta e cartone incatramato delle favelas, che di giorno cala verso il mare per racimolare di che sopravvivere. Sovente a causa di piogge torrenziali il terreno dei morros slitta trascinando con se le baracche e chi vi abita. In tutta l’America Latina c’è questo enorme contrasto tra super-ricchi, una scarsa minoranza, e ultra-poveri, la stragrande maggioranza. Tristes Tropiques, scriveva Lévi-Strauss. (Ho notato pericolanti favelas anche sulle colline intorno a Caracas.) Il carnevale di Rio è una stravaganza preparata per mesi spendendo sudati risparmi: una sorta di oppiato per scordare la realtà quotidiana. A Rio, se ci si siede a bere un guaraná a un tavolo di caffè all’aperto, entro pochi minuti arriva un bambino scalzo a chiederti di comprargli una scatola di fiammiferi, una scusa per legittimare qualche soldo di elemosina. Questa è terra d’infanzia abbandonata. Camminando per le strade perpendicolari alle eleganti avenidas che scorrono parallele all’oceano si entra in una rete di stradine popolate da piccoli negozi e ristoranti a basso prezzo frequentati da una clientela con pochi soldi in tasca. La sera è meglio starne lontani, la gente che ha fame ha pochi scrupoli e coltelli facili. Ma anche di giorno bisogna guardarsi dai borsaioli. Passando con mio figlio di 15 anni per l’Avenida Nossa Senhora de Copacabana, una grande arteria commerciale parallela all’Avenida Atlantica, il ragazzo aveva visto un piccolo pallone da calcio e mi aveva chiesto di comprarglielo. Per portarcelo appresso avevo anche comprato una borsa di tela blu della Varig, l’aviolinea nazionale del Brasile. Camminando sul largo marciapiede in pieno sole ad un tratto avverto uno strattone alla borsa. Istintivamente la spingo in avanti e mi volto, senza scorgere nessuno vicino a noi. La borsa però mostrava un taglio verticale, probabilmente fatto con una lama di rasoio. L’unico contenuto, il pallone, non aveva 218 potuto uscirne. Era stato un incontro con un vero e proprio tagliaborse, ma il ladruncolo si era reso magicamente invisibile in una frazione di secondo. Alcuni di questi lestofanti sono veri artisti. Il mio amico e globetrotter Ian Delderfield mi scrisse di un suo incontro con malandrini di notevole fantasia creativa: “Arrivai ad Arequipa, Perù, un sabato mattina. Calle San Juan de Dios, una strada nel cuore della città, era molto affollata. Lungo la strada alberghi si alternavano a negozi, case abbandonate a uffici, e bancarelle di venditori a gente senza dimora e senza mezzi. Un miscuglio pittoresco e caotico. Avvistato un venditore di dolci e cioccolata, una mia debolezza, mi ero fermato per un instante, abbastanza perché un getto di sputo mi passasse vicino all’orecchio ad alta velocità. Trasalii, ma lo sputacchio non mi colpì, andando invece ad atterrare sul muro scrostato di un vecchio edificio, a un metro di distanza dal punto in cui mi trovavo. Subito mi vidi circondato da tre o quattro persone che si scusavano dell’incidente mentre mi spazzolavano la giacca. Istintivamente infilai una mano nella tasca interna per assicurarmi che vi fosse ancora il portafoglio. Vi trovai una mano che non era mia. Afferrai il portafoglio e mi divincolai per liberarmi dalla stretta. I manigoldi si sparpagliarono a destra e a sinistra. Uno di essi aveva cercato di agguantare la mia borsa, ma non era riuscito a strapparmela di mano. Poi tutti cominciarono a ridere e scherzare come niente fosse successo. Io mi sforzai di sorridere, l’unica cosa che potessi fare, e tutti si allontanarono rapidamente. La faccenda non era durata più di trenta secondi. Si sa che i llama sputano se irritati. Sono convinto che un llama era stato abilmente addestrato dai marioli”. h 219 La parte di Rio dove gravitano i turisti è la Zona Sul, con i grattacieli, i grandi alberghi, i negozi eleganti e le spiagge rinomate. Meno nota e poco battuta dai turisti è la Zona Norte, dove vive la maggior parte dei lavoratori. In una strada della Zona Norte ero entrato in un negozio di erborista in cui vasi colmi d’erbe per la cura di qualsiasi malanno si alternavano a statuette di santi e di diavoli, collane di perline multicolori, candele, stecche d’incenso, e mille altri articoli in uso nei culti afro-brasiliani che vanno sotto il nome generico di macumba. Il venditore, a cui avevo chiesto informazioni, mi suggerì di visitare un terreiro, un tempio dove la sera avrei potuto partecipare a uno dei riti. Al calare repentino della notte tropicale arrivai a un indirizzo nel quartiere Botafogo per accodarmi a una lunga fila di devoti, bianchi e di colore, che attendevano di entrare in una palazzina a due piani dalle cui finestre arrivavano echi di batuques e di canti in ioruba, la lingua ancestrale africana. Mentre aspettavo il mio turno di entrare nel tempio scambiai qualche parola con un giovane di colore. Gli chiesi se era vero che in Brasile non c’è razzismo. Il ragazzo mi disse che il razzismo del Brasile non è paragonabile in intensità a quello degli Stati Uniti, le unioni interrazziali sono accettate di norma. In Brasile esiste però un classismo non meno penoso. Le opportunità di avanzamento sono inversamente proporzionali al colore della pelle. In pratica, quanto più si è scuri di pelle tanto più si è relegati al fondo della scala sociale. Un numero di addetti alla cerimonia, uomini e donne che indossavano uniformi candide come quelle degli infermieri, manteneva l’ordine facendo entrare nel terreiro poche persone alla volta. D’un tratto cadde il silenzio. Gli orixás, gli spiriti invocati dai canti e dai tamburi sacri erano scesi a prendere possesso degli iniziati, e fummo guidati uno ad uno all’interno di una vasta sala sul cui pavimento brillavano centinaia di candele. In piedi sotto l’architrave di una porta, immobile, scarmigliata, gli occhi sbarrati, una donna vestita di una tunica bianca con al collo collane di perline rosso sangue brandiva una piccola ascia rituale e 220 fissava senza vederli i postulanti. Era posseduta da Xangô, il dio della guerra e della giustizia. Una visione terrificante. Arrivato il mio turno, uno degli officianti, un pai-de-santo, mi soffiò addosso il fumo di un sigaro borbottando formule indecifrabili, e mi chiese se avessi una supplica per il santo. Risposi che mi bastava la sua benedizione, e ottenutala fui congedato. Al ritorno in autobus verso il mio albergo, una signora bianca di mezza età, molto ben vestita, mi confidò, emozionata, che era stato il suo primo incontro con gli orixás ma non sarebbe stato l’ultimo. La domestica di colore che l’accompagnava e che l’aveva introdotta al culto sorrideva soddisfatta. In Brasile la Chiesa Cattolica si è adattata a un compromesso con i culti di origine africana, accettando un sincretismo in virtù di cui nelle feste cristiane in onore di un santo i fedeli rendono omaggio parallelo al corrispondente orixá: san Geronimo è Xangô, Gesù è Oxalá, san Giorgio è Ogum e Iemanjá, la regina del mare, è la Vergine Maria. Una domenica ero entrato nella chiesa di san Giorgio a Rio. Sopra l’altare troneggiava un grande dipinto del santo a cavallo che infilza il drago. La chiesa traboccava di candele accese. Molte bruciavano in pieno giorno anche lungo una cancellata esterna. Nella prima fila di banchi donne vestite di bianco cantavano litanie in qualche dialetto africano. Questo sincretismo risale ai tempi della schiavitù, quando gli schiavi erano costretti a camuffare le deità africane a guisa di santi cattolici per non essere perseguitati dai padroni. A Bahia la famosa Mãe Menininha del Terreiro do Gantois al mattino andava a messa e faceva la comunione, la sera presiedeva ai riti del candomblé, la forma di macumba più legata alle radici africane. Mãe Menininha era venerata da molti brasiliani: Jorge Amado, lo scrittore bahiano di fama internazionale, non viaggiava mai senza aver prima ascoltato le sue raccomandazioni. Vinicius de Moraes, il poeta di “Orfeu da Conceição” (Orfeo Negro), la visitava ogni volta che si trovava a Bahia. Che ricevesse i suoi numerosi filhos-de-santo o rispondesse alle telefonate che le giungevano da ogni parte del paese, o cucinasse 221 piatti saporiti di aracajé, carurú e vatapá, anche in età molto avanzata a Mãe Menininha restava sempre abbastanza energia per dedicarsi ai suoi compiti di guida spirituale. h Per le strade della Zona Norte avevo notato artisti che esponevano ritratti raccapriccianti di un volto celato dietro a una maschera di ferro. Incuriosito, avevo chiesto cosa rappresentassero i disegni. Erano immagini sacre di un altro culto, quello della Schiava Anastasia, basato su una leggenda che risale al XVIII secolo. Anastasia era la figlia di una schiava che, stuprata dal padrone, aveva messo al mondo una bellissima mulatta dagli occhi azzurri. Il figlio del fattore, invaghitosi della bella Anastasia e non ottenendo quello che desiderava dalla virtuosa fanciulla, l’aveva prima violentata e poi l’aveva obbligata a indossare notte e giorno la stessa maschera di ferro imposta agli schiavi che scavavano nei garimpos per impedire che ingerissero le pepite d’oro che raccoglievano. La maschera era rimossa solo per dare ad Anastasia modo di nutrirsi. Sembra che le figlie dei padroni, che morivano di invidia e gelosia della bella mulatta, fossero le più accanite ad imporre la maschera alla sventurata. Anastasia sopravvisse solo pochi anni al supplizio, morendo in giovane età a Rio de Janeiro. Nella seconda metà del XX secolo furono attribuiti miracoli alla Schiava Anastasia. Simbolo di una millenaria condizione femminile di asservimento al maschio, il suo culto continua a crescere, ormai contando milioni di devoti. Una petizione è stata inoltrata al Vaticano per iniziare il processo di beatificazione. Non è certo che la storia di Anastasia sia più di un mito. D’altra parte, se nel 1990 Giovanni Paolo II aveva beatificato Juan Diego, l’indio messicano cui solo una leggenda attribuisce l’apparizione della Vergine di Guadalupe nel XVI secolo, perché non beatificare anche Anastasia, se non altro più carina di Juan Diego? h 222 223 Alla fine di una sua conferenza su “Il Nome della Rosa” all’Università di New York – Stonybrook, Umberto Eco era sceso dal palcoscenico chiedendo disperatamente: “Qualcuno mi può dare una sigaretta?”. Appagata la sua brama di nicotina, scambiai con lui quattro parole. Avevo appena letto – e gliene avevo parlato – un suo saggio pubblicato su L’Espresso, “Con chi stanno gli orixà?”; una disquisizione sul contenuto teologico e sociologico dei riti afro-brasiliani tinta di ironia e di scetticismo in ugual misura, scritta come si conviene all’intellettuale esposto a rituali esoterici. Eco mi confidò che a casa sua a Bologna aveva installato un piccolo altare simile a quelli visti nei terreiros brasiliani. Non in seguito a conversione a una nuova fede, ma in segno di simpatia. Eco aveva chiesto a un paio di pai-de-santo di quale santo era filho lui. Ambedue, indipendentemente, gli avevano detto: di Oxalá. Per sapere di chi ero filho io mi era stato consigliato di visitare la Tenda Espirita Pai Jerônimo, nella Rua Barão de Ubá della Zona Norte. Ci ero andato in compagnia di mio figlio. La versione carioca dei riti afro-brasiliani è l’Umbanda, un miscuglio di martirologio cristiano, animismo africano e degli indios Tupi del Brasile, e spiritualismo teorizzato nel XIX secolo dal francese Alain Kardec. A Rio i terreiros de Umbanda svolgono funzione di assistenza sia religiosa che sociale, sostenuti finanziariamente da cittadini benestanti e uomini politici che si assicurano in tal modo il supporto della popolazione e quello della divinità. Il pai-de-santo umbandista, Jerônimo de Souza, era un uomo sulla sessantina dall’aspetto benevolo, ben contento di farmi assistere alla gira, il rito programmato per la serata, in cui gli iniziati sarebbero stati posseduti dai pretos velhos, le anime di antichi schiavi negri assurti all’empireo degli spiriti. La cerimonia era iniziata con canti e rulli di tamburi per invocare la collaborazione di Exú e della sua compagna Pomba Gira – rappresentati sull’altare da statue di aspetto lascivo e demoniaco. In realtà gli exú – ce n’è una numerosa serie – non hanno niente a che fare con diavoli e diavolesse ma sono i guardiani dei portali celesti 224 225 attraverso i quali gli spiriti scendono a possedere le teste dei medium. Assicurata la collaborazione degli exú, gli iniziati avevano danzato in trance fino a che, posseduti dai “vecchi neri”, avevano preso a comportarsi come vecchietti curvi e claudicanti. I fedeli, opportunamente fumigati da grossi sigari, erano quindi accompagnati da ciascun medium, il quale ascoltava le richieste dei postulanti e impartiva consigli adeguati. Io e mio figlio stavamo in disparte, aspettando la fine della cerimonia per incontrare Padre Geronimo. Fummo ricevuti nel suo studio dal pai-de-santo. Molto cordialmente Geronimo mi disse: “Tu vieni in Brasile in vacanza. Sai dove vado io in vacanza? A Miami…”. Poi fece a mio beneficio il jogo dos búzios, sparpagliando sul tavolo una manciata di piccole conchiglie a forma di vulva, e mi dichiarò figlio di Iemanjá, augurandomi buona fortuna dopo avermi regalato una collana di perline bianche e azzurre, i colori della dea. Gli offersi del denaro, ma lo rifiutò gentilmente, dicendomi: “Riceviamo aiuto economico da persone facoltose, membri della nostra congregazione. In tal modo possiamo aiutare chi ne ha più bisogno”. In un certo senso, il terreiro funziona come un oratorio parrocchiale e centro di assistenza sociale. A differenza del cristianesimo, nei culti afro-brasiliani manca il soffocante concetto di peccato, soprattutto quello carnale; ma persiste la nozione di bene e di male. Una religione più allegra, insomma, che non venera poveri cristi inchiodati a una croce. La croce è solo il simbolo del crocevia, luogo di portenti magici. Offerte di cibo agli spiriti lasciate ai crocevia sono rispettate anche dai cani affamati. La devozione dei brasiliani agli orixás è apparente dovunque. La sera, sulle spiagge di Rio brillano mille lumi vicino alle offerte a Iemanjá, prima di venir spazzati via dalla marea. Usciti dal tempio di Padre Geronimo, ci capitò di trovare su una steccionata quartine ed elaborati graffiti iscritti col gesso da qualche artista estemporaneo, a testimonianza dell’ottimismo dei brasiliani di fronte ai problemi quotidiani 226 TU VAIS PARA A ZONA-SUL? DE QUE ADIANTA CHORAR QUE LEGAL! BOA VIAGEM! POR COISAS QUE A SOLUÇÃO E QUE UM LINDO CÉU AZUL RESOLVEU ABANDONAR REGRESSE À TUA PAISAGEM! PARA OUTRA GERAÇÃO? [“Vai per la Zona Sud? - Che forza! Buon viaggio! - E che un bel cielo azzurro - appaia nel tuo paesaggio!” “È futile piangere - per cose la cui soluzione - è stata di abbandonarle - a un’altra generazione”] h Le religioni di origine africana sono diffuse in tutte le zone delle Americhe in cui schiavi strappati alle loro terre in Africa occidentale erano stati trapiantati a forza nel corso dei secoli. Al giorno d’oggi i discendenti degli schiavi mantengono viva la tradizione. Da New York al Brasile i culti mutano di nome: Santeria è la versione dei Caraibi, Voodoo quella di New Orleans e del bayou in Louisiana, Vodoun quella di Haiti. Cambiano i nomi dei culti e delle deità ma la radice teologica e spirituale è identica. 227 Mio figlio Eric era stato così affascinato dai riti di Padre Geronimo che molti anni dopo decise di dare un tocco di macumba alla celebrazione del suo matrimonio con Beatrice. Un suo compagno di università (cattolica) era Jorge Santana, un giovane avvocato di origine cubana la cui famiglia praticava la santeria da generazioni. Jorge ci aveva invitati alla sua cerimonia di iniziazione come santero nell’atrio di un grattacielo di Manhattan dove era stato allestito un grande altare ai cui piedi erano state deposte offerte di fiori, cibi e bevande. Di giorno Jorge lavorava in uno studio legale ma la sera soprintendeva alle danze e alle possessioni dei medium. Fu lusingato dall’invito di Eric, e gli diede istruzioni su come preparare la cerimonia. Le nozze furono celebrate in un giardino di Long Island di fronte al mare. Eric aveva costruito una piccola barca a vela dipinta di bianco e azzurro in cui erano state poste offerte tradizionali a Yemayá, il nome cubano di Iemanjá, la patrona delle acque: gigli azzurri, una coppa di champagne, sigarette sottili per signora, dolci e cioccolatini. Nel tardo pomeriggio tutti gli invitati erano scesi in spiaggia. Il mare, quasi perfettamente calmo, era solo increspato da una leggera brezza. Recitando formule arcane in ioruba Jorge aveva varato la barchetta. Vuole la tradizione che le offerte veleggino verso l’orizzonte quando la dea le accetta. Se la barchetta torna a riva, la dea le rifiuta. Tutti fissavano il minuscolo naviglio che beccheggiando poco a poco si allontanava verso il largo, a sollievo degli astanti. Ed ecco verificarsi un prodigio inaspettato: due cigni candidi sorvolando la spiaggia ammararono di fronte agli sposi, navigando fianco a fianco a fior d’acqua, presagio di buona fortuna. h Alla spiaggia di Bahia è stato dato il nome poetico di Giardino di Allah. Tra le palme che vi crescono numerose, bahiane nel tradizionale costume bianco fluente, la testa avvolta in un fazzolettone a cocche, vendono su banchetti cibi tradizionali: moqueca de peixe, acarajé, quindins… Con pochi soldi si può vivere pigramente, giorno dopo 228 giorno, incuranti di un futuro che non è garantito si materializzi, la morte si presenta inaspettata. Nelle vie della città alta un giovane che camminava davanti a me ascoltando la musica di una radiolina d’un tratto cade a terra. Gente si china su di lui, ne ausculta i battiti del cuore, inesistenti. Il ragazzo è morto di colpo. I negozianti del luogo pongono alcune candele intorno al cadavere sul marciapiede, in attesa che un’ambulanza lo trasporti alla morgue. Il mio albergo è nel Largo do Pelourinho, in un quartiere storico della città alta. Il pelourinho era la gogna cui venivano condannati gli schiavi colpevoli di qualche infrazione alle regole dei padroni. Un monumento in ferro ne ricorda il passato. Nel XVIII secolo, dai balconi circostanti di case ancora esistenti, damine incipriate e cavalieri in parrucca si godevano lo spettacolo degli sciagurati frustati a sangue. Dalle finestre della mia stanza, nell’afa opprimente del pomeriggio, scorgo sotto di me cortili colmi d’immondizie, gente che vive in estrema indigenza e condizioni igieniche spaventose. Triste Bahia. Al tempo degli imperatori in Brasile, come in altre parti dell’America Latina, si costruivano chiese di un barocco esuberante. In preda a “horror vacui”, il timore di lasciare un centimetro quadrato di superficie privo di decorazioni, i muri esterni ed interni delle chiese traboccavano di stucchi, statue, capitelli e qualsiasi altra propaggine fosse disponibile, il tutto molto spesso rivestito di lamina d’oro. A Salvador la facciata della famosa chiesa del Nosso Senhor do Bonfim, oggetto di grande devozione, è in confronto quasi spoglia. All’interno però le decorazioni che ricoprono ogni superficie sono protette da guardie armate ad impedire che malintenzionati grattino il prezioso rivestimento. Davanti all’Elevador Lacerda, raggomitolato su un tappetino, vedo un incredibile mostriciattolo che ben poco ha di umano, una sua mano tesa a chiedere elemosina. Una visione da incubo abbarbicata alla vita, per quanto essa sia miserevole. Scendo col grande ascensore alla città bassa. Al porto un gruppo di giovani di colore si 229 esibisce per i turisti nel jogo da capoeira al suono dolente del berimbau. La capoeira è un misto di danza e arti marziali, un combattimento fatto di salti acrobatici e colpi assestati coi piedi. Una danza mortale, se eseguita come forma di duello e non di spettacolo. Nel Giardino di Allah sulla sabbia riposano le jangadas, fragili zattere di tronchi di balsa su cui poveri pescatori che non possiedono barche si avventurano per pescare di che vivere, sfidando correnti e marosi, affidandosi alla misericordia di Iemanjá. Ascolto la conversazione di un mulatto con una bahiana in costume. Parlano del potere della macumba: “Ho visto un bue cadere al suolo, ucciso dallo sguardo di un potente babalaorixá a capo di un terreiro di candomblé”, racconta l’uomo. Un vecchio tedesco che si arrostisce al sole in compagnia di una giovane nipote è contento di scambiare qualche parola con me, un europeo. Poco a poco dai suoi discorsi traspare un passato di cui non può liberarsi. Anche lui menziona con orgoglio le Autobahnen di Hitler. Chissà che non mi prenda per ebreo, penso… Gli chiedo se torna mai in Germania. Mi risponde: “Mi trovo troppo bene in questo sole di Bahia”. Io penso: “Lontano dagli artigli della Mossad”. h h h All’aeroporto internazionale “François Duvalier” di Port-au-Prince Milena ed io non possiamo credere ai nostri occhi: scesi dall’aereo siamo accolti da Aubelin Jolicoeur, il giornalista haitiano immortalato da Graham Greene come Petit Pierre, personaggio chiave del romanzo “I commedianti” e del film omonimo con Richard Burton ed Elizabeth Taylor. Di taglia minuta, vestito impeccabilmente di bianco e appoggiandosi a una canna da passeggio col pomolo d’oro, Jolicoeur ci riceve cerimoniosamente: “Bounjour cheris. Monsieur Haiti, à votre service”. Alla dogana ci chiedono cosa intendiamo fare ad Haiti. Rispondiamo che siamo ospiti di Monsieur Avakian, e immediatamente ci fanno passare senza ulteriori indugi. 230 Jean-Philippe Avakian, un facoltoso commerciante locale, è conosciuto da tutti ad Haiti. Se siamo suoi ospiti dobbiamo essere persone importanti. Verso la fine dell’Ottocento il bisnonno di Jean-Philippe, un armeno commerciante in tappeti che doveva recarsi a New York, aveva dovuto fermarsi ad Haiti perché la nave su cui viaggiava era stata messa in quarantina dagli americani in seguito a una epidemia di colera nel paese di sua provenienza. Sceso a terra, l’astuto bisnonno aveva presto venduto parte della sua mercanzia. Visto il successo commerciale rapidamente ottenuto, il bisnonno aveva fatto sbarcare la famiglia e si era stabilito a Port-au-Prince. Nato e cresciuto ad Haiti e avendo frequentato l’ottimo liceo della capitale e l’università negli Stati Uniti, Jean-Philippe parlava correntemente l’inglese, il francese, e il créole haitiano. Dotato di eccezionale acume per gli affari ovviamente ereditario, sulla base delle fortune di famiglia Jean-Philippe aveva costruito un suo impero commerciale che spaziava dalla manifattura di biancheria intima e di palle da baseball alla concessione di automobili per tutto il territorio di Haiti. I suoi interessi si estendevano fino alla comproprietà di alcuni alberghi e ristoranti a Miami, una mossa strategica che gli garantiva una scappatoia verso la sicurezza della Florida se le politiche di Haiti, da secoli cronicamente traballanti e di incerto esito, lo avessero costretto all’esilio. Avevamo conosciuto Jean-Philippe durante una crociera nelle Antille. Ci aveva preso in simpatia, forse perché gli parlavamo in francese, e ci aveva ripetutamente scritto invitandoci a visitarlo. Quando finalmente ci eravamo decisi a farlo, il dr. François Duvalier, “présidentà-vie” col nomignolo affettuoso di Papà Doc, non era più presidente perché aveva cessato di vivere. I TonTon Macoutes, la sua milizia di stampo fascista armata di machete, non terrorizzavano più la popolazione. Al governo del paese a Papà Doc era succeduto il figlio Jean-Claude Duvalier, Baby Doc, meno sanguinario e più adiposo del padre. Su di me e Milena comunque, come ospiti di JeanPhilippe la politica locale aveva scarso effetto. 231 In quel periodo Haiti era un paese di estrema povertà ma relativa stabilità politica. Per le strade costeggiate da rigagnoli che funzionavano come fogne all’aperto si era costantemente assediati da venditori di merletti, o borse di rafia, o cappelli di paglia, o qualsiasi altro oggetto che potesse avere un interesse per il turista. Ad Haiti con pochi dollari si poteva sfamare una famiglia per una settimana. Noi ci eravamo impegnati a comprare qualcosa da ciascuno dei venditori ambulanti il giorno prima di partire, per evitare l’assalto dei postulanti ogni volta che si usciva di casa. La cosa che più ci colpiva in quel panorama di squallore e decadimento era l’incredibile massa di popolazione, una folla di volti neri tra cui i pochi bianchi spiccavano per la loro rarità. Era come se la miseria non uccidesse la speranza di un destino migliore per i numerosi figli messi al mondo da ogni madre. E infatti non si notava disperazione nella gente che incontravamo; al contrario, una gioia di vivere più genuina di quella dei paesi abbienti. Una dieta magra in calorie non aveva creato nessun problema di obesità, una sindrome comune negli Stati Uniti, dove il cibo si spreca e, spostandosi sempre in automobile, si fa poco esercizio. Gli haitiani sono bella gente. Purtroppo, benché Haiti avesse conquistato col sangue l’indipendenza dalla Francia fin dai tempi di Napoleone – la prima repubblica governata interamente da gente di colore – il paese da sempre è travagliato da instabilità di strutture politiche e da uno spaventoso divario economico tra le folle di poveri e i pochi ricchi che hanno in mano il potere. Neanche gli americani, che a più riprese si sono impicciati degli affari di Haiti, sono mai riusciti a stabilire un soddisfacente equilibrio politico, sociale ed economico. In questo panorama sociale deprimente, tuttavia una comunità di artisti era fiorita creando uno stile pittorico unicamente haitiano, sofisticato e naïf, ad onta dell’ossimoro. Nelle gallerie di Port-au-Prince e Pétionville si trovano quadri pieni di colore, di notevole valore artistico e a prezzi molto convenienti. Milena ed io ne comprammo un buon numero. 232 Avakian ci aveva presentati a un suo amico, Jacques Fresnel, un simpatico giovane giornalista francese corrispondente da Haiti di Le Monde. Fresnel aveva sposato una haitiana, Geneviève Dessalines, laureata in etnologia alla Sorbona e praticante i riti del vudù che permeano direttamente o indirettamente la vita di ogni haitiano. Geneviève era una mambò, una sacerdotessa del culto che aveva superato i complicati riti di iniziazione dopo anni di studi sotto la guida di un maestro anziano. Jacques ci aveva promesso di farci assistere a uno dei rituali, una cerimonia genuina , non uno degli spettacoli truculenti messi in scena a beneficio dei turisti ignoranti; spettacoli che fruttano denaro agli organizzatori ma rafforzano i pregiudizi e le false nozioni che circondano i culti di origine africana. Ma prima, sapendo che volevamo esplorare i fondali della costa, ricchi di banchi di corallo e di fauna sottomarina, Jacques ci aveva portati in macchina fino a un villaggio di pescatori a un trentina di chilometri a nord di Port-auPrince. La spiaggia del villaggio era coperta di frammenti di conchiglie che sfavillavano nel sole con riflessi di madreperla. Lungo di essa si allineava una fila di casupole di fronte alle quali gruppi di bambini seminudi giocavano rincorrendosi. Jacques aveva assoldato un paio di pescatori per guidarci verso i banchi di corallo a diverse centinaia di metri dalla riva. A bordo di una barca a vela pilotata da due uomini Jacques, Milena ed io salpammo verso un’isolotto che affiorava a malapena dal filo dell’acqua. La vela di rozza canapa somigliava a quelle delle feluche che si incontrano nel Mar Rosso. Il mare era calmo, nel cielo nessuna nuvola. I pescatori si erano messi a cantare una nenia di cui solo Jacques poteva comprendere il senso. Era una invocazione alla dea delle acque, La Sirène, perché assicurasse buona pesca e sicuro ritorno a terra a chi si avventurasse sul mare, ci disse Jacques. Sapendo che le acque ospitavano barracuda dai denti aguzzi, avevo consigliato a Milena di togliersi dalle dita un anello d’argento con una pietra azzurra che avrebbe potuto essere scambiato per un’esca. Lei lo aveva nascosto sotto un’asse dello scafo. 233 La barca all’ancora, Milena, Jacques ed io entrammo in acqua muniti di maschera e pinne. L’isolotto era un banco di sabbia corallina su cui erano sparsi alcuni ciuffi di vegetazione. Le formazioni di corallo erano cresciute quasi a pelo d’acqua: corallo a ventaglio, tubolare, a forma di arbusto o di corna di cervo, tra cui si annidavano ricci neri dalle lunghissime spine acuminate, grandi stelle marine e anemoni variopinti. Bisognava stare attenti a non ferirsi sulle superfici del corallo ruvide o affilate come lame. Tra i ventagli e le alghe oscillanti nelle onde nuotava una varietà di minuscoli pesci tropicali multicolori, per nulla intimiditi dalla nostra presenza. Qualche piccolo barracuda non ci aveva prestato molta attenzione. Al ritorno a terra Milena non riuscì a trovare l’anello che aveva nascosto. Lo considerammo un’offerta a La Sirène. La sera Fresnel, Avakian e le loro mogli ci invitarono a cena al ristorante della Villa Créole, un albergo rinomato di Pétionville. Al nostro ingresso la piccola banda che eseguiva un calipso si arrestò e attaccò “Volare”: evidentemente sentore della nostra presenza era giunto fino alla Villa Créole. Alla fine della cena il proprietario dell’albergo, un mezzosangue dal modo di fare molto dignitoso (Jean-Philippe ci fece sapere che era medico di professione), volle mostrarci la sua collezione di quadri. Uno in particolare era il ritratto di una civetta con gli occhiali e fattezze vagamente umane. “Papà Doc”, ci confidò il dottore-albergatore ammiccando. Il giorno dopo Jean-Philippe ci portò in un suo buen retiro in cima a una montagna, lontano dalla congestione e dall’afa di Port-auPrince. Sul terrazzo della casa, sorbendo succhi di frutta offertici da uno dei domestici, Milena ed io potevamo ammirare lo scenario dei monti coperti da vegetazione verde smeraldo, digradanti verso il mare . L’apice del nostro soggiorno ad Haiti fu la cerimonia vudù promessaci da Jacques. Molti anni prima, ancora studente, avevo letto un libro di Maya Deren che mi aveva incuriosito, “I Cavalieri Divini del Vudù”, un serio trattato di etnologia. Maya Deren, un’ebrea nata a Kiev in Ucraina nel fatidico 1917 era morta in povertà a New York nel 1961. 234 Donna dalla vita avventurosa e dai numerosi interessi, nel dopoguerra fu uno dei maggiori esponenti del cinema d’avanguardia americano. Molto giovane aveva iniziato la sua carriera come ballerina della troupe di Katherine Dunham. In visita ad Haiti restò affascinata dai riti vudù al punto di parteciparne ed essere posseduta dai loa (gli orixá del Brasile), gli spiriti ancestrali che possedendo i medium in trance ne “cavalcano” la mente. Di Maya Deren a Milena e a me sono restate una vecchia copia di “Divine Horsemen” e una sua fotografia di un vevé, un graffito sacro in onore dei loa, parte del cerimoniale vudù. Due oggetti lasciati a noi in eredità da un comune amico. h Due giorni prima di ripartire per gli Stati Uniti, al calare della notte Jacques Fresnel ci aveva accompagnato all’hunfò di Madame Dessalines, un tempio alla periferia di Pétionville analogo ai terreiros brasiliani. Il santuario consisteva di una costruzione di aspetto molto semplice. Al suo interno erano situate le “stanze dei misteri”, con i muri decorati da arabeschi simbolici su cui erano appesi paramenti e oggetti pertinenti a ciascuna divinità e con altari consacrati ai loa patroni dell’hunfò, tavoli coperti da drappi su cui era disposta un’accozzaglia di oggetti sacri, ciascuno di essi con un significato esoterico chiaro agli iniziati: caraffe d’acqua benedetta, statuine e immagini di santi cattolici, pietre sacre immerse in olio, bottiglie di vino e di liquore, collane di perline… Di fronte all’hunfò era uno spiazzo quadrangolare di terra battuta, il “peristilio”, coperto da una tettoia di paglia e aperto su tre lati. In mezzo ad esso si ergeva un grosso palo, il poteau-mitan, decorato con spirali multicolori, sacro veicolo tra il cielo e la terra lungo il quale le deità invocate discendono a montare i loro “cavalli”. Ai lati del peristilio c’erano sedie e sgabelli su cui i visitatori potevano sedere durante le cerimonie. Su una piccola piattaforma erano disposti tre tamburi, uno di circa un metro di altezza, gli altri due di dimensioni decrescenti; anch’essi sacri oggetti di culto. Sul terreno intorno al 235 peristilio due capre brucavano un’erba rada; galli e galline, animali destinati al sacrificio, erano appollaiati sui rami di alberi o razzolavano indisturbati. Poco dopo il nostro arrivo la cerimonia cominciò con l’ingresso nel peristilio di una dozzina di iniziati in fila, gli hunssì, per la maggior parte donne di ogni età vestite di corte tuniche candide strette alla vita da una cintura, le teste coperte da fazzoletti annodati sulla nuca, ai piedi sandali. Con le donne erano entrati alcuni uomini, anche loro vestiti di bianco, pantaloni lunghi e camicia. Alla testa della processione era la mambò che agitava l’asson, un sonaglio sacro fatto con una piccola zucca vuota rivestita con una rete di perline multicolori, simbolo della sua condizione di sacerdotessa del tempio. Ai complessi ritmi dei tamburi erano iniziati canti propiziatori e danze rituali, durante i quali un’anziana hunssì aveva rapidamente creato sul pavimento del peristilio i vévé, complicati disegni simbolici ottenuti con grande abilità facendo scivolare tra le dita farina di mais. Anche i vévé avevano carattere sacro, ciascuno di essi dedicato a una particolare divinità e necessario ad invogliarne la discesa tra i mortali. Intorno ad essi e al loro centro erano state poste candele accese. La processione guidata dalla mambò aveva poi salutato con inchini, piroette e libagioni il poteau-mitan, i tamburi, i vévé e ogni altro oggetto sacro nel peristilio. Tradizionalmente il primo loa invocato deve essere Legba, spirito ancestrale del Dahomey protettore dei crocevia, simile agli exú del Brasile, incaricato di aprire il portale celeste per consentire l’accesso alle altre divinità. Dopo forse un’ora di inni, danze e invocazioni si verificò la prima possessione. Legba era disceso nel corpo di una vecchia hunssì, caduta per terra agitandosi in moti convulsi come a protestare l’intrusione del dio, ma alla fine sottomettendosi al suo volere e restando quasi immobile, mentre gli altri hunssì salutavano con canti la presenza di Legba. Poco dopo la vecchia era uscita di trance e aveva ripreso a cantare e danzare con gli altri come se nulla le fosse capitato. 236 237 Il “cavallo” della possessione successiva era una giovane “montata” da Damballah, il dio-serpente aborrito dalla chiesa cattolica haitiana perché considerato un emblema di Satana. In realtà Damballah è un’antichissima divinità africana che col diavolo ha poco a che fare ma che può proteggere i suoi fedeli da malanni e magari aiutarli finanziariamente con miracolose vincite di denaro. La ragazza, sdraiata per terra e circondata da altre hunssì, si dimenava ondulando, emettendo sibili e dardeggiando la lingua come un crotalo. Poi a gesti – i serpenti non parlano – aveva indicato che voleva mangiare. Condotta dalle assistenti verso un mucchietto di farina in cima al quale era stato posto un uovo, la giovane lo ingollò, apparentemente senza masticarlo. Le fu poi offerto del riso in bianco e del latte, piatti che una volta assaggiati furono deposti come offerta sull’altare di Damballah nella sua “stanza del mistero”. Spettatore “laico”, io stesso mi sentivo trascinato dentro a un vortice di emozioni che affioravano confuse dal fondo della coscienza. Nel frattempo dal lato opposto del peristilio si era verificata un’altra trance. Questa volta Ezilì, la dea dell’amore, nata dalle acque come Afrodite, era scesa nella testa di un giovane uomo. I loa non fanno distinzione di sesso, cavalcano chi piace loro e chi li venera con maggiore devozione. Riconosciuta l’identità della possessione, il ragazzo era stato condotto da assistenti nella “stanza del mistero” di Ezilì dove era stato incipriato, truccato e adornato di collane, orecchini e foulard come si conviene a una giovane donna. Accompagnato di nuovo nel peristilio, aveva preso a danzare a piedi nudi una specie di minuetto, passando da un astante all’altro e civettando con tutti. Avendo chiesto da bere, gli era stata versata una coppa di champagne, e senza versarne una goccia continuava a piroettare, ogni tanto sorbendone un sorso. Arrivato davanti a me, senza che me lo aspettassi mi piantò un bacio sulla bocca, subito applaudito con entusiasmo dai presenti. Mi rivelarono che piacevo a Ezilì, decisamente femmina anche se il suo cavallo era un maschio, e che dovevo considerarmi fortunato, la dea mi avrebbe in futuro accordato favori. 238 Milena non sapeva se ridere o preoccuparsi. Erano passate molte ore dall’inizio della cerimonia quando assistemmo alla sua parte più misteriosa e allucinante, la discesa del più importante membro dei Guédé, una famiglia di spiriti di minore importanza nel pantheon vudù che orbitano nel dominio della morte ma che al tempo stesso soprintendono alla vita nelle sue manifestazioni più naturali. I Guédé uniscono un aspetto lugubre – sono vestiti di marsine nere e bombette come becchini, gli occhiali neri sono di rigore – a un carattere comico, esprimendosi con una voce nasale, storpiando parole di créole in modo ridicolo e improvvisando farse di cattivo gusto. La loro presenza conferisce alla cerimonia un tono fortemente erotico. Sul loro altare riposa un grande fallo ligneo che a volte lo spirito chiede di indossare. I loro “cavalli” danzano in modo lascivo mimando la copula. I canti d’invocazione e di saluto sono incredibilmente osceni. Madame Dessalines, la stessa mambò, era posseduta dal capo dei Guédé, il leggendario Baron Samedi, signore dei cimiteri, di cui si dice Papà Doc fosse un devoto. Gli assistenti di Geneviève l’avevano aiutata ad indossare una marsina nera con le code. In testa le avevano messo un cappello a tuba e in mano una croce nera, simbolo del crocevia sede di portenti. Con le gonne raccolte alla vita da una cintura, la mambò a gambe divaricate ruotava sulle anche e oscillava avanti e indietro al ritmo dei tamburi mentre gli hunssì , imitandola, cantavano un inno fallico in un’esaltazione dionisiaca della fertilità: O pin’, bel pin’ Cé pin Papà Guédé! O pin’, bel pin’ Cé pin Papà Guédé! Pa bésoin pièce moun Pou grouillé avê’l Cé pin’ Papà Guédé!* * Oh il pene, il bel pene – è il pene di Papà Guédé! - Oh ilpene, il bel pene – è il pene di Papà Guédé! - Guédé non ha bisogno di aiuto per farlo dimenare, - è il pene di Papà Guédé! 239 Sempre danzando la mambò aveva afferrato per le zampe un gallo nero che starnazzava, e roteandolo toccava gli astanti con le sue ali per trasferirne il potere vitale. Poi con un gesto rapido ne aveva strappato la testa, spruzzando di sangue i vévé sul terreno e chi le era vicino, e raccogliendo quanto usciva dal collo mozzo in una tazza da cui aveva bevuto un sorso prima di passarla agli iniziati che la circondavano. Alla fine, spossata, si era aggrappata a una hunssì che gentilmente l’aveva aiutata ad accasciarsi su una sedia mentre la trance divina si dissolveva. Le candele erano spente mentre le prime luci dell’alba entravano nel santuario e la gente poco a poco si dileguava. h Due giorni dopo ripartimmo dall’isola. All’aeroporto “François Duvalier” scorsi le nostre valigie sulla pista, prima di essere caricate in aereo. Dal finestrino dell’aereo che decollava potevamo scorgere un’ultima volta la candida silhouette di Aubelin Jolicoeur, il signor Haiti, pronto a dare il benvenuto a un nuovo contingente di turisti. All’aeroporto di Miami, in attesa della coincidenza per New York, un gruppo di matronali coriste negre abbigliate in tuniche viola cantava spirituals. Nelle sale d’aspetto dell’aeroporto circondate da negozi straripanti di beni di consumo e da ristoranti colmi di cibo, “siamo tornati nel Paese di Bengodi” pensai, con un po’di nostalgia per la povera, affamata, ospitale isola: Haiti chéri, come dice la canzone. A casa, aprendo una valigia scopersi che un mio paio di scarpe era scomparso. Senza dubbio qualche haitiano di quelle scarpe aveva più bisogno di me. Fu la mia ultima offerta ai loa. h h 240 h EPILOGO Durante la nostra convivenza Guelfo mi vedeva spesso buttar giù note in un mio quadernetto e mi chiedeva: “ Ma che scribacchi sempre, Glauco?”. “Oh, Guelfo, sono solo appunti per il mio diario” gli rispondevo. E lui, leggermente sarcastico: “Non avrai mica intenzione di scrivere le tue memorie…”. “Forse, un giorno. Sia le mie che le tue…”. Guelfo non mi prendeva sul serio, e io nemmeno pensavo che un giorno avrei raccontato quello che ricordavo di quei due lunghi anni di vita in comune. Il suo traguardo era la pensione, uno stato di grazia che finalmente lo avrebbe liberato dalle pastoie dell’impiego e posto in grado di dedicarsi ai suoi mille interessi. Mi diceva: “Sai Glauco, nel corso della mia esistenza di lavoratore dipendente ho incontrato qualche persona dabbene e un mucchio di cialtroni. Ai primi sono grato dell’ amicizia dimostratami. Diplomaticamente ho ignorato o addirittura assecondato i secondi, ghignando ai risultati delle loro cialtronerie. Ma ho cercato di evitare confronti e alterchi che avrebbero compromesso la meta, l’agognata, la pensione. E così ho nuotato senza troppa fatica in mezzo alle acque turbolente della vita, come uno dei pesciolini che scivolavano tra le chiappe di Tiberio, quando il Cesare andava a sguazzare nella Grotta Azzurra in compagnia di giovinetti e giovinette che gli titillavano i vetusti ammennicoli.” E ogni tanto Guelfo mi canticchiava una sua versione personale di una canzone di Totò o di Nino Taranto: “Aha, aha, che felicità, che felicità – il signor Guelfo Torrazzi vi saluta e se ne va”. 241 Guelfo, sempre scherzando, mi diceva: “Glauco, ricordati che se dovessi morire prima di te – tocco ferro – vorrei che sulla mia lapide ci fosse questa epigrafe: DULCE ET DECORUM EST… È dolce e decoroso lavorare E mai nell’ozio il tempo sperperare. Più dolce ancor però, sentito ho dire È della Patria per l’onor morire. Lavorare e morire volli anch’io Per far contenti il Re, la Patria e Dio. Io, serissimo, annotavo subito nel mio quadernetto, promettendogli di ottemperare alle sue ultime volontà. Poi finivamo di scolare insieme una bottiglia. Naturalmente non pensavo che l’occasione di scolpire la sua stele tombale si sarebbe presentata entro pochi anni. In realtà, poiché non si sa come e dove sia finita la salma di Guelfo, l’unico modo di lasciare la sua epigrafe ai posteri è quello di trascriverla in queste memorie. Che Guelfo sia davvero scomparso? A volte sogno che sia sopravvissuto in quella remota giungla, e anche in mezzo agli aborigeni abbia trovato qualche persona dabbene che ne abbia allietato la vita. E m’illudo che forse un giorno riappaia, magro e abbronzato, ma con lo stesso sorriso ironico e la stessa gioia di vivere che me lo aveva reso amico. g 242 NARRATIVA ARACNE 1. Maurizio Olivieri, Appunti a posteriori 2. Collana Trame–3d 2 Kjell Espmark, L’oblio. Traduzione di Enrico Tiozzo 7 Mario Alpi, In attesa del temporale. I racconti dell’isola 3. Rosa Stipo, Deus lo volt. La crociata dei fanciulli (+ cd–rom) 4. Collana I Cedri 1 Fulvio Bongiorno, Vasi di Pandora 2 Fulvio Bongiorno, Il percorso dei segni 3 Fulvio Bongiorno, Roma orientale 6. Lamberto Antonelli, Beatrice Cenci. Cronaca di una tragedia 7. Guido Colesanti, Africa sempre. La favola della memoria: un medico in Fezzàn 8. Giuliana Iaschi, Le ciliegie sono mature 9. Mario Alpi, Il pettine bianco e altri racconti 10. Giuseppe Dattoli, Napoli 1891. Duie soldi a Cannelora e chell’amico rorme ancora 11. Corrada Metelli, La moglie del sovversivo 12. Elisabetta Strickland, L’ombrello non è mio 13. Adolfo Sassi, Ode al meraviglioso Faito, terra d’incanto e di memoria 14. Giovanna Caraci, Via delle Quattro Palle 15. Daniela Quarta, Testimoni dell’omicidio: gli antichi dèi 16. Chiara Ferrigato, Fiori di campo 17. Ciro Ciliberto, Un essere imperfetto. Racconti 18. Marco Capodimonti, Paola Natalicchio, L’Erba random. Romanzo 19. Susanna Porco, L’impavido cavaliere Heaster e l’araba fenice 20. Luciano Rosso, La porta magica 21. Angela Gatti Pellegrini, Il luì di macchia e altri piccoli racconti 22. Roberto Contessi (a cura di), LSC. Laboratorio di scrittura creativa 2000–2005 23. Procolo Ascolese, Il complice 23. Andrea Sansoni, Oltre la diversità. Emozione e voglia di vivere 25. Luciano Rosso, Il mondo fra le righe. Poesie e racconti da viaggio 26. Tulio Ampez, La riscossa dei baroni 27. Daniela Quarta, Trame gialle 28. Enzo Grossi, Racconti della realtà sfumata 29. Riccardo Ascoli, Belle le signore 30. Giuseppe Luigi Serra, La gloriosa epopea 31. Luciano Lombardi, Di stanze 32. Icaro Fanelli, Kloster’s Wirkich Bestimmungsort e altri racconti universitari 33. Vittorio Cavallari, Duecento metri 34. Vittorio Cavallari, Sciame 35. Giuseppe Dalla Torre, Quantum memini 36. Pietro Cavara, Strani ottoni. Un sogno e alcuni frammenti 37. Giulia Jaculli, Genogramma sessuale 38. Carlo Lanza, La terza Salem 39. Glauco Romeo, Redacinta. Memorie di un giovane scapestrato 40. A Genzano: una bizzarra questione giudiziaria. Dialogo di Dino Mandrella con un amico incredulo Finito di stampare nel mese di maggio del 2012 dalla «ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l.» 00040 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 15 per conto della «Aracne editrice S.r.l.» di Roma