clicca qui - Io Acqua e Sapone

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Alla Libertà.
Alla meravigliosa Madre di Gesù di Nazareth,
che non mi lascia mai solo.
A Gesù.
A P. Angelo Benolli, che ha testimoniato la possibilità concreta di essere
amati ed amare.
Al mio amico Dante Alighieri, grazie del sostegno che sei,
della tua poesia, della tua meraviglia.
Ad Alberico Cecchini, al suo esempio, la sua forza, la sua fede, la sua poesia che parla in questo mondo e diviene carità, sua moglie Simona, le sue
due bambine Carola e Viola.
Al Laboratorio Mass Media, perché
formi giovani artisti testimoni di vita.
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ITALIA SOLIDALE
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Telefono: 06.68.77.999 - Fax: 06.68.32.799
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Vietata ogni riproduzione anche se parziale senza autorizzazione dell’editore
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Giacomo Fagiolini
SEI Tu
una storia vera
IYIE AKE
(“SEI Tu” IN LINGuA MASAAI)
Italia Solidale Editrice
Italia Solidale del Volontariato per lo Sviluppo di Vita e Missione
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PREFAZIONE
Carissimi amici e amiche,
nell’accostarvi al libro di questo giovane, permettetemi di dare un mio
contributo al testo, ma soprattutto cerco di cogliere ciò che il testo e la
storia di Giacomo rappresenta per tutti come messaggio di vita vera.
Come missionario e sacerdote, competente dell’inconscio e delle sue
dinamiche, mi sono incontrato con la madre di Giacomo da quando lei
aveva 17 anni.
Parlo dunque come una persona che ha seguito e contribuito allo sviluppo di vita e missione della mamma di Giacomo, Antonella. Ho dunque visto Giacomo già nella pancia della madre ed ho partecipato
costantemente e direttamente alla sua crescita sin dal suo concepimento. Sono testimone delle sofferenze inconsce profonde che Giacomo ha
vissuto sin dalla sua infanzia. Sono testimone della lotta e della testimonianza cristiana della mamma per offrire a Giacomo e alla sua famiglia una vita vera e completa, nonostante gli atavici inconsci condizionamenti.
Sono il padrino di cresima di Giacomo, l’ho avuto in analisi dall’età dei
12 anni fino ai 22. Conosco il ragazzo in modo diretto e intimo, ho
seguito da vicino tutto lo sviluppo della sua vita.
Ho visto la sofferenza del non vero e completo amore logorarlo fino a
soffrire molto, si sentiva completamente tradito dalla vita e dagli uomini. Ho visto la sua anima respirare solo quando esprimeva tutta la sua
realtà e ricerca di vita completa nella fede e nell’amore fino ad arrivare ad un’autenticità nella poesia, come nel libro presente è scritto.
Posso testimoniare che questa poetica e romantica ricerca del ragaz-
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zo ha potuto trovare una via concreta per realizzarsi in una sempre
più completa fioritura personale e relazionale, perché si sentiva sostenuto e compreso dalla mia testimonianza e la mia persona. Ho veduto come, sostenuto da me e dai miei libri, abbia profondamente sempre cercato una Fede non come dogmatismo o schema, ma come
Amore e quindi libertà.
Vorrei dire a voi che leggete, che questa testimonianza può avere un
forte valore esistenziale per tutti, perché portatrice di questo messaggio sostanziale: credete in ciò che siete, in ciò che Dio ha messo in
voi. Credete che con una competente luce sull’inconscio come propongo nei miei libri, è possibile vedere perché ci sono oggi tante sofferenze. Credete in Gesù, che ha stravolto la mia vita, quella di
Giacomo e vuole entrare nel concreto della vostra vita con il Suo
Amore. Cristo è l’unica risposta vera in questo mondo sempre più
sperduto. Credete in voi fino ad amare, dando testimonianza delle
vostre forze con coraggio. Abbiate coraggio, amate, e se avete paura
di sbagliare sbagliate, ma amate. Solo la carità fa sì che, come dice
Isaia, “la tua luce sorgerà come aurora, la tua ferita si rimarginerà
presto”.
Giacomo è un esempio che la vita non s’inganna e di come l’antropologia che propongo sia necessaria ed importante, alla portata della
vita di tutti. Non dimenticate che i bambini nel Sud del Mondo muoiono, che voi avete bisogno di salvarli per sperimentare la carità come
ha fatto Giacomo. Chi vuole può regalare e regalarsi un’adozione a
distanza con Italia Solidale. Questa è una possibilità vera per avvicinarsi alla propria ed altrui intrinseca nobiltà d’animo e libertà.
Buona lettura.
P. angelo Benolli o.M.v.
Presidente e fondatore di Italia Solidale – Mondo Solidale
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INTRODuZIONE
Questo libro è un dono prezioso, una concreta testimonianza di come
ci si ritrovi a vivere una vita piena di inganni, personali e culturali, e,
ciononostante, di come sia possibile superare questi mali e riscoprire
la grandiosità dentro di noi.
“Sei tu – Iyie Ake” nasce dall’esperienza di Giacomo Fagiolini, 22
anni, che riporta in questo libro la sua vita: dalle tenebre vissute per
le ferite di non amore fino ad una nuova luce, che gli ha permesso di
vedere quei condizionamenti inconsci che non gli permettevano di
rispettare sé e gli altri. una luce possibile grazie all’aiuto ricevuto da
un vero testimone dell’amore di Dio, P. Angelo Benolli, il quale ha
sempre sostenuto Giacomo a credere in se stesso, nelle sue forze uniche e irripetibili, e che, grazie alla cultura di vita espressa nei suoi
libri, ha permesso al ragazzo di entrare nella sua storia e vedere le
cause delle sue sofferenze. Non magie, non parole, non vuote preghiere, ma una cultura che è frutto di un’esperienza e non di ideologie, che è una concreta possibilità di luce sull’inconscio e di guarigione, attraverso l’incontro della croce sulla propria storia personale
con quella di Cristo, che fa nuove tutte le cose.
Partendo dai primissimi anni della sua esistenza, Giacomo comincia
a raccontarci la sua storia, mettendo in luce i condizionamenti inconsci che hanno segnato la sua vita di bambino; di adolescente, tra amicizie non sane, droga e alcol; fino alla svolta verso i 19 anni quando,
grazie a P. Angelo e alla sua proposta culturale, comincia a ritrovare
se stesso. Però non è bastato, si è dovuto affidare al grande Amore
della Vergine Maria, che lo sta aiutando a ritrovare la sua libertà di
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uomo, ed arrivare a sperimentare la carità, prima con l'adozione a
distanza, poi diventando egli stesso missionario, in Italia ed in Africa,
e scrivendo un libro attraverso il quale dona la sua esperienza e le sue
poesie per amore del prossimo. È proprio per questa luce sui suoi
inganni personali, insieme agli inganni culturali di secoli e secoli, che
il libro di Giacomo può essere un aiuto concreto per chiunque lo
legga, perché attraverso le sue sofferenze, i suoi sbagli, le sue preghiere, testimonia che, grazie al proprio impegno e ad un’autentica
cultura di vita, ogni persona può cominciare a vivere veramente, liberando le energie che Dio ha messo dentro di lei, riscoprendo l’Amore
per sé e per gli altri e arrivando così ad un’autentica carità.
Alessandra Manni
Mensile Acqua&Sapone
Amica di Giacomo
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PROLOGO
Camminavo con mio padre tornando da un incontro nella sede di
Italia Solidale a Roma, la cui proposta culturale ha cambiato la mia
vita e quella di mio padre. Ci siamo imbattuti in una manifestazione
ed incuriositi abbiamo chiesto ad un ragazzo di che si trattava, ma,
pur uscendone e avendovi preso parte, non lo sapeva.
In seguito altri ci hanno spiegato che era a favore della legalizzazione della marijuana. Allora mio padre mi ha detto: «Sicuramente bisogna capire i ragazzi, non gli sta bene il mondaccio che hanno intorno
e si ribellano». Seguitando, arrivati nei pressi di casa, troviamo due
ragazze, una in stato ansioso e l’altra sdraiata sull’asfalto con la testa
sul suo piscio, che nemmeno riusciva a muoversi. Io e mio padre
chiediamo se serve aiuto, papà le dà alcuni fazzoletti e aiuta la ragazza in preda all’ansia a mettere l’amica in una posizione migliore, poi
ce ne andiamo. Dentro di me, credo grazie a ciò che si era trattato nell’incontro, colgo che non posso fermarmi a chiedere “come stai” e
andare via; sento che devo fare qualcosa di più concreto. Allora salgo
su a casa e prendo due foto: nella prima ci sono io insieme ad un mio
amico, lui ha in mano una canna ed io una birra, nell’altra ci sono io
in missione in Kenya con Italia Solidale. Prendo anche un asciugama-
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no, una bottiglia d’acqua e due copie del primo libro di P. Angelo
Benolli “10 punti di sviluppo di vita e missione” e rivado lì. Nel frattempo sul posto erano arrivati due ragazzi, forse i fidanzati delle due
ragazze, le quali erano ancora nelle stesse condizioni di panico una e
di devasto l’altra. Arrivo lì e dico testuali parole: «Questa è acqua per
la vostra amica, questo è un asciugamano per asciugarle il viso; questo sono io a 16 anni (mostrando la foto con canna e birra), questo
sono io in missione in Africa (mostrando l’altra foto)». uno di loro
dice: «Da paura ciccio… !». Io continuo: «E questi sono due libri di
un sacerdote che non solo si è ribellato a quelli che ci dicono quello
che dobbiamo fare, ma ha trovato pure una soluzione rispettosa della
meraviglia che siamo», e gli ho dato le 2 copie dei 10 Punti.
Non dimenticherò mai i loro occhi sgranati e le loro voci nel dirmi
“grazie”. Sono stati loro infatti, con quella meravigliosa gratitudine,
a spingermi a raccontare a tutti la mia storia. Lo faccio senza pretese
e dirò soltanto la mia esperienza senza pretendere di insegnare qualcosa a qualcuno, però voglio dire di come, grazie al fuoco che già era
in me, alla carità, alla cultura di sviluppo di vita e missione testimoniatami da P. Angelo Benolli e grazie a Cristo, io sia guarito nell’anima, nella mente e nel corpo dall’annientamento interiore che mi
distruggeva.
La prospettiva da cui racconterò la mia storia e la luce su di essa che
proverò a dare, saranno sviluppate nell’ottica dell’esperienza di P.
Angelo Benolli. Non me la sono sentita di iniziare il libro con 15
pagine di “dottrina introduttiva” prima di dire la mia esperienza, è
certo però che, per comprendere veramente a pieno la mia storia, è
fondamentale avere le basi dell’antropologia che P. Angelo ha vissuto e proposto. Per capire me, invece, leggetevi le poesie.
Grazie in anticipo della vostra cortese e sicuramente unica ed irripetibile partecipazione.
Giacomo Fagiolini, Roma 08/05/2010 (data in cui, circa 2 orette fa, è
successo il fatto che ho riportato).
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CAPITOLO I
CONCEPIMENTO, NASCITA ED INFANZIA
Medjugorie, 1987.
La mia storia inizia su un pullman di ritorno dall’esperienza di pellegrinaggio alla Madonna di Medjugorie dei primi ragazzi che facevano parte
del Vo.s.vi.m (Volontariato per lo sviluppo di vita e missione) promosso
da P. Angelo Benolli. Ragazzi stanchi di inganni e falsità che ricercavano
la pienezza della loro vita, aiutati da questo sacerdote che, con la sua esperienza, li sosteneva a livello personale e di gruppo. P. Angelo Benolli
infatti nella sua vita aveva sempre voluto essere molto pratico, anche
quando si parlava di Dio. «Darei quattro calci a tutti quelli che pregano,
ma non risolvono i loro problemi personali e relazionali», dice spesso.
Quindi, trovandosi innanzi a persone e persone che venivano a confessarsi o confidarsi dicendo: «Padre mi perdoni ho peccato», ma senza entrare
nella radice delle loro sofferenze, vedendo il peccato più come una loro
colpa che non come frutto di una profonda sofferenza, P. Angelo era furibondo perché, parole sue: «Non potevo dare l’assoluzione perché mi sentivo un mago, ma non potevo nemmeno non darla perché la gente era sincera». Innanzi a questo contrasto P. Benolli decide di approfondire l’essere umano fino alla radice, iniziando a studiare l’opera di Freud e dei grandi psicoanalisti, laureandosi in psicoanalisi all’università di Buenos Aires
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all’inizio degli anni ’60. Subito, però, si rende conto che la visione atea
dell’inconscio di Freud andava superata e rivoluzionata, dando valore a
Cristo e all’anima dell’uomo. Di qui la visione dell’inconscio come “Io
Potenziale”. P. Angelo si rende conto, man mano che sperimenta l’aiuto a
persone e persone, che le radici delle loro sofferenze venivano tutte da
mancanze di amore e rispetto nell’infanzia, quindi decide di approfondire anche lo studio del bambino intrauterino, compiendo 4 anni di studi
aiutato da medici competenti nel settore. È qui che P. Angelo vede anche
scientificamente che per i primi 30 giorni di vita il bambino è creato ed in
rapporto solo con una forza che la biologia chiama “epigenica”, perché
fuori dai geni, che P. Angelo è certo essere la forza creatrice di Dio, e, pur
essendo nell’utero materno, il bambino è indipendente dalla madre.
Quando poi cresce e viene maggiormente in contatto con la madre, il
bimbo, per svilupparsi sano, necessita dello stesso amore e dello stesso
rispetto vissuto con Dio: questo perché ogni bambino e dunque ognuno di
noi è creato nell’amore e tutto nasce e cresce solo nell’amore. Quando
però nella madre prima e nel padre poi non c’è tutta la maturità necessaria, il bambino soffre e si chiude, si difende dalla mancanza di rispetto
fino ad arrivare a “identificarsi negativamente con il persecutore, ripetendone la stessa mancanza che lo ha colpito” (tratto dal libro di P. Angelo
Benolli “La vita non si inganna”). Questa è la genesi dei condizionamenti inconsci, registrati sui nostri nervi, base di ogni miseria umana, sono
qualcosa che non possiamo controllare, ma che abbiamo scritta dentro e
ripetiamo senza rendercene conto. Non li controlliamo perché sono
inconsci e l’essere umano, come la scienza ormai attesta, è per il 90%
inconscio, la mente è soltanto il 10% del nostro essere, dunque non riusciamo con essa a cambiare il 90% inconscio. P. Benolli però non si è fermato qui, ma ha proposto in Cristo “l’unico vero terapeuta” in grado di
risolvere i condizionamenti, laddove c’è una completa visione di essi nell’inconscio e nella propria storia personale, unita ad un sufficiente impegno per la loro riparazione nell’amore.
È questo quello che quei ragazzi in quegli anni facevano: andare in profondità nella propria storia fino a vedere la radice dei loro condizionamenti ed in Cristo pian piano liberarsene, fino ad arrivare a ben amare e
ben lavorare ed aiutare gli altri poi a fare lo stesso con un movimento di
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missione verso i sofferenti nello Spirito e nel corpo. Questo sviluppo di
vita, infatti, non è completo e mai è raggiunto se non si arriva ad una missione della persona che libera aiuta gli altri a far lo stesso cammino nell’inconscio. Questo sviluppo di vita e poi missione era ciò che cercavano
quei ragazzi in quell’estate del 1987.
Antonella è una delle prime ragazze che P. Benolli ha seguito personalmente sin dall’età di 17 anni. Alla fine del ritiro a Medjugorie, sta suonando la chitarra sul pullman, insieme ad altri amici del gruppo.
Non l’avrebbe mai suonata la chitarra Antonella, tirando fuori con orgoglio la sua voce tipica da cantante tradizionale romana, se non fosse stata
da anni sostenuta da P. Angelo ad esprimere ciò che aveva dentro, a regalare agli altri la sua unicità, prima troppo irretita e non valutata dal mondo.
Cantava e suonava la chitarra Antonella su quel pullman e tra gli amici
che partecipavano c’era pure Fulvio, un ragazzo in ricerca di autenticità,
verità e Spirito dopo aver tagliato tutti i ponti con la borgata dalla quale
veniva, troppo falsa e non rispettosa di ciò che aveva dentro. Da anni
ormai trovava in P. Angelo e in questo gruppo dei contenuti di autenticità
che lo avevano convinto a dedicarsi anima e corpo a questo impegno sulla
sua vita per arrivare a sostenere i bisognosi nello Spirito e nel corpo. «Non
poi capì che bella che era tua madre su quel pullman, è stato lì che ho capito che anima meravigliosa che aveva», mi dice spesso Fulvio oggi. Di lì
a poco infatti Fulvio, mio padre, e Antonella, mia mamma, si sarebbero
sposati il 25 luglio del 1987.
Grottaferrata, dal 21 dicembre 1988 fino al giugno o luglio del 1998.
Volevo vivere.
Esigevo da ogni persona rispetto perché volevo avere esperienza di me e
di me con gli altri.
Ricordo momenti meravigliosi in cui mio padre mi insegnava a giocare a
calcio, in porta come lui. Eravamo contenti perché lui mi trasmetteva una
sua esperienza di vita e a me non solo piaceva, ma riusciva pure bene.
Ricordo con gioia tutte le volte che si metteva la tuta e mi portava a
“ascoltare i tuoni e vedere i fulmini” quando era brutto tempo. Ricordo
che anche mia madre voleva che mi divertissi, e mi portava a saltare alle
giostre, amavo saltare e, quando papà non c’era e io volevo giocare a cal-
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cio, mi faceva lei “i tiri in porta”. Purtroppo, però, questi erano episodi
troppo sporadici. Mio padre voleva davvero avere una fede: nel nostro
giardino c’era una piccola statua della Madonna e tutte le sere ci riuniva
per dire i vespri. Mi dispiace davvero dirlo, ma nonostante la sua totale
buona fede, ricordo quelle serate come incubi. Mio padre in sostanza voleva una fede, ma aveva un mare di violenza dentro vissuta nel posto da
dove veniva e dalla quale purtroppo si era dovuto difendere, così, spesso,
non riusciva ad avere un rapporto con me e finiva per imporre le cose. Per
esempio io volevo giocare a calcio, invece per lui avrei dovuto fare nuoto
e tennis perché “mi faceva bene”. una volta presi il coraggio di diglielo e
lui divenne furibondo. Era molto volenteroso di vivere in fede e carità, ma
realmente non aveva un’esperienza di questo, finiva per essere molto
attaccato a noi e, quando qualcosa non gli andava, ripeteva sulla famiglia
tutta la violenza che lui aveva subìto. Mia madre aveva appena cominciato a ritrovare la sua persona e la sua espressione, dopo che nessuno l’aveva mai valutata, ma purtroppo mio papà non riusciva a valutarla e rispettarla e lei non era abbastanza forte e indipendente da lui e dagli altri per
farsi rispettare: questo ha comportato che in quel periodo mia madre non
me la ricordo, non c’era, perché era completamente sottomessa a mio
padre. Di conseguenza da piccolo ero molto solo e sofferente, il volto
della gioia in quei giorni non me lo ricordo.
Voglio sottolineare che i miei genitori avevano tutta la volontà razionale
di amarsi e amarmi, parlavano spesso dell’importanza della famiglia e di
fare missione, ma realmente il loro inconscio soffriva e si proiettavano
l’un l’altro le sofferenze facendosi male, e tutto ricadde su di me. Ecco
perché, se non vediamo e risolviamo i condizionamenti inconsci, possiamo pregare quanto vogliamo, parlare quanto vogliamo, ma li butteremo
sempre addosso agli altri specie ai nostri figli, senza rendercene conto.
Questo perché scientificamente la persona umana è per il 90% inconscia
e la mente è solo il 10% di noi. Non lo dico perché l’ho letto, ma me lo
detta il mio dolore. Sono appena tornato da due mesi in Africa dove ho
incontrato circa 1350 famiglie. Non sapete quante volte ho sentito: «Mio
marito dice che mi ama e ama i figli, ma poi quando gli chiedo una mano
con il lavoro dice che sono affari miei e va a bere. Mi spacco la schiena
tutti i giorni, tutto il giorno, e quando torna a casa pretende il suo cibo,
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altrimenti sono botte a me e ai bambini. Però poi parla dell’importanza
che noi in famiglia ci amiamo». Senza risolvere il nostro inconscio non
saremo mai liberi, mai saremo felici, mai ameremo, mai, nessuno di noi.
Il colmo poi era che la mia era una famiglia molto ricca per via di mio
nonno materno che è uno dei più grossi costruttori di Roma, nonché una
persona che stimo profondamente a livello personale ed umano. Nonno
non mi ha mai fatto tanti discorsi, ma è sempre stato un esempio di onestà e carattere, serietà e rispetto. Ricordo le gite in cui passeggiavamo ore
e ore, e lui mi spiegava la storia di Roma e dell’Italia: oggi amo la storia
e l’arte grazie a quelle passeggiate. Ricordo il suo biglietto di auguri per i
miei 18 anni, lo ricordo a memoria: “Diventi uomo. Affronta il mondo
come merita, con rispetto e serietà, con il sostegno che vorrai da tuo
nonno Cesare”. Il sostegno di cui parlava l’ho sempre avuto.
Però proprio quei soldi da lui sudati e guadagnati con onestà han fatto sì
che mio padre non si dovesse più preoccupare di portare la pagnotta a
casa, e quindi divenne sempre più appiccicoso, violento ed idealista. Io
crebbi con una donna di servizio che mi faceva tutto e mi riempiva di
panini; passai così giorni interi davanti alla tv a mangiare senza mai
dovermi sudare nulla. Avevo tutto materialmente, ma le palle soffocavano e non venivano mai fuori né nella relazione né nell’aggressività.
Anche qui posso dire di essere una testimonianza vivente di come i soldi
non solo non comprano la felicità, ma nel mio caso furono addirittura
deleteri, mi resero un quaquaraquà. La mia storia dice a tutti: amate i
vostri figli con la vita, non con le cose! Ma se non entrate nel vostro inconscio a vedere dove non hanno amato voi, non potete. Quello che conta non
sono le intenzioni, ma l’esperienza della vita personale per il 90% inconscia. Se la si ha si ama, se non la si ha, amare è impossibile. Quanti delitti, quanti abusi, quante bugie, quanti inganni per i soldi: e per cosa?
Pensate davvero che con i soldi tutto vada a posto? Davvero credete che
la civiltà e la felicità si costruiscono col denaro o con le cose? La mia sofferenza vi sia testimonianza che, se non c’è amore e cioè forza e rispetto
personale di ognuno, i soldi sono benzina sul fuoco che ti brucia l’anima
e spesso sono la causa della perdita di sé, di Dio e degli altri. Anche questo non l’ho letto, sta scritto sulle cicatrici che ho dentro l’anima e che la
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sera, quando guardo il mare ruggire, fanno male. I bambini non hanno
bisogno di materialità, ma di rispetto e amore.
Tant’è vero che la solitudine mi era compagna sempre più quotidiana finché come reazione mi chiusi totalmente, sviluppando una forma di schizofrenia che si manifestava nel parlare da solo ad alta voce, cominciando
un monologo che divagava e che autoascoltavo. «Eri così solo perché non
credevi più nell’amore e nella gente, così cercavi di autoamarti alienandoti dalla realtà». Così mi spiega oggi P. Angelo.
Dove erano gli ideali dei miei genitori? Dove erano i soldi dei miei nonni?
Dove non c’è anima e forza c’è soltanto deserto e morte. A che giova
avere tutto se perdi l’anima?
Nel complesso della mia infanzia c’era anche P. Angelo Benolli. Ricordo
le gite in natura, le settimane bianche e i viaggi in cerca di una pienezza
personale e comunitaria, ricordo che arrivavano nuove persone e alcune
se ne andavano. Il gruppo missionario cresceva sempre più ed era diventato “Italia Solidale”, aiutando alcune collaborazioni in Africa e Sud
America per aiutare i bambini sofferenti. P. Angelo già da subito ha saputo trattarmi. Mio padre, per esempio, non riusciva ad insegnarmi a sciare
e si arrabbiava con me che non riuscivo bloccandomi. P. Angelo mi prendeva con sé, mi raccontava un sacco di cose e mi insegnava a sciare.
Anche lui si arrabbiava quando cadevo e non perché non ci riuscivo, ma
perché vedeva che mi arrendevo. Da subito mi richiamava a ciò che io
dentro volevo, vivere e gioire, non si fermava a quello che di male vedeva in me, ma sempre valorizzava l’unicità della mia persona aiutandomi a
percepirla ed esprimerla. Mio padre pur volendo incoraggiarmi mi bloccava, P. Angelo siccome viveva la sua energia personale aiutava la mia:
agli altri resta di noi ciò che siamo, non ciò che vogliamo o crediamo.
Era una bolgia dell’inferno a Grottaferrata dove vivevo, non ce la facevo
più, finché per Grazia di Dio in un qualche mese d’estate del 1998, credo,
mio padre ormai arrivato ad un contrasto enorme tra volontà di vivere ed
esprimersi e l’inerzia di immobilità e passività che aveva accumulato,
sbottò del tutto: se ne andò con una ragazza che frequentava il gruppo di
P. Angelo. Ci lasciò soli. Di quel periodo, di quei momenti ho solamente
flash, ho rimosso interamente quella storia come se non l’avessi mai vis-
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suta. Il tradimento delle attese d’amore fu totale, la mia chiusura si amplificò notevolmente. Mio padre non fece così perché cattivo, ma perché
anche lui da piccolo subì questo e lo ha ripetuto. Dominare la donna senza
rispettarla e tutto il resto, infatti, è insito nelle viscere della mia famiglia
paterna, e lui lo aveva inciso dentro l’inconscio al di là e più forte della
sua volontà di amarci. Ripeto, possiamo pregare quanto vogliamo, ma finché non risolviamo i condizionamenti inconsci che ci arrivano da generazioni, siamo ciechi che ripetono addosso agli altri le loro sofferenze. Mia
madre, però, fu davvero immensa: disse a mio padre, il quale voleva il
perdono non impegnandosi sufficientemente, di andarsene perché inconsciamente non la rispettava per nulla da 10 anni e non sarebbe cambiato.
Ecco perché, nel 1999, io con i miei fratelli siamo andati a vivere a Roma
solo con mia madre. La malattia mentale si ridusse in modo notevole perché non c’era più la pressione di mio padre.
Questo fatto penso debba far riflettere molte donne che oggi prendono
Cristo come un “patire e perdonare in silenzio” le mancanze di rispetto
che subiscono. Cristo non è così, Egli è un leone e vuole che si accenda il
fuoco personale, non che si subisca in silenzio. Quante taciturne lacrime
versiamo senza una posizione forte personale? Quante assurdità patiamo
senza riscattarci? Quante volte perdiamo noi per la famiglia, per il partner
o per i figli, magari in nome del Vangelo? Cristo non si sostituisce e vuole
che ogni persona scelga liberamente Lui nella sua vita personale. Quando
c’è mancanza di rispetto, si deve prendere una vigorosa posizione per
tutelare la vita personale in Lui prima di tutto e poi, se ci sono, dei figli.
Quindi o l’altra persona, uomo o donna che sia, si mette umile a fare un
cammino oppure deve andare via perché non sarà mai possibile vivere una
sana esperienza di coppia o di famiglia. Questo non lo dico perché me lo
hanno detto, ma perché oggi sono vivo per questa scelta di mia madre,
altrimenti già da tempo sarei morto o impazzito dal dolore. È con queste
basi e sofferenze che inizio la mia nuova vita a Roma dove ci eravamo trasferiti con mia madre.
In precedenza ho detto che mia madre non fu presente nella mia infanzia,
anche se fisicamente magari c’era, ed è vero, viste le sue grandi sofferenze personali, la sua difficile storia e le pressioni che viveva con mio padre;
però a mia madre io devo la vita. Se lei non avesse preso questa posizio-
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ne nei confronti di mio padre, io sarei impazzito di dolore o morto probabilmente. Inoltre, nella mia crescita, da mia madre ho ricevuto una grande educazione, l’educazione della cristianità. Non mi ha mai fatto grandi
discorsi, ma vedevo con i fatti che lei, nonostante tutte le sue sofferenze
inconsce, non mollava, pregava e amava, senza cedere di un passo. Questa
educazione a non cedere innanzi alla sofferenza, a credere in sé ed in Dio
nonostante si abbia l’esperienza di non valere nulla, ad amare con tutte le
forze gli altri nonostante i limiti, è un patrimonio che mia madre ha lasciato a tutti noi. Spero che un giorno anche lei scriva un libro in cui si possa
leggere la sua storia. Questa testimonianza fu fondamentale per la mia
rinascita ed è fondamentale oggi per la mia vita come esempio. Anche se
ti crollano le ginocchia, anche se arranchi e non ce la fai ad arrivare, anche
se le ferite fanno troppo male, chiudi gli occhi, ragazzo, chiudi gli occhi
ed ama, rimani con te e con l’Amore di Dio fino all’ultimo respiro, senza
cedere di un passo. Questo ho visto fare a mia madre per tutta la sua vita,
questo è ciò che mi porto nel cuore di lei, questo è quello che mi ha insegnato.
Atlante contro il cielo
Titano ombroso che reggi il cielo
Gigante che scalò con zelo
Il luogo celeste che ora sorreggi
Volendo sfidar degli dèi i pregi
Solo e dannato sopporti il peso
Su cui il sole è sospeso
E dove di notte lontane voci
Brillano affidandoti le loro croci
Di morir non t’è concesso
Dell’Olimpo negato ti è l’accesso
Ma tu sai d’aver osato
Sfidare chi gioca col Creato
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Sorridi al tuo destino
Tu che guerra muovesti al divino
Giove padre ancora spaventi
Vorrebbe vederti morire di stenti
Ma tu dei Titani schivo gigante
Lo sfidi ogni giorno arrogante
Dici: «Vedi tiranno celeste
Anche se pena eterna m’investe
Prono son’io non schiacciato
E rido di come tu mi hai dannato
Vedi che il fardello dell’universo
Non mi fa smettere d’esserti avverso
Per l’eternità tu mi maledirai
Ma plagiarmi mai tu potrai
Perché l’animo mio non fa ammenda
E il nome Atlante è solida leggenda
Brucia pure le mie membra
Ma non avrai quel che a te sembra
Il pensiero mio in eterno vivrà
L’ideale per cui ti sfidai vincerà»
Lode sia a te
Libertà!
Giacomo Fagiolini 12/12/2005
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CAPITOLO II
DAGLI 11 AI 14 ANNI
La vita non muore mai. Il sole passerà, si spegnerà, ma la vita è eterna. A Roma percepivo di stare meglio, non mi sembrava vera tutta
quella libertà. Siamo andati a vivere in una casa meravigliosa nel centro di Roma e di questo sarò per sempre grato a mio nonno materno
Cesare, il quale in un momento così difficile per la figlia, con la quale
aveva avuto diversi contrasti in passato, avrebbe potuto imporle di
lasciare la missione con Italia Solidale, di lavorare in famiglia, ma
non lo fece. Non solo, ma rispettò enormemente l’indipendenza della
figlia, incoraggiandola e dandole la casa in cui crebbe lui da bambino. Mio nonno è fatto così, è un uomo di onore, e anche mia nonna è
molto onesta e pulita, di queste radici davvero ringrazio Dio.
A Roma iniziai a frequentare la quinta elementare in un istituto di
suore ed entrai subito in contrasto con la loro eccessiva rigidità e il
loro schematismo. Sentivo la vita e volevo vivere, non volevo grembiuli, file, silenzi bugiardi e false remore morali. Cristo non è così,
non ci riveste di grembiuli o schemi legali, ma di Spirito e Vita.
Ognuno di noi non trova Cristo se fa il bravo e segue tutte le regole,
Cristo ci trova se accendiamo il fuoco del nostro animo, se diciamo
“Sì Sì, No No” e mettiamo Lui e la nostra indipendenza prima del
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padre, la madre, il fratello, la sorella, la scuola: prima di tutto. Cristo
lo viviamo se viviamo noi, ed oggi per vivere era necessario entrare
nell’inconscio e vedere la realtà dei condizionamenti, altrimenti
magari uno vuole vivere, ma non arriva mai. Comunque di quell’anno ricordo una bella esperienza: tra i ragazzi c’era ancora tanta pulizia, potevi ancora giocare a calcio senza vedere qualcuno picchiarsi,
potevi ancora trovare ambienti e situazioni rispettose di te.
Dopo quell’anno transitorio mi iscrissero in un istituto per fare le
medie. In questa scuola mi trovai davvero bene, ci facevano giocare
a calcio, ci facevano sempre esprimere e soprattutto c’era un ottimo
vicepreside. Egli era molto attento a noi ragazzi, non si fermava solo
alla mera istruzione razionale, ma ce la metteva tutta affinché ognuno di noi incontrasse un tipo d’educazione che potesse favorire il
naturale sviluppo della sua personalità, e soprattutto tentava in tutti i
modi di testimoniare la sua fede in Cristo e, come tutti i buoni cristiani, si prendeva spesso molte risate o “pernacchie”. Oggi lo ringrazio
davvero di cuore per la sua testimonianza di vita e di fede cristiana e
sono sicuro di non essere l’unico. Con i ragazzi della mia età cominciavano a intensificarsi gli scambi, cominciavamo a uscire il pomeriggio, ad avere le prime ragazze e cose così. Io non mi rendevo conto
ma, come dice spesso P. Angelo, davvero il passato sperimentato era
presente allora come è oggi. Entrai in un collettivo formatosi e consolidatosi da 5 anni di elementari, e sentii forte la necessità di esser
da loro accettato. Il problema è che, proprio per la non considerazione della mia persona da parte dei miei genitori nell’infanzia, misi
questa necessità prima della mia unicità e personalità. Non era razionale, ma un atteggiamento inconscio che mi portava al punto di dire
molte bugie su di me, così da poter essere visto e considerato dai
compagni. Questo è significativo: non percepivo la mia persona così
com’era, degna di esser amata, dunque la “abbellivo” con le bugie per
farmi accettare. Questo non perché fossi cattivo, era perché non sono
stato amato e non avevo percezione di me. I miei compagni da un lato
mi richiamavano a non dire bugie, ma alcuni non lo facevano con
amore, bensì con scherno e mi facevano male anche se li ringrazio
perché mi hanno dato 4 calci fatti bene. Metto in evidenza cosa comporta il non amore al bambino: la mancanza di personalità, base di
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ogni disagio adolescenziale. Se non ti percepisci, non puoi amarti, se
non hai amore lo cerchi e sei come una banderuola: pur di avere un
briciolo di relazione ti svendi, ti perdi in mille falsità e non ti ritrovi
più.
In quel periodo per grazia di Dio a 12 anni iniziai i colloqui personali con P. Angelo. All’inizio lo riempivo di stronzate su di me, per
farmi accettare, lui non mi ha mai deriso, non mi ha mai detto “non
dire cazzate”, si limitava a partecipare alle mie espressioni e poi
esprimersi lui. Io non mi resi conto, ma questo rapporto con P. Angelo
così rispettoso di me, era finalmente amore per il mio cuore: infatti di
lì a poco tempo smisi di dire le bugie e cominciai a sentirmi un po’
più sicuro di me. Non smisi di mentire perché me lo imposi, ma perché P. Angelo colmò la mancanza di amore vedendola e amandomi
semplicemente considerandomi come persona; nemmeno mi disse
mai niente sulle bugie, anche se di certo sapeva che gliene raccontavo un sacco. Però il problema di dipendenza rimaneva. Il gruppo di
amici cominciò ad accettarmi, il problema però era che vivevo una
totale dipendenza da ciò che loro pensavano e dicevano di me: siccome i miei genitori non mi hanno visto come persona, io non mi sentivo e cercavo in tutti i modi che mi vedessero i miei amici, cercando
di risolvere così il non amore dentro di me. Per esempio, io giocavo
a calcio, anche piuttosto bene, ma non mi ritenevo forte in porta perché sentivo di esserlo, ma solo se loro dicevano che lo ero, altrimenti se mi criticavano mi sentivo una pippa pazzesca. Non è un comportamento che controllo, mi succede anche oggi in molte cose perché la
radice è il profondo non amore inconscio che vissi da bambino specie da mia madre che non sentendosi non mi vedeva. Così anche con
le ragazze: le cercavo sì, ma non per amarle in modo attivo, piuttosto
cercavo di essere considerato e amato da loro: se dicevano che ero
bello, mi sentivo davvero bene; ma se non gli piacevo, mi sentivo
brutto e stupido. Questa è una chiara proiezione sulle donne del bisogno di amore materno mancato, che tratterò e approfondirò più in là.
Mai giudicarsi! Queste realtà sono molto comuni ed esistono perché
al bambino manca, nei tempi e nei modi giusti, l’amore e non si sviluppa. Rimane passivo invece di riuscire ad amare, perché deve colmare un vuoto. Non può tirare fuori la sua creatività perché non è
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forte, perché la forza c’è se c’è amore. Ma non c’è da avere paura, lo
sviluppo di vita e missione offre oggi una pratica e personale via in
Cristo per colmare ogni lacuna con l’amore, fino allo sviluppo totale
della personalità, che solo dopo può amare bene e lavorare bene. C’è
gente che c’è arrivata, mica sono storie. Mentre camminiamo, ricordiamo sempre che dentro abbiamo un tesoro unico e che l’amore esiste, Dio esiste ed ora l’inconscio può essere capito: mai perdersi
d’animo!
Riprendendo la storia, in quel periodo in particolare cominciai a sperimentare relazioni con un amico solo, in cui però non c’era apertura
al mondo, ma chiusura su noi stessi e sulla reciproca dipendenza.
Questo capitò con due o tre ragazzi, ma in special modo con uno di
loro. Ammiravo questo ragazzo come persona e la nostra amicizia ha
avuto lati positivi, come la nostra sana e grande rivalità calcistica.
Non ci compiacevamo a vicenda da cretini, ci sfidavamo a calcio perché lui era molto bravo davanti, io ero bravo in porta. Lui voleva
segnarmi e sfidandomi non era contro di me, ma in relazione; lo stesso io, facevo di tutto per impedirgli di segnare, ma quando mi faceva
dei bei gol, dentro ero felice per lui e lo stesso lui: quando gli facevo
belle parate, veniva sempre a complimentarsi. Questo era bello, però
il rapporto divenne sempre più chiuso su noi, e chiuso soprattutto alle
ragazze, che invece è un passaggio molto importante a quell’età.
Nonostante questo, ho avuto delle ragazze e ricordo una volta lui mi
scoraggiò a relazionarmi con una ragazza con cui stavo, e io come un
cretino la lasciai per esser chiuso con lui. Io dipendevo da lui e da
quello che pensava di me, e ricordo che, quando gli proponevo delle
mie espressioni che erano personali, come la musica, la lettura, la
poesia, spesso le scherniva e non mi rispettava: non lo faceva apposta, ma io non avevo abbastanza personalità per prendere posizioni
forti e rimanevo come un cretino. Questo mi logorava perché mi
esprimevo sempre meno a livello personale.
una cosa che alimentò questa chiusura fu soprattutto la PlayStation:
passavamo le ore a sfidarci, ma lì non c’era più la relazione come
quando giocavamo a calcio davvero. La PlayStation ci alienava in un
mondo virtuale, staccandoci dalla relazione tra noi e soprattutto chiu-
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dendoci alle ragazze sempre più: infatti, anche se ne avevamo alcune,
non coltivavamo come meritava la relazione con loro. I videogame
sono un grande inganno: passano per cose innocue, eppure strappano
i ragazzi dalle relazioni interpersonali e da hobby veri per stare ore
davanti alla tv. Questo è contro la vita. Cominciai a passare ore innanzi alla Play e ciò alimentò e strutturò molto una chiusura che già c’era
in me, ma che trovò in tale gioco un fertilizzante notevole che mi
chiuse ancora di più, e con me il mio amico. Mentre io e lui comunque giocavamo a calcio, basket (dove spesso le buscavo), pallavolo
(dove insieme eravamo imbattibili), comunque parlavamo, comunque
avevamo delle ragazze, so di gente che ci perde l’anima davanti a
quei cosi e diventa pure spastica a forza di giocarci. La vita è vera non
virtuale e non si può ingannare.
La cosa sostanziale qui, però, è il dramma della dipendenza dell’uomo sull’uomo che mi affliggeva, che aveva radice nel non amore ricevuto da piccolo e mi faceva dipendere in tutto e per tutto da quello
che gli uomini dicevano di me. In questo modo io non venivo mai
fuori, non c’ero come persona e quindi appassivo sempre più, la schizofrenia mentale continuava e i miei compagni infatti dicevano che
avevo “problemi”, il che mi feriva molto, perché era vero, ma loro
non me lo dicevano per aiutarmi, lo dicevano per prendermi in giro.
Quanta gente così! Quante ragazze ho visto pendere dalle labbra dei
ragazzi! una volta una ragazza a una festa mi ha detto: «Per “amore”
ho fatto cose, anche sessuali, che detesto e mi fanno davvero ribrezzo, ma non penso che un ragazzo possa amarmi per ciò che sono, dunque le ho fatte e le farò ancora perché lui mi ami». Ah, quanta dispersione! Quanta falsità ci affligge! Sentiamo dentro di noi l’unicità
della vita personale, sentiamo l’importanza della relazione, ma per
mancanza di rispetto personale che è amore, pur di avere una relazione e l’“amore” degli uomini, inconsciamente ci prostituiamo a tutto,
andando così contro ciò che è la nostra propria meraviglia di Dio. No!
Basta fare così! Non è possibile perdersi e disperdersi senza mai arrivare a noi, a Dio e all’amore. Finiamola qui! Andiamo sulle montagne più alte! Sui ghiacciai! Sfidiamo l’oceano! uccidiamo i leoni con
le mani! Insomma troviamoci fuori dagli uomini! Troviamo noi stessi vigorosi come fulmini, forti come stelle! Troviamo la nostra perso-
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na indipendente dagli uomini in Dio partendo dalla nostra storia.
Allora troveremo noi stessi e la gioia di amare gli uomini! Noi siamo
immagine di Dio, non è una teoria! Siamo creati stelle per brillare
indipendenti e illuminare l’oblio, ma la dipendenza, che ha sempre
radice nella mancanza d’amore intrauterina e poi infantile, ci rende
lampioni della luce! Io stesso che scrivo questo, sono il primo ad
essere ancora oggi molto dipendente dagli uomini, e sarà sempre così
finché non troverò pienamente me in Cristo per la gente. È davvero
necessario impegnarsi in un cammino che veda le radici della dipendenza, che le metta con concretezza in Cristo e che sia di costante
testimonianza e carità verso la gente che soffre: è nella manifestazione caritatevole completa di una cultura che risolve, che troviamo pienamente noi stessi e scardiniamo tutte queste maledette dipendenze
umane che in potenza non ci appartengono. Amate! Amiamo! Non
fermiamoci mai ai nostri limiti! Lasciamo che la luce del nostro Sole
scardini le nebbie! Come un mio caro amico volontario di Italia
Solidale spesso racconta, lui ha trovato sé, la moglie ed un figlio che
da anni non arrivava quando innanzi ai propri limiti non si è fermato,
ma ha avuto il coraggio di amare. Amiamo! Vediamo la nostra storia,
il perché non possiamo amare, giungiamo le mani alle mani di Cristo
e poi, stupefatti, amiamo gli altri e siamo testimoni! Così avremo la
personalità per amare ed essere felici.
Anche la mia dipendenza però era, come tutte, unica e per questo particolare: chiedevo agli uomini l’amore mai avuto, ma quando non mi
rispettavano mi isolavo da loro, perché rivivevo l’abbandono e il non
rispetto vissuto dai miei genitori da cui mi ero isolato e che avevo
rigettato. Questa radice di solitudine mi ha portato, e si vedrà, negli
anni a rimanere sempre più isolato. un buon esempio è un’estate in
cui mi unii ad un gruppo di amici in uno stabilimento balneare.
C’erano delle ragazze e tutto si incentrava sulle relazioni tra maschi
e femmine, soprattutto sui baci: fu lì che baciai una ragazza per la
prima volta, ma non lo feci perché l’amavo o ero innamorato, lo feci
perché lo facevano tutti e se non lo facevi eri considerato un coglione, e alcuni cominciavano già a prendermi in giro per la mia “verginità”. Non aspettai dunque di essere innamorato per scambiare una
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cosa meravigliosa come un bacio. un bacio è una danza tra due anime
in sintonia a ritmo del loro rispetto e scambio di rispetto, è divino. Io
invece lo sciupai come un deficiente soltanto perché così ero riconosciuto come “fico” dagli altri, non rispettando la mia persona e “violentando” la ragazza che ci rimase molto male. Ecco dove ti porta la
dipendenza: essa svuota la vita della sua poesia più bella, e ti ritrovi
come tutti gli altri, integrato in pupazzate bugiarde e prive di unicità
e relazione; ti ritrovi da stella che eri lampione della cazzo di luce
elettrica. Non feci come P. Angelo che invece, proprio perché sentiva
la sua mascolinità, volle conquistarsi e dare un bacio a una ragazza di
cui era innamorato, riuscendoci dopo un anno di corteggiamento: non
lo fece perché tutti lo facevano, ma perché “ne avevo una voglia
matta”, quindi veniva da lui.
Quando la ragazza lo respinse, non fu dipendente da lei, non voleva
esser amato ma amare, e non mollò. Poi quando lei voleva dargli un
bacio “tanto per il bacio”, lui la spinse per terra e glielo negò perché
“non potevo baciare una persona non innamorata di me, avrei ridotto
me e violentato lei”. Quando poi la “ragazzina”, come la chiama lui,
si innamorò di lui, allora la baciò e come ricorda “fu come toccare il
cielo con un dito”. Questa è l’armonia e la forza che c’è dietro ad un
bacio, ma fu così perché P. Angelo era indipendente dal suo io e pure
da lei, e stiamo parlando non di un “boy scout” da parrocchia bravo e
buono, ma a quell’epoca di un dodicenne ateo perché “non potevo
integrare la mia vita nel Cristo di ‘cartapecchia’ che proponevano gli
uomini e molti preti”.
Non pensiamo però che queste altezze siano solo di pochi eletti. Non
è così, siamo tutti creati per sperimentare questo ed altro, dentro ogni
persona è inciso un richiamo a queste dimensioni personali e relazionali che, se liberato in Cristo e con una completa cultura dell’inconscio, aspetta solo d’essere vissuto per ciò che è. Quante riduzioni
invece, quanta “carnificazione delle stelle” come in questo mio caso!
Non siamo creati per essere ridotti alla corporalità, Dio ci ha dato la
corporalità per collaborare con Lui a creare la vita. Comunque tornando a quell’estate, siccome c’era questa dinamica tra maschi e femmine, io inconsciamente cercavo la considerazione di quelle persone
come nel caso del bacio. Quando però i ragazzi non mi rispettavano
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e tradivano le mie attese, invece di farmi rispettare mi accadeva di
chiudermi. Per esempio, c’era una ragazza che si chiamava Claudia
che mi piaceva, però lei si baciava con tutti quanti e questo mi infastidiva. Io, inconsciamente, cercavo la pulizia nel rapporto con le
ragazze, per colmare un vuoto che sentivo necessitare di amore puro,
ma, invece di dirglielo, vissi un misto tra adattamento e chiusura,
prima aggredendola a male parole, poi essendo uno dei tanti “baci da
lampione”, infine chiudendomi definitivamente. Inoltre c’era un
ragazzo che si chiamava Matteo che piaceva a molte ragazze; dentro
lo detestavo perché era come se togliesse l’attenzione da me, che
volevo esser amato da loro per colmare il vuoto della mamma, e perché vedevo che le donne non mi vedevano e proiettavo la colpa su di
lui. Questa rabbia si tramutò a poco a poco in una chiusura sempre
più evidente, anche se io non mi rendevo conto di ciò che mi accadeva. L’anno dopo stetti innanzi alla porta dello stabilimento per molto,
indeciso sull’entrare o no, alla fine non entrai più.
Passai quell’estate a girovagare da solo per Santa Marinella con la
bici, parlando da solo, ma non entrai più con loro: passai dunque dalla
dipendenza alla solitudine. Questa è una costante nella mia vita:
bramo colmare i miei vuoti di non amore, specie della mamma, con
gli uomini, specie le ragazze: all’inizio inconsciamente voglio che mi
vedano e valutino come la mamma dovrebbe fare col bambino, e laddove questo non avviene o se avverto riduzione nell’altra persona o
mancanza di rispetto, non è che ho la forza per amare quella persona
fino ad aiutarla a rispettarmi o ad amarmi, ma mi chiudo perché rivivo tutta la svalutazione, l’abbandono e la poca qualità dei miei genitori che ho sofferto da piccolo. Mi chiudo furibondo verso quella persona e mi isolo. Questo stava succedendo sempre più ed era puro
inconscio: io non mi rendevo conto di nulla, ma questa è la “dinamica regina” che sarà, ed invero ancor oggi è, una costante nello sviluppo della mia storia, che mi porterà vicino alla pazzia, ma paradossalmente sarà usata da Dio per salvarmi. A tutti voi meravigliosi che leggete, a me stesso in primis, io dico: “Non avere paura di che cosa è il
domani, cerca prima te stesso, dentro di te. Se tu vivi la vita come è
stata creata, non sarai schiavo di te stesso, dei tuoi isolamenti, degli
uomini, ma sarai capace di donare il tuo tesoro a tutte le genti, ed oggi
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questo è possibile grazie alla cultura di sviluppo di vita e missione”
(liberamente tratto da una canzone di Elisabetta Sbrolla,
“Provvidenza”).
Avanti allora, che cosa stiamo aspettando?!
Sii come sei
Stanno dicendo che tu
Sei sbagliato.
Che dovresti non essere
Quello che sei.
Guardami
Asciuga la tua rabbia sul tuo Spirito
E guardami.
L’apocalisse del tuo inizio
Tieni stretta al tuo guardo
Respira il pianto che ti ha fatto tanto male
Combatti zitto.
I Titani tremeranno dinnanzi a te
E mentre tremerai tu
Ricordati di me
Asciugherò io le tue lacrime
Dolce decoro è morire per te stesso
O mio ignoto fratello.
Giacomo Fagiolini 27/5/2007
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CAPITOLO III
LA MIA ESPERIENZA NEL MONDO
DEL CALCIO
La vita non dipende dalla mia volontà di viverla: la vita è prima della
volontà razionale e, laddove subisce blocchi inconsci, questi o si vedono e si risolvono oppure vivere diventa un ideale mai raggiunto, un
fiume che non scorre mai, un’aquila che non ha mai volato.
Io cercavo la vita e, come detto nel capitolo precedente, mi piaceva
molto giocare a calcio. Il mio amico poi lo faceva a livello agonistico
ed aveva una grande passione per la AS Roma. Io in realtà non è che
avessi tutto questo trasporto per il tifo, ma per essere accettato nel gruppo di amici inconsciamente anch’io cominciai ad interessarmi maggiormente della AS Roma. Sviluppai una vera e propria mania del calcio, sapevo un sacco di cose e in special modo percepivo che i giocatori famosi erano sempre sotto i riflettori, sempre ammirati, sempre
ascoltati. A me, che non mi cacava nessuno, sembravano davvero persone “amate” e, visto che quello che cercavo io era amore, mi misi in
testa che sarei arrivato in Serie A: così quei riflettori, quelle attenzioni
avrebbero colmato il vuoto che sentivo in me. Sottolineo come non
fosse una mia passione personale, ma un desiderio di emulare i calciatori per esser considerato dalle altre persone, la cui radice profonda è
sempre quella: mancanza di amore nell’infanzia e mancanza di perso-
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nalità. Cominciai a giocare in una squadra ed ero bravo. Dopo pochi
mesi la Romulea, che in quegli anni con la classe degli ‘87 aveva vinto
i nazionali, mi notò subito in seguito ad una grande prestazione contro
di loro che fu anche il mio esordio da titolare. La Romulea mi chiamò
per un provino, andai così bene che nemmeno mi fecero spogliare e mi
mandarono a dare i dati personali e dopo 5 o 6 giorni chiamò la Lazio,
cui la Romulea era affiliata, che voleva vedermi per un provino. Ho
dunque una certa esperienza del circuito calcistico giovanile romano e
posso dire che non mi piacque per nulla: l’espressione pura dei ragazzi veniva contaminata e usata dai manager e da alcuni allenatori per i
quali tu non eri una persona che andava sostenuta, ma un potenziale che
andava sfruttato; non dico lo facessero apposta, ma era così. A questo
si aggiungeva la frustrazione e le proiezioni che i genitori, per fortuna
non i miei, facevano sui ragazzi. Spesso erano persone inespresse e
insoddisfatte della loro vita che proiettavano le loro esigenze di espressione sui figli che giocavano. Quante violenze su alcuni se giocavano
male! Quante violenze e spesso botte tra di loro! Quanta cecità! E tutto
si riversava su noi ragazzi con violenza assurda, in nome dello “star
vicino” a noi. Già, perché il bello è proprio questo: loro pensavano che
in questo modo sostenevano e supportavano i propri figli, offrendogli
“attenzioni e possibilità che io non ho avuto”. Chi non è libero, anche
se vuole, non lascia mai libero. Non presumete di poter amare i figli o
chiunque senza un serio cammino personale e di coppia nella storia
inconscia. Risolvete tutti i vostri condizionamenti altrimenti, anche
senza volerlo, li ripeterete sui vostri figli, così come hanno fatto con
voi, volendo e credendo di fare il bene dei figli, di “vivere per loro”.
Il calcio è lo sport che ho praticato, quello che in assoluto amo di più,
ma, quando diventa da un lato un business multimiliardario e dall’altro
una valvola di sfogo per tutta la merda della vita della gente, allora
diventa assurdo e deleterio. Posso parlare con esperienza del calcio giocato, ma lo stesso posso dire della tifoseria. Chi scrive è stato abbonato 4 anni in Tribuna Montemario, un anno in tribuna Tevere ed un anno
in curva Sud come tifoso della AS Roma Calcio, so di che cosa parlo.
Ricordo tra le mille cose una coppia di fidanzati in cui il ragazzo fu
massacrato di botte da 6 persone in un Roma – Juve, a due passi da
dove ero io. Ricordo un nero portato a vedere la partita da degli amici
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che stava per piangere sentendo i cori razzisti contro Martins in un
Roma – Inter. Ricordo molta droga tra la gente, molta violenza e frustrazione che spesso degenerava. Quanti morti nel mondo per la tifoseria sbagliata! Come si può uccidere o come si può colpire qualcuno per
questioni di tifo?! Però non è colpa degli ultras, è troppo facile dire
“sono bestie violente, la colpa è la loro” oppure usare la solita frase “è
quella solita frangia estrema di criminali”. Come sono trattate queste
persone nel lavoro tutti i giorni? Che relazioni hanno con le famiglie?
In che ambiente sono cresciuti? Quanta violenza hanno vissuto da piccoli? Il problema è che ogni persona ha tanta mancanza di rispetto che
introietta, non trova risposte nella Chiesa, nella scuola, nella famiglia,
nelle leggi e allora usa il calcio ed il tifo come valvola di sfogo per tutto
questo male, fino ad arrivare anche ad uccidere. Inoltre gli ultras fanno
parte di un mondo, il calcio, che ormai è un business intercontinentale
di miliardi e miliardi. Wayne Rooney per esempio passò dall’Everton
al Manchester united per una cifra di circa 45.000.000 di euro, all’epoca aveva 17 anni. Io scrivo dopo aver camminato dentro alle strade
dello slum di Kibera a Nairobi ed aver visto situazioni di estrema
povertà, scrivo dopo aver incontrato 1.350 famiglie kenyote e tanzanesi che muoiono di stenti, li ho visti con i miei occhi ed ogni giorno
muoiono 22.000 bambini di fame da uno a 5 anni. Come si fa a spendere tutti quei soldi per un diciassettenne che gioca bene a calcio, mentre i bambini muoiono di fame? È poi colpa di questi calciatori se perdono la testa e, mentre hanno moglie e figli, vanno a puttane? O forse
perdono la testa perché su di loro girano miliardi e miliardi, pressioni
enormi, assurde e non se ne può più? Bisogna vedere come il calcio vissuto in questo modo sia deleterio per chi lo tifa: perché, se io ho un problema e una vita di inferno, quando vado allo Stadio e gioca la Roma,
mi sembra come se quel problema non ci sia più; invece non solo rimane, ma non si risolve e si accumula e sto sempre peggio. Il calcio diventa così un narcotizzante sociale temporaneo, che poi però ti lascia con
gli stessi problemi di prima non risolti. Così è deleterio anche per chi
lo gioca, che finisce in un mondo assurdo, e ci sono miriadi di esempi
che potrei fare, con i quali soltanto elencandoli si potrebbe riempire un
libro di calciatori che hanno perso la testa e si sono rovinati la vita.
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CAPITOLO IV
IL BIENNIO LICEALE
L’esperienza del calcio finì presto: non avendo la forza di essere
costante negli allenamenti, presto lasciai e questo avvenne perché
dove non c’è amore, come nel mio caso, non c’è nemmeno sviluppo
del carattere che cresce solo nell’amore, quindi non può esserci forza
vera, ma solo ideale. Mentre si sviluppavano le vicende calcistiche
della mia vita, cominciai a frequentare il liceo. Ricordo ancora nitidamente il mio primo giorno, ricordo pure come ero vestito.
All’inizio con la classe mi trovai bene, nel senso che mi esprimevo
molto e a loro ero simpatico, ma man mano che uscivano fuori anche
le altre personalità, io andavo in tilt. Questa pure è una costante nella
mia vita: fin quando al centro di tutto ci sono solo io, mi esprimo alla
grande perché sento appagato il mio desiderio di amore. Quando però
emergono altri, mi sento come se le attenzioni di tutti non stessero più
su di me, allora rivivo l’abbandono infantile e la solitudine, comincio
a chiudermi ed andare in tilt: mi succede ancora oggi spessissimo ed
esattamente in questo modo. Tutti quelli che dicono “ora voglio
riscrivere il mio passato” oppure “mi sono lasciato il passato alle
spalle”, “riparto da zero”, si ricordino che non è così semplice. Io che
dicevo queste frasi all’epoca, mi sono accorto che il passato non è un
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concetto astratto, ma qualcosa di inciso sulle nostre cellule nervose che
o vediamo, risolviamo e guariamo, o sempre ripetiamo. Ricostruiremo
il nostro futuro solo se concretamente ci incarniamo nel nostro inconscio, per vedere le conseguenze del nostro passato e i nostri condizionamenti nel presente; altrimenti possiamo anche costruire qualcosa, ma
ripeteremo sempre lo stesso inganno, finché non lo vedremo e non lo
risolveremo. Grazie a Dio l’esperienza di P. Angelo in questo ci aiuta
per la prima volta ad avere una luce concreta sul nostro inconscio e a
porre Cristo non come Dogma, ma come “unico Terapeuta” che risolve queste ferite inconsce.
Tornando a me, di lì a poco cominciai a sfogare tutta la mia crescente
frustrazione esistenziale sui due ragazzi della classe più deboli.
Maltrattavo davvero Francesco e Giovanni, io insieme ad un altro
ragazzo, e lo facevo perché avevo tanta rabbia che reprimevo e molta
inespressione che riversavo sui due che sapevo non potevano difendersi. Sfogare il proprio disagio interiore a scapito del più debole credo sia
la radice di ciò che i media chiamano “bullismo” e credo di esser passato anche di lì. Tengo a dire che ho personalmente sperimentato di non
poter risolvere i miei problemi buttandoli addosso a chi non può difendersi. Non solo, ma così facendo creavo forti disagi a persone che già
soffrivano enormemente; innocenti vittime del nostro malessere.
Risolviamo la merda che c’è dentro di noi se la vediamo: se crediamo
in Cristo e se ci manifestiamo con questa luce per aiutare gli altri, allora troviamo la vera pace e la vera forza interiore che muove le montagne. Nella mia classe si ripeté con un altro ragazzo la stessa amicizia
vissuta con il mio amico delle medie. Con lui cominciammo a vederci
e a chiuderci su noi stessi: siccome nessuno ci valutava, ci fomentavamo l’un l’altro; il grave problema fu però che ci influenzammo a vicenda negativamente anche sull’alcool e sul fumo. All’inizio non volevo
né bere né fumare, ma, siccome non avevo un briciolo di considerazione da nessuno, cominciai a bere molto, non perché mi piacesse, ma per
mostrare che lo facevo ed essere così riconosciuto dai ragazzi. Voglio
sottolineare che la radice del mio “alcolismo” (usando un termine forse
un po’ forte ed esagerato) non era perché mi piaceva ubriacarmi, ma,
siccome nell’infanzia ero stato ignorato, cercavo l’amore nei ragazzi e
bevevo per avere la loro attenzione e considerazione. Sono convinto
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che dietro ogni alcolismo ci sia una radice di dipendenza e di non
amore che nel mio caso è questa qui. Io ho risolto questo problema non
con strani metodi o con i giudizi degli altri, ma colmando, grazie a Dio
ed alla cultura di sviluppo di vita e missione, quella specifica mancanza di amore, che comportava che bevessi, ed il problema non si è mai
più presentato.
Voglio dire solo che la mia non è un’eccezione, ciò che ho fatto è alla
portata di tutti, e molti altri in Italia, Africa, India e Sud America, grazie ai libri e alla testimonianza di P. Angelo arrivano a risolvere queste
cose e altre ben più gravi.
Tornando al mio caso, la cosa cominciò a degenerare finché spesso non
riuscivo più a controllarla. Ricordo una volta mi ubriacai pure in vacanza davanti a P. Angelo, il quale mi disse: «Così stai oltrepassando i
limiti». In questo l’amicizia con il mio compagno di liceo fu molto più
deleteria di quella precedente alle medie, perché non solo ci chiudevamo su noi, ma ci condizionavamo a vicenda a bere ed a fumare per
essere considerati dagli altri. Come per l’alcol, mi capitò la stessa cosa
per le sigarette: io non volevo fumare, ma siccome tutti fumavano, per
essere visto e riconosciuto, cominciai anch'io a fumare, per poi arrivare a degenerare fumando per 5 anni 2 pacchetti di Marlboro rosse al
giorno. Anche lì la radice non è una conscia volontà, ma una inconscia sete di amore e quindi mancanza d’esso e dunque di personalità,
il che faceva sì che fossi come una bandiera al vento e che siccome
lo facevano tutti lo facevo anch'io.
Per questo voglio dire a discolpa di tutti i ragazzi che fumano, bevono o si drogano, essendo stato uno di loro, che non bisogna giudicarli, ma capirli e amarli, facendo proposte concrete e dando concrete
testimonianze cristiane; non dicendo loro “vivi”, ma rappresentando
noi esempi di vita. Io, come tutti, cercavo nel fumo e nell’alcol di colmare vuoti di amore che venivano dalla mia infanzia e non riuscivo a
smettere, anche per mancanza di personalità che proviene da una profonda mancanza d’amore nella mia fanciullezza. Smettiamola di chiamarla “gioventù bruciata”, perché non è così, di fare servizi in tv
come se i giovani fossero extra-terrestri, di usarli come notizia da
dare. Cerchiamo di fare ai ragazzi proposte rispettose di loro stessi e
della loro natura e non giudicarli, comprendendo la radice del loro
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disagio. Vedrete che faranno propri questi consigli e cambieranno da
soli la loro vita, come è successo a me. Nessuno vuole vomitarsi pure
l’anima e svegliarsi la mattina distrutto, nessuno vuole scordarsi
completamente ciò che ha fatto la sera prima e scoprire da un amico
che ha dato un bacio ad una che nemmeno conosce e poi gli ha vomitato davanti. Noi siamo uomini e vogliamo costruire, non distruggere. Tutti noi vogliamo amare non odiare, edificare non sradicare, ricucire non strappare, vivere non morire.
Ma se questo è vero, è anche vero che non è così oggi. Ci vuole dunque una cultura completa che veda e risolva le radici di questi disagi,
valorizzando e dando voce alla nobile natura umana. Io scrivo questo
libro per attestare con i fatti che questa cultura completa oggi c’è e mi
ha tirato fuori dall’abisso. Ora tornando a me, in quel periodo presi
una cotta per una ragazza. Fino ad allora ero sempre riuscito a conquistare le ragazze che mi piacevano, questa volta non le dissi che mi
piaceva, ma che volevo essere suo “amico”. In realtà mi piaceva, ma
non mi valutavo abbastanza per dirglielo, non credevo potessi piacere a qualcuna così come ero e la radice è sempre la stessa: non mi sentivo dentro come unico e irripetibile per via delle mancanze di amore
che avevo subìto e dunque non avevo personalità sufficiente per relazionarmi con la ragazza, alla quale, tra l’altro, piacevo pure! Però,
quando avvertì questa mia esitazione e mancanza di palle, si mise con
il mio amico. Ripensandoci adesso, credo che questo episodio possa
aver contribuito alla mia crescita, però è chiaro il disagio che vivevo
e che stava diventando sempre più profondo e radicato in me. Torno
a sottolineare che la chiave della nostra felicità non sta fuori di noi,
nelle donne o nelle macchine o nei soldi, la nostra persona vissuta,
percepita e condivisa nell’amore, è l’unico nostro tesoro che ci dà la
gioia. In quel periodo, ricordo, ostentavo molta presunzione, con questo amico ci fomentavamo a vicenda, perché non ci cacava nessuno,
ci dicevamo da soli che eravamo fichi e belli e andavamo in giro a
dire a tutti che eravamo belli e forti, ostentando sicurezza in noi stessi. In realtà, se la vedo oggi, era una richiesta di amore e di conferme
che facevamo alle persone ed era sempre poggiata molto sulla dipendenza, perché siccome non ti sentivi come persona, avevi bisogno di
ostentare sicurezza e soprattutto avevi bisogno di conferme dagli
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altri. Alla base, voglio far notare, c’è sempre questo non amore infantile che cerca risposte nei più svariati modi: nel calcio, nell’amico,
nell’alcol, nelle sigarette, nelle donne, nell’ostentazione, ma la fottuta radice inconscia è sempre questo vuoto interiore che non colmavo
mai, anzi ampliavo sempre più. Questa verità non è valida solo per
me, è così per ogni uomo, in proporzione alle sofferenze che vive.
Io ho cercato l’amore ovunque: nelle donne, nel fumo, nell’alcol, nel
calcio, nella musica, nella filosofia. Mai ho trovato nulla. Ho trovato
l’Amore e la pace, anche se ancora con molte difficoltà e limiti, in Dio,
in me stesso e nella carità. Queste sono le cose che ci salvano: Dio, il
nostro tesoro interno e il donare questo tesoro ai bisognosi.
Altro Posto
I
Ci sarà un altro posto
In questo carcere
Dell’eterno avamposto
Dove sperare e crescere?
un luogo in cui la solitudine
È bandita dalla sincerità
E la moltitudine
Segue la sua spontaneità
C’è un posto dove
Gli occhi di Lucifero
Sono altrove
E niente è mai mortifero?
II
Vola anima mia
Nelle fronde di quel bosco
Che io non conosco
Fuggi la tua malinconia
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Va’ vacua carne mortale
Innàlzati fra il verde di quella prateria
Dove ogni canto crea melodia
Fuori dalla meschinità del razionale
Nuota nel mio buio mare
Spirito, mio unico splendore
Aroma di gioia comincia ad emanare
Sprigiona stupefatto il tuo candore
Come bianca colomba
Viaggia il mio pensiero
Verso del maligno la tomba
Dove non c’è alcun forestiero
III
Ora, o miei occhi stanchi
Che gridate all’amore “Mi manchi!”
Guardate questa terra di cristallo
Luogo creato dalla felicità
Ove alla gogna è la falsità
Abbandonatevi al variopinto ballo
Fuggi da questa steppa secca
O triste cuore
Fuggi la gelida giudecca
Inébriati di cantici d’amore
Vita, verità, sincerità
Libertà, genuinità.
Esiste questo magico veliero
Dove lo Spirito non è mai miso
Esiste questo eterno luogo vero
Esiste ed è chiamato Paradiso
Giacomo Fagiolini, 13/02/2006
(Quando ho scritto questa poesia ero completamente ateo, bestemmiatore incallito, fumatore e
bevitore esagerato, e non volevo saperne nulla di Italia Solidale! Ciononostante non mi perdevo neanche uno dei meravigliosi incontri personali che facevo con P. Angelo e... scrivevo così!).
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CAPITOLO V
LA CITTÀ DOLENTE
Nella vita non puoi aspettare l’amore dagli uomini altrimenti sarai
sempre un maledetto. Di questo ho fatto esperienza in molti modi.
Sempre lo stesso vuoto interiore aveva trovato in quegli anni un
nuovo viatico per cercare di sanarsi: ero entrato in contatto con la
musica rock.
Artisti come Kurt Cobain, Jim Morrison, Freddie Mercury, Axl Rose
ed altri mi colpivano perché nelle loro canzoni ritrovavo la mia stessa rabbia. In particolare l’estate tra il V Ginnasio e il I Liceo Classico
decisi di farmi crescere i capelli perché molti dicevano che somigliavo a Jim Morrison ed ogni volta che succedeva il cuore mi batteva
forte dalla gioia.
Non essendo mai visto da nessuno, fin dalla nascita, rimasi elettrizzato dal fascino dei rocker e rimasi abbagliato da come le persone li
idolatravano, così cominciai a vivere emulandoli in tutto e per tutto.
Spesso alle ragazze non parlavo di me, ma di Morrison, di Tyler,
affinché loro amassero me, non per me, ma perché io ero come loro e
amavo loro. Facevo così sempre per lo stesso motivo: non amato da
piccolo, vedevo che, se fossi stato come Morrison, le persone che lo
amavano avrebbero amato allo stesso modo anche me. Questo fu uno
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smarrimento della mia identità e so di non essere l’unico che fa così.
Il dramma era che non cercavo di piacere agli altri perché ero io,
Giacomo, lo facevo in funzione di essere simile ad un altro. Quanti
ragazzi sono finiti nella droga per questo? Quanti sono morti? Quanti
si sono persi e dispersi?
Canzoni come “People are strange”, “Angel” o “Don’t cry” sono
eccezionali, pezzi davvero unici, però mi chiedo se questo è davvero
quello che ci vuole, se il rock ’n’ roll è davvero la vita al massimo.
Perché nessuno si è accorto che James Douglas Morrison era un
ragazzo con grossi problemi emotivi ed un fottuto bisogno di amore,
che si è autodistrutto di alcol e droga, morendo a 27 anni? Perché nessuno si è accorto che Kurt Donald Cobain era depresso e “odiava ciò
che conquistò” come disse più volte, perché cercava disperatamente
una soluzione alle sue crisi depressive, finendo morto suicida a 27
anni? E quanti ragazzi hanno intrapreso la via dell’alcol, della droga
seguendo loro due come modelli? E qual è stato il risultato? Hanno
forse trovato gioia e vita? Beh, uno di quelli sono io e dico che stavo
facendo la stessa fine e non ci ho trovato vita. È importante vedere
bene la dinamica: un ragazzo mai amato dal padre e dalla madre come
Jim Morrison, abbandonato a Los Angeles, portato completamente
fuori strada dalla cultura di Nietzsche e della beat generation, in totale assenza di testimoni di una vera e sana antropologia e di Cristo, inizia a distruggersi di acidi ed alcol, iniziando a sfogare la sua frustrazione e cercando risposte nella poesia e nella musica. È bravo, davvero bravo, e diventa famoso: diventa un mito perché tutti i ragazzi
all’epoca vedono in lui la rottura di quel legalismo che nelle loro
famiglie li sta stritolando. La ribellione al legalismo è sana, ma la
rivolta di Morrison è senza basi. Lui arriva a morire obeso e depresso a 27 anni, “ma me ne sento 47” (una delle sue ultime frasi). un
altro ragazzo con affini problemi come me, invece di essere aiutato a
risolverli, si identifica completamente in lui, emulandolo per essere
considerato. Questo mi ha portato a bere ancora di più e ad essere
ancora più lontano dalla mia identità e dall’amore agli altri. E come
me chissà quanti ragazzi. Dico solo che la tomba di James Douglas
Morrison a Parigi è una delle massime mete di pellegrinaggio mondiali. La tomba di uno che ha distrutto se stesso e spinge altri a farlo.
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Allora vogliamo smetterla con i media a esaltare questa gente qui!?
Vogliamo per favore iniziare una profonda analisi critica di queste
figure invece di propinarle agli altri come modello da seguire!?
Quello che è il rock lo si può ben riassumere nella storia di William
Axl Rose, il ragazzo che cantava nei Guns n’ Roses, in relazione con
la storia di un altro grande del rock, Steven Tyler degli Aerosmith.
Quando Steven Victor Tallarico, in arte Tyler, era ragazzo, al liceo lo
prendevano per il culo a morte, specie per le labbra che i suoi compagni definivano “da negro”; dice che le mancanze di rispetto che
subiva erano talmente grosse che per tirare avanti aveva bisogno di
bersi molta vodka ogni giorno prima di andare a scuola. Questo zimbello liceale però, in evidente e disperata ricerca di amore, scopre di
avere una gran bella voce (gran bella è dire poco), mette su un gruppo e diventa Steve Tyler degli Aerosmith, compensando tutti i drammi della sua vita con il rock, dove crede di recuperare l’amore che
sente necessario. Il problema è che si demolisce, diventando famoso
come “Toxic Tween” (gemello tossico) insieme al chitarrista Joe
Perry. Questa sua testimonianza cambia la vita ad un altro zimbello
liceale preso di mira da tutti, William Axl Rose, il quale, sulle orme
di Tyler mette su un gruppo e diventano i Guns n’ Roses. Bello no? Il
problema è che oggi, a circa 46 anni, il suddetto Rose pesa 120 chili,
ha perso la voce ed è paranoico, il gruppo si è sfasciato e l’ultimo
album, che ha impiegato 10 anni a uscire, non si può sentire. È questa la vita che cerchiamo? È questo l’amore? E allora perché c’è tutta
questa morte? Tutto questo inganno? Dobbiamo vedere come ragazzi
con seri problemi trovino nel Rock una fonte di sfogo e ammirazione, ma finiscano poi ad autodistruggersi loro ed inevitabilmente ad
essere modello per altri più giovani che ne seguono le orme.
Sai qual è la cosa più brutta del rock? È che la gente non ama l’unicità che è in te, ma ciò che di te appare, il tuo personaggio, non tu.
Ecco perché molti artisti si rifanno il viso e, nonostante invecchino,
sono ancora in giro a vestirsi da cretini, a fare gli acuti da 20enni, perché non possono perdere il loro personaggio, altrimenti li dimenticano. Questo vuol dire che non è amore quello che hanno le rock star.
Mi viene in mente Maria Callas, che morì abbandonata da tutti e sola
senza più nessuno. La vita non si inganna e il rock spesso prova a
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farlo e la paga. Martin Luther King ha fatto sì che l’America superasse il razzismo, Mahatma Gandhi che l’India fosse indipendente: questa è vita, testimonianza vera di carità, ma soprattutto siamo noi i
grandi eroi! Basta miti! Basta idoli! In ognuno di noi c’è una meraviglia, creata per amarsi, amare e costruire, per creare e unicamente
contribuire alla vita. Ognuno è così e si trova se trova sé con Cristo,
solo con Cristo e poi con gli altri per amarli: allora è vero che siamo
liberi. Oggi non ammiro più Morrison morto senza nemmeno capire
perché, in una vasca da bagno di Parigi, obeso e vittima del sistema;
pace all’anima sua! Oggi ammiro Gesù che è morto sulla Croce per
me e che poi è risorto e che aspetta la mia collaborazione per portare
anche me alla pienezza della mia gioia.
Tornando a me, questo fatto dei capelli me lo ero ficcato dentro il
maledetto cervello e non c’era verso di farmi cambiare idea. Il risultato fu davvero orribile: i miei capelli infatti non stanno bene lunghi
perché si gonfiano, e a poco a poco divenni ridicolo e la gente cominciò a farmelo notare e deridermi, anche le ragazze. Fino ad allora,
come detto, ero molto superbo, ma molto dipendente: quando loro
cominciarono a dirmi che ero brutto, per dipendenza mi convinsi di
esserlo realmente, a livello razionale ancora mi autoimponevo di sentirmi bello, ma dentro mi sentivo brutto e impacciato. L’autostima
calò ai minimi, ricordo un fatto molto significativo: mi piaceva una
ragazza e quindi mi avvicinai a lei e alla sua cerchia di amicizie per
uscirci. Quando mi trovai solo con lei, mi disse chiaramente:
«Giacomo, guarda che a me non piace né Valerio né Alessio, ma mi
piaci tu». La mia risposta fu: «Perché scherzi con me?». Non fu una
battuta, ero davvero convinto che stesse scherzando e lei non riuscì a
convincermi del contrario: a tanto la dipendenza dagli uomini aveva
ridotto la mia personalità. Torno sempre al solito discorso: negli
uomini non si trova il benessere e la pace, l’unica vera stabilità è tornare a percepire, tutelare ed esprimere le nostre energie personali,
altrimenti in un modo o nell’altro siamo sempre schiavi.
Questo mio caso dovrebbe far riflettere su come la dipendenza che
viene dal non amore demolisce il nostro carattere e, finché non la
vediamo e non la risolviamo, non siamo liberi di vivere quello che
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siamo e che sentiamo. Questo mio calo di autostima fu la chiave per
imboccare un’altra strada, quella dell’abbigliamento: cominciai a
vestirmi non con cose che mi piacevano e ritenevo di gusto, ma con
cose che sceglievo in base alla marca. Iniziai a spendere 2.000-3.000
euro ogni volta che facevo acquisti, spesso anche per un singolo
pezzo, perché credevo che, se vestivo così, il vestiario sarebbe stato
garanzia del mio valore personale e non la mia persona in se stessa.
Quanti ancora cascano in questo sottile inganno! E quanto è inutile il
vestiario di marca se non si possiedono le palle rivestite di fortezza e
sane relazioni interpersonali!
Comunque in quello stramaledetto I Liceo Classico, io sentivo forte
l’esigenza di amare e essere amato con tutti i contenuti e le qualità
necessarie. Avevo 16 anni e volevo vivere nonostante tutto. Fu all’inizio di quell’anno scolastico che si presentò nella nostra classe una
ragazza nuova che veniva da un posto vicino Roma. Quella ragazza
era una meraviglia di vita ed entusiasmo e ci fece prendere una stramaledetta cotta a tutti quanti lì dentro. Per un periodo ricordo che fu
mia compagna di banco, mi piaceva parlare con lei, mi piaceva
soprattutto il fatto che dava importanza a quello che dicevo, mi faceva sentire importante, questo perché aveva davvero una bella anima.
Il problema però è che, sempre per la solita mancanza di amore e
quindi di considerazione ricevuta da mia madre, non ebbi la forza di
dirle che mi piaceva da morire, anzi penso che lo verrà a scoprire solo
se si imbatterà in questo libro. Mi limitai ad essere suo “amico” e la
cosa significativa era che non solo lo dicevo davanti a lei, ma lo credevo pure io che fosse la cosa giusta, mentre inconsciamente volevo
un rapporto con lei. Non avendo avuto amore da mia madre, proiettavo la mancanza che sentivo in questa ragazza, sperando lei potesse
sanarla, ma non essendo sviluppato nell’amore, non riuscivo ad amarla attivamente, riuscivo solo ad essere completamente dipendente da
lei ed “elemosinare” un po’ della sua attenzione. Inoltre, siccome mi
era mancato l’amore, da lei pretendevo una risposta immacolata alle
mie aspettative, proprio come fa il piccolo con la mamma; quindi,
quando cominciai a riscontrare in lei riduzione e non rispetto, mi
chiusi a riccio, ripetendo la mia dinamica regina. Infatti questa ragazza, pur avendo carattere e una bella anima, veniva da quello che defi-
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nirei un ambiente del cazzo, che la portava ad avere una vita spesso
estrema ed impulsiva ed a far uso, seppur giovanissima, di cocaina.
Questo deludeva le mie attese di mamma perfetta e dunque mi chiusi
come un riccio nei suoi confronti, tagliando ogni rapporto. Non ero in
grado di amarla in modo attivo da maschio ed aiutarla a venir fuori
dalla merda con quella forza che aveva, ma aspettavo che lei tirasse
fuori me e, quando avvertii la sua riduzione, mi chiusi e mi isolai,
rivivendo l’abbandono e la solitudine provati da sempre. Emerge
chiaro un grande messaggio per tutti: se non abbiamo amore, saremo
sempre “mendicanti” di esso verso il prossimo ripetendo i condizionamenti che abbiamo dentro. Così saremo distruttivi e non costruttivi, e non avremo mai risposte. L’unico modo, ora possibile grazie a P.
Angelo, è vedere in noi stessi dove non siamo stati amati, incarnarci
giorno per giorno nella nostra storia con Cristo per recuperare l’amore mancatoci, ma soprattutto, nonostante tutti i limiti, spalancare il
cuore all’amore del prossimo, perché è l’amore vero, anche se soffriamo, che ci dà pace, forza, amore e serenità.
Tornando alla mia storia, nello stesso periodo mi presi un'altra cotta
per una ragazza che conobbi sull’autobus. La dinamica era molto
simile alla precedente: anche lei iniziò a frequentare discoteche, a
prendere droghe assurde e pesanti. La mia reazione fu la stessa: chiusura totale. È però significativo riportare la storia del suo ragazzo, che
io conobbi più da vicino, perché davvero insegna molte cose sul
panorama giovanile che sento appartenermi. Quando ce lo presentò,
sembrò subito un tipo davvero singolare, ma avvertivi tanta carica di
forza e leadership in lui: era a capo infatti di una grande comitiva ed
aveva davvero carisma da vendere! Si conobbero perché entrambi
frequentavano assiduamente le discoteche e lei rimase attratta dalla
sua forza. All’inizio lui cercò di trovare un senso alla sua vita prima
nelle discoteche, poi però capiva che si disperdeva e divenne attivista
politico di estrema destra. Aveva un mare di forze, ma poi la relazione che si creò con la ragazza fu così morbosa che lui fu come se si
svuotò. Alla fine lei andò in un villaggio estivo e si mise con un altro,
e questo ragazzo me lo ritrovai a casa mia a piangere. Mi colpì moltissimo perché innanzi non avevo la persona forte che mi sarei aspettato, ma un ragazzo davvero svuotato di tutte le sue energie che aveva
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cercato il senso della sua vita prima nelle discoteche, poi in politica,
poi in quella ragazza, ma si era completamente perso e disperso ed
ora era vuoto. Da quel che ne so, finì in brutti giri di droga e roba del
genere. Questa storia è davvero maestra di vita: un ragazzo immenso
con energie forti e meravigliose, che però sente che deve trovarsi e
trovare l’amore e lo cerca prima nelle discoteche e non lo trova, poi
nella politica e ancora meno poi in una donna e si svuota di ciò che
andava cercando fino a buttarsi nella droga. Quanti ragazzi meravigliosi come lui fanno fini così? Perché la nostra società lo permette?
Che testimoni di Cristianità ha avuto questo ragazzo nella sua vita?
Chi lo ha aiutato a vedere l’importanza di tutelare le sue energie di
maschio prima della relazione con la donna invece di sperperarle? È
davvero tempo per noi cosiddetti Cristiani di non stare nelle Chiese a
fare belle preghiere e poi star zitti innanzi a queste realtà, ma di prendere una cultura competente dell’inconscio e darne una completa e
continua testimonianza laddove è possibile.
L’inganno di perdere me per una donna poi lo sperimentai pure io.
Conobbi una ragazza e ci andai pure a letto, convinto di amarla, ma i
risultati furono simili a questi: divenni esausto e vuoto perché per
avere l’amore da lei persi completamente la mia unicità, senza tra
l’altro minimamente rispettarla e vederla come ragazza; lei che pure
aveva un’anima eccezionale, faceva dei disegni bellissimi, ma io non
potevo cogliere lei e lei non poteva cogliere me. Singolare davvero:
due artisti, due creativi, due anime meravigliose ridotte a cercare
l’uno nell’altra, senza vedersi né rispettarsi. È questo che vogliamo?
È per questo che lottiamo noi ragazzi? È tempo di vedere che prima
di tutto dobbiamo trovare noi stessi e ciò non si può realizzare nelle
donne o nel rock, ma solo in Cristo, con la Madonna, che è la via a
noi e agli altri, poi pure alle donne, sì, ma senza perdersi e svuotarsi.
Per far questo c’è bisogno di questo nuovo contenuto culturale che
valuta e ripara le energie inconsce fino alla loro completezza.
Insomma, il quadro generale era davvero pessimo, cercavo ancora
l’amore degli uomini per sanare le mie ferite, ma le risposte erano
sempre più povere e ridotte e quindi mi chiudevo sempre più su me
stesso. Ricordo, per esempio, le discoteche, che frequentavo spesso
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non perché mi piacessero, ma perché ci andavano tutti. Ricordo che
uscivo carico di aspettative di vita e tornavo a casa ubriaco e furibondo per non aver ricevuto nulla se non rumore e alcol. Ricordo l’ultima volta che misi piede in una discoteca: fui invitato da una ragazza,
non perché le facesse piacere la mia presenza, ma perché lavorava
nell’ambito della serata e le interessavano i miei soldi. Quando entrai,
il locale era zeppo, non ti potevi muovere; allora, visto che la frustrazione mi assaliva, decisi che mi sarei ubriacato. Ma nell’andare al bar
mi fermai e mi guardai intorno: vidi una ragazza bionda che ballava
e mi colpì perché ne avevo viste migliaia diverse, con anime diverse,
storie diverse, sorrisi diversi, eppure porca puttana mi sembravano
tutte maledettamente uguali a quella lì, come se tutte fossero omologate. Poi vidi dei ragazzi ubriachi persi strusciarsi sui vetri della
discoteca e mi venne da rabbrividire perché mi chiesi come era possibile che io stessi andando a ubriacarmi per fare come loro. Vidi e
realizzai la totale mancanza di relazione che io avevo con tutti, vidi
che tutti erano più su se stessi che su relazioni autentiche e qualitative. Mi ricordai che, come spesso succede, ero stato invitato non perché interessavo a qualcuno, ma perché avevo pagato dieci euro. Mi
fermai e mi posi la classica domanda che uno si fa nei momenti topici della sua esistenza: «Ma io… che diavolo ci sto a fare qui?». uscii
e chiamai un taxi per andare via. Mentre aspettavo incontrai una
ragazza, alla quale in passato piacevo, che mi guardò e disse: «Ehi tu,
ma che sei Fagiolini?», io dissi di sì e lei mi rise in faccia. Fu uno dei
momenti più duri della mia vita, ma non mi arrabbiai con lei: in fondo
pensai che, se ero finito così, quella ragazza aveva ragione a ridere di
me. Me ne andai, quella fu l’ultima volta che misi piede in una discoteca.
un’altra piaga che avevo intorno era la droga, moltissimi ragazzi la
usavano, cose come marijuana, cocaina, “paste” e altra merda erano
pane quotidiano in quel periodo, ed io soffrivo tanto e mi chiudevo
sempre di più anche se, per dipendenza, a volte ho fumato marijuana
sempre perché lo facevano tutti. Anche lì vado piano a giudicare: cosa
trovavamo intorno noi ragazzi? Cercavamo amore e cosa trovavamo
nella scuola? Che testimonianza ci dava la Chiesa? Che situazioni
c’erano in famiglia? Allora ci buttavamo sulla maledetta droga e sul-
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l’alcol. Ricordo più di una volta nelle comitive che frequentavo la
frase: «O Regà, non c’è ’r fumo, tutti a casa». E la persona dove sta?
L’unicità dove sta? La relazione dove sta? Se ti riduci così vuol dire
che cerchi la vita, però devi anche realizzare che trovi la morte sulla
tua strada, personale e relazionale. un esempio davvero concreto di
questo è la conversazione che una volta ebbi con uno che chiamavano “Er Gallo” che, rollando e fumando una canna dopo l’altra, iniziò
a stupire tutti i presenti con un’autentica richiesta di aiuto: «Ho iniziato perché nella mia famiglia, nella scuola e nella Chiesa non sentivo vita e volevo trovarla, allora ho cominciato a farmi le canne.
Dopo ho cominciato a anda’ a balla’, e lì me so’ calato le prime
pasticche. Mo’ sto al livello che me ne prendo una all’inizio della
serata, due “a panino” a metà e l’ultima alla fine pe’ sfatta’. So' arrivato al punto che se non controbilancio e prima d’anda’ a dormi’ non
me faccio almeno ’na canna, non riesco a dormi’ perché c’ho i battiti del cuore troppo irregolari per via degli acidi. La cosa che ve vojo
di' è che ce sto a anna’ a rota e me sto a disintegra', però non riesco a
trovare una strada per smettere ed un motivo per farlo».
Allora è così che vogliamo ridurci? È questa libertà o schiavitù? I
problemi non si risolvono con l’alcol e l’amore non sta nelle droghe.
Se vogliamo essere liberi, dobbiamo andare dentro il nostro inconscio
e scardinare le nostre sofferenze vedendole e avendo fede e carità, ma
chi li aiuta questi ragazzi?! Che esempi trovano?! Che cultura televisiva e cinematografica trovano sulla loro strada?! Sono aiutati a vivere se gli si mette davanti un film dove i protagonisti sono gli esponenti delle bande criminali che fanno uso di droga e non muoiono mai?!
E noi Cristiani dove siamo? Dov’è la nostra presa di posizione? Dove
la nostra testimonianza a questa gente?
In questo sfacelo sociale e personale non ce la facevo più e stavo davvero per cedere, anche mentalmente parlando, la mia schizofrenia
peggiorava sempre di più, fui anche bocciato un anno a scuola perché
davvero ero sfinito da tanta falsità.
Stavo per andarmene via, in tutti i sensi, ma qualcosa dentro me
cominciò a muoversi, qualcosa finalmente cambiava.
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L’uomo di tutti e l’uomo di nessuno
Sono l’uomo di tutti
E l’uomo di nessuno
Voi non vedete me
Ma io vedo voi
E nel fragore della tempesta
Il nulla mi preserva dalla vostra mortalità
Sono un eroe essendo niente
Sono niente essendo eroe
Nessuno mi trova perché vedo le vostre mosse
Prima che voi possiate immaginarmi.
Sono figlio di una stella spenta
Che ancor riflette la sua luce
In una notturna farsa
Ed è per questo che sono invisibile
Giacomo Fagiolini
20/12/2007
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CAPITOLO VI
ESODO
Oggi il sole è così bello da sembrare il volto di un angelo. I suoi raggi
radiosi si specchiano umili nel mare qui a Santa Marinella, dove sto scrivendo il mio libro. Il mare accoglie il loro splendore e lo riflette al cielo,
è una meraviglia. Mi vengono i brividi se penso che oggi, 12 settembre
2010, sono passati già due anni dai giorni che mi accingo a riportare in
questo libro, scrivendoli per la prima volta dal loro accadimento. Ancora
non riesco a credere all’immensa misericordia di Dio nei miei confronti. Innanzi a questa “Babilonia” in cui vivevo persi la fede, persi ogni
fiducia in me stesso ed anche negli altri: mi sentivo tradito e mi chiusi
sempre più profondamente. Penso che è un’esperienza in cui molti mi
sono compagni. Chi si adatta, chi smette di lottare, chi tira i remi in
barca. Cerchi l’amore con tutto te stesso, trovi soltanto arido e deserto:
nella spiritualità, nelle strutture, nelle scuole, negli sport. Alla fine ti
adatti a vivacchiare, a tirare innanzi, ma scordi la gioia di vivere. In questo periodo, inoltre, feci la conoscenza di un ragazzo che viveva la mia
stessa situazione e subito ci intendemmo. Entrambi eravamo poeti e
scrivevamo di come ci sentissimo male in questo mondo così ridotto e
bugiardo, quindi il fondamento della nostra amicizia fu trovarsi su contenuti di vita alti e nobili, criticando anche con molta luce la società in
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cui eravamo. Il problema però è che, non abbastanza forti, non avviammo mai un’azione concreta per fare qualcosa di pratico e risolvere questi disagi, nostri e altrui, finimmo piuttosto a chiuderci nei nostri discorsi e nei nostri ideali, l’uno sull’altro, non uscendo mai dal nostro guscio.
Questo provocò un grosso attaccamento reciproco ed un soffocamento
delle nostre persone, che invece di trovare soluzioni andavano sempre
più via dalla realtà. Per descrivere bene ciò che sentivamo, credo sia
molto calzante ed efficace l’esempio del film che scrivemmo: sì, perché
invece di muoverci concretamente, l’unica cosa che facevamo era idealizzare e immaginare ciò che sentivamo e poi magari scriverlo, ma non
andavamo mai più in là di questo. Nel film si parla di tre persone (era
stato iniziato con un terzo ragazzo che poi non continuò) che si trovano
in un treno mentre inizia un’invasione di zombie a Roma. La trama si
sviluppa nella marcia dei tre insieme ad un piccolo esercito di superstiti, verso la base militare più vicina per mettersi in salvo. Durante il viaggio, questi tre personaggi si trovano in mezzo alla morte e lottano per
uscirne, combattendo contro gli zombie. Era una proiezione inconscia
della nostra situazione reale, il problema è che a combattere non eravamo noi, ma questi tre personaggi immaginari: noi non solo non risolvevamo, ma ci alienavamo sempre più.
L’unica cosa pseudoconcreta che realizzammo fu mettere su i Tiresia, un
gruppo rock che noi dicevamo doveva essere di aiuto ai giovani, in realtà era soltanto un’espressione per noi per ricevere le stesse attenzioni
che ricevevano le rock star. Nel nostro subconscio non c’era il desiderio
di dare una testimonianza di aiuto, ma un enorme bisogno di considerazione personale da parte della gente; dunque trovammo altri 3 con disagi simili, stessa bramosia di attenzioni e amore e nacquero i Tiresia. Ora,
mentre i Tiresia si stavano formando, avvenne uno dei fatti centrali nel
cambiamento della mia vita ed io nemmeno me ne accorsi. Era Natale e
sentivo dentro un enorme contrasto tra la vita che percepivo, la vita di
Cristo che veniva e la morte in cui ero finito. Quando i miei parenti mi
regalarono dei soldi durante la cena, sentii, senza rendermene conto, che
l’enorme spinta a vivere che avvertivo doveva concretizzarsi, e percepii
che, se volevo vivere, dovevo far vivere un bambino sofferente, sentii
che potevo risolvere i miei guai soltanto nell’amore. Così potevo partecipare a Cristo che nasce bambino per noi ed è presente in ogni bambi-
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no ed in ogni persona. In questo modo cercavo di vivere anch’io, e
avvertii che sostenere un bambino e le sue sofferenze avrebbe aiutato
me a superare le mie. Presi mia madre da parte e, mettendole in mano i
soldi, dissi queste testuali parole: «Questi non li voglio più vedere, devi
prenderli e salvarci un bambino in Argentina». Dissi in Argentina perché mia mamma andava lì come missionaria e la sua pulizia, tenuta e
testimonianza di missione furono le motivazioni che mi fecero fidare di
lei, perché sapevo che davvero avrei salvato un bambino. Quindi lei mi
permise di aprirmi in questo modo così profondo, nonostante mi stessi
chiudendo a tutto e a tutti. Iniziai dunque questa adozione che ancora
oggi porto avanti. A tutte le mamme di tutti: non vi preoccupate mai di
cosa dovrete dire ai vostri figli, di cosa potreste fare… Amate! Amate
oltre i vostri limiti, non fate morire i bambini. Questo sviluppo di vita e
missione proposto da P. Angelo ci permette di entrare nel nostro inconscio, risolverlo ed amare. Allora i vostri figli capiranno, allora vi obbediranno: allora anche loro avranno amore per voi e per la vita.
L’adozione a Belén, la bambina che quest’estate ho anche personalmente incontrata essendo andato apposta lì in Argentina, mi sbloccò qualcosa dentro, ma io non mi resi conto di nulla. Andavo avanti col gruppo e,
se si calcola che la prima sala prove fu un disastro totale, in poco tempo
diventammo davvero bravi. Però nel concreto si presentarono due grossi problemi: il gruppo prosciugava le mie energie completamente e il
mio amico cominciava a stare in grossa difficoltà personale ed a far
pressione su tutti noi. Questo travolgimento della mia persona per il
gruppo si tradusse in forti crisi di panico, che cominciarono a prendermi sempre più spesso e le crescenti tensioni tra me e questo amico peggioravano la situazione. Si avvicinavano gli esami di Stato e la scuola
era una merda come al solito, non riuscivo a studiare, anche se sapevo
che non potevo permettermi di esser bocciato ancora. La situazione era
vicina a precipitare, ma in quel momento qualcosa dentro di me scattò,
senza che nemmeno mi rendessi conto razionalmente, credo grazie alla
forza che mi diede l’apertura all’adozione: decisi che avrei lasciato il
gruppo che mi logorava e mi faceva venire le crisi di panico. Decisi e lo
feci. Troncai tutti i rapporti con il mio amico che peggioravano giorno
dopo giorno. Decisi e lo feci. Riflettendo ora vedo che, dietro il nostro
buon cuore di “cantare un messaggio per gli altri”, c’era in realtà la sto-
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ria di cinque ragazzi, ognuno con forti esigenze di amore ed attenzioni
non ricevute. Ognuno suonava sulla base del suo bisogno di amore e su
quello si relazionava, in primis io stesso. In questo gruppo dunque si
erano strutturate dinamiche in cui ognuno per apparire di più tendeva a
schiacciare gli altri: questo non favoriva l’armonia e la relazione, anzi
era deleterio per tutti e creava tensioni che hanno portato me ad avere
questi attacchi di panico. Ho visto molti gruppi, non solo musicali, ed in
molti riconosco queste dinamiche che alla fine logorano la persona singola che ne fa parte. Voglio dire che, quando non c’è una personalità sviluppata e piena di amore e forza ed, in un gruppo, non ci si relaziona
come sostegno a trovare ognuno la propria persona, ma ci si appoggia o
ci si fomenta a vicenda, va sempre a finire male: cioè va sempre a finire che si perde l’unicità propria e non si vede e si rispetta quella altrui.
Rimasi solo io e Dio, con di fronte l’esame di maturità classica ed uno
dei più duri e impegnativi corpi docenti che potesse esserci in quella
scuola. Io, siccome non avevo mai avuto esperienza di amore, non potevo nemmeno essere forte e per me studiare era da sempre impossibile:
volevo, ma non riuscivo, me lo promettevo, ma mai lo realizzavo. Non
ero mai riuscito a studiare da solo più di cinque pagine di seguito, ora
dovevo preparare l’esame di maturità classica su tre anni di programma
di circa dieci materie. Ed ero solo.
Ancora oggi non mi spiego con che forza lo feci, ma per dire quanta
carica avevo dentro che veniva dall’apertura a Belén, c’è un esempio
che calza davvero alla grande. In quel periodo mi chiamarono il mio
vecchio amico e gli altri compagni delle medie perché dissero che gli
mancavo e volevano parlare, io ero tutto contento e andai. All'incontro,
però, dopo un grosso silenzio, mi proposero di fare un torneo come portiere, utilizzando il passato “sdolcinato” per farmi accettare, visto che gli
serviva uno che giocava in porta. Io a cose così da 10 anni non avevo
mai avuto la forza di oppormi e avevo sempre accettato, anche sentendo che non era giusto. Quella volta li guardai tutti negli occhi e dissi:
«No, non giocherò con voi». Per me questo sarebbe stato inaudito fino
a pochi mesi prima e tutti ci rimasero di sasso. L’adozione mi diede la
forza di toccare la mia persona attraverso l’amore che ebbi verso la bambina, e di vedere e manifestare la mia energia personale, non perdendo-
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la in qualcosa che non sentivo mio. Mi viene in mente uno dei “credo”
del grande giornalista Alberico Cecchini, ossia una frase di P. Angelo
che dice: “Salva un bambino, l’amore ti salverà”. È vero. L’amore permette all’anima di percepirsi e percepire Dio. Chi ama è come se si
ubriacasse di sole, come se ponesse sulle sue ferite le lacrime degli
angeli. L’identità si sviluppa se ama e, anche se abbiamo limiti, amando
li superiamo come dimostra quello che è successo a me.
Comunque, tornando all’esame, non so ancora oggi come, mi feci un
programma trimestrale e lo seguii, scrivendo pure una tesina molto profonda. Seguii quel programma giorno dopo giorno, con forti e continue
crisi di panico che la notte mi facevano tremare di paura di morire, di
giorno invece temevo di svenire. Questo per tutto il giorno e la notte,
tutti i giorni da aprile fino al 9 luglio ininterrottamente. Ed ero solo. Non
so che cosa mi diede la forza di non mollare, ma non mollai. Finché arrivò il giorno del tema in cui tutti ci presentammo la mattina pronti a
cominciare: io mi sentivo le gambe mancare, pensai che non avrei retto
con quel caldo umido 5 ore di tema ininterrotte. Non ce l’avrei fatta da
solo, quindi prima dell’inizio del tema per la prima volta nella mia vita,
andai in Chiesa a pregare ed ancora ricordo le testuali parole della mia
preghiera: “Signore, dammi la forza”.
Me la diede. E la darà a tutti voi. una volta ho raccontato questa storia
al mio amico Johnny. Lui mi ha detto: «Tu hai dato il massimo, Lui ci
ha messo il resto». Ed è così. Mai mollare, mai rinunciare, mai dire “è
troppo”. Questa società fondata sulle cose false, ti fa credere che non ce
la puoi fare, invece sì che ce la fa l’uomo se dà tutto. Queste umili righe
sono una preghiera a tutti voi: non mollate, non cedete, non riducetevi.
Siamo fatti apposta per combattere. Dio vi darà la forza per continuare
e per finire. Voi mettetevi in lotta e Lui vi darà il centuplo.
Ricordo ancora tutto nitidamente, alla consegna delle tracce la paura
svanì, ero tranquillo, sereno. Lessi le tracce e non ne trovai nessuna interessante tranne una: “La percezione dello straniero”. Si trattava di scegliere tra molti brani riportati da vari testi e, basandosi su quelli e sulla
propria idea, sviluppare un saggio sulla percezione dello straniero.
Mentre leggevo mi illuminai, mi venne un'idea: volevo fare come se ci
fosse un maestro che interrogava i discepoli e che ogni brano dato nella
traccia fosse rappresentato simbolicamente da un discepolo che facesse
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al maestro una domanda inerente al senso del brano. Guardai per un attimo la commissaria esterna incaricata di letteratura italiana; per un attimo dissi: «Se faccio così, mi seccano», ma poi, non so con che coraggio, scrissi come avevo immaginato. Dio Santo! La penna scorreva sul
foglio come la luce dell’aurora scorre sul mare fino all’alba, le parole
erano già lì, non feci nessuna fatica. Presi 14 su 15 e la commissaria, una
donna davvero in gamba, mi disse che era uno dei temi più belli che le
fosse mai capitato di correggere in 20 anni di insegnamento.
Il giorno dopo era la volta della versione di greco. Io greco non lo avevo
mai studiato in vita mia, ma devo davvero ringraziare il grande sapiente professore Giuliano Cianfrocca che mi diede ottime ripetizioni di
Greco e Latino. Ricordo ancora cosa mi disse il giorno prima:
«Giacomo, hai 4 ore per fare il compito, non avere fretta: stai sulla singola parola e scarnificala col dizionario, trovane il senso che ha nella
frase e non passare oltre finché non sei sicuro di quello che hai tradotto». Lo feci, cazzo se lo feci! Fu un bagno di sangue. Ogni fottuta frase
mi prese un sacco di tempo, mano a mano che andavo avanti mi si incrociavano gli occhi, la testa mi fumava. I miei compagni mi passavano i
bigliettini per copiare, ma me li misi in tasca: volevo farlo io, non copiai
nemmeno una cazzo di riga. Dopo 3 ore il cervello era una poltiglia, non
ce la facevo più e allora decisi di andare in bagno a fumare. Mentre
andavo, una persona mi prese da parte e mi disse la metà della versione
che mi mancava: capivo che era un premio al mio atteggiamento ed
accettai il favore, riportando la versione dettatami per filo e per segno
sul mio foglio. Mentre copiavo in bella ero felice, anche se esausto.
Forse non ci crederete, ma quella fu l’unica volta che presi 6 a Greco in
vita mia e lo feci all’esame di Maturità!
Il giorno dopo la terza prova, un mix di tutte le materie, andò alla grande perché mi ero preparato bene su tutto. L’orale poi fu un trionfo: i professori esterni litigarono per prendersi la mia tesina che andò a ruba e se
la fotocopiarono e a tutte le domande risposi in modo brillante e preparato. La cosa che ho nel cuore è il sorriso di mia madre che stette fuori
alla porta a seguire l’esame e l’orgoglio che aveva per me, dopo anni e
anni di sofferenze che le avevo fatto patire, di rimproveri che le facevano tutti i professori, ora finalmente le davo soddisfazione ed era felicissima, come i miei fratelli. La sua gioia di quel giorno la porterò sempre
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nel cuore. Preparai l’esame per passare con il classico “58 e 2 figure”,
ma il voto finale fu 75/100esimi: un voto altissimo e lo presi tutto da
solo. È così per tutti, per tutti, mai darsi limiti. Siamo tutti unici e dotati di un’energia forte e possente: sprigionatela! Sprigioniamola! Non
accontentiamoci mai! È così che si arriva ai grandi orizzonti.
La grazia poi continuò copiosa perché tempo addietro, nel giorno di
Pasqua di quell’anno, ricordo di aver sentito forte il bisogno di andare a
messa da P. Angelo, dopo anni che non ci andavo, e Daniela Fortini, mia
zia praticamente poiché mi ha visto che non avevo ancora un mese, mi
disse: «Perché quest’anno non vai con Marco nelle missioni in
Kenya?». Io la guardai per 32 secondi e poi dissi: «Io Danie’, ma sei
sicura?», lei mi disse di sì e, dopo averci riflettuto un po’, accettai la proposta. Daniela ha avuto il merito di intuire in me la potenzialità che
c’era, nonostante tutta la reale sofferenza che traspariva. Daniela sapeva quanto c’era in me perché mi conosceva sin da piccolo, quando lei
era una giovane ragazza che frequentava l’associazione di Italia Solidale
e conosceva mia madre e mio padre.
È una delle prime persone ad avermi tenuto in braccio, mi ricordo che
da bambino spesso mi raccontava lunghe favole che, giuro, ascolterei
volentieri ancora oggi. Persone come Daniela sono state fondamentali
per la mia crescita e la mia vita, perché mi hanno aiutato a vivere una
dimensione di scambio pulita e di qualità che mi è rimasta dentro.
Ricordo come se fosse oggi che io immaginavo che saremmo andati a
distribuire i sacchi di farina alla gente ed invece mi trovai di fronte al
grande lavoro di sviluppo di vita e missione del grande missionario
Marco Tedeschi, che non solo aiutò le famiglie, ma aiutò pure me. un
padre di famiglia, un uomo semplice, poche parole, ma tanta grinta e
tanto animo, tanto amore. Ricordo che diceva ai Maasai nel suo inglese
marcato dall’accento emiliano inconfondibile: «Noi non vi assistiamo
perché rispettiamo la vostra dignità, partiamo dal fatto che Dio vi ha
creati perfettamente in grado di vivere e svilupparvi. Insomma, io non
posso venire qui da un Maasai, uno che uccide i leoni, e dargli l’elemosina! La vostra forza è la base del nostro sostegno, vi aiutiamo a tirarla
fuori, a valorizzarla, incontrandovi in comunità di 5 famiglie coi libri di
P. Angelo, in cui toccare le radici dei vostri condizionamenti e risolverli con Cristo. Poi con il prestito del donatore continuate a fare dei lavo-
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ri secondo la vostra tradizione e secondo la vostra creatività e forza,
lavori con cui poi restituite il prestito nel vostro conto comunitario e
diventate sussistenti. In questo modo arriverete, con la vostra sussistenza, ad aiutare un bambino, come comunità di 5 famiglie, con un’adozione a distanza verso un’altra comunità di 5 famiglie sofferenti in India o
in Sud America. Capito Maasai!? Non siamo venuti qui a farvi l’elemosina, siamo venuti qui a chiedere di risolvere voi i problemi che avete,
grazie a una cultura di vita che aiuta a vederli nelle comunità con i libri
di P. Angelo e poi amare, amare un bambino che soffre ed amare noi, in
Italia, con le vostre lettere ai donatori che vi adottano. Vi chiediamo
aiuto, un aiuto che potete darci testimoniando nelle lettere tutto il vostro
amore e la vostra cultura a noi Italiani, sempre più sofferenti dentro».
Rimasi senza parole innanzi a questa meraviglia di vita e missione, ma
ancora di più rimasi senza parole innanzi alla semplicità e la forza dei
Maasai. Sono il popolo che porto nel cuore. Io ero abituato a riduzione
e sporcizia, lì tra loro trovai forza e pulizia. Quando i Maasai cantano
fanno tremare la terra, quando parlano dicono poche cose, ma vanno
dritti per la loro strada, non vanno di qua e di là. Se tu sei un guerriero
Maasai ed un leone uccide le mucche della comunità, insieme ai tuoi
amici puoi decidere di seguirlo e ucciderlo, però ad un patto: se dei
Maasai escono per uccidere un leone, non possono tornare al villaggio
se non con il leone ammazzato. Non puoi scappare mai, non puoi mai
avere paura, se sei un uomo non piangi, non sei debole, ma vedi i problemi e li risolvi. Questa forza mi entrò dentro e mi aiutò tantissimo;
soprattutto mi aiutò, e mi aiuta ancora oggi, il rapporto che ebbi con
Isaia Loonkama, ex capo di tutta la comunità Maasai ed ora nostro collaboratore nella missione di Loitokitok. Isaia mi mise in forte crisi con
la sua umiltà e la sua forza, mi fece davvero capire tante mie debolezze
e paure.
La missione in Kenya mi fece sbocciare e quando tornai, la mia famiglia non mi riconobbe per quanto ero cambiato. È proprio vero che la
carità che noi abbiamo risolve la moltitudine dei mali, ed è proprio vero
che tutti possiamo avere carità, non è qualcosa di pochi eletti: anche
questa lezione me la diedero i Maasai. Alla fine della visita nella missione mi regalarono, tra le tante cose, un braccialetto con scritto Asante.
Io davvero non credevo di poter amare qualcuno, l’unica cosa che sen-
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tivo era che loro avevano amato me e quindi li ringraziavo tutti ogni
volta che incontravo qualcuno. Quando mi regalarono quel bracciale,
chiesi a Isaia cosa significasse la parola Asante, lui mi rispose: «Asante
vuol dire 'grazie'», poi mi guardò come solo lui sa fare, e mi disse:
«Grazie per l’amore che ci hai dato». Sentii per la prima volta nella mia
vita che anche io potevo dare qualcosa a qualcuno. E non è così solo per
me, ma per tutti gli esseri umani. E tutti voi, vi prego, amate. Amate,
perché la mia paura più grande è che di fronte alle difficoltà ci chiudiamo. La mia storia è testimonianza di come la carità che uno ha, nonostante tutti i limiti, ci riavvicina a ciò che siamo e alla nostra gioia. Nella
carità ci superiamo e guariamo. Per ognuno di voi che legge: non accettate che i bambini muoiano, coinvolgetevi! Date tutto! Amate tutti!
Amate voi stessi! È così che sorgerete come l’aurora e rimarginerete
ogni ferita. P. Angelo Benolli ha dato fondamento ad una vera e propria
cultura dell’amore, che ti fa vedere come andare dal tuo inconscio alla
missione. Allora fatemi un regalo: andate tutti! Nella missione troverete la vita come sta accadendo a me. L’ultimo degli ultimi, il pazzo, il
dannato, il disperato, quello che era andato via ed ora è ritornato.
La mia esperienza in Kenya fu davvero eccezionale, ma quando tornai
a Roma ricaddi nel vecchiume che mi ero lasciato alle spalle e che mi
portavo ancora dentro l’anima. Soffrivo terribilmente, ero solo come un
cane, avevo lasciato tutti e tutto: la schizofrenia era sempre più marcata
e netta e, mentre prima mi controllavo a parlare da solo in mezzo agli
altri, ora facevo sempre più fatica. Fumavo 40 sigarette al giorno, avevo
cominciato a bere da solo, non solamente in compagnia: in poche parole stavo andandomene affanculo definitivamente a soli 19 anni. L’unico
che in quel periodo mi stette vicino fu mio padre, che devo davvero ringraziare, perché mi diede una luce su come mi stessi chiudendo troppo
e avevo bisogno di relazioni. Ma a nulla sarebbe valso se non fosse arrivata di lì a poco quella che io chiamo la “telefonata di Dio”. «Ehilà,
Giacomone, che grande! Come stai?». «Bene P. Angelo, grazie!».
«Allora io sono a Nago e sto scrivendo il mio ultimo libro, quando vuoi
vieni su, sei invitato». Non me lo feci ripetere due volte, porca puttana!
Presi subito un biglietto per Rovereto, incoraggiato da mio padre e il
giorno dopo ero sul treno che mi portò su fino in Trentino.
Passai a Nago con P. Angelo Benolli circa 13 giorni… non so perché
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chiamò me... Mondo Solidale sono qualcosa come 2.000.000 di persone, davvero non so perché chiamò me, ma chiamò me. In seguito mi ha
spiegato che, conoscendomi, sapeva che avrei vissuto un contrasto tra
l’Africa e quello che vivevo, dunque mi chiamò a stare da lui, Dio lo
benedica.
Fui la persona che lo accompagnò per la stesura finale di quello che
sarebbe diventato “La Vita non si inganna”. Tutte le mattine mi portava
in un posto più bello dell’altro, mi raccontava della sua infanzia, mi
spiegava quello che stava scrivendo, il perché lo scriveva: io dentro di
me pensavo che c’era in ballo qualcosa di importante. Ogni giorno celebravamo l’Eucarestia, eravamo io, P. Angelo e Maria Frau, la signora
che lavora da anni in casa di P. Angelo come donna delle pulizie e che
mi conosce da quando sono nato. Ricordo che una volta, in una di quelle messe, ci spiegò il Padre Nostro solo a noi due, mi sentii davvero
parte di qualcosa di Cristiano per la prima volta nella mia vita. Quelle
montagne poi mi ruggivano dentro la mia unicità, me la ricordavano, me
la risvegliavano; nel Lago di Garda vedevo riflessa la mia vita che era
eterna e che percepivo ogni giorno di più.
Andò così fino a quando arrivò pure Daniela Fortini, tornata dal
Rwanda, e le cose cominciarono a prendere una piega diversa: non ero
più al centro dell’attenzione di P. Angelo perché ora doveva concentrarsi sulle missioni e, come ormai saprete, rivissi inconsciamente l’abbandono della mia persona e cominciai a chiudermi. Non reggevo il confronto con altre identità, ero troppo debole e quindi scomparivo. Non
solo, ma Daniela e P. Angelo cominciarono a richiamarmi perché fumavo. Ma non era tanto il fumo, P. Angelo e Daniela mi misero innanzi al
contrasto principale della mia vita: «lo vedi - dicevano -, tu parli ed hai
tutta la buona volontà di impegnarti e amare, ma concretamente ti chiudi, fumi, bevi, e non riesci a relazionarti, in questo idealismo stai ripetendo tuo padre dalla A alla Z». Questi sono i condizionamenti inconsci,
non è che capisci o sei cattivo col cervello, è un’esperienza sofferta che
viene riproposta con la vita, le forze della vita si bloccano e si va sulla
testa. Questa realtà è molto comune e siamo tutti chiamati a vederla in
noi e liberarci, altrimenti non può esserci libertà.
In tutti i modi, quello che dicevano era vero e, proprio perché lo era,
andai in tilt e dissi che volevo andare via da Nago, ma siccome manca-
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vano 3 giorni non lo feci: questa scelta cambiò la mia vita.
un giorno di fine agosto del 2008, dopo una delle ultime gite con P.
Angelo e Daniela sul monte Bondone, risalivo via San Vigilio che dalla
Chiesetta di S. Vigilio porta a casa di P. Angelo a Nago. Pensai di prendermi un caffè e poi mi sarei fumato una sigaretta. Presi quel caffè, ma
poi, non so perché, decisi che prima sarei passato in Chiesa e dopo avrei
fumato. Entrai in quel giorno di agosto nella Chiesa di S. Vigilio a Nago
e vi rimasi 5 minuti.
Mi staccai anche da P. Angelo, inconsciamente capii che le negatività
che avevo dentro erano troppo più forti di me e di P. Angelo, percepii
che c’era bisogno di una forza più forte di loro.
Adesso sono passati 2 anni esatti da quando sono entrato in quella
Chiesa e ho pregato Cristo: da due anni la schizofrenia non c’è più, non
parlo più da solo, non ho mai più sentito il bisogno di fumare, non mi
sono mai più ubriacato ed ora all’università vado come un treno.
Cristo, grazie alla mia lotta, alla mia luce sull’inconscio, all’aiuto di P.
Angelo, ha preso l’ultimo degli ultimi, che ero io, e mi ha fatto nuovo.
Ho lasciato tutta quella merda non perché lo volli razionalmente, ma
perché iniziai a risolvere in Cristo la mancanza di amore inconscia che
ne era la radice. Non fu un miracolo, ma una collaborazione mia con Lui
grazie alla cultura come vita che culminò in questa guarigione. Questa
realtà, vi prego, non pensatela eccezionale. L’ho scritta perché sappiate,
che, anche se siete sull’orlo della pazzia, il “Nuovo Sapere” sull’inconscio sviluppato da P. Angelo permette di fare luce su dove e perché soffrite e in quale modo uscirne insieme al Nuovo Potere di Cristo. Non
abbiate paura, non limitatevi! Dedico queste righe a tutti voi, perché
attraverso la mia storia sappiate che la speranza c’è, che la gioia è vera,
che la vita vince! Ed oggi nella proposta antropologica di P. Benolli ad
ognuno è possibile questo ed altro. Leggete i libri! Informatevi! Amatevi
e amate e ce la farete.
Tornato a Roma, fui salvato da P. Angelo per l’ennesima volta. Mi fece
capire che, se non mi impegnavo a dare testimonianza della mia guarigione, avrei perso tutto. Mi furono dunque assegnate le due missioni che
avevo visitato in Kenya; dopo un po’ pure la responsabilità dei donatori di Milano nel movimento regionale per portare tra i donatori questa
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esperienza di sviluppo di vita e missione.
Conobbi una ragazza bella, forse più della luce, la ragazza che cantava,
e canta, nel coro della messa e cominciammo a frequentarci fino a fidanzarci. Lei è stata la cotta più netta che mi sia mai capitato di prendere:
era bella come è bella l’aurora, ma la cosa che più mi piaceva era la
serietà con cui cercava la sua persona e la sua libertà. Quando l’ho conosciuta erano ormai 3 anni che era in cammino di sviluppo personale
della sua vita, sino ad arrivare alla missione in Africa ed in Italia. Dopo
aver conosciuto questa proposta culturale, infatti, era andata a vivere da
sola, mi raccontava sempre che questo le diede molta forza. Inoltre,
sempre in quel periodo andò per la prima volta in Africa e lì fu l’esperienza che cambiò la sua vita e che la spinse a dedicarsi a tempo pieno
alla missione, verso sé e verso gli altri in Italia Solidale.
Dio mi diede il centuplo di tutto, mi benedisse. Era cominciata una
nuova vita a 20 anni, mi sentivo davvero il mondo in mano…
Sfortunatamente, però, ben presto fu chiaro che puoi togliere un uomo
da Babilonia in 4 mesi, ma ci vorrà una vita intera per togliere Babilonia
dai nervi di quell’uomo. La Babilonia dell’aver cercato amore negli
uomini, nell’alcol, nella solitudine, nella rabbia, tutto il mio vissuto mi
era rimasto impresso dentro. Toglierlo di mezzo non sarà facile. Ho
impresse nella mente le parole di P. Angelo che dice: «i nervi inconsci
registrano tutto ciò che vivono e sempre lo ripetono se non si risolve il
male alla radice. Quindi, finché non è visto e risolto, il passato rimane
presente». Quante volte ho detto, innanzi a qualcosa che sapevo essere
deleterio, la maledetta frase: «Lo faccio, così potrò dire di averlo fatto e
non rimpiangerò di non avere l’esperienza di questa cosa. Tanto poi
quando cresco tutto andrà bene e mi pentirò». Nulla di più menzognero.
Tutte le esperienze non rispettose della mia persona le porto su di me, le
ripeto, e così sarà fino ad una completa risoluzione. Ricordo una volta
un mio caro amico mi mise la mano sulla spalla, stavo per dirgli di
toglierla quando ha iniziato a dirmi: «Giacomino mio, ho 40 anni oggi.
Sai quanti ne ho visti di miei amici dire “lo faccio, tanto per una volta
che vuoi che sia” e poi non tornare più indietro. La vita non perdona
amico mio, o si gode o si paga, ed il conto che presenta per come la si
vive non è mai scontato. Giòcatela bene». Credo che questo mio amico
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abbia ragione.
Ciò che segue è l’inizio del mio cammino vero. Non basta guarire, non
basta essere felici, finché non si risolvono i condizionamenti in Cristo
del tutto, li si ripeteranno sempre, non si avrà mai pace e la mia storia
mostra anche questo. Il cammino vero e serio per risolvere i propri mali
dura una vita, è lungo, difficile, non è di pochi mesi, come dimostra il
seguito della storia.
Viaggio
Andare via
Via dal mondo
Dileguare la nebbia del mio io.
Terre di fuoco attendono i miei silenzi
Nessuno sarà alla stazione
Nessuno piange mai
un fantasma che se ne va.
Ecco vita mia, io ti saluto
Volerò nell’oblio
E scardinerò la mia conoscenza
Mi tufferò nel fiume dorato del Sole
Scomparirà la mia invisibilità.
Forse piangerò le mie illusioni
Ma i loro corpi non piangeranno me
Ma le ricorderò perché nel mio viaggio ignoto
Al mio cuore mancheranno
Addio gente felice
Vado a cercare la luce
In un grido di Tenebra
Giacomo Fagiolini 31/12/2007
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CAPITOLO VII
IL NuOVO E IL VECCHIO
una delle cose che credo d’aver sperimentato nella mia giovane esistenza è che nel percorso della vita personale non devi mai dimenticarti da dove sei venuto.
Se sei venuto dall’inferno, non puoi pensare di portare un fuoco nei
polmoni e di non bruciarti. Alla fine del 2008 e inizio del 2009 la grazia fu grande: ero guarito, ero diverso e tutti lo vedevano. Mi riusciva tutto ed ero la persona più felice di questo mondo. Soprattutto
cominciai a frequentare una ragazza e le prime serate con lei me le
ricordo come speciali: non ero abituato ad esprimermi a pieno innanzi ad una ragazza, era per me una novità e glielo dicevo ed eravamo
felici. Io poi ero un fiume in piena: tiravo fuori tutta la mia esigenza
di scambi veri e autentici, ci divertivamo un sacco! La guarigione mi
rendeva più sicuro di me, non presentavo più maschere, ma esprimevo per la prima volta ciò che ero anche davanti alla ragazza che mi
piaceva. Avevo cominciato anche a suonare nel coro della Chiesa ed
anche lì fu una gioia, perché proposi delle mie canzoni che piacquero molto pure a P. Angelo. Tutto sembrava davvero andare alla grande, ma presto scoprii che, sotto spoglie di nuova veste, si celava il
mantello del passato che ancora era presente. Questa ragazza comin-
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ciò a sentire l’importanza per lei di esprimersi sempre di più, perché
non voleva essere soltanto una spettatrice delle mie manifestazioni, e
cominciò a lottare per partecipare attivamente anche lei: bello no?
Certo che è bello, ma io andai in fottuto cortocircuito del cazzo.
Voglio dire che, quando lei si esprimeva, mi sentivo friggere dentro,
mi sentivo male. Ricordo un giorno le chiesi se voleva uno strappo in
macchina, lei semplicemente rispose che no, voleva camminare: non
ci sono umane definizioni per descrivere la sensazione che provai.
Andai dove sono ora, a Santa Marinella, digiunai e pregai meditando
su che cazzo mi succedeva. Tornando per avere un incontro da P.
Angelo, avevo la situazione chiara e lui me la confermò: era la stessa identica fottuta dinamica, un bisogno di scambiare gigantesco, ma
un buco relazionale con mia mamma. Se non hai ricevuto l'amore di
una mamma, non puoi scambiare con una donna in maniera sana. Mi
riducevo inconsciamente a chiedere l’amore di mia madre a quella
ragazza, la quale, quando aveva espressioni sue staccate da me,
inconsciamente per me significava abbandono, significava che
“mamma” non era più con me. Questa era la radice della mia possessività nei suoi confronti e P. Angelo mi aiutò a capire che era lo stesso identico comportamento che mio padre aveva con mia madre e che
io avevo sofferto, introiettato, con cui mi ero identificato e che ora
riversavo nel rapporto con la mia ragazza. Quando il bambino non
riceve l’amore della mamma, non matura, si blocca e aspetta sempre
di riceverlo, non arriva quindi a relazionarsi con la donna da uomo
maturo, favorendone l’espressione, al contrario la “vorrà” tutta per
sé, per avere pace e l’amore che la mamma non gli ha dato. Così,
quando la donna si esprimerà indipendente dall'uomo, inconsciamente lui si infurierà, rivivendo e proiettando sulla donna la mancanza
della mamma. Questo facevo io ed era inconscio, non era un fatto che
controllavo ed alla fine mi staccai completamente da Dio e andai tutto
a ridosso della mia ragazza. Questo succede a moltissimi! Non pensiamo di poter amare noi stessi e l’altra metà se non abbiamo avuto
tutto l’amore giusto della mamma! È impossibile! Magari uno pensa
che ama, ma domina, è bloccato. Finché non si trova una relazione
completa con la madre che è Maria, non è possibile rispettare una
donna, anche se se ne hanno tutte le intenzioni: esperienza diretta. Per
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questo motivo, la mia ragazza soffriva, perché dicevo di amarla, ma
non sentiva il rispetto dovuto ad una donna, era solo una costante
richiesta di amore e attenzione. Lei soffriva maledettamente ed era
inconscio, lei lo realizzava e stava male, ma non era abbastanza forte
da prendermi a calci in culo come Cristo comanda.
Ripetevo la stessa dinamica inconscia che mi ha marchiato la vita fin
da infante, infatti, fino a quando fu così, fu un attaccamento ed una
forte dipendenza, ma quando venne fuori che anche lei aveva le sue
immaturità ed aveva la sua storia alle spalle, ripetei lo stesso classico
film della malora: mi chiusi totalmente e nemmeno me ne resi conto.
Non ci fu più verso per me di aprirmi in nessun modo, perché aveva
anche lei tradito le aspettative di maternità e relazione che sin da
bimbo cercavo di colmare nelle relazioni con le ragazze. La rabbia
nei suoi confronti era così inconscia e così profonda, perché proiezione di quella di tutta la mia vita, che non mi aprii mai più con lei. In
certi momenti arrivai fino a non riuscire più a guardarla negli occhi
per il dolore. Per far capire la profondità dei condizionamenti inconsci, mentre scrivo con questa coscienza quella rabbia è ancora tutta
dentro di me. Questa mia storia ci fa capire come o ci liberiamo dai
nostri condizionamenti inconsci, arrivando ad una piena maturazione
della nostra personalità, o non è vero che siamo in pace con noi stessi, che abbiamo la piena espressione della nostra vita e dunque, finché non siamo totalmente risolti, non è vero che riusciamo a vedere e
rispettare l’altro in un’autentica relazione d’amore. Quante persone si
dicono tali, ma hanno queste dinamiche dentro e sono gelose, possessive, ossessive? Io ho queste dinamiche dentro, ma tutti gli uomini
hanno le loro, in proporzione alla sofferenza che hanno vissuto.
Sennò perché il 50% delle famiglie salta e quelle che rimangono
farebbero meglio a saltare? Perché ci sono 340.000.000 di depressi,
perché 46.000.000 di aborti in un anno? O entriamo nel nostro inconscio oppure saremo sempre schiavi di questi condizionamenti personali e quindi relazionali. La mia esperienza poi dimostra che gli
uomini, per quanto belli, non possono darti l’amore vero che ripara i
mali: quello te lo dà soltanto Gesù e, nel caso della mancata relazione con la mamma, soltanto la Madonna, che è in grado di sanare certe
ferite. Ecco perché il libro è dedicato a Lei, alla “Vergine Madre,
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Figlia del Suo Figlio” come dice Dante, perché Lei è la sola in grado
di farci superare le mancanze della madre e ci rende uomini veri.
Maria ci conosce tutti intimamente e partecipa alla vita di tutti, se cercata con luce e rispetto, Maria ti svezza e ti fa crescere, ti aiuta a
diventare uomo. Non donne umane, ma solo Lei è piena di amore,
misericordia e pietà, ci fa diventare grandi e in grado di relazionarci
davvero con le donne e le donne con gli uomini. Altrimenti saremo
sempre schiavi e avremo sempre dentro il dolore delle nostre sofferenze.
Se questa era la situazione dell’amore e della coppia, anche al lavoro
le cose andavano maluccio. P. Angelo mi coinvolse negli audiovisivi
con molta speranza e puntando molto su di me, ma non riuscivo ad
essere concreto, non ero abituato ad una pianificazione, un impegno,
una realizzazione, quindi non ne venne fuori nulla. Lo stesso si può
dire nelle missioni che seguivo e nelle regioni coi donatori, l’impegno non riusciva ad essere concreto, dunque i frutti erano molto pochi
o nessuno. Dove non c’è amore, non ci può nemmeno essere carattere e palle nel lavoro. Se siamo disturbati nella personalità, non è vero
che riusciamo a ben lavorare e ben amare, magari ci sembra di riuscire, ma non ci siamo in realtà. Questa realtà non è solo mia, ma molto
comune in tutto il mondo e può essere risolta soltanto se liberiamo il
nostro inconscio dai condizionamenti con una cultura che li vede e li
risolve in Cristo, altrimenti continueremo ad essere sofferenti in ogni
nostra manifestazione ed in ogni ambito della nostra vita personale e
relazionale.
Provvidenza
una stella ti ho creato
Per bruciare del mio amore
Ma l’uomo non sa
La forza che ha
I miei uccelli sono ricchi
Hanno cibo, hanno nidi
Quando volano in ciel
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Mi glorificano
Rit.
Non avere paura di che cosa è il domani
Cerca prima il mio regno che è dentro di te… di te
Guarda i gigli là nel campo
Sono spogli ma i più belli
Quando volano in ciel
Mi glorificano
Rit.
Non avere paura di che cosa è il domani
Cerca prima il mio regno che è dentro di te
Se tu vivi la vita come io ti ho creato
Pace grazia e giustizia mai… ti mancheran.
(Elisabetta Sbrolla 20/12/2008, la prima canzone che ha scritto)
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CAPITOLO VIII
SCOPRIRE uN MONDO NuOVO,
uNITO E DAVVERO SOLIDALE
Mentre queste dinamiche prendevano piede, le grazie continuarono
perché fui uno di quelli che parteciparono al IV Meeting
Intercontinentale di Italia Solidale - Mondo Solidale a Nago, la città
natale di P. Angelo, per festeggiare i 50 anni del suo sacerdozio.
Ero parte di un qualcosa più grande di me: c’erano rappresentanti di
tutte le (all’epoca) 97 missioni solidali in Africa, India e Sud
America. C’erano rappresentanti di tutti i volontari donatori da tutte
le regioni italiane, 2 Vescovi e 20 Congregazioni rappresentate. Si
toccava l’unione di tutti, forgiata dall’esperienza dell’unicità di ogni
persona con Dio e la lotta per liberarsi ed arrivare dall’inconscio alla
missione verso i fratelli. Veniva esaltata la diversità nella comunione
di identità, espressa ognuna in modo unico e irripetibile. I
Karimojong saltavano insieme agli Indiani, i Sudamericani ballavano
con i Maasai e gli Italiani. Tutti uniti dalla vita in loro e la lotta per
salvaguardarla, nelle diverse realtà. Fu epico. P. Angelo diede il
meglio di sé, offrendo un completo fondamento della sua esperienza
culturale innanzi ai rappresentanti di tutto il mondo, i quali parteciparono in modo unico, personale ed irripetibile.
A luglio di quell’anno poi, P. Angelo andò prima in Rwanda, dove fu
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invitato da uno dei due Vescovi che partecipò a Nago, per dare una
conferenza su “L’Io Potenziale come processo di guarigione e riconciliazione”; dopodiché andò a Moshi, in Tanzania, per un meeting di
tutta Africa Solidale. Quel meeting fu la prima breccia che scavammo per aiutare con competenza l’Africa verso un vero e proprio sviluppo di vita e missione. In Africa gli aiuti erano cominciati molti
anni prima e quasi subito ci rendemmo conto che l’impostazione assistenziale di fornire tasse scolastiche e cibo non era valida, anzi la
gente continuava a soffrire e la mortalità infantile a lievitare. Come
detto, torno da due mesi di missione in Kenya e Tanzania, dove questa realtà l’ho toccata con mano. una volta siamo entrati in casa di
una famiglia a Kilema, nel Nord della Tanzania, ed abbiamo visto che
questa famiglia aveva ricevuto una casa in muratura molto grande da
una ONG molto valida. Vedendo però la moglie, mi sembrava davvero stanca e le ho chiesto il perché. Mi ha risposto che aveva da lavorare con le mucche, poi con i conigli, poi doveva pulire la casa, poi
doveva preparare il cibo, accudire i bambini, ecc. Quando le ho chiesto se il marito l’aiutava, ha risposto che lei un aiuto glielo chiede
sempre, ma lui risponde che sono affari suoi e va a bere con gli amici.
Quando poi torna a casa completamente ubriaco, se non trova cibo
picchia tutti, moglie e figli; ma anche se lo trova, spesso lo getta a
terra e picchia tutti ugualmente. Il 90% delle famiglie in Africa vivono situazioni di questo tipo, da 20 anni sono assistite, ma non si risolve un bel cazzo di niente, anzi la mortalità infantile è aumentata. La
cosa che si fa in questi casi è sostenere i bambini ad andare a scuola,
ma le scuole spesso vengono bruciate dai ragazzi e sapete perché?
Perché invece di valorizzare l’espressione creativa dell’alunno, lo
inquadrano in uno stereotipo che maciulla e spesso non favorisce lo
sviluppo della sua identità: spesso quei ragazzi tutti vestiti uguali
sembrano dei fottuti robottini che dicono tutti sempre le stesse cose
senza un briciolo di personalità. I migliori lo sentono, si ribellano e
bruciano le scuole, anche se sbagliano, però sono meglio di quelli che
rimangono lì a farsi intontire, come se parlare l’inglese fosse la soluzione a tutto. Infatti la madre di quella famiglia non sapeva come
spiegare che i suoi due ragazzi, nati normali, col passare del tempo
con un padre così, nonostante la casa e la scuola, erano diventati tutti
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e due come handicappati. Questo esempio dimostra come, se non si
va in completezza in profondità a questi mali, non risolviamo i problemi dell’Africa, aggraviamo solo la situazione.
Italia Solidale, nelle persone di P. Angelo Benolli e grandi missionari come Marco Casuccio, Daniela Fortini, Daniela Gurrieri, Marco
Tedeschi e altri, da subito si resero conto di dover impostare, attraverso la cultura di vita proposta da P. Angelo, un discorso di sviluppo di
vita personale delle famiglie che arrivano, vedendo e risolvendo i loro
problemi personali, alla pienezza personale e relazionale dell’amore
e poi, con il prestito dei volontari donatori italiani, ad un lavoro in
attività generatrici di reddito, per poi arrivare alla missione coi bisognosi vicini e lontani. Marco Casuccio e Daniela Fortini, dove vai vai
in giro nelle missioni in Africa di Italia Solidale, se li ricordano tutti.
Hanno girato tutte le collaborazioni, una per una, per almeno 7 anni,
cercando di dare una testimonianza personale di questa cultura che
poi servisse agli Africani per partire in comunione con volontari locali e preti del posto, ed arrivare alla gente con questa proposta e questo spirito. In Kenya spesso hanno avviato grandi lavori e anche altrove; purtroppo però alcune persone, a volte anche preti, si presero
gioco di noi, dei bambini, delle famiglie e di Dio, non impegnandosi
davvero in questo cammino, e noi non ce ne accorgemmo perché
rimanevamo in superficie, non entrando in profondità nei mali del
continente nero. L’Africa da fuori, se non la conosci, ti sembra un
posto bello, dove c’è molta unione tra le famiglie e tra i parenti, ma
se davvero vuoi aiutarla, devi andare fino in fondo e scoprire le sue
piaghe nascoste. Ed è quello che Marco, Daniela, P. Angelo e altri iniziarono a fare grazie ad alcuni grandi missionari locali che ci illuminarono come Caesar Kachungumbe e Charles “Solidale” Odongo
dall’uganda, James “Babu” Ndirangu e Michael Emuriah Locheriang
“Michele” dal Kenya ed altri da posti diversi.
Loro rimossero il velo incantatore di Maya e ci aiutarono a vedere la
realtà.
Moshi fu il primo meeting in cui davvero toccammo le radici dei condizionamenti in Africa e demmo una svolta radicale nelle missioni. P.
Angelo non fece teorie, ma, attraverso testimonianze di vita vissuta
da Rwanda, uganda, Kenya, Etiopia, Tanzania, Centro Africa e
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Sudan dimostrò agli Africani le radici delle loro bellezze e delle loro
miserie.
In Africa quando il bambino nasce non è considerato una persona
unica e irripetibile, esso è del clan, è proprietà del clan. Il clan è formato dai parenti del bambino da parte di padre e sempre fa capo ad
una persona ed un consiglio di anziani. Essi prendono le decisioni per
tutti e poi vengono imposte al resto del gruppo che, volente o nolente, deve eseguirle e viverle. Il bambino addirittura in alcune tradizioni, come quella degli Akamba dove lavoro io, non esiste finché il clan
non gli dà un nome. Questo comporta la perdita dell’energia personale nel clan sin da subito, appena nato, e come disse P. Angelo a
Moshi: «In questo modo non c’è sviluppo dell’identità personale e
quindi c’è passività e violenza». In modo particolare per i maschi, il
bambino rimane immaturo, non si sviluppa tanto da relazionarsi con
il diverso da sé, ossia con le donne, e non riesce ad avere un’indipendenza ed una creatività nel lavoro. Questa è la radice della totale mancanza di rispetto verso il sesso femminile che il piccolo svilupperà
crescendo, che è propria di tutte le culture africane. La donna è in
quanto produce figli e per il clan è importante solo perché permette
di accrescere il proprio potere, avendo la possibilità di procreare
maschi, per combattere o lavorare, e femmine, per far sposare e così
ricevere la dote in mucche. A Moshi uscì fuori come il potere del clan
è più importante della persona singola, perché “Io sono se noi siamo”,
e come la donna è molto meno importante di una mucca, ma è solo un
mezzo per arricchire il potere del clan, nell’avere quindi tante mucche e far nascere giovani guerrieri. Ora, siccome più donne hai più
figli hai, il clan incoraggia la poligamia: cioè spinge l'uomo a sposare da due a dieci o anche più mogli; una pratica ancora molto comune in tutta l’Africa. In una famiglia poligama non c’è relazione tra
l’uomo e le donne, addirittura l’uomo passa gli alimenti alle mogli
attraverso la madre, perché c’è un'inconscia incapacità di reggere
l’espressione del diverso. Ricordate me con la mia ragazza? Lo stesso, ma amplificato da tutta una tradizione spesso molto radicata nella
gente che ti dice che questo è giusto. In queste famiglie poligame,
l’uomo spesso muore perché esaurisce le sue energie sessuali in relazioni con tutte le mogli, ma senza amore e rispetto, ritrovandosi poi
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senza forze nell’affrontare l’attività lavorativa. Le donne poi sono
oggetti completamente sottomessi ai mariti: per esempio nella cultura Maasai una donna, che sia di famiglia poligama o monogama non
ha diritto di parola e non può mangiare innanzi al marito. Se parla e
dice la sua, il marito la deve picchiare per il bene suo e di tutta la
famiglia, è così che funziona in certe tribù in Africa. L’uomo è il
padrone della casa e non può essere mai contraddetto, altrimenti sono
botte, tiene tutti sotto di sé e, quando qualcuno si ribella diventa spesso violento. Le donne per disperazione spesso si coalizzano contro la
più debole delle mogli ed i suoi figli; questo a volte può condurre la
poverina a fuggire dal clan paterno, lasciando i figli in quell’inferno
dove, senza la mamma, verranno maltrattati fino alla persecuzione e
trattati da schiavi dall’intera famiglia. Altre volte le donne si suicidano oppure impazziscono per tanta sofferenza, ma, visto che sono da
secoli dipendenti dagli uomini e da questa struttura mentale, non riescono a ribellarsi e subiscono, magari pregando Dio, ma invano. Dio
senza di noi non può proprio fare nulla, perché vuole la nostra attiva
partecipazione.
Questi uomini, inoltre, così poco indipendenti e maturi, nel 90% dei
casi non si esprimono in nessun lavoro di sussistenza e servizio, perché la forza e l’energia necessarie per questa espressione viene dall’amore e loro così sofferenti non possono averla e si riducono ad
essere dipendenti dal clan, dal bianco o dal governo. Questa mancanza di creatività con radice nel clan è la base del sottosviluppo africano sotto gli occhi di tutti. Io lavoro a Chumvini, vicino Taveta nel Sud
del Kenya. Lì la gente da 70 anni piagnucola perché dice che non
piove ed è una zona semiarida; ma, se si va un po’ in giro, si può
vedere che ci sono 3 laghi e diversi fiumi con acqua limpida e la terra
è molto soffice e fertile, perché a non più di pochi metri nel sottosuolo ci sono molti fiumi sotterranei che vengono dal Kilimanjaro. Il
governo giapponese ha fatto un semplice sistema di irrigazione e tutto
nella zona del progetto è diventato verde. Nelle zone dove non l’ha
fatto, però, la gente piagnucola perché è semiarido. Possibile che non
ti venga da scavare dei pozzi in 2000 anni, visto che la tua gente
muore? Possibile che non ti sia venuto di scavare semplici sistemi di
irrigazione naturale? Possibile che, se te lo chiedo, mi rispondi che
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aspetti che lo faccia il governo o che arrivino ancora i giapponesi?
Vedete come la dipendenza degli Africani, anche dai bianchi e dal
governo, è la causa della fame, e la dipendenza ha origine fondamentale nel clan che distrugge la persona ed impedisce ad essa di esprimere la creatività e la forza, proprie di tutti gli esseri umani.
Per questo gli uomini così deboli non lavorano e diventano un grosso problema per le mogli, perché il 90% va a bere in vere e proprie
comunità di alcolisti. L'uomo torna a casa ubriaco e fa un macello,
ingravida altre donne e va con le prostitute completamente ubriaco,
spesso portandole a casa innanzi alla famiglia, ed è così che si diffonde l’HIV. Immaginate un uomo che prende questo virus da una prostituta ed è marito di sette mogli e padre di 20 figli, che succede? Va
a finire che in poco tempo muoiono tutti di HIV e prima di morire lo
diffondono in tutto il villaggio. In mezzo a tutte queste sofferenze un
certo tipo di impostazione religiosa non sempre riesce a dare soluzione al male, anzi spesso ne è, ahinoi, promotrice inconsapevole, perché anche molti preti sono radicati moltissimo nel clan, bevono, con
i fondi dei poveri accrescono il loro potere e il potere del clan cui
appartengono. I fedeli cercano soluzioni da sé, ma non ne trovano,
nascono allora nuove Chiese e nuove credenze, ma questa falsa spiritualità non fa che accrescere il problema perché si pensa di stare con
Dio, però non si risolvono i problemi rimanendo in superficie. Allora
l’Africano si rivolge allo stregone per trovare una soluzione, ma
anche quella è un’altra piaga, perché rende la gente superstiziosa e
dipendente non solo non risolvendo, ma accrescendo il problema.
Devo però riconoscere che in Africa se c’è una speranza è nella fede
della gente in Cristo e nel ministero della Chiesa Cattolica. Ho personalmente incontrato molti Vescovi, tra cui sua Eminenza Cardinale
John Njue, primate della Chiesa Kenyota, e devo dire che ho sempre
trovato molto Spirito, concretezza e disponibilità per aiutare realmente a risolvere i problemi della gente.
Questa difficoltà di identità e quindi di relazione con il diverso poi si
estende anche a livello di tribù, per cui esiste molto forte il tribalismo.
Nelle tradizioni orali dei popoli pastori, come Karimojong, Maasai,
Pokot o Turkana, Dio crea le mucche solo per la propria tribù, quindi, se si uccidono membri che appartengono ad un'altra tribù e si
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prendono loro le mucche, non si commette un’ingiustizia, ma un atto
legittimo. Nella legge orale Maasai, se uccidi un altro Maasai sei un
assassino, se invece uccidi uno di un’altra tribù non lo sei. Questa
radice tribalista, che viene dalla perdita di identità nel clan, è il germe
da cui è nato il genocidio tra Hutu e Tutsi del Rwanda nel 1994 e tutte
le disastrose guerre tribali in tutta l’Africa. Il continente nero, inoltre,
è terreno fertile per i dittatori, perché le persone, quando il clan è
forte, tendono a non essere in grado di prendere una posizione diretta e personale contro le ingiustizie, ma a chiudersi nel gruppo e a cercare vie traverse di rivalsa, non prendendo direttamente posizione.
Questa è un’altra delle radici del persistere della stregoneria perché,
non riuscendo a prendere posizione personale, “cerco di vendicarmi
in un modo subdolo e vado dallo stregone a farti maledire”. In questo
modo, quando una persona violenta e autoritaria si mette sopra di
loro, il che succede spesso, non avranno la forza di opporsi e lo subiranno, anche perché inconsciamente lo cercano proprio loro qualcuno da cui dipendere completamente e che ripeta su larga scala il padre
di famiglia possessivo vissuto da tutti. Ecco spiegati Amin, Obote in
uganda e tutti i numerosi altri esempi. Inoltre, ad aggravare la situazione siamo venuti noi bianchi, magari con il pretesto di aiutare: in
realtà, essendo l’Africa molto ricca, abbiamo solamente sfruttato la
terra e le persone. Ed anche quando abbiamo voluto aiutare, siamo
stati capaci solo di creare nuova dipendenza da noi bianchi, che
veniamo percepiti come gente che non sbaglia mai, da cui dipendere
in tutto e per tutto, vista la deleteria e cieca assistenza per anni promossa e portata avanti, che non solo non ha risolto la situazione, ma
ha reso le persone ancora più dipendenti e passive. Il lavoro e l’indipendenza non sono favoriti neanche dalle grandi multinazionali di
europei e americani che sfruttano la terra e rendono le persone dipendenti, costringendole a lavorare a salari assurdi per 12 ore nei loro
stabilimenti, il che logora le energie personali della gente.
P. Angelo più volte a Moshi disse: «Come fa un bambino ad essere
felice in questo inferno? Come facciamo a salvare i bambini che muoiono in Africa se non interveniamo a questo livello?». Egli pose molto
l’accento su come Italia Solidale sta risolvendo molte situazioni di
questo tipo: è il caso di Charles Odongo da Pachwach Solidale,
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uganda. Se gli chiedi la sua storia, il vecchio Charles ti guarda negli
occhi per 30 secondi prima di iniziare a parlare e, quando lo fa, inizia sempre dicendo che ha 54 anni e per tutta la sua vita non è stato
mai amato. Nato da una coppia di genitori alcolizzati, in cui il padre
lasciò la madre quando era piccolo, crebbe con i nonni, anch’essi
alcolizzati. Ha gli occhi scavati e la voce profonda quando parla e ti
racconta come andasse ad elemosinare cibo dal vicinato, perché nessuno gliene dava, essendo troppo intenti in famiglia a bere e litigare
tra loro, invece di pensare ai bambini. La sua bocca s’incurva sfoggiando quel sorriso malinconico di chi prende coscienza di ciò che ha
fatto solo dopo, quando ti racconta di come “comprò” sua moglie per
due mucche. «Quelle due mucche - dice il vecchio Charles - erano un
simbolo che l’avevo comprata e che era roba mia».
Quando crebbe, anch’egli divenne presto un alcolizzato, infognato
nelle comunità di alcolisti di cui era pure presidente. Quando raccontò la sua storia innanzi a tutti, durante il IV Meeting di Nago, a questo punto della sua storia sbatté i pugni sul tavolo, si fermò 30 secondi prima di continuare a dirci di come tornava a casa ubriaco, ed
erano sempre botte per la moglie ed i bambini che “erano terrorizzati” da lui. E chiede scusa a tutti Charles innanzi a noi, marchiato da
una cultura e da sofferenze troppo grandi per vederle ed evitarle.
«Chiedo scusa per il dolore che ho provocato a mia moglie ed ai bambini». Ti racconta che, ancora oggi, se deve andare a comprare il
pane, ma quello del negozio è Acholi, lui non ci va, perché gli Acholi
sono la tribù che gli ha ucciso lo zio, l’unico che un po’ si preoccupava di lui. Poi però il sorriso torna sul volto, quando ti racconta della
visita di Caesar e Marco Casuccio del 2007 alla sua missione. Così
iniziò il percorso del vecchio Charles, prima nella sua storia: «Mi
hanno aiutato a capire da dove venivano i miei problemi, qual era la
radice profonda. Sono cresciuto in un ambiente di alcolizzati, l’alcol
era normale e lo era anche non rispettare mia moglie e i miei figli».
Poi sorride e ti sembra un bambino quando dice: «Mi sono messo
sotto, ho smesso di bere con la preghiera, mi sono impegnato e ho
detto a mia moglie che dovevamo parlare di più: la famiglia è cambiata per il meglio, ora posso dire di essere un padre». Ora posso dire
di essere un padre! Infatti i bambini di quella famiglia sono risorti,
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come anche la madre e Charles Odongo è uno dei migliori volontari
in assoluto dell’Africa, missionario e testimone non solo nella sua
zona, ma anche in tutta l’uganda.
Questa è solo una delle miriadi di testimonianze di sviluppo di vita e
missione con cui stiamo davvero risolvendo, insieme agli Africani, i
mali dell’Africa, ed in questo lavoriamo in comunione con molti
Vescovi e Cardinali africani, che hanno compreso la portata di questa
proposta e la sostengono.
Dopo il meeting di Moshi andai per la prima volta in missione da solo
con una ragazza che era la prima esperienza che faceva. Ero sicuro di
me, ma la situazione che vivevo con la mia ragazza non era serena: in
quel viaggio mi sono sempre sentito in difficoltà ad esprimere me
stesso come avrei voluto. Non entrai in merito ai problemi della missione se non in modo superficiale, non sostenni l’espressione della
gente, ma la incontrai esprimendomi solo io. Pregavo molto, ma in
realtà avevo difficoltà ad avere relazioni con le persone che mi
accompagnavano e spesso imponevo le decisioni e mi arrabbiavo con
loro che, da buoni Africani, facevano gruppo e si chiudevano nei confronti del dittatore inconsapevole, che ero io.
Questo dimostra l’eterna verità che, prima di andare in missione per
gli altri, devi essere in cammino tu. Io non ero libero, vivevo una
situazione non positiva e deleteria per me e per la mia ragazza, e
quindi, come dice spesso P. Angelo, “andai salame e tornai mortadella”, cioè non risolsi nulla nelle mie missioni, non vidi i seri problemi
da risolvere e li lasciai lì a vegetare e accrescere.
Tornato in Italia, andai in vacanza con la mia ragazza nelle sue
Marche, perché lei ci teneva a farmele conoscere. Andai, pregando di
amarla, ma fu un disastro. Inconsciamente ripetevo i condizionamenti di sempre: non la rispettavo e non riuscivo a vedere la sua grande
lotta per l’indipendenza dai genitori, né tantomeno riuscivo a sostenerla in questo; anzi, credo di essere stato uno degli ostacoli più grossi, nonostante io con la mente volessi amarla. Lo ripeto per tutti i lettori, nessuno potrà mai amare se non libera il suo inconscio dai condizionamenti di non amore, altrimenti il rapporto sarà sempre un proiettare questi sul partner e mai un vero amore.
Lei poi questo lo vedeva e ci stava male, purtroppo però non riusciva
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a venire fuori con la sua identità e darmi quattro calci nel culo per
aiutarmi, dunque ci falcidiavamo a vicenda. Questo è l’incesto: perdere se stessi per la relazione. Quante coppie sono così oggi e non se
ne rendono conto! Quante famiglie saltano perché alla loro base non
c’è amore, ma un reale proiettarsi addosso i condizionamenti inconsci e perdersi l’uno nell’altro! E continuiamo a pensare di stare tutti
bene, ma io dico che in Africa stanno molto meglio di noi che siamo
messi così!
Dunque, convinto di star in cammino per amarla, quando lei mi diceva che voleva prendere posizioni forti nei confronti dei genitori, io la
criticavo e le dicevo che doveva amarli, senza capire e vedere nulla
di come lei stesse cercando l’unica via per farlo veramente: cioè trovare la sua persona fuori da ogni perdita di essa e prima di ogni famiglia o relazione. Lei soffriva quando dicevo così, ma finì col non
prendere sufficientemente posizione nei miei confronti e quindi si
perse per relazionarsi con me, soffrendo davvero tanto, il che mi
dispiace davvero, ma era inconscio e soffrivo pure io.
Quando tornammo a Roma però, cominciò qualcosa che ci salvò la
pellaccia a tutti e due e non solo a noi, ed ancora una volta venne dal
prete del Trentino e dal Signore Iddio.
Volontari donatori
Il mio nome è Charles Odongo
Ed ero un uomo solo
Mio padre mi diceva
Che ero solo un debito
È grazie a gente come voi
Che ora so cosa è l’amor
Il mio nome è vagabondo
Niños Vagos
Quando mi hanno detto che
Esiste gente come voi
Ho lanciato un bacio al cielo
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A mia mamma e mio papà
In India tutto è così bello
Tranne la mia casta
Io non mi sentivo degno
D’essere umano
Ora carezzo mio figlio
Parlandogli d’amor
un giorno la maestra
Mi ha detto «Piccolo
Non esistono gli eroi
I bambini muoiono»
Io le ho detto che mio padre
È un volontario donatore
Le ho detto che per questo
Mio papà è un eroe.
Giacomo Fagiolini 12/06/2009
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CAPITOLO IX
LA LOTTA INFINITA
Quella benedetta riunione me la ricordo ancora come fosse ieri. Tutti
rilassati dopo l’estate e le vacanze, ci aspettavamo una riunione di
routine. P. Angelo Benolli in silenzio guarda uno a uno tutti i partecipanti: «Sì, allora, visto che muoiono 10.000 bambini di fame entro
dicembre se non ci diamo una mossa, dovremmo fare qualcosa.
Ognuno di voi dovrebbe fare, in 3 mesi, 150 adozioni incontrando
personalmente 300 donatori della propria zona di competenza». Non
mi ricordo chi rise pensando che P. Angelo stesse scherzando e venne
demolito dalle urla e dalle occhiate di fuoco. Il messaggio era chiaro
ed era reale: ognuno doveva fare 150 adozioni incontrando 300 donatori. Le sensazioni di quei momenti furono qualcosa di indescrivibile, ci buttammo a chiamare con tutta la forza e la volontà che avevamo. Intanto, la situazione con la mia ragazza era quella che era. Tutti
noi volontari profondemmo un impegno titanico per arrivare all’obbiettivo, ma nessuno riuscì. Era troppo e troppe erano le nostre
incompletezze. A me fu assegnato un bacino di 300 persone a Milano
e provincia, e, per grazia di Dio, fu in quel momento che una ragazza da Desio, Silvia, venne a fare un mese di volontariato in associazione e siccome, con il marito Ernesto già in cammino da anni in
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Italia Solidale, vive in Brianza, le chiesi di darmi una mano nella missione a Milano, nel chiamare i donatori e promuovere le adozioni.
Insieme a me c’era anche Francesca che avrebbe dovuto impegnarsi
in Milano Sud, mentre noi ci concentravamo al Nord. Purtroppo però,
non vedendola nel modo più assoluto e concentrato solo sul mio
obbiettivo senza vedere nulla e nessuno, chiamai pure i donatori del
Sud senza distinzione e questo creò confusione nel lavoro. Arrivato
ad un grande successo negli incontri di fine ottobre, quando insieme
a Silvia ed Ernesto incontrammo qualcosa come 30 donatori, siccome
la situazione che vivevo con la mia ragazza era sempre più precaria,
dopo quell’incontro mi sbragai. Mi venne in mente la cazzo di idea
maledetta di incontrare i donatori già incontrati invece di salvare i
bambini e mi scordai dell’obbiettivo, cosa tipica quando non c’è
carattere.
Inoltre, la mia ragazza finalmente stava trovando sempre di più le sue
forze nella missione nelle Marche coi donatori, e riusciva finalmente
a darmi quei famosi calci in culo, però io non mi rendevo conto di
quello che succedeva, finché arrivai io a dirle di lasciarci più volte,
pensando che fosse lei a sbagliare tra noi. In realtà ero io che mi ero
ormai chiuso del tutto e quindi inconsciamente le dicevo di lasciarci
come soluzione. Stava andando avanti così la storia, finché un giorno
qualcosa cambiò. L’anno prima infatti P. Angelo aveva sospeso gli
incontri per concentrarsi sui meeting da preparare e questo non mi
aiutò affatto perché persi la bussola da solo. Finché, arrivato ai primi
di novembre 2009, entrai nella stanza per un incontro con P. Angelo.
Capii subito che qualcosa non andava dal tono della sua voce, quando mi chiese: «Come va con la tua ragazza?». Santo Dio! Vi giuro che
ero convinto di avere ragione io quando gli dissi che, se non cambiava la lasciavo. «Questo è assurdo. Lei mi ha parlato, dice che sei tutto
su di te e non la vedi mai, e che lei non vuole farti da mamma». Mi
crollò il mondo addosso, non riuscivo a muovermi. «E il lavoro come
va?», continuò. «Beh, il lavoro…», balbettai qualcosa dicendo che
volevo incontrare i donatori che avevo già incontrato. «Lo vedi che
vai di qua e di là! Se c’è un obbiettivo, bisogna raggiungerlo e tu non
puoi andare di qua e di là!». Rimasi pietrificato. uscii fuori dalla
stanza e andai in Chiesa, piansi tutte le mie lacrime. Dopo quell’in-
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contro dovevo scrivere una lettera importante ad un Vescovo, rimasi
due ore davanti al computer senza poter scrivere nemmeno una riga,
ero in totale confusione. Tra un misto di lacrime, rammarico, rabbia,
umiliazione, vergogna, rassegnazione, ci fu una forza in me che mi
fece andare avanti. Organizzai subito un incontro a Milano per quel
fine settimana e fu uno dei migliori che abbia mai fatto. Chiamavo i
donatori e, mentre parlavo, porca puttana, dovevo frenare le lacrime
e la rabbia, ma chiamavo. A volte mi capitavano ragazze giovani al
telefono e andavo in tilt, mentre andavo in tilt, mi montava una rabbia inaudita, che non sapevo di avere, ed era quella rabbia a darmi la
forza di parlare. una volta una di loro mi snobbò, dicendomi che
aveva concluso l’adozione e che era seccata perché ancora riceveva
notizie dalla missione. «Ha comunicato a Roma che l’ha interrotta?»,
chiesi e lei mi disse di no. «E allora invece di arrabbiarsi con me
dovrebbe farlo, perché quella famiglia in Tanzania crede che lei ancora la sostiene». Le dissi ciò con una tale furia che la ragazza ammutolì. Chiedo perdono a Dio tutti i santi giorni per questa rabbia che
viene da lontano, ma non c’era solo rabbia, c’era anche forza, che
finalmente usciva fuori. Chiamai Francesca e le chiesi scusa di non
averla vista, la convinsi a continuare la missione e facemmo la prima
suddivisione di Milano in base ai cap postali, che fu rispettata rigorosamente. In questo stato di confusione, rabbia e crescita, devo ringraziare di tutto cuore l’anima meravigliosa di Ernesto e Silvia che in
quei momenti di tormento mi accolsero molte volte in casa loro a
Desio e mi aiutarono in modo molto valido e nella forza. Ricordo
Ernesto dirmi: «Giacomo, la tua ragazza ha ragione, coraggio! Noi ti
sosteniamo, ma lo facciamo nella forza, tìrati su, stàccati e facciamo
missione insieme». Sarò grato a quella coppia benedetta per tutta la
mia vita, al loro spirito, alla pace della loro casa. Dio li benedica per
quello che hanno fatto per me.
La mia ragazza prese una posizione netta e mi lasciò, che Dio benedica anche lei: fu un atto di amore nei suoi, ma anche nei miei confronti. Porto ancora al collo la croce che mi ha portato da Lourdes,
sapete perché?
Perché mi ricorda ogni momento che, finché cercherò la mamma in
una donna, anche solo un attimo, non la rispetterò mai, finché non
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conoscerò intimamente la Madre di Dio, non sarò un vero uomo.
Questo lo devo alla mia ragazza, le sono debitore: grazie a lei ho
potuto vedere la mancanza di mia madre e il bisogno di Maria. È uno
dei regali più belli che mi abbiano mai fatto.
Ogni giorno, tutti i giorni, come piace a me, facevo missione insieme
a Silvia ed Ernesto, fino a che, a gennaio 2010, partimmo per Kochin,
India. Ebbi la grazia di partecipare al meeting di India Solidale.
Preghiera di un padre (ad Alberico Cecchini, Simona e Carola)
Guarda come sei bello,
insegnando la vita al tuo papà.
In te rifulge oggi il Sigillo,
che bacia stupefatto la realtà.
Possa tu figliolo, non smarrirlo mai.
E possa per lui batterti, fino al bacio dell’eternità.
E verrà incontro a te, un Dio re
Offrendoti il sussurro del perché.
E verrà, inoltre, un pagliaccio
Che ti dirà di ridere di te.
Ma è già venuto, chi morì per te.
Possa la tua vita, offrirsi al Re dei re.
Io ti prego Dio mio, OLTRE ME
Che questa mia preghiera sia per Te.
Rispettoso splendi, per te e Dio
Allora sarai uomo, figlio mio.
Giacomo Fagiolini 20/12/2008
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CAPITOLO X
INDIA SOLIDALE
Andammo in India e per me fu come tirare il freno a mano e rifiatare
da quella battaglia appena trascorsa. L’India mi ha consolato le ferite, gli indiani mi hanno accolto come se fossi un loro figlio. Se c’è
una cosa che mi ha sbalordito rispetto all’Africa, è stata la quasi totale indipendenza nei confronti dell’uomo bianco che hanno in India.
Se tu cammini per le strade di una qualsiasi città indiana, loro non è
che ti ignorano, tutti ti salutano e ti accolgono, ma non con dipendenza come succede in Africa. Nessun indiano mi ha chiesto l’elemosina, vidi molta dignità. In questo ricollegai che, mentre in Africa subirono la colonizzazione in modo passivo, in India il Mahatma Gandhi,
insieme a tutto il popolo, rispose dando a tutti una lezione di cristianesimo e di civiltà, scacciando concretamente gli Inglesi dalla loro
terra senza dunque subirli, ma senza nemmeno colpirli, usando e praticando quella “non violenza” che entrò nella storia come una delle
più belle pagine dell’umanità. Questa è la radice indiana e infatti le
persone lì non ti colpiscono perché sei bianco, come fanno molti
Africani, ma nemmeno ti subiscono. Questa anima così pura ed in
contatto con Dio ha trovato poi in Luca Rando e Caterina Casarano
due grandi testimoni di vita, cultura e carità, che hanno davvero fatto
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un enorme lavoro culturale con le persone. La conosco molto meno
dell’Africa, ma da ciò che sò in India la società è strutturata in caste
permanenti che arrivano dal sacerdote all’intoccabile. Le caste più
basse non sono nemmeno considerate umane, gli intoccabili non li
registrano nemmeno all’anagrafe.
Il bambino soffre perché il matrimonio in India è combinato per evitare la pesante dote che la donna deve dare all’uomo quando si sposa.
Il clima in famiglia è spesso di non relazione tra i due coniugi, che
nemmeno si conoscevano prima di sposarsi ed i bambini ne risentono
enormemente. La donna, inoltre, anche qui è più un problema che una
persona, perché quando nasce una bimba sui genitori pesa l’onere
della dote per sposarla con qualcuno: la piccola crescerà con dentro
l’animo questo inconscio rifiuto dei suoi. Molti, infatti sono gli aborti di figlie femmine e molti ancora sono i casi di suicidio di ragazze,
le cui famiglie rinfacciano loro il problema della dote.
In tutto questo, come se non bastasse, le caste più alte e ricche schiacciano i più poveri, rendendoli dipendenti in tutto e per tutto, facendo
loro pulire le latrine o magari coltivare le terre per nemmeno un euro
al giorno. Queste sofferenze, che nemmeno il Mahatma era arrivato a
vedere, falcidiano l’India, ma il lavoro dei volontari di Italia Solidale
lì è immenso e testimoniato da miriadi di storie di guarigioni e riscatti, tra cui quella della prima comunità di sviluppo di vita e missione
di 5 famiglie a fare un’adozione a distanza intercontinentale.
Erano 5 famiglie intoccabili o delle caste più basse. Nella loro vita,
era sempre stato detto loro che non erano degni di essere persone
umane, che non potevano abitare al centro delle città perché avrebbero contaminato l’ambiente, che non potevano toccare o guardare
quelli delle caste più alte, perché li avrebbero sporcati.
Quando me ne parlò Luca Rando di quella gente mi disse che innanzi a loro era stato lui stesso a sentirsi intoccabile per la profonda
dignità che avevano.
Loro ti dicono che gli cambiò la vita il giorno in cui ricevettero
un’adozione a distanza a testa dall’Italia. «Quando ti dicono per tutta
la vita che sei spazzatura e poi un giorno arriva una suora con in mano
la foto di uno che dall’Italia pensa a te, beh, ti viene da dire che in
fondo in fondo proprio spazzatura non sei». Grazie all’amore dei
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donatori, queste 5 famiglie ebbero la forza di riunirsi insieme ed
aprirsi sulle loro storie e, con i libri di P. Angelo, trovare vere soluzioni ai loro problemi. «Cominciammo a sentirci per la prima volta
persone». Con il prestito del donatore poi attivarono ognuna un’attività di sussistenza e restituirono il prestito nel loro conto di comunità. L’attività andò bene, se non fosse che uno delle caste più alte,
messo profondamente in crisi, scaricò un camion di sabbia sul campo
coltivato da una delle 5 famiglie e davanti a tutti disse: «L’ho fatto
perché voi dovete capire che non siete degni di essere persone». Ma
gli Indiani non li butti giù facilmente e quella gente ha continuato a
lavorare, finché sul loro conto riuscirono ad avere un bel po’ di soldi.
Fu allora che dissero al prete che, siccome avevano ricevuto tanto
dalle adozioni, adesso volevano anche loro adottare un bambino
come comunità e lo fecero. Io ho personalmente visto quel bambino
e quella famiglia ad Ithanga, in Kenya. una volta fatta l’adozione,
uno di loro disse davanti a tutti, compreso quello che gli aveva scaricato la sabbia sul campo: «Vedete, l’abbiamo fatto per attestare chiaramente che non ci sono intoccabili davanti a Dio e che anche quelli
che voi ritenevate indegni di guardarvi sono stati capaci di salvare
una vita».
Questo è soltanto uno degli innumerevoli frutti di sviluppo di vita e
missione in India grazie a grandi missionari come Suor Mercy Itop,
morta da poco di tumore, alla quale va una preghiera speciale in questo momento, anche attraverso questo libro.
In Cristo ho trovato la vita
Non potevo levare i miei occhi
Ripudiato e deriso da tutti
“Non sei degno” dicevan “d’amore
Non guardarci o ci sporcherai”
una mano ha sollevato i miei occhi
Ho iniziato a guardare la vita
Perché in me c’è l’amore di Dio
Che sempre crea
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Ma era dura e profonda la lotta
Proprio dove ora vedo con luce
Io guarito ma non convertito
Il maledetto si beffa di me.
In ginocchio ti ho teso la mano
“Gesù Cristo se vuoi puoi guarirmi”
Compassione e misericordia
Col tuo sangue purificami
Io vi giuro fratelli e compagni
Che in quel mentre nel mio cuore
Germogliò un fiordaliso di luce
Della croce mi mostrò il perché
…
La cultura di vita ama
La cultura di vita libera
In Cristo ho trovato la via
In Cristo ho ritrovato la vita.
Giacomo, Betta, Sara, Davide, Luca, Mattia, Alessia. Maggio 2009
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CAPITOLO XI
LE 4 AREE
Il meeting in India mi toccò profondamente. Cominciai a capire davvero la mia ex ragazza e la sua scelta, cominciai così a comprenderne il valore anche per me.
Tornato dall’India poi, P. Angelo attuò qualcosa che aveva in mente
già da settembre, quando per far capire a noi la gravità della situazione che vivevamo, si ammalò per lo sforzo che fece. Quando guarì,
capii che non poteva lui sostituirsi a noi volontari, dunque cominciò
ad escogitare quello che attuò nel gennaio del 2010: la responsabilità
personale di ogni volontario sul suo bacino di 800 donatori, sulle sue
missioni, sul suo lavoro, sulla sua testimonianza culturale di vita e
missione.
Ogni stramaledetto mese dovevamo fare un preventivo di quanti
donatori avremmo chiamato, quanti incontrato e quante adozioni
avremmo fatto fare. Ogni mese si faceva un consuntivo di quello che
avevamo fatto, considerando che l’obbiettivo era in un anno incontrare tutti i donatori disponibili e promuovere almeno 200 adozioni perché altrimenti 15.000 bambini morivano solo nelle nostre missioni. Io
avevo, ed ho, la responsabilità di Milano Solidale e provincia, insieme a Francesca per Milano Sud, Silvia per Rho e Rescaldina ed
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Ernesto per la Brianza. Cominciammo ogni mese e fu un calvario.
Ogni giorno, tutti i giorni, da gennaio a maggio, chiamavo i donatori, ero solo, a volte mi veniva da piangere, ma davo un pugno sul
tavolo e chiamavo ancora. Pomeriggi interi così. Gli unici momenti
in cui vivevo davvero erano quando andavo a Milano per incontrare i
donatori: quella era l’unica boccata d’aria che prendevo. Poi si ricominciava ed ogni mese P. Angelo rincarava che i preventivi non c’erano e dovevamo recuperare. Fu dura, ma fu una Grazia di Dio perché
tirammo fuori tette e coglioni.
Alla fine però nessuno raggiunse mai il preventivo, finché P. Angelo
si disse “disposto ad accettare il fallimento spirituale”. Poi però qualcosa cambiò di nuovo. Verso maggio P. Angelo capì l’importanza
della semplicità per salvare i bambini e ci chiese semplicemente lo
“Stuzzicadenti”. Esatto, lo “Stuzzicadenti”: pregare, chiamare il
donatore, ringraziarlo per ciò che fa, fargli presente l’emergenza di
15.000 bambini che muoiono e dirgli di trovare un’altra persona che
adotti uno di quei bambini. Fare 10 chiamate così al giorno. Lo feci.
Sono orgoglioso di come Milano Solidale rispose alle 10 chiamate: io
non solo ho chiamato tutto il mio bacino, ma ho aggiunto anche
Lecco; lo stesso Silvia e Ernesto non solo hanno chiamato tutti i
Brianzoli, ma hanno aggiunto Como. Anche Francesca è andata alla
grande. Io stavo piano piano rifiorendo ed, in mezzo a tutto, mi sono
ritrovato anche in tempo con gli esami universitari!
Ricordo che capii l’importanza di chiamare i donatori dopo aver recitato un rosario con tutta la luce che avevo accumulato: così feci e
ancora oggi faccio almeno un rosario al giorno, perché, se non trovi
Maria, non ce la fai ad essere forte. Maria si prese cura di me e mi
portò gradualmente ad andare a vivere da solo, lasciando casa di mia
madre. Firmai il contratto il giorno in cui mia madre faceva una lezione sulla Vergine Maria e me ne andai di casa insediandomi nella
nuova dimora domenica 23 maggio, il giorno di Pentecoste, e non fu
una scelta mia.
Non solo io, ma tutti quelli che fecero le chiamate ne beneficiarono
enormemente a livello personale e relazionale; inoltre un sacco di
donatori fecero fare ad amici e conoscenti nuove adozioni. Lo
“Stuzzicadenti” funzionò. Sull’onda della Grazia di questo successo,
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Dio e P. Angelo stupirono tutti ancora una volta, chiamando anche
tutte le comunità del Sud del Mondo a fare, come comunità, un’adozione a distanza nei continenti fratelli. una comunità fa l’adozione,
ma la riceve anche. Così i 300 euro che partono rientrano e, senza
soldi, si crea un movimento di amore e di vita che ci riscatta da tutta
la falsità economica in cui viviamo. Queste e molte altre innovazioni
furono presentate da P. Angelo prima a noi volontari e poi in veste
ufficiale al Meeting in Sud America a Popayán in Colombia, per chiudere il cerchio della celebrazione del 50esimo di P. Angelo: prima a
Nago, poi con i donatori a giugno 2009, poi a Moshi, poi a Kochin in
India ed infine in Colombia a Popayán.
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CAPITOLO XII
CAPIRE, AMANDO, COM’È BELLA
*
LA LIBERTÀ
Popayán fu una meraviglia.
Fu speciale anche perché il Sud America è stata la terra in cui ha lavorato mia madre ed ero davvero curioso di vedere come se l’era cavata. Ancora ricordo P. Angelo riprendere tutti sullo spirito il primo
giorno; mi chiese: «Cosa hai capito vedendo le case della gente qui?».
Io risposi che avevo provato a vedere, ma non ho capito granché.
«Vuol dire che sei ancora troppo su di te; se non vedi la realtà della
dipendenza di queste persone, non sarai mai nello Spirito». Il meeting
fu bello e fece risaltare la grande sofferenza del popolo sudamericano che viene da un misto tra gli Indios sterminati dagli Spagnoli e i
colonizzatori stessi che, quando si trovarono senza donne in quella
terra, stuprarono o rapirono le Indios, dando vita all’attuale popolo
sudamericano. Ad essi si aggiunsero gli schiavi importati dall’Africa
perché, avendo ucciso tutti gli indigeni, non c’era più manodopera. Si
aggiunsero anche flussi migratori dai paesi europei, tra cui l’Italia.
Emerse dunque un popolo privo di radici e di identità, ma emerse
anche la grande fierezza e meraviglia dei Nasa, una popolazione indigena tra le poche ad essersi mantenuta non contaminata dagli
Spagnoli. In Sud America, essendo una terra abitata da molti discendenti di immigrati europei, la realtà ha delle similitudini con quella
*Il titolo di questo capitolo è tratto da un augurio di mio fratello Michele prima di partire per la
missione: «Giacomo, ti auguro solo di capire come è bella la libertà”.
Michele carissimo, ti abbraccio profondamente e ti ringrazio.
101
che può essere la nostra situazione occidentale, pur con tutte le profonde e sostanziali differenze. Le donne lì in Argentina a 15 anni sono
già incinte prima di un uomo poi di un altro, gli uomini a questo reagiscono in modo violento e picchiano le mogli. Il bambino cresce in
questa violenza immane e l’unica via di fuga della gente, sia donne
che uomini, è imbottirsi di droga fino a scordarsi tutto, non facendo
che alimentare il problema non risolvendolo.
Anche lì in Argentina il lavoro svolto dai volontari in questa nuova
cultura è grandioso e questa grandiosità non sono chiacchiere, ma
frutti di vita. Come quello che è successo in una comunità argentina,
dove una donna malata di tumore alla tiroide è stata sostenuta, come
mamma di una bambina adottata a distanza, ad entrare in una delle
comunità di sviluppo di vita e missione. In questa comunità, sostenuta dall’animatrice e dai libri di P. Angelo, la signora ha potuto non
solo esprimersi sui drammi esistenziali che visse e che viveva, ma ha
potuto capire che quel tumore veniva da un disagio di profondo attaccamento della madre nei suoi confronti. Così, con questa coscienza
sulla sua storia, il sostegno della comunità, la preghiera e la concreta
presa di posizione nei confronti della madre, adesso la signora sta
molto meglio ed è vicina a guarire completamente. Non solo, ma sta
anche aiutando a guarire un’altra donna con il suo stesso problema.
Questa è solo una delle miriadi di storie di riscatto in Sud America
che abbiamo sentito grazie al lavoro dei volontari di Italia Solidale.
Dopo il meeting mia madre ha continuato in Colombia con i miei fratelli, io invece ho visitato la collaborazione dove ho avuto la gioia di
parlare con Belén, la piccola della adozione a distanza che ora ha 15
anni. È stata una gioia poterci scambiare due parole e vedere che davvero l’ho aiutata.
Dopo questa visita sono tornato in Italia a preparare il viaggio missionario in Kenya che, adesso che scrivo, ho appena concluso e che è
stato una meraviglia.
Ciò che ho visto dell’Africa l’ho già riportato, posso solo dire che ho
visitato 1350 famiglie, incontrato 7 Vescovi ed un Cardinale, visitato
9 collaborazioni tra Kenya, Tanzania ed Argentina ed ho visto che,
ovunque, la gente con noi risolve i suoi problemi, sia in Africa che in
India, che in Sud America, che in Italia. Abbiamo iniziato il viaggio
102
nelle collaborazioni Maasai con Silvia e Suor Silvia Polidori, una
nostra missionaria in Kenya che viene da Grosseto. Dopo la 54esima
comunità Maasai visitata, l’ultima nella Maasailand, un giovane
moran (guerriero) di nome Meythiaki si è tolto un bracciale dal polso
e me l’ha dato dicendomi «Sei un moran ora». Il moran nella cultura
Maasai è la fase in cui il giovane da adolescente diventa uomo. I
Maasai mi hanno dato anche un nome molto significativo: Mengati,
che vuol dire “colui che ha ucciso un leone” e, se leggete questo libro,
capirete che non hanno tutti i torti vista la mia storia. Dopo i Maasai
ci siamo spostati a Kaloleni, un posto costiero dove Marco Tedeschi
ha fatto davvero un grande lavoro.
Dopo Kaloleni e l’incontro con l’Arcivescovo Lele di Mombasa è
venuta la Tanzania e la parte più dura del viaggio insieme ad una
volontaria, anche lei di nome Francesca, ed un altro ragazzo di nome
Diego. Dopo mi sono unito a Davide De Maria per visitare la rinata
Kiirua dove, grazie al lavoro di Alois, il ragazzo che sta sul posto, di
James Ndirangu, un grande missionario, e appunto di Davide, ora c’è
davvero un bel movimento e si sono superate tante difficoltà del passato. Dopo è stata la volta di Ithanga dove ormai molte delle famiglie
sono sussistenti, grazie ai prestiti economici, e sempre più entrano
nell’inconscio per liberarsi da ogni inganno della dipendenza, della
passiva attesa, della perdita della propria libertà per la famiglia, il
marito o il gruppo. Ad Ithanga ricordo nitidamente una donna malata
di HIV dare testimonianza: «Quando ho saputo di essere malata di
Aids, mi sono bloccata. Campavo con gli aiuti assistenziali ed aspettavo la morte. Quando però ho visto le mie amiche di sempre, con
l’aiuto culturale e concreto di Italia Solidale, liberarsi dai gioghi personali di dipendenza, prendere posizioni con i mariti violenti, emanciparsi ed essere sussistenti anche nel lavoro grazie ai donatori, qualcosa si è risvegliato in me. Ho detto agli altri che non volevo più un
soldo in elemosina, volevo i libri, una comunità ed un volontario
donatore che mi sostenesse. Ho iniziato a leggere i libri ed ho iniziato a capire che dovevo lavorare e mandare i miei figli a scuola con il
mio lavoro». Poi mi ha guardato dritto negli occhi e mi ha detto: «Sai
perché ho fatto questo? Perché sui libri c’è scritto che ogni persona
ha un valore enorme dentro che non svanisce mai e che tutto ciò che
103
viviamo si registra dentro di noi. Ecco perché l’ho fatto, io morirò
presto, l’Aids mi porterà via, ma ai miei figli rimarrà dentro che la
mamma non ha mollato». È stata una delle più immense lezioni di
vita che io abbia mai ricevuto.
Il viaggio è proseguito a Chumvini ed è stata una grande esperienza
per tutti, abbiamo anche trovato testimonianze molto profonde di cultura, vita e missione tra le 395 famiglie coinvolte. Ovunque chiedevamo alla gente di fare, come comunità, un’adozione verso un bambino di un altro continente, ed erano tutti disponibili ed entusiasti di
partecipare. Abbiamo visto in questo gesto l’enorme dignità e carità
africana. Dicevamo che i soldi dei donatori ora andranno direttamente sul conto delle 5 famiglie e che i prestiti non erano per assisterli,
ma per creare lavori creativi, con cui poi restituire il denaro nel conto
di comunità stesso e diventare sussistenti e missionari. È stata una
esperienza formidabile.
P. Angelo Benolli ed Italia Solidale con queste adozioni internazionali, che ogni comunità di 5 famiglie coinvolte con noi, sostenute dai
volontari donatori, attiva verso una comunità di un altro continente e
a sua volta la riceve, stanno attuando un’economia basata solamente
sulla carità oltre ogni menzogna economica. Come attesta il documento “Economia nel Carisma”: “Questa meraviglia di carità internazionale è già vera. Nasce dallo Spirito Santo ed è un’esplosione
internazionale di carità. Non solo, ma ha superato completamente
l’economia. Tale carità, infatti, sarà perpetua attraverso il ricevere e
il dare di tutte le comunità, senza che nessuno, anche economicamente, la debba interamente riprodurre. È un fatto dello Spirito perpetuo.
Infatti la quota di 300 euro che la comunità dovrebbe versare per il
rinnovo dell’adozione intercontinentale non è necessaria, viene compensata dall’adozione intercontinentale che riceve da un’altra comunità. Le adozioni intercontinentali continueranno sempre a collegare,
attraverso i bambini adottati, tutte le comunità nel Mondo Solidale.
Questo è un miracolo dello Spirito per la carità che supera l’economia ed è coerente con tutto il mio carisma di Spirito e Carità”. (P.
Angelo Benolli “Economia nel Carisma”). Davvero sia lode a Dio!
104
Il libro finisce qui, ringraziandovi se siete arrivati fino alla fine, con
un piccolo presente come piace fare a me: mi son permesso di comporre questo piccolo canto in onore della vita e della vita che c’è in
ognuno di noi, che spero e prego trovi presto piena e fruttuosa espressione come merita e come è.
Giacomo Fagiolini, verso Roma di ritorno dalla missione a Milano
27/3/2011.
Mi kha Eli? (Chi è come Dio?)
L’uomo leva il volto dalla terra
Passa la mano in viso a ripulire
D’un solco antico il sangue ch’ha sul labbro.
Il peso del respiro dentro il petto
Lo sguardo fisso verso l’angel miso
È trionfante Lucis Fero nel suo stare
E sfolgorante sfoggia il sembrar bello.
L’uomo ispira dentro ai suoi polmoni
Secolari parole di ricordi e pianto.
Ispira l’uomo e con lo sguardo alto
Gitta la voce fuori e così prega
“Mi guardi qui per terra dolorante,
Di tutte le ferite e sei orgoglioso
D’averne così tante provocate.
Hai sempre messo velenose spade,
In mano a padri e madri che poi ciechi
Incise hanno sui figli le ferite
Che loro stessi han dentro ereditate
Da secoli mi guardi e mi deridi
Come col contadin fa il cavaliere
E della vera vita sempre privi
Tutte le stirpi d’uomini ch’uccidi.
Allora angelo perso perché tremi?
105
Perché non è sicuro il tuo sorriso
Innanzi a un rovinato contadino?”
Lucifero sicuro in apparenza
Di dentro avverte gelo e tremebondo
Sforza il suo viso ad apparir sicuro
Nel seguitar ad ascoltare l’uomo
“Tu temi l’invincibile sigillo
Che Dio m’ha impresso dentro con l’amore
Che nonostante tutte le ferite,
Tu mai potrai stroncar, che sempre vive.
La somiglianza stessa che pur persa
Echeggia dentro te e non puoi ignorare.
Tremi perché sai che il Figlio d’uomo
Con la sua Croce ha tutto fatto nuovo.
Ed ora che t’ho visto angelo miso
Dentro all’inconscio e dentro il non amore
Col sangue mio nel Cuore del Signore
Tu sai che posso metterti a tacere.
Colpisci angelo rio, colpisci ancora
Ma sappi che per quanto duramente
Tu colpirai non saremo mai domi.
E verrà il giorno in cui come sta scritto
La morte svanirà e con lei il tuo grido.
Col nuovo intender dentro all’incosciente
Con Gesù Cristo Dio ed il suo perdono.”
E mentre l’uomo prega in questo modo
Dietro di lui Michele spiega l’ali
E sorridente verso Lucis Fero
Parla e ricorda il sempiterno detto
“Lo vedi, falso re, re dell’oblio
Chi come il Creator, chi è come Dio?”.
106
107
SOMMARIO
PREFAZIONE
5
INTRODuZIONE
7
PROLOGO
10
CAPITOLO I: CONCEPIMENTO,
NASCITA ED INFANZIA
Atlante contro il cielo
13
20
CAPITOLO II: DAGLI 11 AI 14 ANNI
Sii come sei
23
31
CAPITOLO III: LA MIA ESPERIENZA
NEL MONDO DEL CALCIO
33
CAPITOLO IV: IL BIENNIO LICEALE
Altro Posto
37
41
CAPITOLO V: LA CITTÀ DOLENTE
L’uomo di tutti e l’uomo di nessuno
44
53
108
CAPITOLO VI: ESODO
Viaggio
55
67
CAPITOLO VII: IL NuOVO E IL VECCHIO
Provvidenza
69
72
CAPITOLO VIII: SCOPRIRE uN MONDO NuOVO,
uNITO E DAVVERO SOLIDALE
Volontari donatori
75
84
CAPITOLO IX: LA LOTTA INFINITA
Preghiera di un padre
87
90
CAPITOLO X: INDIA SOLIDALE
In Cristo ho trovato la vita
92
94
CAPITOLO XI: LE 4 AREE
97
CAPITOLO XII: CAPIRE, AMANDO, COME È BELLA
LA LIBERTÀ
Mi kha Eli? (Chi è come Dio?)
109
101
105
Ringraziamenti:
Grazie Dio per la vita, per Gesù, per lo Spirito. Grazie per P. Angelo.
Grazie alla Signora Maria da Nazareth, Madre di tutti noi.
Grazie P. Angelo per tutto ciò che hai fatto per l’umanità e per me. Tra le
tante cose, grazie anche per il messaggio che apre il testo.
Grazie mamma per la vita che mi hai dato e l’esempio.
Grazie a Betta per avermi aiutato.
Grazie a Ernesto “Mahatma” Giannetta per i preziosi consigli, per la lima
sul testo che mi ha aiutato a rendere un po’ più leggibile il libro. Ma soprattutto grazie per avermi incoraggiato a metterci anche le mie poesie. Idea
sua che ho fatto mia.
Grazia a Germano per l’impaginatura e la meravigliosa veste grafica.
Grazie a Sara per il continuo sostegno e confronto.
Grazie ad Alberico Cecchini per i consigli, il sostegno e per come ha preso
a cuore il libro.
Grazie a Francescone Buda, Alessandra Manni e tutti i ragazzi che l'hanno
fatto diventare così bello. Ad Alessandra in particolare, grazie per la bellissima introduzione e la presenza sempre positiva ed intelligente.
Grazie a Corrado Rossi, Luca Rando, Davide De Maria, lo stesso P. Angelo
e tutti gli altri che hanno costantemente sollecitato la fine dell'interminabile fase di preparazione e ultimazione del testo.
Grazie a tutti davvero.
Grazie Maria, Madre di Dio. Amen.
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Finito di stampare in novembre 2011
presso la tipolitografia Grafica 2000 Srl
112