Bright Side La fine dell`eternita`

Transcription

Bright Side La fine dell`eternita`
Anno 2
N u me r o 1 7
S ka n
G e n n a io 2 0 1 4
La rivista
multicanale di
narrativa fantastica
liofilizzata istantanea
AMAZING
MAGAZINE
Bright Side
Fumettando con A. D'Agostino
Recensione di "Non prima che
siano impiccati" di J. Abercrombie
Intervista all'ASPIS
"Il Mangiateste" di S. Giorgi
Un'altra casa
Occasione
Go c c e d i lu p p o lo
I gabbiani
Fegato alla veneziana
N ASF ­ L e T re L une 7
Space Rats
Contenuto invisibile
Il risveglio di Erode
La macchina della realtà
Pianeta stregato
The Android's Dream
Arnisan il longobardo
I misteri di Samotracia
Il tempio della notte
U ltim a
Darkiss 2
d i J a c k ie d e R ip p e r
A
s
i
m
o
V
La fine dell'eternita'
oggi Avrebbe 94 Anni e
li porterebbe benissimO
Asimov Relaxing
d i M a r ia n n a B a ld u c c i
-1-
N o n pe r d e t e
i l n u m er o d i
F eb b r a i o
2 01 4
N el s eg n o
di un a
n u o va e r a
Sommario
del
Hanno collaborato L'editoriale ............................. 5
Jackie de Ripper
e
Max Gobbo
Roberto Bommarito
Mirko Giacchetti
Andrea Viscusi
Luigi Bonaro
Polly Russell
Leonardo Boselli
Christian Fedele
Andrea Atzori
Massimo Luciani
Riccardo Sartori
Martin Voigt
Marianna Balducci
Bright Side
di Jackie de Ripper
OLTREMONDO
Cartunia
Fumettando con A. D'Agostino
di Max Gobbo .............. 6
Cronache dell'immaginario
Un crudo e brutale proscenio
del fantasy epico targato
J. Abercrombie .................. 10
Due interessanti novità
da Delos Digital ............... 13
Anteprima di "Ultima"
da Dunwich Edizioni ....... 14
Una voce da Malta
Intervista all'ASPIS ......... 15
di Roberto Bommarito
Visti e letti da Giacchetti
Tredici omicidi .................. 22
di Mirko Giacchetti
Il Mangiateste (estratto) . 23
di Samuel Giorgi
Being Piscu
"Un'altra casa" ................. 26
di Andrea Viscusi
Guest Star
"Occasione"........................ 30
di Mirko Giacchetti
Poscritti di futuro ordinario
"Gocce di luppolo" ........... 32
di Luigi Bonaro
... e alla fine arriva Polly
"I gabbiani" ....................... 34
di Polly Russell
-3-
Cronache dal Multiverso
"Fegato alla veneziana"
di Leonardo Boselli ..... 40
Oltre lo Skannatoio
Le Tre Lune 7
"Space Rats" ...................... 45
di Christian Fedele
Nella pancia del Drago
"Contenuto invisibile alla
comunità non magica"
di Andrea Atzori .......... 48
I libri sullo scaffale
U. Moriano, "Arnisan
il longobardo" ................ 51
I libri da rileggere
G. Bear, "Il risveglio di Erode" .. 52
W. Gibson e B. Sterling,
"La macchina della realtà" ..... 54
D. Gerrold e L. Niven,
"Pianeta stregato" ......... 56
di Massimo Luciani
Il libro da tradurre
J. Scalzi, "The Android's Dream"
di Massimo Luciani ..... 58
Il venditore di pensieri usati
I. Asimov, "La fine dell'eternità"
di Riccardo Sartori ...... 60
Narrativa interattiva
"Darkiss 2"
di Martin Voigt ............ 62
Vale più di mille parole
"Asimov Relaxing" ........... 69
di Marianna Balducci
DARK SIDE ........................... 70
Sommario
del
Hanno collaborato Il Lato Oscuro
Sol Weintraub
willow78
Shanda06
(Alexandra Fischer)
White Pretorian
Polly Russell
Mark it zero
"Neve di sangue"
di Sol Weintraub .......... 70
Skannatoio edizione XXV
Dimenticare il futuro
Le specifiche ..................... 73
"Futuro prossimo"
di willow78 ................... 74
"La piastrella rotta"
di Alexandra Fischer .... 80
"Promessa da marinaio"
di White Pretorian ....... 85
"Non c'è più posto in cielo"
di Polly Russell ............ 88
"La stanza rossa"
di Mark it zero .............. 92
Speciale ventiquattr'ore
senza testa
"Destino"
di willow78 ................... 97
"Lo svago dell'una"
di Alexandra Fischer .... 100
Risultati e classifiche
Skannatoio 5 e mezzo ...... 104
-4-
Dark Side
S ka n
AMAZING
MAGAZINE
Dimenticare
il futuro
-5-
S ka n
Oltremondo
Cartunia
-6-
-7-
-8-
-9-
Skan Cronache dell'Immaginario
Oltremondo
La trama
Glokta l’inquisitore ha un
compito arduo da portare a
termine: riorganizzare le difese
d’una città su cui sta per piomba­
re come un branco di lupi un ne­
mico implacabile, e risolvere il
giallo della scomparsa del suo
sfortunato predecessore.
Intanto dalle oscure terre del
nord, un’orda sterminata guidata
dall’implacabile Bethod sta per
attraversare con le peggiori
intenzioni i confini dell’Angland.
- 10 -
di Saruman, ingaggiano epiche
lotte per assicurarsi il primato
della banalità.
Allora vien da chiedersi, dove ri­
sieda la ragione del grande
successo delle sue opere, che ne­
gli ultimi tempi non sembrano
voler più discendere dalle classi­
hi da un fantasy s’attende
mondi fatati, gnomi, folletti, ma­ fiche delle vendite, cui sono
ghi, guerrieri impavidi che vola­ giunte con sorprendete e irresi­
stibile rapidità.
no al salvamento di leggiadre
fanciulle; rischia di rimanere de­ Ma basta leggere qualche capito­
lo de Non prima che siano impiccati
luso, perfino frastornato dalle
, per farsi un’idea precisa della
storie di Joe Abercrombie.
Molto s’è scritto su questo giova­ sua potente vena narrativa e del
suo stile di scrittura decisamente
ne e brillante autore britannico,
innovativo per la letteratura
che alcuni hanno addirittura
Frattanto il primo mago Bayaz
fantasy.
paragonano al barbuto guru
guida un gruppo di guerrieri in
della fantasy statunitense George Abercrombie è crudo, financo
un viaggio denso d’insidie, fra
spietato, proprio come alcuni
lande desolate e antiche rovine di Raymond Richard Martin.
Paragoni e similitudini a parte, è dei suoi personaggi. Non teme
civiltà perdute.
indubbio che l’autore della trilo­ le forme del grottesco, né si pre­
L’appello dell’ardimentosa
occupa di ledere qualche cuore
gia de The First Law dispone di
pattuglia è presto fatto: Jezal
sensibile, magari troppo abituato
un notevole talento, che lo asse­
dan Luthar, il selvaggio Logen
gna con pieno titolo trai maggiori alla milleflua presenza delle
detto Novedita, la fascinosa ma
creature della Meyer.
scrittori fantasy contemporanei.
spietata Ferro Maljinn,
Si potrebbe dire che il suo stile
Certo, l’opera abercrombiana
l’apprendista stregone Malacus
è fantasy scorretto, una provo­
non possiede il fascino fiabesco
Quai e l’esperto navigatore Pie­
cazione alle immagini da sogno,
della Rowling, né il solenne e
delungo.
poderoso incedere narrativo e la e alle meravigliose atmosfere
cui indugiano molte opere
dimensione mitologica di
Così traversando deserti sconfi­
congeneri.
nati, foreste impenetrabili, picchi Tolkien (ma questo era fuor
Ovviamente la narrativa in esa­
strapiombanti e impenetrabili fo­ d’ogni dubbio), però si evi­
denzia per una certa originalità me abbonda da sempre di se­
reste in cui tengono mortale
e per uno stile di scrittura pecu­ quenze d’azione e di battaglia.
agguato torme di Gurkish
Pur tuttavia, a rubare la scena,
sanguinari, oscure maledizioni e liare che deborda dalla consue­
sono solitamente, il coraggio dei
tudine della narrativa fantasy
inconfessabili orrori, si dipana
tradizionale: e questo non è cosa buoni (che lo sono per davvero),
un nuovo e avvincente capitolo
della saga abercrombiana. Come di poco conto, in tempi di grave che tra l’altro in ossequio
e perpetuato conformismo lette­ dell’immagine sempre verde di
andrà a finire? Molte domande
principi sempre azzurri, sono
rario, in cui schiere di epigoni,
attendono risposte, misteri
insondabili d’essere risolti e peri­ da far impallidire per numero le belli come adoni e puri come
arcangeli.
gliose avventure d’essere vissute. feroci avanguardie degli orchi
Chiamato a far da barriera alla
terribile minaccia, è un esercito
male organizzato e inesperto alla
cui testa è l’inetto principe Ladi­
sla.
Un’impresa davvero disperata
per il colonnello West, un vetera­
no dalla mano ferma e rotto a
ogni esperienza sul campo di
battaglia; ma proprio per questo
dotato d’un realismo a tutta pro­
va, che lo spinge ad accettare fra
le sue fila scalcinate un manipolo
di audaci e feroci mercenari pro­
venienti dal nord.
Per farlo non occorre la magia di
Bayaz, né il cuore intrepido di
West, ma lasciarsi guidare dalla
penna sicura e truculenta
dell’autore.
C
- 11 -
Ma le epopee del padre di The
Heroes, che non è un sognatore,
un delicato celebratore di
virtutes immaginifiche e
bellezze classicheggianti; ma
semmai il sacerdote d’un rito
narrativo fatto di violenza e ve­
risimiglianza guerresca, hanno
il sapore del ferro e l’odore del
sangue.
I suoi eroi sono di frequente dei
personaggi spregiudicati, cinici,
spesso crudeli. Ma lo sono per
necessità. Se uccidono o
combattono, non lo fanno per
amor della bella morte o per tro­
var posto in un qualche
pantheon della mitologia nordi­
ca. Essi si battono e lo fanno
spesso, unicamente per so­
pravvivere, o per portare a
termine la loro missione.
Per questo sono meno valorosi?
Non credo, sono solo più reali­
stici, e irrimediabilmente umani.
Nulla a che spartire coll’invinci­
bile e ultraterrena inconsistenza
di altri protagonisti del genere,
più preoccupati delle loro pose
che delle lance del nemico.
Abercrombie è da questo punto
di vista un innovatore, e ciò ba­
sterebbe per renderlo degno
della nostra attenzione.
Riesce in molti casi ad essere
avvincente, ricorrendo talora a
scene dal gusto splatter, in cui si
ha quasi l’impressione cine­
matografica d’essere sul luogo
dello scontro, a pochi passi dalla
morte.
Inoltre lo scrittore di Lancaster,
ha il pregio d’una certa ironia,
anche se un po’ fosca e spesso
disincantata; e il dono d’una
chiarezza espositiva non orfana
di efficaci descrizioni e di
qualche digressione poetica pe­
raltro calzante.
Ad una più attenta analisi
sull’essenza del mondo creato
da Abercrombie, si scoprono
delle assonanze e dei profili ge­
netici (sul versante letterario),
interessanti .
Innanzitutto l’autore d’oltrema­
nica, si è preoccupato di donare
ai suoi personaggi un universo
mitico, ancorché realistico in cui
muoversi (un’operazione note­
vole in se). Così si viene a cono­
scenza di antiche maledizioni, di
civiltà scomparse, di imperi de­
caduti e sepolti dalle sabbie del
tempo.
Tutto ciò ricorda e da vicino, il
genere chiamato fantasy eroica, il
cui fondatore il grande Robert
Ervin Howard non disdegnava
affatto la brutalità e la forza fisi­
ca dei suoi beniamini.
Ciò in ossequio alla miglior tra­
dizione di certa letteratura ame­
ricana, e alle pubblicazioni
pulp alla Weird Tales, meno sofi­
sticate degli scritti di C. S.
Lewis, ma di sicuro effetto.
E qui ci sembra che
Abercrombie si inserisca in
questo solco, quello alla sword
and sorcerers; anche se molto
sword e poco sorcerers.
Fin qua i pregi d’un lavoro
certamente apprezzabile,
raccontato seguendo la formula
dello intreccio, con isolati ricorsi
all’analessi; ma che non è privo
di alcune pecche.
Accanto a certe sequenze un po’
prolisse, come quella
dell’interminabile viaggio del
drappello guidato da Bayaz, che
nello (schema stavolta classico)
del viaggio iniziatico, presenta i
vari personaggi anche nelle loro
psicologie, vi sono dei cliché
evitabilissimi.
Esemplare è il principe Ladisla:
il classico esempio di vanaglo­
rioso, viziato e imbelle rampollo
d’aristocratico lignaggio. Un
personaggio quasi banale e del
tutto prevedibile, di cui non
s’avvertirebbe certo la
- 12 -
mancanza.
L’altro elemento che a un lettore
attento, potrebbe risultare fasti­
dioso e di dubbio gusto, è la
scelta (ma qui potrebbe in parte
essere colpa della traduzione in
italiano) di termini troppo mo­
derni, considerando che a parla­
re sono persone vissute in un
imprecisato ma lontano passato
(difetto comune però a molti au­
tori anglosassoni. Ne sono osce­
ni esempi alcuni romanzi
sull’antica Roma , in cui par di
ascoltare due tassisti newyorke­
si in luogo di legionari e senato­
ri); e di cui sfortunatamente
anche Abercrombie sembra
affetto.
Valga per tutti un imperdonabi­
le ok, a pagina 107rigo V, tradu­
zione scellerata e anacronistica
del più elegante e british, “all
right”.
A questo punto, chi dovrebbe
leggere Non prima che siano
impiccati? Il libro naturalmente è
adatto a tutti coloro che amano
il genere, o che sono alla ricerca
d’una lettura avvincente e ricca
d’azione. Non mancano le
suggestioni legate a paesaggi
selvaggi e incontaminati, come
pure la descrizione dettagliata
di ambienti e personaggi, spesso
peculiari.
Non resteranno delusi gli
appassionati del ferro e degli
scontri all’ultimo sangue, che
non avranno di che lamentarsi.
Solo ci sentiamo di avvertire
quelle anime delicate, e gli esti­
matori della fantasy più eterea:
che nel mondo di Abercrombie,
non v’è traccia di gnomi e
folletti, i quali in caso contrario,
correrebbero il serio rischio di
finire nel menù di Novedita e
compagni.
Max Gobbo
S ka n
Oltremondo
Due interessanti
novità da
Un’antica costruzione celata all’interno di un
Uantichi,
na scoperta archeologica può far risorgere gli
oscuri, terribili, Grandi Dei?
Parigi, la Ville Lumière: splendida, luminosa, illuminista, modernissima. In superficie: ma sotto il livello della strada,
oscuri misteri richiamano l'attenzione del Circolo dell'Arca.
Uno dopo l'altro vengono trovati i cadaveri di un gruppo di
archeologi, appena tornati da una spedizione - apparentemente senza successo - a Samotracia. Manca all'appello il
capo spedizione, il misterioso dottor Eisner. Il sospetto è la
spedizione non sia tornata a mani vuote: ma che abbia portato
indietro qualcosa. Qualcosa che ha a che fare con un antico
culto di cui pochissimo è stato tramandato, il culto dei Grandi
Dei.
Roberto Guarnieri, classe 1963, è un ingegnere civile e lavora nell’Amministrazione comunale della sua città (Civitanova Marche). È appassionato di fantascienza, fantasy,
archeologia e tematiche sui misteri delle antiche civiltà
perdute. Ha pubblicato diversi racconti su riviste (Delos, Altrisogni, Writers Magazine Italia, Carmilla, Urania) e
antologie (tra le più importanti le serie 365 racconti e Il Magazzino dei Mondi, tutti della Delos Books, oltre ad altre delle
Edizioni Scudo). Ha frequentato nel 2012 un corso on-line di
scrittura creativa con Franco Forte. È stato finalista al Premio Blakwood Algernon 2012, al Premio Urania Stella
Doppia 2013 e al Premio della rivista Effemme 2013.
parco nel cuore stesso della città assediata da­
gli zombie nasconde un mistero terribile
Allo scoppio del morbo, Amelia si trova intrappolata
insieme ad Abhi nel tempio della notte, un’antica co­
struzione celata all’interno di un parco nel cuore stesso
della città assediata dagli zombie. Amelia nasconde un
segreto dentro di sé, un dono che, con l’aiuto di Abhi, la
porterà forse a svelare un mistero, quello del tempio
della notte. Qual è il significato di quella costruzione,
perché lei sente che è di così vitale importanza? Asserra­
gliati dall’orda degli zombie, Amelia e Abhi si ritrovano
coinvolti in una pericolosa ricerca, e non solo per salva­
re la propria vita…
Quinto episodio di The Tube: Exposed (racconti esposti al
morbo), collana spin­off della saga zombie The Tu­
be ideata da Franco Forte. Il tempio della notte è stato se­
lezionato nell’ambito del contest letterario sul forum
della Writers Magazine Italia fra le decine di autori che
stanno partecipando.
Ferrarese, classe ‘76, assicuratore, Diego Matteucci ha
pubblicato il romanzo horror Seguimi! (Editrice Clina­
men), la raccolta di racconti Lame nell’anima (0111 Edi­
zioni). Altri suoi racconti si possono trovare nelle anto­
logie Dodici Giovani Narratori Ferraresi (Este Edition),
nonché 365 Racconti Horror, 365 Racconti sulla fine del
mondo, 365 Storie d’amore e 365 Storie di Natale di
Delos Books.
- 13 -
S ka n
Oltremondo
Antepri ma
ULTIMA
EL PROSSIMO
NUMERO
OLTREMONDO
OSPITERA’
LUIGI MILANI
PER PARLARE
D'
HORROR
E PER L'EDITORE
DEL MESE ...
RACCONTATE DA
MAURO
SARACINO
- 14 -
S ka n
Intervista
all'ASPIS
Atlantide, Antico Egitto e le
nuove frontiere della ricerca
eterodossa: un'intervista ai
ricercatori Fabio Marino e
Pier Giorgio Lepori in occasione della nascita di ASPIS,
Associazione Scientifica per
il Progresso Interdisciplinare
delle Scienze.
Le nuove tecnologie, come
ogni altra invenzione umana,
sono una lama a doppio taglio.
La rete globale ha aperto illimitati orizzonti nel campo
della comunicazione. Al
contempo, però, forse mai come in questa fase della storia
umana la falsa informazione
Territori d'oltremare
Una voce da Malta
Ro b e r t o Bo mma r i t o
ha avuto tanto terreno fertile a
disposizione per crescere e
propagarsi. È proprio per questo che in occasione della nascita dell'ASPIS, Associazione
Scientifica per il Progresso
Interdisciplinare delle Scienze,
sono contento - e sopratutto
onorato - di ospitare all'interno
della rubrica Una Voce da
Malta gli stimati ricercatori
Fabio Marino e Pier Giorgio
Lepori.
RB: I vostri nomi sono ben
noti nel panorama italiano
della ricerca eterodossa. Ma,
per chi non vi conoscesse
ancora, che ne direste di presentarvi brevemente?
(oggi noti con il termine di
"E.V.P.") fin dal Luglio del
1977 con notevoli ed interessantissimi risultati, contempoFM: Certo! Prima, però, voraneamente interessandomi ad
glio ringraziare te e la tua ruUFOlogia e Clipeologia. In
brica per l'opportunità che ci
a pochi anni, avevo già
concedi con questa intervista. capo
una
vastissima
biblioteca
Sono nato nel 1964 e sono
comprendente,
ad esempio,
Medico, con formazione clas- tutti i libri del mito
degli anni
sica ma forte inclinazione
'70,
il
mai
abbastanza
scientifica, e fin dalla prima
Peter Kolosimo; un
adolescenza, grazie alla "cura" compianto
grande
e
notevole
impulso alla
di uno zio residente a Roma,
mia
formazione
specifica
e
ma con cui ho sempre avuto
alla
mia
visione
di
queste
telegami molto stretti, mi sono
matiche
mi
deriva
dall'Umainteressato all' "Insolito" in ge- nesimo Scientifico propugnato
nerale. Ho compiuto i miei pri- dai Grandi che, negli anni '70
mi esperimenti di registrazione e fino ai primi anni '90 del sedelle voci magnetofoniche
- 15 -
colo scorso, scrivevano da veri
Maestri sul "Giornale dei Misteri". Mi riferisco a personaggi del
calibro di Cassoli, Boncompagni, Conti, Sani, all'allora famoso Centro di Studi e Ricerche
Culturali di Prato (attivissimo
nel campo della Miracolistica) e
a tutto lo squadrone della
"Corrado Tedeschi Edizioni", di
cui possiedo l'intera "Biblioteca
del Mistero". Nel corso del
tempo, pur mantenendo il mio
interesse per il Paranormale, ho
spostato la mia principale
attenzione, per quanto riguarda il
campo strettamente hobbistico,
all'Astronomia (possiedo 6 telescopi e svariate attrezzature), e,
per ciò che concerne un'attività
più approfondita, allo studio di
ipotesi alternative allo sviluppo
storico convenzionale ed ortodosso, con particolare riguardo
all'Egitto (e alla sua preistoria) e
all'Archeologia biblica, ovviamente in un quadro sicuramente
eterodosso. Attualmente, oltre a
diversi gruppi Facebook sul tema, collaboro alle riviste digitali
"Tracce d'Eternità" dell'amico
Simone Barcelli e a "Signs" di
Roberto La Paglia; numerosi
miei articoli su fatti biblici di
presunta matrice clipeologica sono apparsi quest'anno sulla rivista cartacea "Xtimes".
PGL: Molto volentieri e sono
onorato io per lo spazio che mi
avete concesso. Mi chiamo Pier
Giorgio Lepori, sono un ricercatore indipendente, appassionato di enigmi che riguardano
il passato della nostra umanità.
Sul web forse è più noto lo pseudonimo ‘Archeomisterica’, con
il quale tengo conferenze – soprattutto in Biblioteca Zavatti a
Civitanova Marche – e firmo le
mie riflessioni. L’Eterodossia è
ciò che potrei definire la mia
‘ultima frontiera’, quella visione
dell’uomo improntata
sull’importanza rivestita dal Mito e da una concezione ‘circolare’ dell’esistenza, un processo di
corsi e ricorsi non soltanto intuiti
filosoficamente ma basati
sull’osservazione delle stelle,
primo ‘grande amore’ celeste
che ha arricchito la spiritualità di
un’umanità transitata dai miti
ctoni a quelli uranici, sulla Precessione degli Equinozi che i nostri grandi ‘maestri’ eterodossi,
De Santillana assieme a Von Dechend, hanno riconosciuto nel
linguaggio mitologico delle antiche civiltà. Siamo, sono
convinto, di non appartenere alla
prima grande civiltà tecnologicamente e antropologicamente
avanzata: noi siamo oggi ciò che
furono umanità scomparse ieri,
probabilmente cancellate da
cataclismi periodici che il Mito
chiama ‘diluvi’: in realtà sono la
normale ritmica esistenziale
della Natura, da immaginare come il tracciato del battito cardiaco su un ECG.
tando i Pink Floyd: "United we
stand, divided we fall". Sono
infatti convinto che, davanti alla
dicotomia facile creduloneria/scetticismo ad oltranza, sia
indispensabile mantenere la
barra a dritta per tutti i Ricercatori, indipendenti o no, che
siano realmente desiderosi di
trovare risposte, mai definitive
ma necessarie per il progresso
RB: Da quale necessità nasce
della conoscenza della Storia,
l'ASPIS e quali sono i suoi
nell'ambito non di astruse quanto
principali obiettivi?
improbabili teorizzazioni né
all'interno di gretta ottusaggine
FM: L'A.S.P.I.S. nasce dalla
volta a conservare l'esistente, ma
constatazione che, nel panorama utilizzando il pensiero speculatieterodosso italiano (ma non so- vo e l'analisi del Mito, fra gli
lo), esistono troppe iniziative lo- altri strumenti, come forma di
devoli, ma scollegate ed indivi- conoscenza volutamente traduali. Potrei riassumere la ragion smessa da parte dei nostri Anted'essere dell'Associazione cinati. Il tutto, ovviamente, in un
- 16 -
ambito strettamente scientifico,
con mentalità aperta, mettendo
in discussione molto dell'attuale
paradigma scientifico, sulla
scorta delle indicazioni, fra gli
altri, di Kuhn e Grof.
PGL: ASPIS è un progetto teso
a trasformare l’Eterodossia da
carnet disordinatamente pieno di
enigmi a un sistema di pensiero
strutturato secondo i canoni
della scienza ortodossa. Mi spiego meglio: accettare ad esempio
la tesi funeraria del complesso di
al-Jizah è una follia culturale ma
soprattutto un freno alla
comprensione di ciò che fu
davvero l’umanità in passato,
anzi: una certa umanità. Applicare il metodo lineare in ogni
angolo del pianeta o della Storia
è sinceramente un attentato al
buon senso. Provate a considerare il megalitismo: dove è possibile applicare la linearità progressuale quando la crasi tra
civiltà e cronologie profondamente diverse è sotto gli occhi di
tutti?
composito di origine greca ha il
significato di ‘retta opinione’;
Eterodossia, stessa origine etimologica, ha come significato
‘altra opinione’. Si tratta di un
punto di vista diverso, un panorama cognitivo che considera
l’evidenza dei fatti da un’altra
angolatura. In più ‘retta opinione’ è spesso confusa con
‘convenzione’: lì dove l’Ortodossia non riesce a dare una
spiegazione credibile, spesso se
la cava con un’imposizione gnoseologica. È questa una deontologia assai discutibile. Come dice il mio amico Fabio Marino
‘Eterodosso è colui il quale ha
visto ciò che hanno visto tutti
ma ha pensato ciò che nessuno
ha pensato’ parafrasando un
grande scienziato come Gyorgy.
massimo, penso che il neoevemerismo pecchi in primo luogo
sotto il profilo teorico, essendo
incapace, in realtà, di fornire risposte serie e convincenti. Limitarsi ad affermare che gli dèi
dell'Antichità, JHWH, Dio e un
po' tutte le altre divinità siano in
realtà degli alieni sbarcati da
chissà dove ha la stessa valenza
scientifica di affermare che l'asino un tempo volava. Nessuno
nota, ad esempio, che le manifestazioni di questi presunti alieni
sarebbero durate per millenni,
per poi sparire senza apparente
motivo; nessuno sottolinea che
non esiste alcuna costruzione
teorica credibile in grado di
spiegare, ad esempio, da dove
venissero e cosa cercassero sul
nostro pianeta. Anzi, a ben
guardare sembra quasi di rivedeRB: Una delle correnti più
re, in questi supposti alieni, noi
diffuse nel campo della ricerca
stessi, con le nostre medesime
alternativa è il neoevemerismo,
debolezze e cupidigie: che sia un
ovvero la tesi secondo cui le fifatto di proiezione, in termini digure sacre presenti nei testi sanamici? Per non parlare, poi,
cri siano in realtà entità aliene. delle cospicue aberrazioni
Iniziato negli anni '60, oggi –
linguistiche messe in mostra in
anche grazie a internet e protraduzioni "letterali" che sono
RB: Ci potreste dare una defigrammi televisivi come Ancient intanto assolutamente scorrette e
nizione della ricerca eterodosAliens di History Channel – il
del tutto inesatte (come ripetutasa?
neoevemerismo comincia a
mente dimostrato da molti, fra
prendere piede anche nella
cui, molto modestamente, Pier
FM: Molto in breve, penso che cultura mainstream. Esistono
Giorgio e me stesso), con
la migliore definizione sia para- però dei grossi problemi, per
l'aggravante di partire da posifrasare Albert Szent Gyorgy:
quanto riguarda il neovemerizioni preconcette (maldestra"Eterodosso è chi vede ciò che
smo, che purtroppo vengono ra- mente celate) sulla base di un
tutti gli altri hanno visto, e pensa ramente sottolineati. Vi
assai sospetto "facciamo finta
ciò che nessun altro ha pensato". andrebbe di illustrarceli?
che...". In questo modo si coPer quanto applicabile a molti
struiscono le favole, non le ipoaltri campi, è una definizione
FM: Sul tema ho scritto numero- tesi. Aggiungo, infine, che il
che mi piace molto!
si articoli e compiuto parecchi
Neoevemerismo non tiene in
studi, come Pier Giorgio, e il
minimo conto la possibile vaPGL: La scienza ufficiale è defi- mio sodalizio con lui è nato
lenza archetipica e psicologica di
nita Ortodossia, il vocabolo
anche su questo. Sintetizzando al certi racconti, sacri o no.
- 17 -
Insomma, nonostante il relativo
successo di questa "corrente di
pensiero", con buona pace di
Downing (autore, nei '60, de "La
Bibbia e i dischi volanti") e dei
suoi emuli non vi è nulla di serio
in tutto ciò. Diverso, invece, il
discorso per la Clipeologia.
PGL: ‘Mi rimetto alla clemenza
della Corte…’ (sorriso). Su questo argomento Fabio è molto più
ferrato di me; darò comunque la
mia interpretazione in tal senso.
Evemero da Messina, IV-III sec.
a. C., formulò un pensiero decisamente diverso e più credibile
su questa storia. In sostanza egli
affermava, con un agnosticismo
ante-litteram, la presenza in passato di uomini straordinari ai
quali l’umanità – ma soprattutto
il trascorrere del tempo (non
ultimi cataclismi di cesura sulla
continuità storica delle civiltà) –
tributò onori divini facendoli assurgere agli altari della devozione. Questa visione, oltretutto,
non è così distante da certa Eterodossia: il termine ‘giganti’ che
troviamo nel Genesi, ad
esempio, in greco è espresso come ‘oi ghigàntes’ alla lettera non
tanto ‘giganti’ (italianizzazione)
quanto ‘i più grandi sulla terra’.
Aggiungo: ad una più attenta
analisi etimologica scopriamo
che la radice gamma-iota o
gamma-eta fa da sostrato anche
ai verbi ‘ghignosco’ e ‘ghignomai’ (‘conosco’ e ‘sono nato’) e
di seguito al sostantivo ‘ghè’
(‘terra’). Il risultato è: ‘coloro
che erano nati sulla terra e possedevano la conoscenza’. I neoevemeristi alla Alford, Von Daeniken, Tsoukalos e non ultimo
Sitchin consideravano invece i ‘giganti’ come coloro
che ‘discesero dal cielo’: tra
traduzioni errate e interpretazioni personali potremmo
parlarne per ore… Inoltre la
paleostranautica, tranne
indizi basati sulla personalistica lettura di alcuni reperti,
non ha mai evidenziato prove definitive ma indizi probatori spesso deboli oggettivamente e interpretabili in
senso eterodosso come manufatti appartenenti a civiltà
scomparse che raggiunsero vette
cognitive tali da non invidiare
minimamente le odierne.
viltà rimandano, ad un'analisi
anche solo superficiale. Qui
stiamo parlando, insomma, di
un'epoca ben anteriore a quella
che noi immaginiamo, probabilmente dell'ordine di
RB: Uno dei temi che ha
grandezza di un Anno Platonico
sempre affascinato e continua
a 25.920 anni), che ha voad affascinare la gente è quello (pari
luto
trasmettere
se stessa attradi Atlantide. Da una prospettiva verso l'artificio del
Mito nel
eterodossa, a cosa si riferisce
corso
polveroso
dei
millenni
davvero il mito di Platone?
perché si serbasse memoria di un
passato che altrimenti non
FM: Bella domanda! La mia
avremmo mai nemmeno soidea, che credo di condividere
fondamentalmente con i membri spettato.
di ASPIS, sia che, in buona soPGL: Ad un continente perduto
stanza, l'idea di Atlantide, oltre
in epoca antidiluviana.
le indubbie stratificazioni arche- esistito
Addirittura
delle radici
tipiche, antropologiche e cultu- interpretativeadeuna
cognitive
rali, si riferisca alle reminiscenza dell’intera vicenda storica umadi una preesistente Civiltà Glo- na. Il problema maggiormente
bale, cancellata dal tempo e nel affrontato dall’Eterodossia per
tempo ben prima di quanto noi
giustificare una presenza insulaimmaginiamo. Troppi indizi,
in Atlantico è la tettonica a
infatti, conducono a due aspetti: re
placche:
questa teoria,
in primo luogo, la costante simi- figlia dellesecondo
Deriva
litudine di moltissime Civiltà del di Wegener, non viContinentale
sarebbe posto
passato, insieme al "corpus" dei per Atlantide nella Dorsale
meMiti, ben illustrati nel fondadio-atlantica.
Peccato
però
che
mentale "Mulino di Amleto" di
l’Islanda che non solo è
de Santillana e von Dechend; in esista
viva
e
vegeta ma è un prodotto
secondo luogo, la netta sensazio- del lavoro
effusivo, continuo,
ne di "retaggio" che molte Ci-
- 18 -
della Dorsale. E se vi è l’Islanda
non si possono escludere affioramenti insulari in epoche trascorse aggiungendo, oltretutto,
l’abbassamento del livello oceanico in epoca glaciale di circa
180 metri medi e il sollevamento
dei fondali ad opera del rimbalzo
isostatico dettato dai continenti
allora esistenti di gran lunga più
pesanti a causa di calotte da km
di permafrost che premevano sul
Mantello: fa circa 210 metri di
dislivello medi. Tivoli, l’antica
Tibur, rispetto al livello di Roma
(non più di 20 metri s.l.m.) si
trova a 235 metri d’altezza
s.l.m., oggi conta 60.000 abitanti
e in passato contrastò l’egemonia romana. Se tanto mi dà
tanto…
RB: Altro tema molto
coinvolgente è senza dubbio
quello dell'Antico Egitto.
distorsione di pratiche realmente
"vissute" in epoca remota, e
confusamente mantenuta nelle
pieghe di quello che noi chiamiamo "Mito". Le stesse Grandi
Piramidi di Gizah, poi, sono di
FM: Qui mi inviti a nozze, e ri- fatto impossibili da replicare con
schierei di dilungarmi eccessiva- la supposta strumentazione degli
mente. In ogni caso, la risposta
Egizi del III Millennio a.C., coè: "secondo i medesimi criteri di me indirettamente ha dimostrato,
Atlantide". Personalmente, per
checché se ne dica, il Progetto
esempio, ho analizzato, con gli
NOVA di un ortodosso come
occhi di Medico (quale in effetti Lehner. Per non parlare della
sono) un paio di elementi del
Sfinge, la cui costruzione va
Mito egizio: nello specifico, la
certamente retrodata, sulla scorta
cerimonia dell'apertura della
di oggettive analisi geologiche,
bocca e il mito di Osiride. In
di qualche millennio, un fatto
entrambi emergono, se si legge
contestato ormai solo da chi è
oltre le righe, il chiaro segno di abbarbicato ad una visione retriun racconto di chi vuole spiegare va e riduttiva della Storia
qualcosa che non capisce, e che dell'Umanità.
è correlabile a tecniche rianimatorie. L'ossessione tipicaPGL: Primo, in assoluto, contemente egizia per l'Aldilà e la Re- stare la presa d’atto che detta cisurrezione fa pensare alla
viltà sia nata già ‘vecchia’,
‘matura’. È sinceramente assurdo. Poi rivedere le tesi di
T.G.H. James sull’assoluta indiscutibilità dei culti solari
quando, testi di Unas in primis,
si parla di religione stellare e
pertanto molto più antica e adiacente al passaggio tra culti ctoni
e culti celesti. E perché non
considerare l’egittologa Jane
Sellers come ‘spina nel fianco’
dell’accademia? O Sir Edwards
a lungo direttore del British?
Personalmente seguo molto West
e de Lubicz poiché ho trovato riscontri qabbalistici e aderenti
alle culture mesopotamiche residenti a pochissima distanza
dall’Egitto. La strada è ancora
lunga…
Adottando sempre un punto di
vista eterodosso, come andrebbe
rivisitata la concezione che
abbiamo di questa antica civiltà?
RB: Quando si parla di preisto-
- 19 -
ria, la prima immagine che
salta alla mente è quella del cavernicolo che trascina per i
capelli la sua donna. Eppure la
realtà dei fatti potrebbe essere
molto diversa. Qual è l'evidenza
a sostegno della possibilità che
sia esistita una civiltà avanzata
antecedente quella storica?
FM: Praticamente ognuno degli
aspetti a cui ho fatto cenno in
precedenza. L'inimitabilità di
centinaia di monumenti, il "fil
rouge" che appare legare nello
spazio e nel tempo tutte le
grandi civiltà del passato, il
complesso dei miti e delle credenze condivisi, nelle linee generali e talora nei dettagli, dalla
gran parte dei popoli antichi sono elementi che introducono ben
più di un semplice sospetto sul
problema della effettiva esistenza di una Civiltà altamente
progredita alle radici del tempo.
E per progredita intendo un grado culturale, tecnologico e di
sviluppo globale almeno pari
alla nostra. Più probabilmente
superiore. A mio parere, il punto
non è "se" una simile Società sia
esistita. Il punto è "quando" è
esistita. E questa ricerca è, in definitiva, la ragion d'essere
dell'ASPIS.
PGL: ‘Horribile visu atque
dictu’ ma è la stessa Ortodossia
che fornisce un quadro chiaro
della preistoria in tal senso. I
ceppi umani nei precedenti 5 milioni di anni di storia non sono
mai stati assolutamente conseguenti l’uno all’altro bensì –
spesso – contemporanei. Questo
rivoluziona l’immagine a due di-
mensioni che va
dal Proconsul al
Sapiens: l’idea
reale di questa
avventura si
struttura su di un
piano tridimensionale in cui
è possibile
identificare periodi di convivenza anche superiori ai
100.000 anni come nel caso
Neanderthal-Sapiens. Purtroppo
la convenzione
non aiuta poiché diktat imposti
sulla considerazione del Sapiens
dovrebbero essere rivisti in chiave eterodossa. Sembra sia un divieto culturalmente strutturale.
ni del tempo. Capire e disvelare
questa necessità può rappresentare un fatto vitale per il prosieguo del cammino della nostra
Società su questo pianeta.
PGL: Tre sono le considerazioni
RB: Essenziale ai fini della rida fare: mito come fantasia, mito
cerca eterodossa è la
come visione dell’esistenza, micomprensione del mito. Cos'è il to come cover-up. Non è banale,
mito e in cosa consiste la sua
tutt’altro. Prendiamo ad esempio
importanza?
il più famoso tra i miti, il Diluvio. Qualora fosse una fantasia,
FM: Per come l'Eterodossia
bisognerebbe spiegare perché
interpreta il Mito, esso è
esso si moltiplica per oltre 500
null'altro che ciò che pretende di racconti in tutto il mondo tra ciessere: il resoconto semplificato viltà oggettivamente distanti tra
di un complesso sistema di coloro in termini temporali e geonoscenza, ritenuto indispensabile grafici; la visione esistenziale
per il genere umano. La sua
introdurrebbe comunque ad un
importanza corrisponde proprio inconscio collettivo junghiano di
alla necessità di comprendere
complessa interpretazione; come
come mai alcuni elementi sicu- metafora di un evento realmente
ramente astronomici (penso alla accaduto, cover-up – ‘copertura’,
Precessione degli Equinozi, ma è direttamente proporzionale al
non è che una semplificazione)
pensiero eterodosso, catastrofisiano stati considerati così vitali, sta, in cui si giustifica un ricordo
da necessitare di una trasmissio- rimosso e trasformato in culto a
ne, in forme svariate e talvolta
causa dell’enorme shock subito
altamente poetiche, oltre i confi- dall’umanità. Una data? Circa il
- 20 -
10.000 a.C. epoca coincidente
con la fine, critica, del Pleistocene e dell’ultima glaciazione
Wurm. Una data misteriosamente coerente con il racconto
platonico dell’Atlantide. Troppe
coincidenze enunciano una teoria.
RB: È stato un vero piacere
avervi ospiti su queste pagine e
spero di potervi ospitare di nuovo in futuro. Prima di lasciarci,
però, vi andrebbe di indicarci
alcuni siti da voi curati dove le
persone interessate possano
informarsi ulteriormente sui temi che abbiamo appena
trattato?
FM: Naturalmente! In primo
luogo, segnalo il sito dell'ASPIS,
raggiungibile all'indirizzo
www.associazioneaspis.net;
poi, il sito
tracce.orizzonteassoluto.com,
che comprende tutta la produzione PDF della rivista "Tracce
d'Eternità" diretta da un altro
fondatore di ASPIS, Simone
Barcelli. Segnalo anche, seppur
rivolto ad un pubblico in qualche
modo meno sofisticato,
www.orizzonteassoluto.info;
per finire, se mi consenti
l'immodestia, il mio sito di
Astronomia, con le mie immagini, all'indirizzo
www.orizzonteassoluto.com
PGL: A quelli già nominati da
Fabio, aggiungerei Archeomisterica www.archeomisterica.com
Ancora grazie a tutti voi.
- 21 -
S ka n
Visti e letti da Giacchetti
Samuel Giorgi
- 22 -
S ka n
Il Mangiateste
Forse non ho ancora detto
che oltre alle intuizioni, oltre a
funzionare come il pentotal,
possiedo un'altra dote: i sogni
rivelatori.
Non mi capita sempre,
non in tutte le indagini,
intendo. Non è una cosa legata
alla complessità del caso, o al
L'estratto
il Mangiateste
livello di coinvolgimento
emotivo al quale vengo sottoposta. Soprattutto non arrivano a comando. Ed è un
peccato, visto che la maggior
parte delle volte questi sogni
sono di estrema utilità. Non
come le incarnazioni di
Widmann nella Stanza
Azzurra, ovviamente, non sono tanto potenti e risolutori.
Sono solamente fotogrammi,
schegge di percezioni e sensazioni o, come le spiega Wid,
epifanie bonsai. Le epifanie
bonsai sono improvvise e volatili illuminazioni, talvolta
talmente impalpabili da risultare assolutamente inutili.
Le immagini che mi
vengono a trovare in
sonno si ripetono notte
dopo notte, senza alcuna variazione di rilievo,
fino a quando la mia ricerca si conclude, che
io li abbia sfruttati o
meno. Qui a Grazzeno,
la sequenza era costituita da tre scene differenti che si fondevano
insieme. Nella prima
camminavo in bilico su
un lungo cavo metallico teso da un piano alto
di un grattacielo verso
la sommità di una collina erbosa. Sotto di me
il vuoto fino al livello
della strada, dove un
fiume di persone aveva
- 23 -
invaso ogni centimetro della
superficie visibile, avanzando
silenzioso in ogni direzione.
Una marea che si estendeva
oltre i limiti del mio sguardo,
fino all'orizzonte. Era una manifestazione di piazza alla
quale aveva aderito tutta la
popolazione di quell'immensa
e sconosciuta metropoli o,
forse, persino dell'intero pianeta. Erano intere generazioni,
passate e future, tutte lì
ammassate sotto i miei piedi,
riversate in strada, vestite curiosamente di arancione.
Anch’io avanzavo, ma sul cavo, senza tremare, guardando
in basso e voltandomi a destra
e sinistra senza timore di
perdere l'equilibrio. Procedevo verso l'ignoto che nascondeva quella verde collina,
unico punto in tutto il paesaggio a essere risparmiato
dall'onda arancione. Più mi
avvicinavo al centro è più la
fune si incurvava verso il basso e oscillava. Si allungava
come un elastico, e mi portava
sempre più vicino alle teste
della gente. Avrei potuto vedere i loro volti, se solo ne
avessero avuta una. Invece, la
loro era solo una nube densa
che fluttuava all'interno della
scatola cranica. Omini
arancioni che vagavano persi
con la nebbia al posto della
faccia.
Mentre li guardavo, non
smettevo di camminare e,
passo dopo passo lungo il cavo, lentamente risalivo. O
almeno era l'impressione che
avevo. In realtà, non mi avvicinavo affatto alla collina.
A questa scena, seguiva
la seconda.
Mi trovavo in un castello, non quello di Evelina.
Era un castello in stile classico, medievale, con tre grandi
saloni dai pavimenti in terra
battuta, arazzi e stendardi
inchiodati alle pareti, armature, lance e scudi. La stanza in
cui mi trovavo, probabilmente la cucina padronale,
oltre che da due giganteschi
camini era illuminata da un
grandioso lampadario in legno che reggeva decine di
candele, a sua volta sostenuto
da possenti catene collegate a
carrucole fissate a terra e al
soffitto.
A parte questi dettagli, il
castello appariva deserto e
spoglio, privo di qualsiasi
arredo. Sentivo l'eco dei miei
passi e una leggera brezza
provenire dai passaggi ad
arco tra un locale e l'altro.
Nonostante la situazione potesse apparire più rassicurante, mi sentivo ancora più
in ansia che nella scena della
fune. Qui tremavo letteralmente, pregando di tornare
il prima possibile a penzolare
nel vuoto. Il fatto era che
percepivo l'incombenza di
un’aggressione, l'arrivo di
qualcuno alle mie spalle,
qualcuno armato, qualcuno
dal quale non mi sarei potuta
difendere. Per questo continuavo a muovermi attraverso
i tre saloni, per ritrovarmi
sempre nella cucina, di fronte
ai due camini. Non c'era via
d'uscita. La presenza minacciosa era nell'aria, la
sentivo ovunque mi spostassi,
dietro ogni angolo, nascosta a
spiarmi in ogni anfratto buio,
persino dentro gli spessi muri
di mattone e calce.
Chi mi stava seguendo?
Chi voleva farmi del male?
- 24 -
Perché non trovavo alcuna
via di fuga? Perché, soprattutto, l'aria là dentro si faceva via via più rarefatta e
inconsistente, gli spazi
sempre più vuoti e desolati?
Così galleggiavo nel panico fino a quando, esausta,
perdevo i sensi e mi ritrovavo
in una stanza dalle pareti
imbottite, con addosso una
camicia di forza arancione.
Arancione!
Qui, il mio stato d'animo
era più simile a quello della
prima scena: non avevo particolari timori, non c'era nessuno che volesse farmi del male. Sapevo solo che la porta
imbottita non era chiusa a
chiave, che avrei dovuto
aprirla e andare a cercare
qualcosa o qualcuno. Anzi,
qualcuno che aveva un messaggio per me, qualcosa di
importante, di vitale, benché
ignorassi di cosa si trattasse.
Allora aprivo la porta col
piede e mi trovavo costretta
in fila con altre persone sconosciute, anch'esse in camicia
di forza come me. Non sapevo dove fossimo diretti, e
neanche me ne importava, sapevo solo che dovevo uscire
da quel flusso arancione e
trovare quella persona e avere
il suo messaggio. Peccato
fossi bloccata da ogni lato.
Non era una fila sola, erano
quattro parallele e occupavano in larghezza e lunghezza
tutto il corridoio. Si avanzava
lentamente, pressati ai lati e
sospinti da dietro. A un certo
punto, iniziavo ad avvertire i
classici sintomi della claustrofobia, anche se nella vita
reale raramente mi era capitato di provarne. Qui erano
collegati più all'ansia di
adempiere alla missione che
al fastidio della camicia di
forza o dello spazio ristretto.
D'un tratto venivo gettata
attraverso una porta sulla sinistra, e da qui in un salone,
la palestra di una scuola, con
canestri, spalliere e materassi
ginnici blu. Al centro del
campo da basket vedevo una
fila di banchi e, al di là, delle
strane figure sedute. La scena
era più o meno quella di un
esame scolastico: la tua
seggiola da una parte e i professori dall'altra, disposti in
bell'ordine come gli apostoli
nell'Ultima Cena. Solo che
qui gli apostoli erano sostitui-
ti da figure grottesche dal
corpo umanoide e il cranio a
fiore. Sei fiori stupendi con
forme e colori differenti.
Nell'aria sentivo il loro profumo, talmente intenso che faticavo a respirare (si respira
nei sogni?).
Allora mi giravo
cercando la porta dalla quale
era arrivata e scoprivo che
era scomparsa. Cercavo altre
uscite, ma senza vederne. Ero
bloccata in quel posto, anche
se ora, invece della camicia
di forza, indossavo un camice
da medico, bianco. Avevo
ancora nel naso il profumo
dei fiori, solo che adesso erano molto lontani, come se il
pavimento della palestra si
fosse allungato sotto i miei
piedi. Persino il profumo era
cambiato, diventando un
tanfo insopportabile. Sentivo,
di nuovo, il
panico
montare, faceva freddo e
la morte stava lì di fronte
a me e mi
tendeva la
mano con la
faccia d'un
fiore e profumo di pestilenza.
Di solito
a quel punto
mi svegliavo.
Appena in
tempo per
vomitare.
CONTINUA...
- 25 -
S ka n
Being Piscu
An d r e a Vi s c u s i
Un'altra casa
*
Martedì 20 Maggio Duemilaotto
Io non so cosa scrivere
anche se la maestra ci ha detto
che dobbiamo scrivere sul diario tutti i giorni quello che
facciamo per abituarci a scrivere. Dice che è improtante
scrivere sempre così poi siamo
più bravi delle altre classi ma
io non ho scritto nulla gli altri
giorni perchè non so cosa scrivere oggi però succedeva
qualcosa e allora lo scrivo ora.
Mamma ha detto che siamo pronti e domani andiamo
nella casa nuova. Ci sono tutte
le scatole aggiro e tutti i piatti
e i biccheri e le forchette che
non si trovano più e usiamo
quelli di plastica. Allora domani partiamo e siamo nella casa
nuova e li è già tutto pronto e
da domani abitiamo lì. Io non
lo so perchè andiamo via dalla
casa nostra ma mamma e
babbo volevano un altra casa e
andiamo lì.
Dove andiamo è lontano
da qui ma però non so quanto
ci sono stato una volta ma non
mi ricordo se c’era vicino il
campino. Oggi lo chiesto a
mamma e lei diceva che non
era vicino quello ma ce nera
un altro e posso andare li. Di-
ceva anche che poi lanno prossimo cominco la scuola nuova
vicino alla casa dove andiamo
e per ora invece finisco dove
sono ora. Io non ho capito se
nella scuola di là c’è di nuovo
la maestra CARLA percè mi
sembra strano che viene con
noi se noi andiamo lontano. E i
miei amici pure Fili e Manu
anche loro non so se vengono
o se sono da solo.
Ho chiesto anche questo a
mamma ma lei dice che anche
li dove andiamo non sono solo
perchè comuncque allinizio
c’è lei e poi la scuola nuova.
Io non lo so bene, però io non
lo so se voglio andare lì. Stiamo bene qui e secondo me non
serviva unaltra casa.
*
In partenza…
E così ci siamo. Domani si va.
È anche possibile che non scriverò per un po’, potrei avere
da fare. Di certo stare ad
aggiornare il blog non sarà il
mio primo pensiero, in Canada. Male che vada, ci risentiamo quando torno.
In fondo sei mesi non sono così lunghi. Certo mi dispiacerà
abbandonare la famiglia, gli
amici, tutte le piccole cose che
- 26 -
fanno parte della mia vita quotidiana, ma è solo per un po’.
Mezzo anno. E poi sarò di
nuovo qua.
Questo è il mio primo vero e
proprio trasloco. Cioè, senza
contare quello di quando avevo sei o sette anni. Quella
volta ci siamo spostati ad
appena una decina di chilometri, e comunque ero piccolo e
non ricordo niente. Se non fosse che i miei mi hanno detto
che ci siamo trasferiti, a
quell’epoca, io non lo saprei
nemmeno. Chissà che fine
hanno fatto gli amici che avevo allora (ne avrò avuti, immagino). Non ricordo nemmeno i
nomi, sennò li avrei ricercati
su internet. Poco male, credo
che in ogni caso avremmo poco da spartire. Se tu che stai
leggendo eri un mio compagno
delle elementari non te la
prendere a male, mi raccomando.
Stavolta invece farò un bel
viaggio. Forse chiamarlo “trasloco” non è corretto, perché
non sto andando a STABILIRMI da un’altra parte. Sono
sei mesi di studio all’estero,
tutto qui. Sì, intendo davvero
STUDIO… XD
Furbescamente ho organizzato
il piano di studi in modo che gli
esami che mi toccherà dare
laggiù siano piuttosto facili.
Cioè, almeno qui in italia sarebbero facili, poi non so come
la cosa funzioni a Edmonton.
Ma bene o male credo che me
la caverò. E se non dovessi
nemmeno cavarmela, oh, alla
fine mi son fatto sei mesi di
campus, non è mica da buttar
via!
Dovrei andare a letto perché
parto piuttosto presto domattina, anzi, QUESTA mattina. Però sono un po’ nervoso. Credo
sia normale. E non sono
nemmeno sicuro che scrivere
sul blog mi aiuti a scaricarmi.
Potrei andare avanti per ore, a
descrivere, o almeno tentare di
descrivere, tutte le cose che mi
passano per la testa. Ma al
lettore occasionale fregancazzo, giustamente, quindi
forse è bene chiuderla.
Insomma, tra poco si parte, e io
mi sto praticamente cagando
addosso. Ma va bene così. Mi
lascerò alle spalle un po’ di cose, ma le ritroverò al mio ritorno. E poi potrebbe anche
piacermi lì. Potrei anche
cercarmi un’altra casa da quelle
parti, no?
Chissà. A presto.
turing02 ha elucubrato alle 00:48
del 2/1/2024
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*
DIARIO DI BORDO
RAPPORTO # 1 – 081131
Questa è la prima volta che
scrivo sul diario di bordo. Veramente non mi aspettavo
nemmeno di doverlo fare io.
Sulla Blender sarei il tecnico
informatico, e solo dopo la
partenza è venuto fuori che
occuparsi della salute dei
computer di navigazione implicava anche scrivere almeno un
rapporto al giorno. Non so se
tutto questo abbia un’utilità, ma
è la prassi. Il viaggio durerà solo un paio di mesi, quindi dovrei riuscire a sopportare questa
seccatura.
Non so nemmeno cosa sarei tenuto ad annotare. Siamo partiti
più o meno nove ore fa, non ci
sono stati problemi durante il
decollo, stiamo seguendo la
rotta, gli strumenti funzionano.
Tutto normale, insomma.
A essere onesti, normale è una
parola esagerata (mi scuso con
l’eventuale lettore, la parola
normale dovrebbe essere
enfatizzata con virgolette o
corsivo ma pare che il software
del giornale di bordo non
permetta queste formattazioni).
Sicuramente è esagerata per
me: sono agitatissimo, e non
credo di essere l’unico. Solo i
membri dell’equipaggio
sembrano tranquilli, ma loro
saranno abituati. Per me, come
per la maggior parte degli altri
a bordo, è il primo viaggio
nello spazio. O forse dovrei
scrivere Spazio, con la maiuscola. Ho già spiegato che non
me ne intendo.
Se ci penso, quasi riesco a
- 27 -
convincermi che tutto questo
non sta succedendo. Trovarmi
su un’astronave in viaggio
verso un pianeta appena colonizzato non è affatto come da
bambino vedevo la mia vita futura. Per la verità, nemmeno
cinque anni fa avrei immaginato uno scenario del genere.
Le cose si sono accelerate, ultimamente, e in tempi che una
volta non sarebbero bastati
nemmeno per dimostrare un
teorema tutto è cambiato: siamo quasi diventati obsoleti rispetto alle nostre stesse scoperte. Forse è per questo che
alcuni di noi stanno fuggendo.
Abbiamo paura di un mondo
che ci ha lasciati indietro, che
non ci appartiene più. Come se
una mattina ci fossimo svegliati
e avessimo trovato la nostra casa completamente ridipinta e
riarredata.
Nessuno qui a bordo ne parla in
questi termini, ma sono sicuro
che nel profondo qualcosa del
genere valga per tutti. Non siamo stati forzati a partire, e se
pure abbiamo avuto fortuna a
essere scelti tra migliaia e migliaia di aspiranti, è certo che
tutti noi volevamo andarcene. E
dire che prima di oggi il mio
viaggio più lungo è stato quello
dall’Italia al Canada (buffo,
rievocare nomi che ormai non
significano più nulla…). Ricordo che allora speravo di poter tornare indietro il più presto
possibile, anche se poi non è
mai successo. Stavolta, so che
non c’è alcuna possibilità di ritorno: è un passo definitivo.
Non posso dire come sarà la
mia nuova vita, orbitando
intorno a Tau Ceti invece di
Sol. E sono spaventato a morte,
al pensiero di quello che mi
aspetta. Ma in fondo l’ultima
emigrazione è andata bene: non
c’è motivo per cui anche stavolta le cose non debbano risolversi per il meglio.
Andarmene da casa, la vecchia
casa dove sono nato e cresciuto, mi ha permesso di trovarmi
nel posto giusto al momento
giusto, ed essere adesso qui a
scrivere su questo giornale di
bordo.
Il che mi ricorda che probabilmente quanto ho riportato
non è esattamente quello che
dovrebbe stare in un documento ufficiale come questo.
Ma d’altra parte non è il mio
lavoro, scrivere rapporti. So
perfettamente come
interfacciarmi con le IA della
Blender, ma per questa mansione collaterale non rispondo
della mia professionalità. Voglio proprio vedere cosa mi
inventerò i prossimi giorni…
Se non altro, mi terrò occupato
per il tempo del viaggio. Una
volta arrivati, avremo poche
occasioni di distrazione. Ci sarà
da lavorare, parecchio. Forse ci
sarà da soffrire, per un po’. Ma
alla fine costruiremo laggiù
un’altra casa per tutti noi. E sarà nostra, nostra davvero.
*
Non potevo andarmene
senza lasciarvi un messaggio.
In buona parte, ho già cercato
di spiegarvi quello che leggerete qui, ma sento comunque la
necessità di parlarvi, di fare in
modo che capiate fino in fondo
cosa mi ha spinto a prendere
questa decisione.
Non so più quanti anni ho.
Non mi sento vecchio, ma non
sono giovane, e nemmeno solo
adulto. Le misure di tempo con
cui sono cresciuto non hanno
più senso, qui su Cetia. Contare
in anni cetici falserebbe la mia
prospettiva, per questo non ci
provo nemmeno. Se avessi
continuato a vivere sulla Terra,
forse ne avrei centosessanta, o
forse duecentoventi. Ma probabilmente, se fossi rimasto lì
oggi sarei già morto.
Comunque sia, non ho bisogno di sapere quanto tempo ci
ho passato, per dire che questa
è la mia casa. Questo pianeta,
questo posto. Queste persone:
voi. Se provo a ripercorrere la
mia vita, o almeno le parti che
ancora ricordo, non riesco a
trovare niente che valga quanto
il vostro amore. Non c’è risultato che abbia ottenuto,
obiettivo che abbia raggiunto,
paragonabile a un vostro sorriso. Sapervi felici basta a dare
un senso alla mia intera esistenza. Dove e quando sono
nato l’avrebbero chiamata “famiglia”, ma noi siamo qualcosa
di più, come un uomo è un animale ma non solo un animale.
Vi ho già detto tutto questo.
Forse le parole che ho usato
non sono state così evocative,
ma spero che il senso fosse
chiaro: non vi sto lasciando
perché non tengo a voi. È anzi
il pensiero di abbandonarvi
quello che mi preoccupa più di
ogni altro. Non il viaggio seminfinito su mezzi sconosciuti
o l’ignota destinazione; non
l’affidare la mia vita a degli es-
- 28 -
seri alieni o l’imponderabilità
delle loro ragioni. Ciò che mi
turba, che mi terrorizza, dannazione, è il dover lasciare tutti
voi. E non perché tema che
possiate avere bisogno di me
(potete cavarvela più che egregiamente senza questo vegliardo di mezzo), ma perché
so che non vi rivedrò più.
Anche solo scrivere questa frase mi fa tremare più del solito.
Ma è altrettanto vero che
non c’è più posto per me, qui.
Rimanendo, non potrei fare
altro che spegnermi lentamente. Sì, vi avrei accanto per
tutti i giorni che mi rimangono,
ma non posso accontentarmi di
essere soltanto uno spettatore.
Non quando mi è stata offerta
la possibilità di viaggiare, di
vedere cose che nessun uomo
prima di me ha mai immaginato. Un’occasione per
sentirmi di nuovo vivo.
Non so perché i sensei
abbiano scelto me, e pochi altri.
Nessuno può arrivare a
comprendere per quale logica
ci abbiano chiesto di seguirli
verso la loro civiltà, attraversando quasi l’intera galassia. Come si possono interpretare le intenzioni di creature
tanto chiaramente superiori,
così poco umane da apparire
quasi divine? Eppure, non si
può rifiutare un’offerta del genere. Forse sono stato semplicemente estratto a sorte, e in
me non c’è niente che mi renda
più degno di chiunque altro, ma
questo non mi scoraggia. Io voglio andare con loro.
Cerco di ricordare l’ultima
volta che sono stato fuori da
Cetia, e non ci riesco. A livello
doda formar e lele letere ke
compohngono lepaor l e
.
finche potrevo atti ngere dalla
memmo ria bastava riportare
qielo che trovavoma pensareskrivve ree ìnsieme e difficcille
/qvesto è lultimo sforrzzo ke
compier o – poi sarò §emrh. e’
costhume ke og nunno lassi die
tro disè qualocosae io deciso di
lascia
re
questoto sscritko. è cos! strano
ripehensarei al pasato ri-evocan do questi rikorbi.
sembraa tuto il contararrio di
com’’e’ or a : la mia memoria
adexo è compgleta k$| mi basta
cerca re cerca re dentr di me e
posso ricorbare onnie piòu
pickolo detalgio – solo un * e
sùbito ri vedo la facia di Manu
e pooi ancora * e sentoh lodo
re
de lpro f
umo della hoste55 bionda kemià porratato lacqqua e se – dì
nnuovo * eckco la vibbarazi
onedei reactori affu s ione e
con * il suogno dell’arisata di
mio primo firlio; appenna
natou. ankè strano comme io
prima confondi
evo tutte
qeste cosse fee$< come onniwolta dementikavo il passato
ma ankhe se ricordo tuto io
nollo capisco come inevece
allora non ricoradvo ma kapi
vo
questo sinififa
forse cke ora sono non plù
umano forse che in ttutto qvst o
te
mp o sno di
ve ntato pù sensei e meno uomo o che for se ahesso sonno
solo qualeocsa di pyu di tutii
eddu e° - iononpososapelo
scriverie è fa+ic oso, ora. no
n è fascile ragganellare pickoli- ma stope r farre ilmjo utimo
frammenti i di materia in mo- vaggio eò scelo to quello che
cognitivo, so di essere nato
sulla Terra, ma non sono in grado di associare niente a questo
fatto. È un’informazione senza
alcuno spessore. Di che colore
era il cielo? Quanto era forte la
gravità? Come si chiamava la
città dove sono nato? Come sono arrivato qui? Io non lo so.
Ho dedicato così tanto tempo
ed energie a questo posto, che
ormai ho dimenticato quello
che sono stato prima.
Per questo devo andare con
i sensei. Devo cambiare, di
nuovo, e questa è la mia unica
possibilità. Non sto abbandonando voi: sto ritrovando me
stesso. Spero che riusciate a
capire.
Quando leggerete questo
messaggio io sarò già partito, ci
saremo già salutati. Scusate se
ho usato parole che molti di voi
non conoscono (famiglia, animali, dannazione, città…), ma
mi conoscete bene, e sapete
quanto il mio passato terricolo
sia radicato in me. Forse
qualcuna delle antenonne saprà
spiegarvi cosa significano. Vi
auguro ogni bene, e sono sicuro
che riuscirete a ottenerlo. Vi
amo, e questo non cambierà a
causa delle migliaia di anni luce che ci separeranno.
Non ci rivedremo mai più,
ma so che non vi dimenticherò,
anche quando avrò un’altra casa tra i sensei e la vita tra i miei
simili non sarà altro che una
vaga impressione lontana.
Addio.
- 29 -
lasierio aglial ti = hohrriprezo
nelamia me
m
or i
a
quelo khe avevo scristo nei
mom enti di sposta mento
ch& èé ognimio granne
kambdiamnento [] li ho
raccolccolti nsieme tutti quesi
mo mnenti percwe si p0ss sa
capire la miastoria ew$oi.
tuttelevoltte mi sono lasscato
dietro qol-cosa chepoi nonòpiù
ritrovaho edè pro prio co me ad
esxo –- lultimmo viaggio dehi
sensei neankee loro sano dovve
siva e è quando la mente
sme7te difunxionare e se provo
a * so che prima lo k iamavo
morte \ ricrordo che morte
perme era qome la fine dituttoto invece dhopo tutto qusto
tempo soche non
posso sa
perglo perkhe anche se xappiamo tante cose cisono taantre
altere che nonn konosamo
e pure ionono paura :: non come lealterevo lte, che nn voglevo abandonare il passattosta
volta non so niente di qu
ello che mia spetta dopo ma
non #o paura so
hora che riccorddo tuto sokke
la mia vita statta fel$e elunka
in molti poxti e vissto tanthe
kose esso no pro nto per ultimio viaiggo = morte\
come fagno i sensei lascio
qalcosa dretio di me cosicke
glialri doppo sanno chi sono,
io,- ed e’qquesti myey ricordi.
e non soccosa ci sar a
dopo |ness1 losa/ ma s
pero di trovarla,
dovvunque io vada –
unaltra casa
.
S ka n
Gu e s t S t a r
Gi a c c h e t t i
Occasione
- 30 -
- 31 -
S ka n
Gocce di luppolo
«E della birra mi godo l'amaro,
seduto del ritorno a mezza via,
in faccia ai monti annuvolati e al
faro».
Umberto Saba
— Dopo la tristezza —
Da Trieste e una donna 1910-12
Va a ciapà i ratt, barbùn [1 ]
— Ansovino Fumagalli,
barba lunga, birra in mano,
fluttuava trasandato nei
pressi della pinacoteca di
Brera. Il suo incedere
barcollante era di ostacolo
al passo "laborioso" degli
eleganti signori del quartiere — stà-schisc-vadavialcul-ciùciamanuber [2] !
Un untuoso panino alla
lonza, infagottato in un foglio stampato, faceva capolino dalla giacca stropicciata. Questo era quanto
ancora si leggeva sulla
carta tra le patacche d'olio:
«Alvaro Cacchioni Editore
Faccia di merda! Hai
pubblicato con il
commendator Zampetti,
non negare. Quel libro sulla
birra, l'ho visto! Ce l'aveva
Gigi[...] Dopo tutto quello
che ho fatto per te. C'eravamo quasi e tu che fai?
Sei uno stronzo letterario[...] Sai che ti dico? Fotti-
Poscritti di futuro ordinario
Lu i g i Bo n a r o
ti, tu e quel petomane di
Winnie».
—Burp!— Era stato l'unico
commento di Ansovino. Da
quando era stato miracolato dalla birra era sempre
sbronzo, il suo libro, Gocce
di luppolo, era già alla
1 0°ristampa. L'editore, lo
spietato Settimio—Winnie
The Pooh [3] —Zampetti, lo
aveva letto per caso. —
Vediamo come va — aveva
detto. E, malato com'era,
non aveva retto all'emozione del successo. Era finito
al San Carlo di Milano in
preda a strazianti turbe
intestinali. — Lasciatemi,
voglio morire qui tra i miei
libri.— Si dimenava come
una trota tra fragorosi peti
mentre gli infermieri, in
apnea per l'irresistibile
flatulenza, lo costringevano
alla lettiga.
Cacchioni era stato chiaro
— Lo pubblichiamo, non
prima di un editing approfondito. — Tra pacche sulle
spalle e i vari “mi è molto
piaciuto” erano passati 3
anni, tempo in cui Alvaro
aveva pubblicato storie di
cedevoli veline televisive e
di altri esponenti dell’
“intellighenzia” locale, tutti
segnalati dagli amici politici.
«Vedi Ansovino? Tieni il li-
- 32 -
bro. Questo è ciò che vuole
la gente, storie vere, non la
merda che scrivi tu». Gli
aveva detto un giorno che
era distratto.
«Autore: Enza Maria
Scarpaccia
Titolo: Madri coraggio, prostitute per il regno dei cieli.
Collana: Donne al bivio e al
semaforo
Numero pp.: 250»
Lui non si perdeva d’animo
scriveva e spediva. —
Ansovin, va scuà l mar cun
la furchèta invè di fagh el
bus del cuu al cavall a
dondolo [4] — sbuffava
l'ufficiale postale. E gli editori? Ogni tanto lo corrispondevano, ma non di
persona. Le risposte, tutte
uguali, provenivano da
un’anonima entità aliena, la
redazione:
«Gentile Fumagalli,
Le confermiamo di aver ricevuto il Suo 951 ° manoscritto.
La invitiamo,
anzi La diffidiamo,
cordialmente dall'inviarcene
altri.
La redazione».
Così succedeva fino a
quella notte. Poi, di colpo,
era diventato famoso. Gli
editori facevano a gara per
pubblicarlo. Di contro, lui
era perennemente ubriaco.
Era successo tutto così in
fretta. Era partito da Forlì,
poi l'impiego alla periferia
di Milano, alla fabbrica di
birra Thot. Aristide — Sciur
sfundà [5] — Corbezzoli
l'aveva chiamata così per
via della divinità a cui venivano attribuiti, in tempi antichi, sacrifici di birra per
propiziare la scrittura. Si diceva che Corbezzoli avesse condotto una trattativa
con dei tombaroli romani
per acquisire un'antica
formula egizia. — Dieci milion? Terùn, va a mangià 'l
sapùn [6] . — Si diceva pure
che, spilorcio com’era,
Corbezzoli, quel giorno
avesse avuto un malore.
Ma bastavano pochissime
gocce di quella roba egiziana per trasformare una
capra in uno scrittore prodigio. Fu così che nacque la
birra dello scrittore.
«Birra naturale, tutte
stronzate!» aveva
commentato Ansovino
mentre tracannava la
Thotbeer. Ne avrebbe fatto
volentieri a meno di bere
quella merda ma, dalla
notte dell'incidente, era come una droga, non poteva
farne a meno. Rimpiangeva il tempo passato, tra
l'utilizzo del Piantapertiche
e il Polivomero Pasqui, a
lavorare con l'amico nella
luppolaia di Gaetano, tra il
fiume Montone e Rabbi.
Poi, il suo amico era morto.
E lui se ne era andato.
«Questa birra è chimica»
diceva con rammarico.
Peccato che c'era finito
dentro. Quella maledetta
passerella sopra la cisterna
aveva ceduto. Era caduto
giù, dentro la birra.
Il condotto da cui fuoriusciva il preparato egizio era rimasto aperto, era finito
tutto in quel pozzo insieme
a lui. — Un altro pochin e
Ansovin se vestì de legn [7] .
— Gli operai lo avevano ripescato dal vascone di
Thotbeer. Era stato lì
ammollo incosciente per
un’ora. —Devo seguire il
volere di Thot, Burp!
—aveva detto ubriaco al
suo risveglio.
Dentro la birra, gli era
apparso il dio egiziano:
«sarai la mia vestale, farò
di te il mio scriba prediletto.
Andrai a Trieste a trovare
un mio amico poeta. Con
lui scriverai e farai libagioni, innalzerete inni per
compiacermi».
__
Note:
[1 ] Espressione dialettale
milanese: vai a quel paese,
barbone.
[2] Forma dialettale milanese composita: stai buono
lì-va a quel paese-buono a
nulla.
[3] Personaggio della Disney inventato da A. A.
Milne. – L’autore del
personaggio gioca
sull’ambiguità linguistica
del termine "poo" che è
impiegato dai bambini
inglesi per indicare le feci.
[4] Espressione dialettale
milanese: letteralmente sarebbe “Vai a scavare il mare con la forchetta invece di
cercare il sedere del caEra pomeriggio inoltrato, in vallo a dondolo. Si dice a
quel caffé sul golfo di Trie- persone che fanno cose
ste, quando si presentò a inutili.
lui un tale. Disse di chia[5] Espressione dialettale
marsi Saba. Delle parole
milanese: Ricco sfondato.
gli spumeggiarono nella
[6] Espressione dialettale
mente. — E della birra mi milanese.
godo l'amaro, seduto del ri- [7] Espressione dialettale
torno a mezza via, in faccia milanese: letteralmente è
ai monti annuvolati e al fa- vestirsi di legno, finire nella
ro.
bara.
- 33 -
S ka n
I gabbiani
La partenza
«È inutile "fratelli", abbiamo
buttato un’intera giornata di pesca. Non si poteva prevedere
un temporale come questo.» La
luce soffusa del locale rifletteva figure asimmetriche nel liquore ambrato. Damien sollevò
il bicchiere cercando di
guardarvi i due amici attraverso, poi trangugiò il rum.
«Vorrà dire che partiremo domani.»
Il meno lucido dei ragazzi al tavolo, l’aria propositiva e un
sorriso luminoso, colpì con i
pugni i braccioli della propria
sedia. «Abbiamo le chiavi del
faro e abbiamo anche il motoscafo, che ci frega del capitano? Andiamo stasera, andiamo
adesso.»
Roberto gli sfiorò la spalla, poi
la strinse con il palmo e le dita
ben distanziate e si rivolse al
terzo ragazzo: «Guarda che Nicolas non ha tutti i torti, il mare
non è così grosso come dice il
capitano, e in fondo abbiamo
pagato da oggi, perché dovremmo cercare un altro posto
per dormire? Oltretutto
partendo domani ci giochiamo
tutta la mattinata di pesca.»
Damien si passò entrambe le
mani sulla testa, solleticò le dita tra i capelli neri e cortissimi
diverse volte, poi si voltò di
scatto e chiamò un altro giro di
... e alla fine arriva Polly
Po l l y R u s s e l l
bevute. «La pesca ce la scordiamo comunque, non abbocca
niente dopo un temporale come
questo. E quando il capitano lo
verrà a sapere ci caccerà dal faro a calci nel culo! Così la vacanza ce la giochiamo del
tutto.»
«E perché scusa? Non è sua responsabilità se non ci porta lui.
Il motoscafo è il nostro. Dai,
saranno si e no cinquanta minuti di navigazione con questo
mare, meno se il temporale diminuisce.»
La cameriera sussurrò qualcosa
in una lingua che parve capire
solo Damien e gli sorrise. Lui
le poggiò nelle mani alcune
banconote e bevve il liquore,
appena servito, tutto d’un fiato.
«Tanto a voi che vi frega, non
capite una sillaba di croato e la
sfuriata del capitano me la
beccherò tutta io.»
«Esatto! Alla salute!» Mandarono giù i loro “shottini” e
batterono con forza i bicchieri
rovesciati sul tavolo.
La cameriera ammiccò verso di
loro, sorrise ancora e si avvicinò con atri tre bicchieri colmi.
Damien le disse qualcosa che la
fece arrossire, ma che la
convinse anche a sedersi con
loro.
Nicolas li osservò parlare
qualche minuto, buttò giù il
proprio rum e quello dell’amico
poi si frappose tra i due. «Den,
- 34 -
avevamo detto “una vacanza
tra uomini”. Niente figa; solo
alcol, pesca e rutto libero.
Quindi sfancula la moretta,
dalle appuntamento a lunedì e
andiamo. Roberto è già uscito e
io voglio arrivare al faro prima
che la tempesta si faccia seria,
mio cugino non è un pilota bravo quanto dice di essere.»
Il risveglio di Roberto
Dei primi colpi sentì solo il rumore. Ritmato, ripetuto, come
se non fosse stato lui a essere
schiaffeggiato. Dell’ultimo,
quello che lo costrinse ad aprire
gli occhi, percepì anche il dolore.
Si accorse di avere le mani legate dietro alla schiena quando
cercò di muoverle e una prepotente fitta alle spalle gli comunicò che doveva essere
bloccato in quella posizione da
parecchio tempo.
«Hai visto che belli?» La voce
di Coralline arrivò distorta
dapprima e pian piano più nitida.
Il ragazzo riuscì a mettersi in
ginocchio a fatica, le spalle doloranti e la testa annebbiata. Il
sole non era ancora sorto ma, la
spiaggia aveva già preso una
tenue sfumatura rosata e anche
se il profumo del mare era coperto da un fetore intenso, era
comunque distinguibile.
Le increspature della sabbia,
tonde e regolari, riflettevano il
rosa perlato del cielo che si
andava schiarendo.
La ragazza era distante solo
qualche passo, si portò i riccioli
rossi dietro le orecchie e si
avvicinò con due lunghi passi,
scavalcando i dossi con
attenzione. Roberto impiegò
qualche istante a capire che non
erano le irregolarità della
sabbia quelle che stava osservando, ma migliaia di
gabbiani accovacciati. Silenziosi e immobili.
Lei piegò la schiena e tese la
destra per sfiorarne i dorsi.
«Sono cinque anni che li seleziono, almeno otto generazioni
di gabbiani e ora, finalmente,
sono in grado di difendersi da
soli!»
Lui scosse la testa continuando
a non capire, si alzò e tentò un
passo verso di lei ma una corda
stretta attorno al collo lo catapultò indietro, facendolo
sbattere sul tronco ritorto del fico cui era legato. «Da chi dovrebbero difendersi?» sussurrò,
dopo essersi schiarito la voce.
«Dagli umani, da chi altri? Per
ora ho lavorato sui gabbiani,
ma conto di migliorare ogni
singola specie in pericolo.» Sfilò dalla tasca posteriore dei
jeans aderenti un coltello a
serramanico e lo fece scattare.
Alcuni frulli scomposti, unica
eco al rumore della lama.
Non disse altro, non mutò
espressione. Allungò la stessa
mano con cui aveva accarezzato gli uccelli e gli incise il
petto.
Roberto non ebbe il tempo di
gridare, né di chiedere. La lama
era ancora nella sua carne
quando gli animali si alzarono
in volo in uno scomposto turbinio di piume, becchi e zampe.
Si stupì di quanto rumore potessero fare le ali, di quanto assordante potesse essere un volo.
In pochi attimi gli furono
addosso, i becchi dai bordi seghettati si insinuarono nel taglio, ne strapparono i lembi. Il
dolore era talmente forte da
non riuscire a localizzarlo: il
torace prima, ma subito dopo il
viso, le dita. Ogni appendice fu
presa d’assalto da candidi mostri piumati. Gridò e gridò
ancora, uno degli animali gli
afferrò il labbro inferiore. Riusciva a sentire le zampe
poggiate contro il proprio
mento e il becco strappare. Uno
strattone e la bestia cambiò presa, scosse il capo e strattonò di
nuovo. Quando un fiotto caldo
gli inondò il collo, l’animale
drizzò il proprio per ingoiare il
boccone. Per un istante gli
parve che tutto si fosse fermato,
che gli animali si fossero
bloccati a mezz'aria e che
l’odore nauseabondo di guano
fosse sparito, che anche il dolore fosse cessato.
Tutta la sua concentrazione fissata sulla parabola sghemba
che un filamento che il proprio
massetere aveva formato, dalla
sua guancia al becco più vicino.
Quando un guizzo vermiglio
seguì lo stesso percorso del
lembo muscolare il dolore
esplose di nuovo. Più forte di
prima. L’odore degli escrementi
si miscelò a quello del sangue e
il frastuono coprì ogni cosa.
Coralline dovette urlare perché
la propria voce fosse udibile
- 35 -
sopra ai versi delle creature e
alle grida del ragazzo, «scusami ma devo andare, anche i
tuoi amici avranno bisogno di
me, soprattutto quello con la
testa rasata, non ha voluto bere
il tè ieri sera e ho dovuto fargli
un'iniezione per tramortirlo, ma
ormai si sarà svegliato anche
lui.»
Il risveglio di Damien
Un piccolo stormo di gabbiani
si posò sulla sabbia. Zampettarono, le grandi ali estese verso
l’alto a cornice e corona del
capo bianco. I più coraggiosi si
avvicinarono di qualche passo
per poi saltare di nuovo indietro, al centro del gruppo.
Ancora un paio si staccarono
dal branco, ripeterono il
balletto diverse volte, tornando
sempre al punto di partenza,
poi il primo beccò.
Il grido esplose nella baia deserta e gli uccelli si librarono in
volo. Il rumore delle ali fece da
eco all’urlo di dolore. Le bestie
rotearono a poche decine di
metri dal suolo, poi atterrarono
di nuovo. E di nuovo presero a
beccare.
Il ragazzo si divincolò, gridò e
si contorse, col solo risultato di
tendere ancora di più i legacci
sui polsi già martoriati. Disteso
a terra e impossibilitato a muoversi con le gambe e le braccia
legate ai pali degli ormeggi.
Un esteso taglio sulla coscia
aveva ripreso a sanguinare,
attaccato dai becchi famelici. E
più sangue usciva, più invogliava i volatili a continuare.
«Via, andate via! Aiuto!»
Le grida di Damien allontanarono gli animali solo per un
momento, che tornarono alla
carica subito dopo essersi alzati
in volo.
Un’onda, più forte delle altre,
lo schiaffeggiò e lo sommerse.
Nello sciabordio riusciva a
sentire i versi striduli dei
gabbiani e le loro zampe
fredde. Decine e decine di quei
piedini palmati camminavano
sul suo torace, sul viso, sulle
braccia, e più si divincolava,
più sembravano aumentare. Ai
piedi si aggiunsero becchi e code. Si sentiva schiacciato,
oppresso, mentre gli animali e
l’acqua gli impedivano di respirare. Poi di nuovo una fitta.
Una nuova beccata. Il fianco
stavolta. Ancora e ancora,
finché furono le sue stesse urla
a bruciare più delle ferite e
dell’acqua salata che continuava a investirlo. Sentiva i becchi
adunchi scavare, insinuarsi tra
le sue costole e strappare,
rompere, tagliare. Davanti ai
suoi occhi solo un nulla bianco,
fatto di piume e nuvole.
Una nuova onda costrinse gli
animali in volo, e lì, sott’acqua
e senza respiro, gli parve quasi
di provare sollievo. Sentì
qualcuno gridare il suo nome,
ma un secondo più tardi gli
uccelli gli erano di nuovo
addosso e ogni rumore venne
coperto dalle loro grida assordanti e dallo scalpiccio dei
piedi bagnati.
viso impassibile di Coralline, i
cui lunghi capelli rossi cadevano in ricci scomposti sulle
spalle nude. Impiegò qualche
secondo a capire di essere nudo
anche lui e legato a una sedia di
metallo. Ogni movimento
impedito da cinture di cuoio.
«Hai sete?» cinguettò lei.
«Cosa? No! Voglio sapere dove
sono Damien e mio cugino.»
La gola era secca per la verità,
e le labbra spaccate, ma non
erano certo la sua priorità.
Coralline fece un paio di passi
indietro, ancheggiando. Il
corpo nudo e flessuoso rischiarato dall’alba imminente. Si
accarezzò un fianco, seguì con
due dita il contorno del seno,
fino alle proprie labbra. Sorrise.
«Stanno ammirando gli animali, da vicino.»
Scivolò alle spalle del ragazzo
e gli prese i lunghi capelli scuri
tra le mani. Li pettinò con le dita, poi iniziò a massaggiargli il
collo teso.
«Non è possibile, Damien riusciva appena a camminare.
Ascolta, slaccia queste cinte e
andiamo a cercarli insieme,
vuoi?» Cercò il tono più
accondiscendente che conosceva, sforzandosi di sorriderle,
«avevi detto che avremmo preso la tua barca, che ci avresti
accompagnato a terra.»
Non gli rispose ma gli accarezzò le tempie, con un gesto
secco trasse a sé la testa, sprofondandola tra i propri seni.
La botola sulla parete inclinata,
Poco prima
da dove erano entrati, era
«Dove sono gli altri, brutta
aperta e il sole aveva ormai
puttana!» Nicolas aveva appena illuminato tutto il rifugio.
aperto gli occhi e tutto il suo
I vestiti di Damien e Roberto
campo visivo era occupato dal formavano un mucchietto
- 36 -
scomposto accanto ai suoi. Le
tazze da cui avevano bevuto
erano rovesciate a terra.
Sul telo due grosse macchie di
sangue che era sicuro di non
aver visto la sera prima e delle
scie sulla sabbia indicavano
senza ombra di dubbio che
qualcuno era stato trascinato
fuori.
Un grido squarciò il silenzio,
seguito dal garrire dei gabbiani.
Nella cacofonia che aveva
saturato l’aria, la voce di Damien chiedeva aiuto.
Cercò di ricordare come e
quando si fosse addormentato,
ma non riusciva a focalizzare
nulla dopo il loro arrivo nel rifugio. La testa gli faceva un
male d’inferno e la bocca era
impastata.
«Cosa c’era in quel tè, Coralline?»
Di nuovo la ragazza gli si parò
davanti e si accovacciò, sedendosi sui talloni. Con le mani
gli sfiorò l'addome scolpito, si
morse le labbra sottili mentre
insinuava dita sapienti, tra i peli del pube. Aprì la bocca e
sollevandosi appena gli accarezzò il pene con la lingua.
«Non può esserci solo il lavoro,
non ti pare?»
Un nuovo grido, più disperato
del primo, lo scosse e lo fece
tremare. Ne seguì un altro e un
altro ancora, poi sentì la voce
del suo amico farsi più roca,
quasi un lamento.
«Lasciami andare, puttana! Sei
pazza! Una fottuta baldracca
pazza!»
«Sono qui da sola da mesi, gioca un po’ con me, poi ti prometto che raggiungerai il tuo
amico.»
«Va bene, ascolta; tu sei una
gran bella ragazza, ma io così
non ci riesco, sono abituato a
condurre il gioco.» Nicolas si
sforzò di sorridere, cercò di essere seducente, quando l’unica
cosa che avrebbe voluto fare
era spaccare quella testolina
rossa con le sue mani, «avvicinati, siediti su di me.»
Coraline allentò la cinta sulla
vita e quelle sulle gambe, le fece scorrere di un buco per
permettere al ragazzo un minimo di movimento. Infilò le cosce tornite sotto i braccioli e si
sedette su di lui.
«Dolcezza, cosa vuoi che
faccia così? Slegami una mano,
almeno…»
Sette ore prima…
Nicolas riuscì ad afferrare tra le
dita qualcosa di più solido
dell’acqua ma ugualmente
fuggevole. Sprofondò entrambe
le mani nella sabbia: fine e scivolosa. Con uno sforzo si erse
sulle braccia, mentre i polmoni
sembravano voler scoppiare.
Nel buio la superficie poteva
essere a un paio di bracciate, o
lontana decine di metri.
La salvezza arrivò con la forma
nodosa della mano di Damien.
Sentì solo uno strattone, i
tendini e i muscoli del collo tesi dalla presa salda nei suoi
lunghi capelli scuri. Poi, finalmente un respiro.
La prima boccata d’aria gli bruciò la gola, tossì e vomitò subito dopo. «Nicolas tutto bene?
Nicolas!»
La voce di Roberto era
ovattata, coperta dal fragore
della tempesta e dalle onde. Ni-
colas sollevò la destra sopra la
testa, segno inequivocabile che
aveva sentito, poi la sprofondò
di nuovo sulla sabbia, a pochi
metri dal mare.
Lo trascinarono ancora per un
po’, sentì le braccia degli amici
sotto le sue e attorno al torace,
sentì la sabbia grattargli le
gambe e la pioggia cercare di
affogarlo, più di quanto il mare
non avesse già fatto.
Quando si fermarono si accorse
di essere all’asciutto. «Dove
siamo?»
Damien cercò di scrollarsi
l’acqua di dosso con pochi risultati, quindi si tolse la maglietta e si sedette accanto
all’amico, le spalle poggiate
contro la roccia. «E che ne so!
In una cazzo di caverna, credo.»
«Questo lo avevo capito. Dove
siamo, qui? Che isola è?»
La luna si era appena affacciata
tra le nubi, rischiarando
l’interno della grotta, che si era
rivelata poco più che un’insenatura.
Anche Roberto era a torso nudo
e stava strizzando la propria
maglietta, «se ho letto bene le
carte, dovremmo essere…»
Nicolas lo interruppe, «Se
avessi letto bene le carte non ci
saremmo schiantati contro gli
scogli!» Sfilò anch’egli la maglietta e imitò gli altri.
«Comunque, dovremmo essere
a Plocica, o un’isoletta lì vicino, magari Korcula.»
«Plocica ha un faro ed è deserta, piatta. Questa a occhio e
croce è una collina.»
«Infatti ho detto “dovremmo”,
ma tu ci godi a darmi torto!»
Damien conosceva i due cugini
- 37 -
da una vita e sapeva bene dove
si sarebbe andati a parare, «va
bene, va bene! Non me ne frega
un cazzo, siamo sempre
nell’Adriatico e a pochi chilometri dalla costa. Aspettiamo
che faccia giorno e poi pensiamo a come farci venire a
prendere.» Prese la propria maglietta e ne strappò un lembo,
poi lo arrotolò sopra al ginocchio.
«Sei ferito?»
«Non credo sia niente di grave,
ma brucia da morire.»
Nella penombra era distinguibile solo il baluginio del
sangue, ma che tipo di ferita
fosse, era impossibile da stabilire. Nicolas aiutò l’amico a
fermare il bendaggio improvvisato, poi lo incoraggiò a sedersi. «Sembra bruttina, come
diavolo hai fatto a trascinarmi
fin qui?»
L’altro si limitò a sorridere; le
fossette sulle guance, ben visibili, gli ingentilivano il volto.
Si sedettero vicini, tutti e tre.
Spalla a spalla.
Il rumore di rami spezzati fece
destare Roberto. Spalancò gli
occhi azzurri e d’istinto
sobbalzò, svegliando gli altri
due.
«Don’t worry, guys! My name’s Coraline and I can help
you.»
«Cosa?»
La ragazza abbassò la torcia
elettrica che aveva puntato loro
contro e la diresse sul proprio
viso, permettendogli di
guardarla, sorrise sarcastica,
subito dopo. Un accento poco
definito le donava un’aria esotica, «italiani! Solo degli italia-
ni potevano schiantarsi sulla
barriera frangionde. Ho visto le
luci d’emergenza di quello che
rimane del motoscafo.» Spostò
la torcia con aria infastidita e si
fermò sulla fasciatura
improvvisata di Damien. Il
sangue aveva imbrattato il
bendaggio ma, come quello sul
ginocchio e sul polpaccio,
sembrava secco.
«Hai perso parecchio sangue. Il
mio rifugio è proprio qui dietro. Se i tuoi amici ti portano in
braccio possiamo andarci. Ma
non dovrete aprire bocca finché
non ve lo dirò io, chiaro? Avete
disturbato la fauna fin troppo
per stasera.»
La luna era alta nel cielo, e di
quella tempesta che sembrava
non voler finire mai, non v’era
più traccia. Il tragitto fu davvero breve, come la ragazza dai
ricci di fuoco aveva
annunciato. Camminarono
attraverso delle sterpaglie basse, aggirando la collinetta che li
aveva protetti, e solo quando
furono sul lato opposto notarono che non era naturale.
La ragazza passò indietro la
torcia e sollevò un telo mimetico color sabbia, scoprendo una
botola inclinata a quarantacinque gradi. In silenzio la aprì
e fece cenno di far entrare prima il ferito. Quando furono
tutti all’interno richiuse la botola, tirò un cavo che arrivava
all’esterno e che probabilmente
avrebbe riposizionato il telo,
poi finalmente, parlò. «Per questa notte dovrete tenere duro,
qui funziona tutto con i
pannelli solari. Domani
contatteremo qualcuno.»
Nicolas aiutò l’amico a sedersi
su una sdraio da campeggio.
L’unica lampada accesa non
gettava luce sufficiente nemmeno per guardarsi in faccia.
Quindi sfilò la torcia dalle mani
del cugino e la puntò contro la
gamba di Damien. Appena tolto
il bendaggio si rese conto di come la ferita fosse più grave di
quello che avevano pensato, o
di quanto il ragazzo avesse dato
a vedere.
«Coraline, hai del
disinfettante?»
La ragazza si infilò in una sorta
di cunicolo, unico altro sbocco
della piccola stanza circolare, e
ne emerse pochi istanti dopo
con una cassetta del pronto
soccorso. «È peggio di quello
che pensavo, ci vorrebbero dei
punti. Stringi i denti!»
Nicolas si spostò per prendere
la tazza di tè dalle mani di Coraline. Sporgendosi il meno
possibile per non svegliare
l’amico ferito, addormentato
sulla propria spalla.
«Mi dispiace ma non c’è modo
di chiedere aiuto, non ho alcun
tipo di trasmittente, le onde radio disturbano la migratoria. E
arrivare a quello che rimane del
vostro scafo è impossibile
finché il mare non si calma del
tutto. Ma all’alba potremo
andare a terra con la mia
barca.»
«E tu che ci fai qui, tutta sola?»
«Studio gli uccelli che nidificano in quest’isola. C’è una particolare specie di gabbiani
che…» Si interruppe e parve
pensare a quello che stava per
dire, «sono cose di una noia
mortale se non sei un etologo!»
Prese altre due coperte e le pas-
- 38 -
sò a Roberto. «Tenete,
purtroppo non ho vestiti da
darvi, dovrete arrangiarvi. Io
vado a dormire, bevete il tè, vi
scalderà. Se ci fossero problemi
chiamatemi. Altrimenti ci vediamo all’alba.»
Epilogo
«Se ti slegassi cercheresti di
scappare. Non sono una
sprovveduta.» La frase la sussurrò soltanto, avvicinando le
labbra all’orecchio di lui. Si
mosse in avanti nel farlo, strofinando e spingendo il proprio
bacino dove avrebbe sperato
trovare un’erezione.
Le richieste di aiuto di Damien
parevano cessate, o comunque
coperte dal garrire impetuoso
dei gabbiani, «tesoro capisci
che così non funziona? Devo
poterti toccare.» Con un moto
di disgusto ben mascherato,
Nicolas le leccò le labbra, le
morse anche cercando di ansimare, cadenzando il respiro per
simulare eccitazione. La mano
di lei scivolò dal collo alla
spalla, continuò a baciarlo
accarezzandogli i muscoli ben
modellati del braccio e quando
arrivò al polso slacciò la cintura.
Il ragazzo lasciò che la cinta
cadesse a terra; assecondò, per
quanto poteva, i movimenti di
lei e caricò il colpo. Un pugno.
Forte, disperato, dritto alla testa. Dato con tale e tanta potenza da fargli provare dolore,
pensò quasi di essersi rotto le
dita nell’impatto con la tempia
di lei. Coraline venne sbattuta
da un lato, le cosce intrappolate
dai braccioli le impedirono di
cadere, e allora la colpì di nuovo.
«Grandissima puttana!» Il terzo
pugno lo sferrò contro un corpo
inerme, la spinse indietro quindi,
lasciandola rovinare sul pavimento.
Si liberò in fretta delle altre cinte
continuando a inveirle contro.
Dopo essersi liberato le gambe la
sentì mugolare, ma non la vide
muoversi.
Si guardò in torno trafelato, girò
su se stesso due o tre volte in preda al panico. Afferrò una mazza
da campeggio appoggiata vicino
alla porta e la soppesò tra le mani. Tornò verso di lei ma la voce
del suo amico, ridotta ormai a un
rantolo animalesco lo costrinse a
uscire.
«Damien! Den!»
La minuscola baia era deserta,
fatta eccezione per un nugolo di
gabbiani accanto all’approdo
naturale. Molti in volo ma i più,
concentrati su un punto, accanto
a dei pali che fungevano da
ormeggio. Impiegò pochi istanti a
comprendere da cosa fossero
tanto attratti e ancor meno a
correre verso di loro. Urlò sperando di spaventarli mentre roteava la mazza sopra la testa.
Percorse le poche decine di metri
gridando e si lanciò nel marasma
bianco. In un frullo cacofonico
gli uccelli si librarono. L’onda
rosso scura si ritirò trascinandosi
dietro anche Damien. Le corde
che gli legavano i piedi erano
strappate e il suo corpo maciullato scivolava sul bagnasciuga, trattenuto ancora per i polsi.
Nicolas si lanciò contro i legacci,
cercando di scioglierli. Aveva gli
occhi gonfi di lacrime e la testa
che sembrava fluttuare nel vuoto,
tanto che le grida degli uccelli gli
sembravano lontane. Gli volavano intorno, ne percepiva la presenza, il tocco leggero delle ali,
l’aria spostata dai loro movimenti, il puzzo, ma non riusciva a
sentirli garrire. Come quando si
trovava sott’acqua la sera precedente, come se i suoni venissero
da lontano, quasi che le sue
orecchie non potessero udire altro
che i flebili lamenti provenire dal
volto ormai privo di labbra del
suo amico.
Una nuova onda avvicinò il corpo
ai suoi piedi e gli permise di
slacciare il nodo. Lo trascinò fuori dall’acqua e gli si inginocchiò
accanto, «Den… parlami, Den?»
Il ragazzo roteò l’occhio destro,
mentre dall’orbita vuota del sinistro un guizzo di sangue
accompagnava la contrazione dei
muscoli. La mandibola dai denti
esposti tremò un istante, poi
scattò e smise di muoversi.
Un gabbiano atterrò su una costola quasi del tutto scarnificata e
strappò l’ennesimo brandello,
ingollò e zampettò in avanti,
verso Nicolas. Questi si ridestò
dal torpore innaturale nel quale
era finito e gridò contro l’uccello.
La creatura poco o nulla intimorita spalancò le ali e non fece più
di tre passi indietro, poi partì alla
carica. Il collo arcuato e la testa
protesa in avanti. Il becco spalancato e un verso del tutto simile
a un sibilo.
Dei pizzichi alle spalle e al capo
lo costrinsero a voltarsi, poi a
cercare di proteggere la testa con
le braccia. I colpi divennero in
breve più forti, complice la velocità delle bestie in picchiata.
Scattò in piedi e cercò con lo
- 39 -
sguardo la mazza che aveva lasciato cadere.
Quando la trovò, pochi secondi
più tardi, atterrò due o tre uccelli
ancora in volo. Il rumore del legno sulle ali e sui petti morbidi
delle creature gli ricordò gli spari
esplosi col silenziatore di qualche
film d’azione.
Il boato che sentì un secondo più
tardi non lo riconobbe, ma cadde
in ginocchio e gli uccelli si dileguarono in pochi istanti.
Subito dopo l’unico rumore udibile era la risacca.
Il dolore tra le spalle, quello che
aveva scambiato per l’ennesima
beccata, aumentò. Si acuì fino a
raggiungere la base del collo e le
braccia. Divenne calore quasi
subito, poi gli parve di bruciare,
poi più nulla.
Quando i gabbiani lo raggiunsero
di nuovo era riverso a terra, il viso sprofondato nella sabbia bagnata e la schiena coperta di
sangue.
Coralline poggiò il fucile contro
la parete esterna del rifugio. Si
appoggiò alla porta chiusa e sospirò.
L’occhio sinistro era chiuso e
gonfio e la tempia continuava a
sanguinare, ci passò sopra il
dorso della mano e si schiarì la
voce. «Piccolini, venite da me,
piccoli!»
La metà degli uccelli voltò il
capo all’unisono, i becchi e i petti
coperti di sangue.
Al primo garrito la nube bianca e
vermiglia si levò in volo e la
raggiunse. Lei allargò le braccia e
protese le mani, ma il sorriso le
morì sul volto alla prima beccata.
S ka n
Fegato alla
veneziana
«Maestro, perché non ci
racconta di come fu sconfitto
da Jean Luc Van Damme?»
Quella domanda era stata
formulata da una voce alle mie
spalle. L'aveva posta una ragazza al primo anno
d'apprendistato. All'udirla gli
altri allievi ammutolirono e
nella sala calò il silenzio.
Posai con delicatezza la
mannaia che stavo impugnando. Mi voltai e fissai la
giovane negli occhi. Il suo
sguardo di sfida mi sorprese.
L'avevo appena strapazzata per
uno sbaglio che aveva
commesso, ed ero stato duro,
troppo forse, ma duro come lo
ero sempre, con tutti.
Risposi: «Jean Luc Van
Damme... sì, sono passati tanti
anni, ma ricordo bene quel
giorno. Persi, è vero, però non
fui davvero sconfitto».
«In ogni caso non ce ne ha mai
parlato. Lei evidenzia sempre i
nostri errori. Dice che dobbiamo imparare da essi, anche da
quelli degli altri, che è necessario studiarli per non ripeterli e
per migliorarsi. Ci racconti ciò
che ha sbagliato in quell'occasione, ci dica qual è stato il suo
errore».
Il silenzio che aleggiava si fece
di ghiaccio. Gli allievi si sarebbero scambiati occhiate di
terrore se non fossero stati
troppo spaventati per farlo: te-
Cronache dal Multiverso
Le o n a r d o Bo s e l l i
nevano lo sguardo fisso a terra,
e se avessero potuto, avrebbero
scavato una buca per ficcarci
dentro la testa. Avrebbero voluto essere ovunque, anche
all'Inferno, tranne che in quella
sala e in quel momento.
Mi pulii le mani insanguinate
con lo straccio che portavo alla
cintola, impugnai nuovamente
la mannaia e mi avvicinai alla
ragazza continuando a fissarla.
Lei sostenne il mio sguardo
finché non le fui a un passo.
Non aveva alcun timore di me
anche se io ero il maestro e lei
l'allieva, non la spaventavano i
miei decenni d'esperienza. Lessi nei suoi occhi che era lì per
- 40 -
imparare e lo avrebbe fatto
anche calpestando il mio orgoglio. D'altra parte aveva scelto
il mio corso perché ero il migliore e non si era lasciata intimorire dal fatto che i migliori
fossero uomini: anche se lei era
una donna, sarebbe riuscita nel
suo intento, o almeno ci
avrebbe provato con tutte le sue
forze.
Tutto questo le lessi negli
occhi. Ma quando le fui di
fronte abbassò lo sguardo. Dopotutto era soltanto un'allieva
e, con quel gesto, sembrò riconoscerlo.
Spezzai la crosta del silenzio
che riempiva la sala dicendo:
«Lei, signorina, ha parlato di
errore, ma dal punto di vista
tecnico non lo fu».
A quell'accenno di disponibilità, gli allievi estrassero la
testa dalle loro buche figurate
e tirarono un sospiro di
sollievo. Qualcuno, con entusiasmo, osò pure bisbigliare
al vicino: «Adesso racconta».
Con pacatezza dissi: «Fate silenzio». Subito i presenti
tacquero e tornarono a fissare
il pavimento.
Posai la mannaia e presi un
disossatore. Mi sembrava un
attrezzo più consono alla situazione. Quindi girai intorno
alla ragazza, ignorandola.
«Vedete, voi tutti siete qui per
imparare. Avete dimostrato di
voler eccellere proprio per
aver scelto questa scuola.
Non sareste venuti a Firenze
da ogni parte d'Italia, o addirittura dall'estero», infatti notai tra gli allievi un giovane
cinese, «se non foste stati
spinti dalla volontà d'imparare. E per farlo vi siete iscritti
alla scuola di cucina di Gabriele Vizzini, il più grande
chef d'Europa e, di certo, uno
dei migliori al mondo».
Avevo pronunciato quella
frase come se stessi parlando
di qualcun altro e non di me
stesso. Non mi stavo
vantando: tutti sapevano che
era vero.
La ragazza che avevo strapazzato tentò di obbiettare:
«Eppure...», ma lasciò la frase in sospeso, dopo aver posato lo sguardo sul disossatore con cui giocherellavo.
«Come dicevo, siete qui per
imparare, e si apprende dagli
errori. Ma giunti a livelli
eccelsi, gli errori sono indistinguibili dai colpi di genio».
Quella frase suscitò un
sommesso mormorio nell'uditorio.
Mi aggiustai il cappello da
cuoco sulla testa e ripresi:
«Avete mai osservato con
attenzione un dipinto di Piero
della Francesca? La prospettiva dell'architettura è
perfetta, o meglio lo sembra.
Appare in quel modo perché
sono stati introdotti piccoli
errori: se fosse stata davvero
perfetta, gli occhi sarebbero
stati ingannati mostrando deformazioni inesistenti. Allo
stesso modo, avete mai notato le proporzioni dei templi
greci? Le colonne si susseguono lungo allineamenti
perfetti, ma non è davvero
così: è stato inserito ad arte
un errore, calcolato con estrema precisione, che suscita
quel senso di bellezza che
altrimenti sarebbe mancato».
Gli allievi più temerari cominciavano a sollevare lo
sguardo da terra, poco
persuasi da ciò che stavo dicendo.
«Ma», aggiunsi, «quegli errori non sono gli sbagli che
commettete voi!»
Quindi passai, annusando e
assaggiando, a una a una le
pentole e le padelle sui
fornelli lungo il banco da lavoro. Gli allievi, nelle loro livree bianche, sembravano
sull'attenti nell'attesa di
un'ispezione militare.
- 41 -
«Nel sugo c'è poco peperoncino... il brodo è salato...
l'arrosto è crudo... la peperonata è insipida».
A ogni mia sentenza, l'allievo
chiamato in causa si muniva
di cucchiaio o forchetta, assaggiava a sua volta e
sbiancava: perlopiù erano solo sfumature, ma rovinavano
il delicato equilibrio d'aromi
e sapori.
In fondo alla fila, mi fermai
di fronte ai fornelli sui quali
cucinava il giovane cinese e
assaggiai il suo arrosto
d'anatra in salsa tartara e
curry.
«Qui c'è un pizzico di
zucchero!»
L'allievo diede un'occhiata
preoccupata al disossatore.
Continuai: «Quelli che ho
elencato finora erano sbagli,
ma questo si potrebbe quasi
considerare un colpo di genio: è solo un pizzico, ma
esalta l'aroma della salsa.
Complimenti! Come ti chiami ragazzo?»
«Io essele Wang Dong», rispose.
«Bravo, continua così». Poi,
rivolto agli altri, chiosai: «Mi
stupisco che, tra tanti allievi,
l'unico che riesca a interpretare al meglio la cucina italiana provenga dalla Cina».
A quel punto, la ragazza
tornò alla carica e disse
sarcastica: «Quindi lei ha
perso per un colpo di genio?»
La fila di cuochi apprendisti
ebbe un lieve sbandamento.
Sembrava che si preparassero
a schivare un disossatore che
sarebbe stato presto lanciato
attraverso la sala per colpire
l'autrice d'una frase così irriverente. Ma io ignorai quelle
parole e ripresi a raccontare.
«Quando incontrai Jean Luc
Van Damme, ero sulla cresta
dell'onda, al punto in cui basta un passo falso per precipitare ed essere travolti, ma
dalla quale si può anche
spiccare un piccolo salto per
prendere il volo ed assurgere
all'Olimpo degli chef. Avevo
già aperto il mio terzo locale,
quello in Trastevere, e cominciavo a consolidare la mia
fama. Alcune comparsate in
televisione avevano aiutato a
farmi un nome e i libri che
scrivevo avevano successo.
Ricevevo molta posta dalle
mie ammiratrici e non potevo
proprio lamentarmi, ma la
mia carriera era a una svolta e
l'oblio poteva essere dietro
l'angolo. Fu allora che decisi
di partecipare al "Grande
Chef", che veniva annunciato
come il più importante reality
culinario delle reti satellitari».
«Questo lo sappiamo tutti»,
mi incalzò la ragazza, «ero
una bimba allora, però ricordo quella serie. È proprio
grazie ad essa se mi sono
appassionata alla gastronomia
e ora sono qui a farmi insultare da lei».
«Bene», dissi con un certo fastidio, «allora ricorderà l'ultima puntata della prima stagione: la finale. Come disse
Jean Luc, che era l'avversario
più temibile, ci sarebbero
state altre stagioni, ma noi saremmo sempre stati i
concorrenti del primo
"Grande Chef".
Vedete, c'era voluto tutto il
mio impegno, anni di fatica,
di duro lavoro, e sacrifici a
non finire per conquistare la
mia posizione, ma in quella
trasmissione tutto stava per
essere messo in discussione,
la mia reputazione era legata
a quell'ultima serata e a
quell'ultimo piatto da preparare.
Ricordo quel giorno come
fosse ora. In finale erano rimasti Gabriele Vizzini, il
grande cuoco italiano
emergente», dissi la frase come se non parlassi di me, «e
Jean Luc Van Damme, un
raffinato chef belga, esponente di spicco della nouvelle
cuisine».
Mi fermai per rendere la presentazione dei contendenti
più a effetto. Mentre tutti gli
sguardi erano su di me, posai
il disossatore sul piano di lavoro e impugnai una frusta,
una di quelle per montare a
neve la chiara d'uovo.
Quindi ripresi: «Anche i giurati erano d'eccezione, ma per
la finale l'unico arbitro sarebbe stato Gordon Russell,
uno chef britannico, proprietario d'una catena di ristoranti
e, soprattutto, il principale
protagonista di varie serie culinarie di successo, noto per il
suo carattere scorbutico. Ci si
sarebbe confrontati su un'unica ricetta, la stessa per
entrambi».
«Gordon Russell me lo ricordo», disse la ragazza sorridendo. «Aveva un viso
- 42 -
simpatico, forse perché le rughe sulla fronte e sul mento
ricordavano quelle della mia
nonna materna. Le sue sfuriate erano mitiche ed esilaranti».
«Proprio lui», confermai.
«Non aveva rispetto per nessuno. Per lui insultarti era
naturale come darti il
buongiorno di prima mattina.
Le sue arrabbiature potevano
essere divertenti per il
pubblico, ma per chi le subiva erano più dolorose d'una
flagellazione sulla pubblica
piazza... Ehi! Wang, spegni il
fornello, o l'anatra finirà
carbonizzata!»
Il cinese, che stava
ascoltando a bocca aperta, si
affrettò a chiudere il gas e il
fuoco si estinse.
Sventato l'attentato contro
l'incolumità dell'arrosto, ripresi: «Non esiste attività più
violenta dello scontro tra due
cuochi che vogliono primeggiare uno sull'altro. Era
una lotta all'ultimo sangue,
contro il tempo, per rispondere, ingrediente dopo ingrediente, alle mosse
dell'avversario».
«Qual era il piatto?» chiese la
ragazza.
«Venne estratto un "fegato
alla veneziana"».
«Nulla di complicato,
quindi».
Sospirai. «Niente di più sbagliato: sono proprio i piatti
semplici quelli più difficili.
Con essi si può misurare
l'abilità di un cuoco. Tutti sono capaci di rendere speciali
ricette complesse, basta sce-
gliere ingredienti di
prim'ordine, rispettare i
tempi di cottura ed evitare
gli errori più grossolani. Un
piatto semplice, invece, può
essere reso unico solo
dall'abilità di chi lo prepara,
dai colpi di genio che, stravolgendo la ricetta originale, rendono quella pietanza
un'esperienza unica e indimenticabile per chi l'assaggia».
Mentre gli allievi riflettevano su quanto fosse complicato preparare un piatto
semplice, passai accanto al
cinese e gli chiesi a bruciapelo: «Wang, quali sono gli
ingredienti del fegato alla
veneziana?»
Dopo un istante di panico,
con lo sguardo fisso nel
vuoto, recitò a memoria:
«Pel quattlo pelsone: 600
glammi di fegato di vitello,
600 glammi di cipolle
bianche, 1 bicchiele di aceto bianco, 1 bicchiele di
blodo, olio extlavelgine
d’oliva, sale quanto basta e
50 glammi di bullo».
Ad ogni pronuncia della
parola "glammi", le risatine
degli altri allievi crescevano, per poi scoppiare in un
boato fragoroso al "bullo".
Li zittii prontamente con un
cenno della frusta.
«Molto bene, Wang. E lei,
signorina, cosa ci sa riferire
sul fegato alla veneziana?»
«C'è poco da dire. Si tratta
di un tipico piatto veneto,
con proprietà nutritive. La
ricetta classica associa il fegato di vitello, alimento
dietetico, con le cipolle, un
ingrediente immancabile.
Qual è stato quindi il suo
errore? Oh, mi scusi, maestro...», si corresse sorridendo, «qual è stato il
colpo di genio a cui deve la
sconfitta?»
Incassai la facile ironia e
ignorai la provocazione
ancora una volta. Quella
era un'occasione da non
perdere: gli allievi avrebbero compreso che cosa
davvero rende un piatto
speciale, un'esperienza
indimenticabile per chi lo
gusta.
Iniziai a raccontare: «Il
conduttore ci diede un limite di tempo e fece partire il
cronometro. Io e Jean Luc
avevamo a disposizione
una cucina completa e ogni
tipo d'ingrediente era
pronto nella dispensa. In
tutta fretta cominciai a preparare le cipolle: le lavai e
le tagliai a fettine. Presi poi
una padella antiaderente e
misi a scaldare il burro con
un po' d'olio, quindi versai
le cipolle, che avevo ben
scolate, dopodiché aggiunsi
il bicchiere d'aceto bianco e
un pizzico di sale. Mescolai
bene, versai anche il
bicchiere di brodo e coprii
la padella con un coperchio
lasciando cuocere le cipolle
a fuoco lento. Dovevo stare
attento a non farle friggere,
perché devono rimanere
morbide. Restava mezz'ora
di tempo ed era giunto il
turno del fegato. Lo presi e
lo tagliai in cubetti di circa
- 43 -
tre centimetri.
Di tanto in tanto, mentre la
trasmissione continuava tra
i commenti della giuria e
l'esibizione canora di
qualche ospite, lanciavo rapide occhiate a Jean Luc:
era al mio stesso punto.
Procedevamo di pari passo,
sembrava quasi di vedersi
allo specchio.
Quando le cipolle furono
cotte, versai il fegato nella
padella, mescolai e coprii.
Attesi una decina di minuti
girando di tanto in tanto.
Quasi allo scadere del
tempo, versai il fegato in un
piatto, guarnii con cipolle e
servii la portata ben calda
di fronte a Gordon Russell».
Presi fiato. Gli allievi
pendevano dalle mie
labbra. Si stavano chiedendo che cosa avessi sbagliato. Tutto era stato eseguito a regola d'arte, come
insegnano i manuali di cucina.
Continuai: «Dopo aver
servito la portata, con la
coda dell'occhio, feci in
tempo a vedere Jean Luc
che, nei pochi secondi che
rimanevano, versava
un'ultima goccia d'aceto sul
fegato.
Il giudice assaggiò con
scrupolo entrambi i piatti.
Li assaporò con calma, ma
sembrava indeciso. Il
pubblico in sala era in attesa del responso, pregustando gli insulti che ci sarebbero stati riservati.
Alla fine fui chiamato e,
con un forte accento inglese, Gordon disse: "Gabriele, il tuo fegato alla veneziana è perfetto. Lo hai
cotto al punto giusto, senza
rischiare che potesse diventare duro e amaro. Well
done! Anche le cipolle sono
delicatissime. Hai seguito
la ricetta alla perfezione".
Poi si rivolse al mio
avversario: "Jean Luc, tu
non sei stato fedele alla ricetta quanto Gabriele. Hai
usato dell'aceto balsamico?"
Il belga, con la voce resa
tremante dall'emozione e
dalle erre alla francese,
ammise: "Oltre al bicchiere
d'aceto bianco ho aggiunto
due cucchiai d'aceto balsamico durante la cottura, con
un'ultima goccia prima di
servire".
Gordon concluse: "La tua
variante mi ha emozionato.
Quei due cucchiai hanno
reso il tuo piatto meno
perfetto, ma più
coinvolgente, e l'ultima
goccia non ha fatto traboccare il vaso. Il vincitore
sei tu".
Quella proclamazione fece
esplodere il pubblico che
assisteva in studio in un
boato d'acclamazione. La
regia fece suonare le
trombe e, nel tripudio generale, furono sparati coriandoli e stelle filanti. Il
"Grande Chef" aveva il suo
vincitore, ma non riuscivo a
capacitarmi: non ero io.
Mi feci largo tra la folla degli ospiti festanti e, mentre
Jean Luc lanciava in alto il
suo cappello da chef,
m'avvicinai a Gordon. Era
l'unico che ancora mi prestasse attenzione. Fissò su
di me il suo sguardo
incorniciato da rughe: aveva l'aspetto d'un vecchio sapiente che teneva ancora in
serbo una preziosa perla di
saggezza.
Nella confusione generale
gli chiesi spiegazioni,
pronto a controbattere alle
sue critiche, e dissi: "Ma il
mio fegato non era
perfetto?"
Lo sguardo di Gordon
s'illuminò e con le sue
parole mi mostrò un nuovo
mondo, un intero universo
di possibilità, che fino ad
allora avevo ignorato. Si
accostò con le labbra al mio
orecchio per farsi udire
nella confusione e disse:
"Dici bene. La tua debolezza non è nella tecnica.
Ma pensi che siano solo
aromi di cucina quelli che
respiri ora? No, non solo.
Sono fasci di sensazioni
che s'intrecciano e si richiamano l'un l'altra. La vista,
l'olfatto, il gusto congiurano insieme e ingannano il
cervello per fargli credere
che ciò che mangiamo non
sia solo un informe impasto
di molecole, ma sembri una
sinfonia di sapori, profumi
e colori.
Ogni piatto deve avere
un'anima. Il tuo, per quanto
perfetto, non ce l'ha. Il tuo
fegato cammina, ma non
possiede un'anima: è uno
- 44 -
zombi"».
Interruppi la narrazione a
quel punto, dopo aver
sottolineato con il tono
della voce la parola
"zombi".
Quindi mi rivolsi alla ragazza: «Lei, signorina, mi
ha chiesto quale fu il mio
errore. Allora ero giovane.
Già affermato, certo, ma
non ancora il migliore.
Quella sera, di fronte al fegato morto-vivente, mi
crollò il mondo addosso. Ci
volle del tempo per riprendermi, ma alla fine
capii che dovevo imparare
ancora molto, come voi. Il
mio errore fu quello d'aver
cucinato un perfetto fegato
alla veneziana, ma ciò che
fa diventare un piatto sublime è quel colpo di genio
che lo rende imperfetto e
sorprendente».
Gli allievi, che avevano
ascoltato a bocca aperta il
mio racconto, erano rimasti
inebetiti. Posai la frusta e
ripresi la mannaia, quindi
gridai: «E ora, pessime
controfigure d'un lavapiatti,
gettate nella pattumiera
quello zombi volatile che
avete cucinato e ricominciate. Uscirete da qui
solo quando la vostra anatra
in salsa tartara e curry volerà!»
FINE
S ka n
OLTRE LO skannatoiO
Space Rats
NASF
Le TRE LUNE 7
[email protected]
Il luogo è piccolo, spoglio;
assomiglia più ad una tana che
a un'abitazione vera e propria.
Quattro pareti di acciaio lisce, color grigio antracite, attraversate in un angolo da pesanti
tubi di metallo. Il soffitto è basso, meno di un metro e mezzo,
e per starci dentro occorre
abbassare un po' la testa.
Solo una lontana luce del
corridoio ne rischiara l'interno,
ma a dire la verità non è che ci
sia molto da vedere: un giaciglio su cui dormire, quattro
stracci di indumenti e poco
altro.
A volte ho l'impressione di
aver trascorso qui tutta la mia
esistenza. E invece ricordo
ancora sprazzi della mia vita
passata, quando ero una persona
normale con una casa, un'auto e
un lavoro sicuro.
Il lavoro, già...
Avevo studiato ingegneria
mineraria all’università di
Seattle, e la ditta presso cui lavoravo era una delle più solide
del settore.
Poi venne la crisi del '57, do-
vuta al crollo dei prezzi della
daxamite dopo la scoperta dei
giacimenti di Ceta Zephi, e
improvvisamente mi ritrovai
sulla strada, assieme a tanti altri
che come me avevano perso
tutto: il lavoro, i soldi e con la
casa pignorata dalle banche.
In principio il governo ci
passava un sussidio per tirare
avanti, ma eravamo in troppi e
quando realizzò che continuando ad aiutarci rischiava la
bancarotta, cambiò politica nei
nostri confronti. Noi eravamo
un problema, e dal momento
che questo problema non era in
grado di risolverlo, decise di
eliminarlo.
Iniziarono allora i rastrellamenti: squadre di poliziotti
pattugliavano le città alla ricerca di vagabondi e senzatetto.
Chi veniva preso spariva dalla
circolazione. Nessuno sapeva
che fine facessero, ma di sicuro
nelle carceri non c’era abbastanza posto per tutti, e le voci
che circolavano non erano
tranquillizzanti.
In principio la mia era una
- 45 -
zona tranquilla, ma col tempo i
rastrellamenti si fecero sempre
più vicini e così, per non fare la
fine di tanti altri, decisi di
abbandonare le strade. Ma per
andare dove?
Con tutte le uscite sorvegliate, l'intera città era diventata
una grande trappola. Nemmeno
le fogne erano un luogo sicuro.
Non mi restava che un'unica via
di fuga: verso l'alto... il cielo...
le stelle!
Raggiungere lo spazioporto
non fu facile, e tanto meno
entrare di nascosto in un'astronave.
Ma ce la feci.
E lì scoprii di non essere
stato l'unico ad avere avuto
quell'idea.
Nella stiva dove mi rifugiai
c'erano almeno altre cinquanta
persone, tra uomini e donne.
Gente che, come me, la società
aveva rinnegato.
Quell'astronave divenne la
mia nuova patria, quella gente
la mia nuova famiglia.
Da allora vivo nell'astronave.
***
Una volta che impari a conoscerla, un'astronave è un posto sicuro.
È enorme, e probabilmente
ogni membro dell'equipaggio
non la visiterà mai tutta
nemmeno se vi stesse cent'anni.
Il personale di bordo vive e
svolge la propria attività lavorativa in spazi ben definiti, che
non sempre si intersecano con
quelle degli altri. Noi viviamo
in queste zone d'ombra. Viviamo in quegli hangar che
sappiamo nessuno visiterà per
mesi, nelle intercapedini tra un
corridoio e l’altro dell’astronave, negli anfratti più profondi
della sala macchine.
Sono entrato dagli sfoghi
delle ventole ausiliarie. All'inizio è stata dura; quando ancora
non conosci bene l'astronave
c'è il rischio di nascondersi in
luoghi dove poi si verrà scoperti. O, peggio ancora, in zone
che durante il viaggio potrebbero diventare inabitabili.
Un mio amico, Zake lo
zoppo, aveva trovato rifugio in
una camera abbandonata in
prossimità dei motori al plasma. In principio tutti quanti lo
invidiavamo: la stanza, seppure
rumorosa, era isolata dal resto
dell’astronave e dal momento
che i membri dell'equipaggio
sembravano evitarla correva
meno rischi di noi di essere
scoperto.
Quando l'astronave ha fatto
il balzo nell'iperspazio la camera dove lui si trovava è stata
inondata di radiazioni.
Il suo corpo è diventato
gonfio, si è ricoperto di pus e
poi è esploso.
È stato uno spettacolo orribile a vedersi, anche se Jack il
pazzo, che una volta faceva il
medico -o almeno così affermadice che il povero Zake non ha
sentito niente, tanto veloce ed
intensa è stata l’esposizione
alle radiazioni.
Fu un episodio che colpì
profondamente tutti quanti noi
abitatori delle stive e che ci rese più guardinghi, più attenti.
Ma per quanto uno possa essere accorto, l'imprevisto è
sempre dietro l'angolo.
Come nel caso di Henry. Il
povero Henry si era piazzato in
un hangar contenente merci destinate a Lobros 9, un pianeta
all'altra estremità della galassia.
Normalmente un viaggio simile
dura almeno cinque mesi, e lui
era convinto che per quel periodo di tempo avrebbe potuto stare tranquillo. Senza contare che
accanto a sé aveva cibo a volontà, fuoriuscito da un container che si era danneggiato durante l’imbarco.
Purtroppo a metà viaggio la
nostra astronave incrociò la
rotta della “Acroyear”, anche
lei diretta a Lobros 9. Il capitano, per ottimizzare i tempi di
viaggio, decise di trasbordare la
merce nella stiva dell'altro vascello e di tornare verso
Garlion per una nuova
commessa. Il trasbordo fu fatto
nello spazio aperto, da motrici
semoventi completamente automatizzate. Il povero Henry non
aveva nessuna tuta spaziale e
quando l'hangar si aprì lui finì
risucchiato nello spazio.
- 46 -
Forse in quell'occasione
qualcuno lo vide; fatto sta che
nei giorni seguenti delle pattuglie formate dai membri
dell'equipaggio rastrellarono gli
hangar. Ma per loro questi spazi erano luoghi pressoché sconosciuti, noi invece li conoscevamo a menadito e sapevamo
dove nasconderci, dove rintanarci per eludere i fasci di luce
delle torce elettriche.
Nessuno di noi fu trovato, e
nel giro di una settimana tutto
tornò alla normalità.
È vero, se avessero usato dei
visori agli infrarossi o dei
sensori termici avrebbero potuto scoprirci facilmente. Ma non
lo hanno fatto. Il vecchio Rufus, che un tempo deve essere
stato ingegnere spaziale o
qualcosa di simile, dice che
non si è trattato di imperizia o
di una dimenticanza. Secondo
lui non hanno usato questi
mezzi perché altrimenti, oltre a
noi, avrebbero scoperto
qualcos'altro che non doveva
esserci, nell'astronave.
Magari merce di
contrabbando, droghe, o l’amichetta di qualche ufficiale
imbarcata di soppiatto.
Forse ha ragione, forse no.
Potrei scoprirlo, probabilmente, se volessi. Del resto
il tempo non mi manca. Ma ho
imparato, stando quaggiù, che
se vuoi vivere tranquillo è meglio non immischiarsi in affari
che non ti riguardano.
In fondo, questa esistenza
non è disprezzabile.
La zona in prossimità del
vano motori ha un calore costante che ci permette di colti-
vare piccole piante commestibili.
Ricaviamo l'acqua dalla
condensa che si forma nelle tubazioni dei condotti di raffreddamento.
Non è molta, ma ci permette
di vivere. I più fortunati riescono
anche ad averne quel tanto che
basta in più per coltivare delle
piantine.
Per il cibo ci si arrangia. Non
è vero che le astronavi sono
perfettamente sterilizzate e
asettiche. Se ve l'hanno detto
non credeteci; sono tutte balle.
Anche all'interno delle astronavi vivono e prosperano piccoli
instetti e parassiti. Alcuni addirittura hanno sviluppato un sistema circolatorio anaerobico che
gli permette di sopravvivere
anche nelle condizioni più estreme, come il vuoto dello spazio.
Non sono male da mangiare,
l'importante è farci l'abitudine.
E vi assicuro che quando la
fame vi stringe le budella e vi fa
venire i crampi allo stomaco
l'abitudine ce la si fa. Eccome.
L'essere schizzinosi è l'ultimo
dei vostri pensieri.
Inoltre sono molto nutrienti.
Non saziano, ma vi fanno avere
quel tanto che basta di energia
per tirare avanti.
L'unica cosa che manca al nostro piccolo gruppo sono dei
bambini.
Pur con tutte le difficoltà del
caso, potrebbero essercene, se
volessimo.
La nostra comunità è composta sia da uomini che da donne, e
con il tempo si è anche formata
qualche coppia. Il problema è
che qui, nell'immensità dello
spazio, la forza di gravità è
alquanto ridotta. Una condizione
che potrebbe essere deleteria per
eventuali bambini. Crescerebbero deboli, senza tono muscolare
e con ossa estremamente fragili,
inadatti a vivere su un pianeta a
gravità normale. Sarebbero
condannati per sempre ad un'esistenza da esuli dello spazio.
Invece tutti quanti noi contiamo un giorno di poter tornare su
un pianeta da poter chiamare casa.
Circola una leggenda, fra di
noi esuli dello spazio. Non si sa
come sia nata; si mormora che
sia stata trovata incisa in una
barra di uranio esausto fuoriuscita da un motore in avaria.
Dice che un giorno l'astrona-
- 47 -
ve su cui viviamo raggiungerà
un pianeta nuovo ed inesplorato,
immacolato come doveva essere
stata la nostra Terra milioni di
anni fa.
E lì l'astronave si fermerà, in
panne, e non sarà più in grado di
ripartire. E nessuno, tra i meccanici, gli ingegneri e gli scienziati
che saranno a bordo sarà in grado di aggiustarla, né di lanciare
un segnale di emergenza attraverso le spirali del cosmo.
Allora noi potremo tornare
alla luce, abbandonando i nostri
nascondigli e riconquistare un
posto in cui vivere.
Ed un nuovo mondo si aprirà
a noi, e una nuova razza di uomini potrà trovare il suo posto
fra le stelle.
S ka n
Nella pancia del Drago
http://www.sulromanzo.it/redazione/andrea-atzori
Contenuto invisibile alla
comunità non magica
Blank page. Immaginate? Così doveva essere in
principio questa puntata di Nella pancia del drago , in un dadaismo web 2.0 doveva presentare
una pagina bianca. Contenuto invisibile alla comunità non magica. Farlo, però, avrebbe significato scaraventare impunemente voi fedeli
lettori tra la calca della comunità non magica e,
probabilmente, vedermi licenziato da Sul Romanzo . Però sarebbe stato figo, no?
Vi sto mesmerizzando? Yes, benvenuti, perché
in una rubrica (gastrica) di approfondimento
fantasy non poteva mancare una puntata dedicata alla magia. Nelle precedenti puntate,
abbiamo avuto modo di parlare di magia in relazione all’incanto letterario che in sé, partendo
dal linguaggio e dal world building, sta alla base
del fantasy come genere letterario, e l’abbiamo
fatto in questi termini:
[…] La forza delle istanze del mito, la potenza
archetipale dell’epica e dell’“hero journey”, era
la stessa dell’ intrattenimento a bocca aperta
attorno ai fuochi primordiali e non poteva a
lungo essere costretta nelle anguste finestrelle di
evasione all’interno delle novelle realiste. Aveva
bisogno di uno spazio proprio, di un mondo, un
pianeta, una dimensione a parte dove potersi
esprimere; spazi in cui esplorare il noto sino ai
suoi limiti e oltre, senza costrizioni, dove il nostro stesso sentirci umani avrebbe potuto essere
messo alla prova senza ritegno perché posto di
fronte al mostruoso, all’essenza della paura,
all’idea della perfezione, alle infinite materializzazioni di come possiamo immaginare noi
stessi, il modo in cui viviamo e sentiamo di vivere, reale nell’essenza proprio perché non più
limitato nel vestito. Mimesi: magia. […]
Se la narrazione fantastica, per i suoi artifizi stilistici e il modo in cui si rapporta al lettore, si
potrebbe definire magia in sé e per sé, a maggior
ragione lo è quando la magia si presenta anche
come nucleo tematico della storia che si
racconta. Il fantasy parla di magia, lo ha sempre
fatto, sempre lo farà, perché è difficile poter
anche solo concepire la fantasia, l’immaginazione, senza associare a esse l’incanto, il magico. Sono la stessa cosa.
A questo punto un buon redattore di una rubrica
di approfondimento critico sul fantasy vi dovrebbe parlare della differenza fondamentale che
intercorre tra il sottogenere high-fantasy e quello
low-fantasy. Non lo farò, sicuro che una breve
escursione su Wikipedia possa soddisfare la vostra sete di conoscenza con illuminanti massime
come la seguente:
- 48 -
[…] caratteristico di questi generi [high fantasy]
è il fatto che la vittoria finale non si ottiene con
le armi, esse sono un aiuto ma non si può
sconfiggere il Male con esse, altrimenti, se un
personaggio uccide con un colpo di spada (o di
un'altra arma) il principale cattivo questo diventa Heroic Fantasy, invece nell'High Fantasy
si sconfigge il nemico con la magia.
Ndr: estratto da “Seminario magico sui sottogeneri della letteratura fantastica, a cura di Gigio
il Topo, compendium del saggio “come far sparire le virgole nel nulla”, raccolto posteriormente in “come uccidere un nemico con uno
sputo: lo spit-fantasy. ”
Fantasy e magia, maghi e stregoni, eroi guerrieri
con artefatti o armi magiche, antichi incantesimi
destinati a sconfiggere il “male”, profezie che
investono un prescelto tra le schiere del “bene” e
via discorrendo. C’è un paradosso che, quando
si tratta di magia, sembra accomunare la letteratura fantastica dalla novità fresca di stampa sino ai classici illustri, e per un amante del genere
il rendersene conto non è facile. La magia appare niente più che come utensile. Ci avete mai
fatto caso? Il protagonista, nelle varie fasi del
suo viaggio, per riuscire a portare a compimento
la propria “quest” – che sia questa sconfiggere
un drago o affrontare i demoni del proprio passato – quasi sempre si serve di espedienti magici; essi però raramente sono il fulcro della storia.
Paradossalmente, che il protagonista salvi il
mondo con l’incantesimo supremo del bene assoluto o con un punteruolo arrugginito, da un
punto di vista prettamente strutturale della narrazione, il risultato è il medesimo. Personaggio A
ha bisogno di componente B per risolvere la
situazione C. È un po’ triste rileggere la gran
parte dei nostri romanzi preferiti sotto quest’ottica, ma essa di rado è incrinata. Cosa rimane di
magico alla magia in questo modo? Poco, e la
differenza, come sempre, la fa la sensibilità
dello scrittore.
Arrivo al punto. Ciò che mi ha portato ad
affrontare questo argomento è la lettura appena
conclusa di un libro che porto alla vostra
attenzione, il primo testo “contemporaneo” che
si affaccia a questa rubrica che ha sempre
trattato di teoria e classici del genere. No, non
conosco di persona l’autore e no, l’editore non
mi ha pagato. Si tratta soltanto di aver letto un
libro, e di esserne stato travolto. Si tratta de
L’età sottile, di Francesco Dimitri, edito da Salani (2013).
Ora, l’Italia forse ancora non lo sa, e forse
mai lo saprà, ma L’età sottile è uno dei romanzi più belli che abbia avuto la fortuna di
ospitare nella sua lingua. Chi sono io per dire
questo? Mr. Nessuno, e tanto basta. In questo libro, Francesco Dimitri, classe 1981, ha portato a
compimento qualcosa che la letteratura italiana
non ha mai visto e che raramente si è visto nella
letteratura in sé: la magia come protagonista in
un romanzo realista.
Un paradosso? Sì, e come tutti i paradossi sussiste nonostante la contraddizione interna, e abbaglia, e atterrisce, ed esalta. In un delicato romanzo di formazione, un romanzo di
adolescenza e di crescita tra le vacanze estive e
una Roma invernale e cruda, la realtà si sfalda in
brecce e ci lascia terrificati in attesa della prossima pagina. Niente draghi, niente Hogwarts –
magico e non-magico separati in due mondi che
si toccano appena –, ma soltanto persone, maghi
come soltanto le persone possono diventare, and
in this very reality. Dimitri attinge dalla millenaria tradizione magica, misterico-esoterica europea e la riversa sulle vite del suo protagonista
sedicenne Gregorio e dei suoi amici, che ne
verranno travolti come lo sono stati e lo saranno
tutti coloro che affrontano il cammino di questa
“arte”, ancor più se in un’”età sottile” come
l’adolescenza.
Nessuna fantasia nell’accezione “irreale” del
termine, ma reali conoscenze tramandate, esperienze. Infrangendo tabù di presunta segretezza
occulta e il fraintendimento della “comunità
non-magica”, Dimitri prende la realtà in una
mano, nell’altra la magia, e le schianta l’una
- 49 -
contro l’altra. E diamine se trema la terra sotto
i piedi e i peli sulle braccia si rizzano. La nostra
visione del mondo è turbata nel profondo e non
vi è più l’appello alla “fantasia” come evasione
salvifica, no, vi è solo terrore e tremore e meraviglia di fronte all’ignoto, che pur non-conoscibile è assolutamente reale nei suoi abissi.
Non mi credete? Leggetelo. Ne L’età sottile, al
pari di “realtà” e “magia” anche due modi di
concepire la letteratura, il realismo e il fantastico, si scontrano come placche tettoniche, e l’universo per un momento trattiene il respiro. E Dimitri è assolutamente consapevole di ciò che ha
realizzato. Nessuno scrive un libro di questa
portata per caso. Egli non potrebbe, però, che essere modesto e prudente, ed è perciò questo redattore entusiasta che fa il passo successivo.
Nelle parole di Dimitri, nella sua opera miliare,
voglio leggere un monito e una consapevolezza
che questa rubrica ha cercato di portare alla luce
più volte: il potere della letteratura fantastica,
come della magia, è quello di salvare la realtà
da se stessa.
“Lo vedi, cosa succede nel mondo? Intere specie
si estinguono; l’Occidente sprofonda, l’Oriente
lo segue; i boschi scompaiono, le città perdono
bellezza. È l’inizio di un’era terribile.”
Levi fece una pausa. “Tu non hai idea di che cosa sia in arrivo. Serve qualcuno che porti avanti
la torcia, quando io non ci sarò più.”
“Eroi.”
“No” rispose Levi, nettamente. “Noi non siamo
mai gli eroi. […] Noi siamo quelli che consigliano gli eroi, che fanno il loro lavoro sporco. Noi
siamo la voce dietro al trono: sempre Merlino,
mai Artù.”
Francesco Dimitri, L’età sottile
Nella prossima puntata: L’invasione dei vampiri.
La storia di quando i trend di mercato scompigliano i generi letterari e riformano il gusto del
lettore. Ebbene sì, sono pallidi, tecnicamente
morti, temono la luce del sole, le decapitazioni e
i paletti nel cuore: e sono ovunque.
- 50 -
S ka n
Il libro sullo scaffale
A rn i s a n
Il Longobardo
di Ugo Moriano
Un romanzo di fantasia epica racchiuso all’interno di
una cornice storica.
Attraverso le vicende della famiglia dei Duchi di Asti e
dei loro antagonisti, vengono rivissuti gli ultimi mesi
del Regno Longobardo e l’arrivo in Italia di Carlo Magno, Re dei Franchi; le battaglie che sostennero gli uomini di Asti; la fondazione di una nuova città in riva al
mediterraneo.
Travolti dagli eventi che cancellarono il popolo longobardo dalla geografia geopolitica del tempo, vittime di
una serie di uccisioni che li falcidiarono uno ad uno, separati e dispersi dall’arrivo delle armate franche, i
personaggi di questo racconto lottano per sopravvivere e
ricongiungersi mentre il loro mondo sembra sgretolarsi
e ogni loro certezza svanire.
I loro avversari li impegneranno in una lotta senza
quartiere, li braccheranno costringendoli a continui
scontri, finendo però a loro volta travolti dalle vicende a
cui partecipano.
Questo libro racconta la fine di un’era, vista dagli occhi
di coloro che ne usciranno sconfitti e annientati, ma è
anche il racconto di una nuova nascita che coinciderà
con la fondazione della città di Unheila che, molti secoli
dopo, sarà conosciuta come Oneglia.
L'autore
Ugo Moriano è nato a Imperia nel 1959 e dal 1984 vive
con la propria famiglia a Diano Marina in provincia di
Imperia.
Dopo aver lavorato per 12 anni nelle Ferrovie dello
Stato, dal 1993 è un impiegato amministrativo del Comando dei Vigili del Fuoco di Imperia. L’amore per la
lettura e l’interesse per la storia lo accompagnano fin
dalla più giovane età.
Dopo essersi cimentato per hobby, negli scorsi anni, in
racconti pubblicati su comunità virtuali sul Web, nel
2008 esordisce nel mondo della carta stampata con il
romanzo giallo: “Il ricordo ti può uccidere” a cui
fanno seguito “L’Alpino disperso” (2009), “A Sanremo si gioca sporco” (2010), “Sospetti dal passato”
(2011) e “L’arte del delitto” (2012) tutti editi dalla
Fratelli Frilli Editori. Nel 2011 è stato pubblicato
“Arnisan il longobardo”
Nel 2012 “L’ultimo sogno longobardo” vincitore del
61° premio Selezione Bancarella 2013.
Nel 2013 è stato pubblicato il romanzo fantasy “Il diamante di Kindanost”
Nel dicembre del 2009 vede la luce anche il suo
racconto gotico “Il Ritorno” e nella primavera del
2010, sul sito della biblioteca di Diano Marina, viene
pubblicato il link ad un suo racconto umoristico intitolato La vera storia della scoperta del fuoco.
Il suo sito: www.ugomoriano.it
- 51 -
S ka n
I Libri da rileggere
Il Risveglio Di Erode
di Greg Bear
Il paleontologo Mitch Rafelson è in Austria, dove viene portato in una grotta sulle Alpi in cui
sono state trovate alcune mummie davvero
particolari. Si tratta infatti di una coppia di
neanderthal ma assieme a loro c’è una neonata
che mostra caratteristiche degli esseri umani
moderni.
Kaye Lang è una genetista specializzata in
endovirus che viene chiamata per studiare dei
cadaveri ritrovati in una fossa comune nella Repubblica di Georgia. Inizialmente sembrava
trattarsi di vittime risalenti all’epoca di Stalin
ma risultano essere molto più recenti. Tra di esse
ci sono neonati che mostrano caratteristiche
anomale. Quando Lang cerca di approfondire lo
studio, il governo locale manda via tutti gli stranieri sul luogo.
Un’improvvisa impennata nella quantità di
aborti spontanei porta il governo americano a
creare un gruppo che indaghi sulle cause. Kaye
Lang viene chiamata a farne parte e si rende
Il risveglio di Erode
conto che un endovirus potrebbe esserne la caudi Greg Bear
sa. Il problema diventa più complesso quando
lei e pochissimi altri pensano che non si tratti di
una malattia ma di un meccanismo biologico più
complesso legato all’evoluzione.
In parecchi suoi romanzi, Greg Bear ha
raccontato storie di eventi che hanno una proIl romanzo “Il risveglio di Erode” (“Darwin’s
Radio”) di Greg Bear è stato pubblicato per la fonda influenza sulla storia del mondo, anche in
prima volta nel 1999. Ha vinto il premio Nebula senso distruttivo. “Il risveglio di Erode” può
sembrare inizialmente un altro romanzo di quecome miglior romanzo dell’anno. In Italia è
stato pubblicato da anucci nel n. 1 di “Collezio- sto genere con la genetica come tema di base al
ne Immaginario. Solaria” e nel n. 20 di “Tasca- posto della nanotecnologia. In realtà, ci sono
differenze importanti.
bili Immaginario”.
- 52 -
Nei suoi precedenti romanzi più o meno catastrofici, c’era una minaccia esterna che poteva essere di
natura aliena o un’invenzione con conseguenze inaspettate. “Il risveglio di Erode” propone invece
quella che può essere considerata una minaccia per
l’umanità che però viene dall’interno. Si tratta
infatti di un endovirus, cioè di un virus o di un retrovirus che in un passato forse molto remoto è
stato assorbito nel DNA di qualche antenato degli
esseri umani.
A causa dell’argomento, “Il risveglio di Erode” è
un romanzo di fantascienza “hard” in cui il lato
scientifico è basilare. Greg Bear scrive abitualmente quel tipo di fantascienza e in questo caso
la scienza domina la storia in maniera forte anche
per gli standard di quest’autore.
In altri romanzi, Greg Bear inseriva elementi
scientifici e tecnologici inventati, ne “Il risveglio di
Erode” le informazioni sulle ricerche genetiche sono molto vicine alla realtà con basi reali. Ovviamente, c’è una notevole speculazione, uno dei punti
forti di quest’autore, ma molti elementi sono
scientifici, non fantascientifici.
Greg Bear ha basato questo romanzo sull’effettiva
esistenza degli endovirus ma anche su reali ricerche
su sistemi biologici, cioè network che si applicano
a organismi in cui più individui possono in qualche
modo lavorare assieme. Un esempio tipico sono gli
alveari ma ci sono altre ricerche che studiano ad
esempio le dinamiche che nascono tra gli alberi di
un bosco.
Organismi diversi possono scambiarsi segnali biochimici anche complessi che possono portare a modifiche nel sistema. In questo romanzo l’idea è che
un endovirus che per millenni rimane inattivo può
riattivarsi e dare inizio a modifiche nel DNA degli
esseri umani. In un tempo davvero breve, ciò può
portare ad un salto evolutivo con una nuova specie
che emerge in una sola generazione.
“Il risveglio di Erode” ha forti basi scientifiche ma
Greg Bear guarda sempre anche il lato umano delle
sue storie. In questo caso, le reazioni agli effetti
dell’endovirus sono per lo più negative. L’umanità
è disastrosamente impreparata a ciò che sta accadendo e in molti casi la conseguenza è che le madri
e i figli mutanti vengono addirittura uccisi.
Il governo americano cerca una cura a quella che
viene considerata una malattia e le donne vengono
progressivamente isolate in una quarantena sempre
più allargata. Kaye Lang e pochissimi altri capiscono che in realtà l’endovirus ha effetti a lungo
termine che non sono mortali, anzi portano alla nascita di una nuova specie vivente.
Molti non credono a Kaye Lang, altri non vogliono
crederle per vari motivi, molti altri non capiscono
cosa stia succedendo perciò sono sempre più agitati. I governanti tendono a fornire solo le informazioni che ritengono utili, per il bene del popolo,
s’intende. Le rassicurazioni ufficiali hanno però un
effetto limitato.
“Il risveglio di Erode” ha molti personaggi e onestamente solo quelli principali sono realmente sviluppati. Perfino alcuni personaggi importanti risentono dell’uso di qualche cliché: gli interessi
personali, le paure e le paranoie di singoli personaggi dovrebbero rappresentare anche le reazioni di
parti della popolazione ad un fenomeno globale
davvero unico ma non sempre questo funziona.
Un altro problema del romanzo è che il ritmo tende
a essere lento. Questo è inevitabile in una storia in
cui il lato scientifico è così approfondito ma capisco che per qualcuno una tale lettura possa diventare pesante. “Il risveglio di Erode” è lungo e, pur
avendo un finale, lascia la vicenda di fondo aperta
ad un seguito.
Secondo me, “Il risveglio di Erode” contiene
eccellente speculazioni scientifiche mentre è meno
buono sotto gli altri punti di vista. I suoi pregi mi
sembrano comunque maggiori dei difetti perciò se
vi piacciono le storie di fantascienza “hard” ve ne
consiglio la lettura.
- 53 -
S ka n
I Libri da Rileggere
La Macchina della Realtà
di W. Gibson e B. Sterling
La macchina della realtà
di W. Gibson e B. Sterling
Il romanzo “La macchina della realtà”
(“The Difference Engine”) di William
Gibson e Bruce Sterling è stato pubblicato
per la prima volta nel 1990. In Italia è
stato pubblicato da Mondadori nella collana “Altri Mondi”, nel n. 581 di “Bestellers
Oscar”, nel n. 208 di “Piccola Biblioteca
Oscar”, nel n. 287 dei “Classici Urania” e
nel n. 131 di “Urania Collezione”.
Edward Mallory è un paleontologo che in
una pausa tra i vari suoi viaggi è a Londra.
In seguito ad un casuale incontro con Lady
Ada Byron, la figlia del Primo Ministro
britannico, viene coinvolto in un intrigo
internazionale che ruota attorno al Modus,
un programma su schede perforate che,
utilizzato con una delle macchine sviluppate sui progetti di Charles Babbage,
permette di vincere alle scommesse.
Quando Edward Mallory viene in possesso
del Modus, decide di proteggerlo dai
tentativi di agenti ostili, sia aspiranti ribelli
interni che stranieri, di rubarlo. Con l’aiuto
di Laurence Oliphant, affronta gli attacchi
diretti e indiretti del misterioso Capitano
Swing, che vuole distruggere l’impero britannico.
William Gibson e Bruce Sterling sono conosciuti soprattutto come maestri del cyberpunk ma tra i prodotti della loro collaborazione c’è questa storia alternativa
degli sviluppi tecnologici nell’età vittoriana. Il sottogenere steampunk esisteva già
da alcuni anni e spesso era una sorta di
storia segreta che avveniva nella nostra linea temporale. “La macchina della realtà”
è invece un’ucronia perché il prematuro
sviluppo dell’informatica descritto nel romanzo ha notevoli conseguenze sulla storia del mondo.
Il romanzo si basa su personaggi ed eventi
reali perché Charles Babbage passò la vita
- 54 -
cercando di sviluppare calcolatori sempre
più sofisticati. Un grosso problema per lui
era costituito dalla tecnologia dell’epoca,
ancora non sufficientemente avanzata per
poter costruire macchine così complicate e
sofisticate. Cosa sarebbe successo se
Babbage fosse riuscito a realizzare i suoi
progetti?
“La macchina della realtà” è ambientato
principalmente nel 1855, circa trent’anni
dopo che Charles Babbage è riuscito a costruire la macchina differenziale del titolo
originale e anche la macchina analitica,
ancora più sofisticata. La rivoluzione
informatica che ne consegue ha profonde
conseguenze non solo all’interno
dell’impero britannico ma anche nel resto
del mondo.
In pochissimi decenni, l’impatto della rivoluzione informatica vittoriana è dal
punto di vista sociale e politico molto
maggiore di quella effettivamente avvenuta alla fine del XX secolo. Nel corso de
“La macchina della realtà” vengono forniti
moltissimi dettagli che pian piano ci offrono un quadro della situazione in quel
mondo alternativo.
Spesso le storie steampunk si concentrano
sulle invenzioni tecnologiche, invece
William Gibson e Bruce Sterling sviluppano “La macchina della realtà” in maniera
più simile alle loro storie cyberpunk. La
tecnologia alternativa è certamente
importante ma non ci sono molti dettagli
sui computer meccanici esistenti in quella
storia alternativa. Al contrario, gli elementi
sociali e politici sono descritti con molta
attenzione.
Anche i personaggi sono in parte sacrificati con uno sviluppo che è limitato, anche
perché vengono visti in maniera
distaccata, da un narratore almeno inizialmente misterioso. Il romanzo è
frammentato in varie parti e non in tutte i
protagonisti sono gli stessi. Edward
Mallory è il protagonista della vicenda
principale ma, come la maggior parte degli
altri personaggi, è succube di eventi che
almeno inizialmente non comprende.
Spesso, nel corso del romanzo, i personaggi con le loro azioni e le loro
conversazioni sembrano messi lì solo per
permettere agli autori di fornire altri dettagli su quel mondo alternativo. La conseguenza è una storia fortemente
frammentata di cui si fatica a capire il
senso e dal ritmo spesso lento.
Alla fine, “La macchina della realtà” mi
sembra un romanzo adatto soprattutto ai
fan di fantascienza che sono anche appassionati dell’era vittoriana, che possono divertirsi a riconoscere le differenze rispetto
alla storia reale. Ciò riguarda gli avvenimenti ma anche le vite dei personaggi storici inclusi nella storia, anche solo tramite
citazioni.
Personalmente, trovo “La macchina della
realtà” sopravvalutata. Ha una reputazione
controversa e non è adatto a tutti i gusti.
Secondo me può piacere ai fan dello
steampunk, di William Gibson e Bruce
Sterling.
- 55 -
S ka n
I libri da rileggere
Pianeta
Stregato
di D. Gerrold e L. Niven
Pianeta stregato
di D. Gerrold e L. Niven
Il romanzo “Pianeta stregato” (“The Flying Sorcerers”) di David Gerrold e Larry
Niven è stato pubblicato per la prima volta
nel 1970 con il titolo “The Misspelled Magishun” a puntate nella rivista “If” e come
libro nel 1971. In Italia è stato pubblicato
da Mondadori nei nn. 1339 e 1601 di
“Urania” nella traduzione di Maura Arduini.
La vita nel villaggio di Lant è andata
avanti normalmente quando un giorno
arriva un mago dallo strano aspetto su un
uovo volante. Shoogar, il mago del
villaggio, lo sfida a duello ma il nuovo
arrivato non sembra molto interessato a lui
ma solo a compiere strani riti qua e là. La
sua lingua è sconosciuta ma grazie ad un
sortilegio mai visto prima riesce più o meno a comunicare con i nativi e il suo nome
sembra essere qualcosa di simile a Porpora.
Shoogar, offesissimo dall’atteggiamento di
Porpora, cerca vendetta e con l’aiuto di
Lant riesce a distruggere il veicolo del
mago avversario. L’esplosione che ne
consegue causa una morte e distruzione
nel villaggio, costringendo i superstiti a
emigrare. Shoogar pensa di aver dimostrato la sua superiorità come mago ma
Porpora non è morto.
In questa collaborazione, David Gerrold e
Larry Niven affrontano in maniera umoristica il tema dell’incontro tra una civiltà
primitiva ed uno scienziato proveniente da
una civiltà tecnologicamente avanzata. Il
romanzo è raccontato in prima persona dal
punto di vista di Lant, un abitante del
villaggio la cui vita viene sconvolta
dall’arrivo di un alieno.
I nativi del pianeta hanno un livello tecnologico pre-industriale, credono in una serie
di dei e la loro vita è basata su pratiche
magiche, compiute dal mago del villaggio.
- 56 -
Quando un alieno scende sul pianeta con
una navicella a forma di uovo, è inevitabile che venga preso per un mago.
Shoogar, il mago del villaggio di Lant,
vuole dimostrare di essere migliore di
Porpora, come l’alieno viene chiamato, e
riesce a sabotare la sua navicella ma questo provoca enormi conseguenze per i nativi. Infatti, per raggiungere l’astronave
interstellare in orbita, Porpora ha bisogno
dell’aiuto dei nativi, che devono costruire
macchine molto più avanzate di quelle
anche solo concepite fino a quel momento.
“Pianeta stregato” è basato sulle tante
incomprensioni che nascono tra i nativi,
che ragionano in termini di magia, e
Porpora, che ragiona in termini scientifici.
In particolare Shoogar è oltraggiato dal
fatto che Porpora non crede negli dei e
nelle pratiche magiche. Il mago pensa che
Porpora lo stia imbrogliando perché per lui
le tecnologie avanzatissime mostrate dal
suo avversario sono forme di magia il cui
funzionamento viene più volte mostrato.
Porpora cerca a volte di spiegare ai nativi
il funzionamento di alcuni principi scientifici ma nella maggior parte dei casi si
rende conto che non hanno le basi.
Quando deve ricorrere al loro aiuto, ogni
nuovo lavoro da compiere richiede laboriose spiegazioni e spesso litigi con Shoogar, che non riesce a capirne il senso dal
punto di vista magico.
Il fatto che la storia sia raccontata dal
punto di vista di Lant, che cerca di capire
le azioni di Porpora dal punto di vista della
magia, seppure aliena, è uno degli elementi che la rende divertente. La vita del
suo villaggio cambia notevolmente a causa
dell’alieno, anche dal punto di vista sociale. Ad esempio, tra i nativi le donne sono
di fatto schiave ma la necessità di una
forza lavoro allargata le porterà ad acquisire alcuni diritti e ad avere perfino un nome, un fatto sconvolgente rispetto alle tradizioni locali.
Le situazioni che si creano con le
incomprensioni e i contrasti tra Porpora e i
nativi, in particolare Shoogar, sono piuttosto divertenti anche se i personaggi tendono a essere caricature. A volte però gli
eventi sono forzati e in certi casi sono
invece piuttosto drammatici. Anche nelle
commedie ci sono spesso momenti seri ma
in “Pianeta stregato” non sempre c’è un
buon equilibrio tra i vari elementi.
Un altro fattore scherzoso di “Pianeta stregato” è nei nomi. La maggior parte sono
riferimenti al mondo della fantascienza,
dai soli del pianeta Virn e Ouells ai vari
dei. Il vero nome di Porpora è un riferimento ad Isaac Asimov (as a mauve) che
purtroppo viene perso nella traduzione italiana.
La macchina volante costruita nel corso
della storia contiene invece riferimenti
storici. Il nome Cathawk è un riferimento
a Kitty Hawk, dove i fratelli Wright fecero
il loro primo volo. Essa viene assemblata
dai due figli di Lant, Wilville e Orbur, i cui
nomi rimischiano le sillabe di Orville e
Wilbur, appunto i fratelli Wright.
Complessivamente, secondo me “Pianeta
stregato” è un romanzo abbastanza divertente ma nulla di eccezionale, anche
come commedia. Se vi piace la fantascienza umoristica potete leggerlo ma non
aspettatevi troppo.
- 57 -
S ka n
IL libro da tradurre
The Android's Dream
di John Scalzi
molto più potenti degli umani e, nonostante l’esistenza di trattati interstellari che
coinvolgono molte specie, la situazione
potrebbe degenerare in un conflitto
armato.
Una speranza per l’umanità è costituita da
una cerimonia estremamente importante
che presto segnerà la salita al potere di un
nuovo leader Nidu. Fornire una pecora per
la cerimonia verrebbe visto come un forte
segno di amicizia ma si tratta di un animale di una razza molto speciale chiamata
Android’s Dream. Una fazione Nidu
avversa al nuovo leader è però riuscita a
sterminare le pecore di quella razza e
Harry Creek, un dipendente del Dipartimento di Stato davvero particolare, deve
proteggere un “esemplare” davvero unico
che contiene ancora il DNA di quella razza
di pecore.
John Scalzi è famoso in particolare per la
The Android's Dream
serie “Old Man’s War”, “The Android’s
di John Scalzi
Dream” è ambientato in un altro universo
narrativo. Anche in questo caso gli esseri
umani hanno a che fare con parecchie specie aliene ma i rapporti tra di esse sono regolati da trattati interstellari che li
mantengono pacifici. Almeno in genere.
Il romanzo “The Android’s Dream” di
John Scalzi è stato pubblicato per la prima “The Android’s Dream” è concentrato sui
rapporti tra umani e Nidu, due specie che
volta nel 2006. È al momento inedito in
ufficialmente sono alleate. I Nidu comuniItalia.
cano anche tramite odori e un diplomatico
I rapporti tra gli umani e i Nidu subiscono umano sfrutta tale caratteristica per provoun forte peggioramento quando un diplo- care in un collega Nidu una reazione
matico umano provoca la morte di un
talmente violenta da portarlo alla morte. Il
collega Nidu. Gli alieni sono militarmente
- 58 -
fatto che l’umano colpevole abbia utilizzato un apparecchio per emettere odori
installato dove non batte il sole fa capire
fin dall’inizio che questo romanzo contiene ampie dosi di umorismo.
Un inizio del genere può far pensare che
l’umorismo in “The Android’s Dream” sia
rozzo, invece nel corso del romanzo si rivela decisamente sofisticato. La storia
contiene diversi elementi satirici in cui
momenti della politica terrestre del futuro
sono ispirati da quella del recente passato.
Anche la fantascienza stessa è inclusa, con
riferimenti più o meno umoristici. Ad
esempio, la razza di pecore chiamata
Android’s Dream è un riferimento al romanzo di Philip K. Dick. Una religione futura che ha un ruolo importante nella storia
è stata creata da uno scrittore riconosciuto
come un truffatore. Nel romanzo appaiono
ibridi umani-animali che sembrano arrivati
da “L’isola del dottor Moreau” di H.G.
Wells.
Al centro della storia c’è però Harry
Creek, un impiegato del Dipartimento di
Stato il cui lavoro è in genere piuttosto
tranquillo che invece finisce coinvolto in
un intrigo interstellare. La sua avventura
contiene parecchi elementi molto seri
perché è un veterano di una terribile battaglia in cui è morto il suo migliore amico.
La storia di Harry Creek alterna momenti
di intensa azione in stile James Bond ad
altri di introspezione. In entrambi i casi,
viene assistito da una versione software
del suo migliore amico, la cui mente era
stata registrata prima di morire per attivarla successivamente in un sistema
informatico.
John Scalzi mette assieme tutti questi elementi in una storia che è molto più di una
semplice commedia fantascientifica. In
“The Android’s Dream” ci sono tanti
personaggi e non tutti hanno una gran profondità ma almeno i protagonisti sono ben
sviluppati, con un passato che viene pian
piano rivelato per comprendere meglio il
loro presente.
Inizialmente, il ritmo della storia è lento,
con parecchie informazioni su personaggi
e situazioni che aiutano il lettore a capire
le basi del romanzo e del suo universo
narrativo. Pian piano, il romanzo decolla e
il ritmo diventa generalmente molto più
rapido con parecchi momenti di azione
davvero intensa.
Alla fine, “The Android’s Dream” è un romanzo che offre più di quanto mi aspettassi. È davvero divertente, anche se a volte
strappa qualche ghigno amaro, e spesso dà
da pensare. Complessivamente è
eccellente e ne consiglio la lettura.
- 59 -
S ka n
IL venditore dI
pensieri usati
La Fine dell'Eternita'
di Isaac Asimov
Cari lettori, inizio col dire che per chi conosce
Asimov questo titolo è già di per sé uno spoiler
mostruoso.
Per chi non lo conosce, invece, è un depistaggio
non da poco. Il perché lo si capisce leggendo la
prima pagina, quando si legge che il protagonista, col suo mezzo di trasporto, “stava
sfrecciando in avanti lungo il corso
dell’Eternità”.
Eternità, con l’iniziale maiuscola. Capite? No?
Beh, se non lo capite forse è meglio per voi.
E’ un libro complesso, si apre con un linguaggio
già farcito di termini specialistici appartenenti a
una tecnologia a noi ancora ignota ma che impareremo ben presto a conoscere, una tecnologia
con la quale ci si può spostare agevolmente nel
tempo e nello spazio per modificare il corso degli eventi attraverso un “pozzo”, come viene
chiamato, che per molti versi ricorda un wormhole.
La storia ricorda un po’ “1984”, quando le alte
cariche dei maxi continenti distruggevano i libri
di storia e li facevano riscrivere dall’inizio secondo la necessità del momento, con la differenza che la cosa, ne “La fine dell’eternità”, non
si limita alla carta stampata.
Il racconto è incentrato attorno alla figura di
Andrew Harlan, un “Tecnico”, che si innamora
di una “Temporale”. Definiamo: un Tecnico è un
tizio che fa parte della casta degli Eterni, vive
nello spazio atemporale chiamato “Eternità”, è
incaricato di modificare il tempo, di solito è una
persona fredda, evitata da tutti a causa del ruolo,
e che non si lascia condizionare dall’emotività.
Un Temporale è un individuo che vive nel
mondo reale.
Pian piano scopriamo cos’è il pozzo dell’eternità, a che cosa serve, come si usa e perché; parimenti conosciamo la storia passata del protagonista e l’avvenimento che dà il via agli eventi
che si susseguiranno nel corso del romanzo.
In due parole, come già dicevo più sopra, Harlan
si innamora di questa tipa e, dato che ogni modifica al tempo cambia anche la coscienza delle
persone, la porta via dal suo secolo prima che
avvenga il cambiamento, cosa che per l’Eternità
- 60 -
(la società degli Eterni) è considerata un
“delitto”. La porta in uno dei secoli “proibiti”, in modo da non venire scoperto, ma
qualcuno lo sta “Osservando” (termine
tecnico) e riporta il tutto al Consiglio degli
Anziani.
Scopriremo più tardi che tutta la vicenda è
pilotata da altri per uno scopo ben preciso,
ma lascio a voi capire come, da chi e
perché, altrimenti vi racconto anche l’ultimo terzo del libro e non vi resta nulla da
leggere che io non vi abbia già rivelato. La
penultima cosa che voglio dirvi è che, in
questa parte, ci sarà un colpo di scena nel
colpo di scena: quando vi troverete a dire
ok, dall’impostazione del discorso è
lampante dove andrà a parare, ebbene, vi
dico che andrà a parare da tutt’altra parte.
Eppure sembrava proprio, ero convinto
che…
Come al solito, Asimov affascina con le
sue teorie, coi suoi mondi plausibili, in un
universo, nel caso presente, slegato dalla
realtà dei più noti cicli dei Robot,
dell’Impero e delle Fondazioni. Letteralmente, e dato che l’Impero (qui inesistente) verrà menzionato, posso senza
ombra di dubbio sostenere che si tratta di
una realtà parallela.
Possiamo definirlo un libro distopico
anche se i mutamenti che avvengono
servono a scongiurare catastrofi, appunto
perché, anche se i singoli individui non se
ne accorgono, le loro vite cambiano radicalmente: in una realtà una persona può
essere sposata con figli, nell’altra potrebbe
essere rimasta single, o essere già morta, o
altro. E’ il concetto per cui il bene della
collettività è più importante del bene del
singolo individuo.
Finale da brivido di cui non vi svelo nulla,
tranne che parla della realtà in cui stiamo
vivendo adesso. E’ impressionante come
Asimov riesca a fondere in modo appena
percettibile realtà e finzione, rendendo
possibile la realtà futura della storia appena letta.
Bene, cari lettori. Allo stato attuale delle
cose vorrei aver letto questo libro prima di
aver cominciato il Ciclo delle Fondazioni,
ma pazienza, tanto sono convinto che prima o poi leggerò tutto (o quasi) l’Universo
futuro di Asimov, sapendo già che quando
avrò finito mi resterà un senso di vuoto
interiore, dato che non mi porterà più con
sé nei suoi viaggi.
Per fortuna, quel momento è ancora lontano.
Spero di avervi incuriositi, come al solito,
e vi auguro una buona lettura.
- 61 -
S ka n
Narrativa Interattiva
D a r ki s s 2
Finalmente on line l'atteso seguito del videogame
horror di Marco Vallarino
1.081 giorni. È quanto hanno dovuto aspettare i fan
di Darkiss per l'uscita della seconda parte del videogame horror firmato dallo “specialista”
dell'interactive fiction Marco Vallarino. Una attesa
lunghissima, iniziata il 5 gennaio 2011, con la
pubblicazione sull'hosting di Volftp del primo capitolo “Il risveglio”, e terminata lo scorso 21 dicembre 2013, con l'arrivo di “Darkiss 2 – Viaggio
all'inferno”, presentato in anteprima alla metà del
mese da Horror Magazine e poi finalmente messo
on line dal portale Programmigratis.org. Nel
mezzo, oltre a innumerevoli recensioni di siti e
giornali, presentazioni, studi dedicati al primo
Darkiss, ci sono stati quasi 20.000 download che,
insieme ai commenti entusiastici che hanno riempito i social network, hanno sancito che quello testuale, benché all'apparenza anacronistico, sia un genere tutt'altro che morto nel variegato mondo dei
videogame.
Si tratta in effetti di un tipo di intrattenimento
molto coinvolgente, che non risente della sua “età”,
soprattutto in un momento in cui i videogame “moderni” sono vittima, nei loro schemi e negli
approcci agli utenti, di una fisiologica monotonia
dettata dalla necessità di essere accessibili a un
Se vi state appassionando alla scrittura
delle avventure testuali e alla narrativa
interattiva, non perdete il videocorso di
Inform7 per principianti (in italiano)
disponibile su YouTube
Il canale si può raggiungere dal sito
www.youtube.com/user/1001avventura
s i e t e p r on t i p e r u n
viaggio all'inferno?
di Martin Voigt
pubblico da un lato sempre più vasto, ma dall'altro
disponibile a interessarsi al fenomeno solo in maniera superficiale.
Così la piccola ma agguerrita comunità di autori
italiani di interactive fiction va avanti per la sua
strada, continuando a sfornare giochi nuovi – sia
pure sporadicamente – e prendendosi addirittura il
lusso di proporre, grazie alla ammirevole iniziativa
di Leonardo Boselli, un videocorso su YouTube per
imparare a programmare avventure testuali.
Dopo l'incursione nel mondo della street art
compiuta la scorsa estate con il gioco mainstream
“Nel mondo di Ayon”, e il simpatico omaggio fatto
agli amici della associazione Ludo Ergo Sum con la
mini avventura dimostrativa “Salvate lo Stregatto!”, Vallarino è tornato in sella al suo “cavallo
di battaglia” per proporre con Darkiss 2 un ambizioso mix di tradizione e innovazione, che il prossimo 24 gennaio sarà al centro di uno degli incontri
in programma ai Videogame Design Days organizzati dal professor Piermarco Rosa alla Università di Genova, presso la facoltà di ingegneria
elettronica in via dell'Opera Pia nella zona di Albaro.
A differenza della precedente storia, ambientata in
un claustrofobico sotterraneo disseminato di
trappole micidiali, Darkiss 2 propone uno scenario
di gioco più vasto e in buona parte all'aperto. Dopo
aver ritrovato l'amata Lilith allo Yoshiwara Club,
Martin Voigt riceverà dalla vampira madre l'incarico di recarsi nella dimensione infernale di Ovranilla, per incontrare le sacerdotesse del dio Valmar
e ottenere il loro supporto nella attuazione del piano di conquista destinato a sottomettere l'intero genere umano alle forze delle tenebre.
La missione di Martin si svolgerà quindi in uno
scenario da incubo, tra intricate foreste, putride pa-
- 62 -
ludi, oscure caverne, impervie montagne, desolate pianure e luoghi ancora più spaventosi, in
cui sarà fondamentale imparare a padroneggiare
le tecniche di trasformazione che permetteranno
al vampiro di assumere la forma di pipistrello,
lupo o nebbia per superare i tanti ostacoli che
incontrerà sul suo cammino.
In giro per Ovranilla, oltre a mostri ancora più
potenti e malvagi di lui, Martin Voigt incontrerà
anche qualche vecchia conoscenza. Non tutti però saranno disponibili ad aiutarlo a raggiungere i
suoi sinistri scopi, e ci sarà pure qualcuno ansioso di regolare un conto in sospeso. Per trovare
qualche prezioso alleato, il vampiro potrà comunque contare sulla capacità di ipnotizzare
chiunque incroci il suo sguardo, un potere che
gli permetterà di piegare alla sua volontà i
bizzarri abitanti di Ovranilla per sfruttarne le
particolari abilità.
Chi riuscirà a terminare con successo l'avventura, tornando sano e salvo da Lilith, potrà visitare
la sezione segreta del gioco e scrivere il proprio
nome sulla pagina dello Yoshiwara Club. Chi
invece dovesse rimanere bloccato potrà chiedere
aiuto all'indirizzo dell'autore oppure sulla pagina
Facebook del programma.
Come per i precedenti giochi di Vallarino, la
pubblicazione di “Darkiss 2” ha proposto una
gara di velocità con in palio cinque dvd per i primi che fossero riusciti a terminare con successo
l'avventura chiedendo al massimo un aiuto. A
riuscire in questa fantastica impresa, nel giro di
circa 24 ore, sono stati in rigoroso ordine cronologico: Bryan Pierobon, Rosario Micalizzi, Luca
Grauso, Chiara Presentini, Bartolo Guggino.
Al momento la pagina dello Yoshiwara Club
conta solo venticinque nomi, a fronte di circa
500 download, segno che il gioco si sta rivelando più difficile del previsto, nonostante gli
aiuti che l'autore assicura di aver disseminato a
piene mani nelle dettagliate descrizioni dei luoghi e degli oggetti dell'avventura. Tuttavia, a
certificare la popolarità della serie di Darkiss e
l'importanza che sta assumendo nella scena
“indie” italiana, è giunto l'inserimento dei due
giochi nello Zodiac Store, la vetrina elettronica
allestita dallo staff del portale Adventure's Planet
per promuovere i migliori videogame di stile
vintage e “avventuroso” della scena internazionale.
Per permettervi di entrare meglio nel terrificante
spirito del gioco, eccovi un breve estratto di
Darkiss 2, insieme all'indirizzo del nuovo sito
ufficiale: http://darkiss.marcovallarino.it
Ben ritrovato, Martin Voigt,
principe della notte e re del
terrore! Dopo aver terminato
con successo la tua precedente
avventura, hai raggiunto lo Yoshiwara Club, dove hai finalmente riabbracciato Lilith,
la seducente vampira madre
che più di mille anni fa ti aveva
trasformato nel malefico mostro succhia sangue che ha seminato ovunque morte e distruzione. È stata lei, coi suoi
straordinari poteri, a riportarti
in vita, dopo che l'equipe di
scienziati dell'occulto guidata
dal professor Anderson era riuscita a penetrare nel tuo covo
segreto, per ficcarti un paletto
- 63 -
nel cuore.
Una volta ripresa conoscenza, il tuo primo
pensiero è stato di vendicare questo orribile e
sconsiderato delitto. Lilith però ti ha rivelato di
averti richiamato a sé per uno scopo più
importante. La diabolica vampira sta radunando
uno sterminato esercito di non morti in grado di
dichiarare guerra all'intero genere umano, per
instaurare sulla terra un regno di tenebre destinato a durare in eterno.
Per avere la certezza della vittoria occorrerà
trovare il modo di agire anche alla luce del sole,
per evitare che gli umani, dopo aver fugato ogni
dubbio sulla vostra effettiva esistenza, approfittino di questa vostra conclamata debolezza per
distruggervi durante il giorno, mentre siete costretti al riposo. Interi millenni sono trascorsi
senza che nessun vampiro sia riuscito a risolvere
il problema, che condanna la vostra specie, a
dispetto della sua enorme forza, a vivere
nell'ombra. Ora però Lilith assicura di conoscere la soluzione, e tu sarai colui che passerà alla
storia per aver spezzato questa terribile maledizione.
Per farlo, secondo le istruzioni della vampira
madre, dovrai recarti nella dimensione infernale
di Ovranilla, una terra d'incubo che ospita luoghi spaventosi ed è popolata da mostri ancora
più malvagi di te. Sarà proprio un sortilegio di
Lilith a permetterti di raggiungere questa landa
maledetta, dove dimorano anche le sacerdotesse
di Valmar: Carmilla, Millarca e Mircalla, deputate a custodire il pozzo profondissimo in cui si
staglia il sole rosso che con i suoi otto raggi illumina le buie notti di tutti i vampiri. Tre temibili
creature la cui crudeltà è superata solo dai loro
immensi poteri, in grado di permettere anche a
voi, figli prediletti dell'oscurità, di affrontare
senza timore la luce del sole.
Tuttavia, convincerle ad aiutarvi non sarà facile.
Le tre arci vampire sono perfide e capricciose, a
loro non interessa ciò che succede sulla terra, e
solo portando con te dei doni appropriati riuscirai a ottenere il loro supporto. La stessa ricerca
del tempio, che pare si trovi sul fondo di un
burrone infestato da terribili spettri, sarà
un'impresa. Inoltre, anche se i tuoi poteri di
vampiro ti permetteranno di ipnotizzare
chiunque incroci il tuo sguardo e trasformarti in
pipistrello, lupo e nebbia a seconda delle necessità, a Ovranilla non sarai più immortale e,
in caso di brutti incontri, potrai
essere sia ferito che ucciso. Se
alla fine riuscirai a compiere la
tua missione, ricevendo dalle
sacerdotesse il dono della resistenza ai raggi del sole, potrai
tornare indietro tramite la
parola magica "Ayon".
Ora, mentre Lilith inizia a pronunciare arcane formule, chiudi
gli occhi, Martin Voigt. Quando
li riaprirai, non sarai più in sua
compagnia, nel lussuoso scenario dello Yoshiwara Club, ma
- 64 -
da solo, da qualche parte nella infernale dimensione di Ovranilla, pronto a iniziare la tua
nuova, sanguinaria avventura.
Valle di lacrime
Il pianto a dirotto dei dannati, diretti ai loro
eterni tormenti, ha dato vita all'immondo pantano che ti circonda. Uno scenario raccapricciante,
che una volta di più ti fa capire quanto sei stato
fortunato a sfuggire alla morte grazie alla tua
condizione di principe delle tenebre. A sud,
l'acquitrino sconfina in una vera e propria palude, di cui già ora avverti il mefitico tanfo. A ovest puoi addentrarti in una tenebrosa foresta, a est
un lungo sentiero conduce verso una desolata
pianura, mentre a nord si erge un'alta montagna
che, almeno per una buona parte, appare scalabile.
>sud
Palude dell'afflizione
Anche se non hai più bisogno di respirare per vivere, i miasmi emanati da questa putrida distesa
di acqua e fango e dalla orripilante vegetazione
che ci cresce sopra, ti giungono ugualmente al
naso, dandoti il voltastomaco e arrivando quasi a
dissipare la tua proverbiale brama di sangue. A
sud, al di là di un banco di sabbie mobili, ti pare
di scorgere un terreno più solido. Per uscire dalla
palude invece puoi andare a nord, a est e a ovest.
>sud
Dubito che in questa forma riuscirai ad attraversare le sabbie mobili che ci sono a sud.
>diventa nebbia
Ti sei trasformato in una fitta nebbia grigiastra.
>sud
Isola dell'abbandono (come nebbia)
Nel mezzo della palude dell'afflizione, hai
raggiunto un solido isolotto di terra, che si staglia tra le sabbia mobili come un'oasi nel deserto. La putrescente vegetazione dell'acquitrino
ti circonda da ogni parte, ma a nord vedi ancora
la pista che, attraverso le sabbie mobili, ti ha
condotto fino a qui.
Nel cielo sopra di te, si staglia
quello che a prima vista sembra
un gigantesco uccello, e che
invece è una arpia, ovvero una
creatura infernale con le ali, le
zampe e il corpo di un volatile e
il volto di una donna. Volto
spesso orripilante, ma che in
questo caso è di rara bellezza,
essendo quello della tua amante
Sabrina Carter.
Dopo essere stata sepolta viva
dal professor Anderson nella
sua stessa bara, e aver visto la
sua salma bruciare tra le
- 65 -
informazioni sulle sacerdotesse di Valmar. Il mostro che un tempo era stato una leggiadra fanciulla,
da cui tutti i giorni bevevi sangue a fiumi, ti dice di
non sapere nulla di Carmilla, Millarca e Mircalla.
È da pochissimo tempo che si trova in questo scenario d'incubo, dove è stata scaraventata dopo che
Osservandola bene, noti che porta in testa una ma- la sua salma ha preso fuoco nella bara. Non avendo
più un corpo umano, si è reincarnata in questa orricabra corona fatta di piccole ossa.
da arpia, che si aggira senza meta per i desolati
scenari di Ovranilla. La sua unica consolazione
>diventa vampiro
pare sia la corona di ossa che ha trafugato a una
delle streghe nere per auto incoronarsi "regina
Hai riassunto le tue originali sembianze umane.
dell'inferno".
>chiama arpia
>chiedi corona a Sabrina
Non appena si sente chiamare per nome, l'arpia
Chiedi a Sabrina di consegnarti la corona di ossa,
guarda in basso e, vedendoti, riconosce subito il
sostenendo che ti servirà per portare a termine la
suo antico signore e padrone.
missione. Lei però ti risponde che non si separerà
mai da un cimelio di così grande valore, a meno
«Martin!» esclama il mostro in un misto di gioia e che tu non le offra qualcosa di altrettanto prezioso.
inquietudine. «Cosa ci fai qui? Non dirmi che ti
>inventario
hanno ucciso un'altra volta!»
Non stai portando niente.
Aspetti che Sabrina scenda verso di te e le racconti
>diventa pipistrello
della tua missione a Ovranilla, chiedendole
Ti sei trasformato in un orrido
pipistrello.
>nord
Non appena lasci l'isolotto,
l'arpia Sabrina torna a volare
nel cielo del palude.
Palude dell'afflizione (come pipistrello)
Anche se non hai più bisogno
di respirare per vivere, i miasmi
emanati da questa putrida distesa di acqua e fango e dalla orripilante vegetazione che ci cresce sopra, ti giungono
fiamme dell'inferno, quando tu hai evocato il suo
spirito nella tua precedente avventura, la ragazza
deve essersi reincarnata in questo essere mostruoso, in vista di chissà quale altro supplizio.
- 66 -
ugualmente al naso, dandoti il voltastomaco e arrivando quasi a dissipare la tua proverbiale brama di
sangue. A sud, al di là di un banco di sabbie mobili, ti pare di scorgere un terreno più solido. Per
uscire dalla palude invece puoi andare a nord, a est
e a ovest.
capitato è così fitto che fatichi ad avanzare. Ora
che ci sei dentro fino al collo, non ti sorprende che
anche il sommo poeta Dante Alighieri si fosse
smarrito in un posto del genere, ai tempi in cui
scrisse la celebre Commedia, quando tu peraltro
avevi già trecento anni suonati! Come un gigantesco serpente, il sottobosco sembra volerti avvolgere tra le sue spire verdastre, mentre i tronchi nodosi
>ovest
degli alberi somigliano ai volti di orribili mostri
pronti a divorarti con acuminate fauci di legno. Per
Brughiera dell'incubo (come pipistrello)
uscire dalla foresta puoi andare a est, ovest, sud. A
nord invece il cammino è bloccato dall'incombere
La selva oscura, a nord, e la palude dell'afflizione, delle montagne del dolore.
a est, confinano con una deprimente distesa di
terreno incolto, che si estende a perdita d'occhio
>esamina gli alberi
senza mostrare alcunché di rilevante. L'assenza di
ogni traccia di vita (e di morte) non impedisce co- Da quaggiù è veramente difficile orientarsi in
munque a questo luogo di avere un aspetto oppri- mezzo alla vegetazione, per capire dove conducamente, come se nell'aria si celasse una presenza
no i sentieri che si aprono nella boscaglia a sud, a
malefica, che al momento opportuno uscirà allo
est e a ovest. La luce della luna nera, che illumina
scoperto per distruggerti.
a suo modo il terrificante scenario di Ovranilla,
filtra a malapena tra le chiome degli alti alberi
>nord
della selva, i cui tronchi nodosi somigliano ai volti
di orribili mostri pronti a divorarti con acuminate
Selva oscura (come pipistrello)
fauci di legno.
L'abominevole intrico di vegetazione in cui sei
>ovest
Cerchi di dirigerti verso ovest,
ma la vegetazione della selva
oscura è così intricata che finisci per perdere la strada, ritrovandoti in un luogo in cui forse
non volevi andare...
Valle di lacrime (come pipistrello)
Il pianto a dirotto dei dannati,
diretti ai loro eterni tormenti, ha
dato vita all'immondo pantano
che ti circonda. Uno scenario
raccapricciante, che una volta
di più ti fa capire quanto sei
stato fortunato a sfuggire alla
morte grazie alla tua condizione
- 67 -
di principe delle tenebre. A sud, l'acquitrino sconfina in una vera e propria palude, di cui già ora
avverti il mefitico tanfo. A ovest puoi addentrarti
in una tenebrosa foresta, a est un lungo sentiero
conduce verso una desolata pianura, mentre a nord
si erge un'alta montagna che, almeno per una buona parte, appare scalabile.
>vola a nord
Montagne del dolore (come pipistrello)
La sofferenza di chi è stato confinato quaggiù è tale da essere diventata una catena montuosa, che si
estende a perdita d'occhio da est a ovest. La roccia
trasuda dell'agonia di tutti quelli finiti a bruciare
tra le fiamme dell'inferno, ma presto i vivi staranno peggio dei morti, dopo che tu e Lilith avrete
trasformato il mondo nel vostro regno di terrore. Il
costone su cui ti trovi dista poco dalla vetta,
mentre in basso c'è l'impervio sentiero che scende
verso la valle di lacrime.
nella stretta fenditura per addentrarti nelle viscere
della montagna.
Antro della paura (come nebbia)
L'interno della montagna è, se possibile, ancora più
terrificante dell'esterno. Un'atmosfera carica di sinistri presagi aleggia nell'ampia caverna in cui sei
penetrato, mentre le ruvide pareti di roccia ti si
stringono addosso come una camicia di forza.
Qualcosa di terribile sta per succedere qui, e forse
è meglio che ti prepari al peggio. Sai bene che a
Ovranilla dimorano creature molto più potenti e
malvagie di te, e uno di questi incontri potrebbe esserti fatale, se non saprai reagire con prontezza. A
sud c'è la stretta fenditura che dà sul costone, che
per il momento rappresenta l'unica via di uscita da
questo luogo d'incubo.
Abbandonato qui c'è un cuore di tenebra!
>prendi cuore
Nella parete che hai davanti, puoi scorgere una
stretta fenditura che si addentra a nord, nelle visce- Sai bene che in forma di nebbia puoi solo spostarti
re delle montagna.
in orizzontale a nord, sud, est, ovest.
>esamina fenditura
>diventa vampiro
La fenditura dà su una grande caverna, nella quale Hai riassunto le tue originali sembianze umane.
grazie alla tua super vista di vampiro, riesci a
intravedere un misterioso oggetto.
>prendi cuore
Fai appena in tempo a toccare il cuore per
>nord
prenderlo, quando la caverna inizia a tremare.
Grosse pietre si staccano dalle pareti e dal soffitto,
La fenditura è troppo stretta perché tu possa
mentre una densa nebbia grigiastra si alza da terra.
entrarci in questa forma.
“Lascia stare il mio tesoro!” sibila una voce nelle
tenebre, prima che davanti a te si materializzi un
>diventa nebbia
orripilante demone dell'oscurità, col corpo ricoperto da disgustose squame antracite, artigli affilati
Ti sei trasformato in una fitta nebbia grigiastra.
come lame, grandi e malevoli occhi gialli, ed
enormi fauci pronte a divorarti.
>nord
>continua su darkiss.marcovallarino.it/darkiss-2
In forma di nebbia non hai problemi a insinuarti
- 68 -
S ka n
Chi è Marianna Balducci?
VALE PIU' di mille parole
A s i m ov R e la x i n g
Sono un’illustratrice, lavoro nella
comunicazione e cerco di integrare
questi due linguaggi in modo originale. Realizzo anche video di animazione in stopmotion, mi piace
sperimentare combinazioni di grafica e fotografia. Sono un’artigiana:
nonostante l’uso degli strumenti digitali, la manualità del disegno e la
costruzione del racconto rimangono le fondamenta essenziali del
mio lavoro.
Sono laureata in moda (che mi
appassiona perché rappresenta
uno dei linguaggi più innovativi dei
nostri tempi) e in questo ambito
porto avanti il progetto ReeDo
(cooperativa che sperimenta nel
settore dell'autoproduzione e del
riuso, nata dai corsi universitari di
moda di Rimini).
Amo la mia città, Rimini (e molti dei
miei progetti disegnati partono proprio da lei), leggo Rodari come
medicina per il cuore e i pensieri,
raccolgo molti dei miei lavori
(commissionati e personali) nel
blog:
www.marymarycomics.wordpress.com
@MariannaBal
#chidisegna
- 69 -
S ka n
Neve di
sangue
Il Lato Oscuro
Sol Weintraub
I kami del vento suonavano tristi
bemolli tra i bambù del lago.
Il profumo delle peonie rintuzza­
va l'odore della pioggia in arrivo:
muschio, terra bagnata, stempe­
rati dalla nota sottile del miele di
fiori.
Seduta su un semplice zafu,
nella pace del roji, Shurayuki si
godeva quel momento di quiete
perfetta.
L'ikebana davanti a lei era
composta di sette elementi, se­
condo lo stile rikka scimputai do­
ve i classici shin, shoe e hikae si
armonizzavano alla perfezione
con i principi universali: laddove
ogni elemento trova la sua giu­
sta collocazione la pienezza non
colma il vuoto, ma si armonizza
con esso; è solo nel vuoto che i
contorni delle cose si delineano
con chiarezza, mostrando ogni
cosa non come appare ma come
realmente è alla sua origine.
Eppure quel giorno la pace
tardava ad arrivare. Anche i fiori
sembravano muti, statue inani­
mate, perfette nelle forme ma
privi di vita: diamanti nella neve.
Gocce fredde le sfiorarono il vi­
so, illusione di lacrime.
più alta di Okinawa, al di fuori
della cupola di contenimento, in
omaggio al suo status sociale e
come ringraziamento per il giu­
ramento di servizio; eppure, nel
profondo, Yuki sapeva di dover
ringraziare l'intercessione di Yo­
shinori per quel raro privilegio e
questo era qualcosa che non
poteva tollerare: non solo feriva
il suo onore, ma le negava
l'emancipazione dal samudaya,
il dolore derivato dal possesso.
Tuttavia, e di questo non manca­
Era stato l'Imperatore in persona va di colpevolizzarsi ogni giorno,
ad onorarla di quello zendo, co­ sentiva la necessità di quel luo­
struito rispettando alla perfezio­ go al di fuori del tempo, dove
ne regole architettoniche prece­ passato e futuro parevano sfio­
denti il Cataclisma, posto al
rarsi senza potersi toccare.
novantottesimo piano della torre Un luogo di silenzio e
- 70 -
contemplazione, di attimo e di
fatalità: un luogo simile a lei.
Scalza, lo yukata bianco abbas­
sato sulla vita a lasciare nuda la
parte superiore del corpo,
percepiva le gocce di pioggia
scivolarle lungo i capelli, sulla
pelle bianca della schiena, giù
per il collo e tra i seni; era in quei
momenti di percezione sensoria­
le così estrema, nella meditazio­
ne così come nel kaulajnana, il
sesso rituale, che avvertiva il
senso di mancanza nella parte
sinistra del corpo, dove la carne
si insinuava nel metallo nero del
braccio.
Quell'arto artificiale, reattivo e
letale, era al contempo insensi­
bile nella sua perfezione, così si­
mile ai fiori del kadō che aveva
composto.
Dov'era la pace?
Un petalo si staccò dal calice
gravido di pioggia: presagio di
cambiamento violento.
Capelli neri, pelle bianca. Odore
di mandorle.
Chiuse gli occhi.
gio nella perfezione della
saggezza, sono privi di barriere
mentali.
Pelle su pelle. Acciaio su pelle.
La voce di Shi­Tzu gli sgombrò
la mente.
Eppure ricordava. Riviveva ogni “La prima conquista dell'arte
della spada è l'unità tra uomo e
istante della fine attraverso gli
spada. Quando la spada è
occhi di sua madre.
nell'uomo e l'uomo è nella spada
Nata sangue impuro. Generata
anche un filo d'erba è un'arma
nell'odio. Forgiata nella
affilata”.
vendetta.
L'essenza dell'Hoda­Korosu, la
Memento e monito del tradi­
tecnica del nudo uccidere.
La neve cadeva.
mento.
Un passo.
Date Masamune, daimyo di
Shurayuki. Neve di sangue.
Con uno scatto fulmineo afferrò
Oboro, maestro di guerra
dell'imperatore, giaceva a terra
Il suo senso di prossimità la mi­ la sottile peonia tra le dita, rila­
sciando al contempo il suo ki
scomposto, in abiti da notte. Il
se in allarme ancora prima che
purificato dalla meditazione:
corpo temprato dalla guerra e
sbucassero dai bambù. Anche
dalla disciplina profanato dal
nel caos dei ricordi il suo occhio l'uomo non aveva neanche ini­
ziato a vibrare il colpo quando lo
disonore di spade pagate con
interiore ne percepiva, distinta,
stelo gli trapassò il bulbo oculare
l'oro di quello stesso signore
l'essenza vitale.
che, con una sola parola,
Erano in cinque, spettri silenzio­ penetrando fino al cervello.
Un sibilo nel vento.
avrebbe avuto in dono la sua vi­ si, spietati come il passato che
ta.
ritorna; la pioggia battente scro­ Reagendo ad un ordine mentale
il suo braccio meccanico si alzò
sciava tra le foglie, inutile: non
di scatto, proteggendola dai
Rupan na prithak sunyata, su­
emettevano alcun rumore.
dardi provenienti
nyataya na prithag rupan.
Soradanomi riposava nel toko­
da sinistra.
La forma non è distinta dal vuo­ noma, poco oltre il portico.
to, il vuoto non è distinto dalla
Troppo distante, almeno per ora. ­ In linea di massima, a proposi­
forma.
Yuki tenne gli occhi chiusi, senza to della battaglia, l'attacco diretto
mira al coinvolgimento; quello di
smettere di recitare il sutra.
sorpresa alla vittoria.
Visioni di un passato che non
Meno di venti metri, sgombri, in
poteva conoscere, non poteva
Na duhkha samudaya niroda
linea retta, la separavano dal to­
ricordare.
marga.
konoma e dalla sua spada: Yuki
Colui che avrebbe dovuto es­
Non vi è sofferenza, né causa,
si voltò verso destra ed iniziò a
serle padre, ucciso prima ancora né liberazione, né via che vi
correre in fronte al nemico.
di concepirla.
conduca.
I due uomini erano ben equi­
paggiati: combat suit tattiche a
Perle bianche imprigionate tra
Quattro, due per lato, tra i
rifrazione, resistenti e flessibili;
sopracciglia folte, inarcate su
giunchi. Uno alle sue spalle, il
respiratori, cristalli anti­radiazio­
occhi immobili, spalancati. Occhi primo da eliminare.
ni, katane monofilari sinto­vi­
fissi anche di fronte alla morte.
Un tuono lontano scosse l'aria.
Gli avevano strappato la vita,
Rullante tamburo tra i flauti delle branti: Shikimoribito, spettri della
morte, sicari imperiali.
senza poterne scalfire l'onore.
canne nel vento.
La voce del lama­drago di Hisu­
Dieci passi.
ka­Oru le urlava dal fragore del
Gate gate, paragate, para­
Acqua su acqua. Acqua sulla
cielo: “La seconda conquista è
sangate boghi savha.
pelle.
che la spada è assente nella sua
I Bodhisattvha, prendendo rifu­
Cinque passi.
- 71 -
mano,ma è presente nel suo
cuore: anche a mani nude egli
può abbattere il proprio nemi­
co”.
Il primo assassino, colto alla
sprovvista da quell'attacco
improvviso tentò un rapido
affondo, perfetto e, per questo,
banale. Sfruttando lo slancio
sull'erba fangosa della riva Yu­
ki si lasciò scivolare in basso,
appena un centimetro sotto
l'arco della lama, portando al
contempo un colpo a mano
aperta nella zona del perineo:
ancora una volta il ki della gio­
vane ronin eruppe all'esterno,
disgregando il muladhara cha­
kra dell'avversario.
La risposta del secondo arrivò
fulminea, dal basso verso
l'alto.
Nella frazione di un attimo
svuotò la mente da ogni
pensiero.
Un vento caldo agitava i rami
dei ciliegi nella festa di Hana­
mi, saturando l'aria di petali:
neve rossa, neve di sangue.
Nell'eternità dell'attimo il
tempo si ritrasse per poi
espandersi nell'infinito.
Con un lamento di voce
spezzata la spada incontrò la
pioggia.
Yuki era già lontana.
due imperatori aveva visto ra­
ramente una tecnica simile,
unita al contempo alla grazia
ultraterrena dei movimenti:
Shurayuki, la ronin di Minamo,
prima discepola del leggenda­
rio monaco­drago Shi­Tzu
Ochinori, il maestro delle
lanterne.
La foschia si era infittita,
inghiottendo anche la terra ai
suoi piedi.
Lontano, oltre il mare di nubi,
cadeva la pioggia.
Una voce di donna ruppe il si­
lenzio. Parole sussurrate
senza direzione.
“La conquista finale dell'arte
della spada è l'assenza
dell'arma nella mente e nel
cuore. La mente aperta
contiene tutto. Il maestro dello
iaijutsu non uccide, e porta
pace all'umanità”.
L'ultimo pensiero dell'assassi­
no fu il recidersi di un fiore.
L'ikebana giaceva scomposto
ai piedi dello zafu, gli steli
spezzati nella pioggia
battente.
Yuki chiuse gli occhi e sorrise.
In quel disordine trovava la
pace.
erbacce; dentro, un indescrivi­
bile disordine. Nulla, insomma,
di quell’armonia che è
l’espressione esterna di un
perfetto equilibrio interiore.
Vedendo, accucciato in un
angolo, un uomo intento a
scrivere, il monaco gli do­
mandò:
“Sei tu che scrivi poesie
Zen?”, sperando gli ri­
spondesse di no.
“Si, perché?”, gli rispose
invece l’uomo.
“Perché è impossibile. Io, che
pratico da tanti anni lo Zen, so
quanta fatica, e rigore, e disci­
plina mi richieda. E a quanta
armonia tutto ciò conduca”.
“Il fatto che tu viva lo Zen può
forse impedirmi che io lo
canti?”, gli rispose l’uomo.
Il monaco ritornò sui suoi
passi. Lontano gli sorrideva il
Fujiyama, dicendogli che una
vetta si può raggiungere per
infinite vie.
Nota dell'autore: Più che un
racconto, una rivisitazione in
chiave cyberpunk. Omaggio al
piccolo capolavoro del 1972 di
Kazuo Koike e Kazuo Kami­
mura, Lady Snowblood (Shu­
Un monaco Zen, alla costante rayukihime nell'originale).
ricerca della perfezione, ebbe Da questo manga, vera e pro­
un giorno fra le mani alcune
La nebbia giunse improvvisa
pria perla per gli amanti del
come un presagio taciuto e nel poesie in perfetto stile Zen.
pulp, il regista Fujita Toshiya
“Chi le scrive dev’essere
roji non rimasero che ombre.
ha tratto, nel 1974, il film
molto più avanti di me sulla via omonimo, principale ispiratore
Yokimushi Toshika, kagemu­
sha degli shikimoribito, attivò i della sapienza”, si disse. E
del più recente Kill Bill di
volle sapere chi ne fosse l’au­ Quentin Tarantino.
sinto­sensi della sua tuta da
tore.
incursione sussurrando al
Gli fu dato un indirizzo. Vi tro­
contempo ordini in codice nel
vò una casupola malconcia,
vox.
In trentasei anni al servizio di con un giardino pieno di
- 72 -
S ka n
AMAZING
MAGAZINE
S k a n n a t o i o e d i z i o n e XXV
D i m e n ti c a r e
i l fu tu r o
&
La XXV edizione ha visto il ritorno, per breve
tempo, di Jackie alla conduzione. Dopo l'inizio
della gara master_runta, il nuovo moderatore, ha
preso in mano la situazione e lo Skannatoio ha ripreso vigore, con la sola battuta d'arresto di uno
speciale con pochi partecipanti. Si è anche deciso
di concludere il Campionato autunno-inverno del
2013 con questa edizione per ripartire a gennaio
con il nuovo regolamento.
Le Specifiche dell'edizione regolare
Lunghezza. Minima: 2.500 caratteri. Massima:
25.000 caratteri (spazi inclusi, escluso il titolo).
Genere: horror, giallo, fantastico e relativi sottogeneri.
Particolarità:
a) Il/la protagonista, a un certo punto del
racconto, deve avere una chiara visione del futuro, in particolare di un evento per lui/lei, o per
la comunità a cui appartiene, fortemente negativo.
Come riesca ad averla (se attraverso una sfera di
cristallo, oppure per mezzo di una "telecamera del
tempo", un sogno premonitore, l'assunzione di
peyote, o qualt'altro) è lasciato alla vostra immaginazione.
b) Nel racconto dovrà essere descritta una scena
in cui il/la protagonista si troverà appesa a una
o più funi.
Fune va inteso in senso lato, infatti sono accettabili
S k a n n a t o i o s p e c i a l e XXV
V e n t i qu a t t r ' o r e
s e n za te s ta
le funi di un paracadute, la corda di una forca, ma
anche lenzuola annodate e così via.
Come potrete leggere nelle prossime pagine, in
questa edizione si è tenuto il Giorno del Giudizio.
Il critico invitato a sottoporre i racconti ai propri
insindacabili giudizi è stato il TETRA.
Invece, come di consueto, per lo speciale di ventiquattr'ore sono stati selezionati più temi a scelta.
Dato che si è deciso di non tenere più con regolarità gli speciali dello Skannatoio a metà del mese, a
meno di occasioni particolari, questa è stata l'ultima edizione. Purtroppo il basso numero di partecipanti non ha consentito che venisse considerata ai
fini della classifica del Campionato.
Le Specifiche dell'edizione speciale
1) Gli autori dovranno scrivere un racconto tra i
1.000 e i 5.000 caratteri (spazi inclusi, estremi
inclusi). Nessuna restrizione di genere per questa
edizione (sempre prosa, però).
2) Il tema di questo mese è: e se invece... (realtà
alternative, cosa sarebbe successo se quella volta le
cose fossero andate diversamente?) si caldeggia la
massima libertà interpretativa da parte degli autori.
3) Nel racconto dovrà comparire un personaggio
senza testa (può essere un personaggio reale o
immaginario, apparire in carne e ossa - o ectoplasma - o essere anche solo il soggetto di un'opera
d'arte, eccetera). Anche qui, massima libertà
interpretativa da parte degli autori.
- 73 -
S ka n
mentre apriva il rubinetto del
lavello, «non ne potrà più delle
tue dita che gli martellano lo
schermo. Dai, molla lì e dammi
una mano».
Alice si alzò da tavola, prese lo «Okay, okay. Arrivo».
smartphone e sedette sul diva- «Pausa caffè!» cinguettò Sereno a gambe incrociate, le dita na alzandosi dalla scrivania.
che tamburellavano veloci sul «Alice, vieni anche tu?»
touch-screen.
voglio finire questi pre«Un giorno o l'altro te lo butto «No,
ventivi»
rispose, indicando una
nell'immondizia quell'affare» pila di fogli
alla sua destra.
disse sua madre. «Alza il sede- «Non li sopporto
più, voglio tore da lì e aiutami a sparecchia- gliermeli dalle scatole
al più
re, su».
presto.
Però
ho
fame,
mi
prendi
Alice sbuffò.
una
merendina
alla
macchi«Oh, mamma. Sai che ti aiuto netta? Quella al cocco e cioccosempre, fammi solo controllare lato, se c'è».
la posta».
«Alla faccia della dieta» rise
«La prossima volta che mi
chiedi di ospitarti per la pausa Serena.
fece spallucce. «Già che
pranzo, prima ti faccio firmare Alice
non
ho
il moroso, mi consolo
un contratto con cui ti obbligo con le endorfine
cacao».
a tenere spenta quella trappo- Aprì la borsetta edel
prese
dal
la».
portafogli una moneta da un
Un suono di campanelli
Euro per Serena. L'occhio le
interruppe la conversazione.
cadde sul display illuminato del
«Cos'hai, pure le renne di
telefonino. Lo prese e notò che
Babbo Natale lì dentro?»
cinque messaggi non
«Spiritosa, mamma. Mi è solo aveva
letti,
l'ultimo
arrivato pochi searrivato un messaggio...»
condi
prima.
Alice passò il dito sull'icona a Come era avvenuto già a casa
forma di busta e vide un
di sua mamma, anche in questi
rettangolo scuro.
mittente era invisibile.
«Oh, è un MMS» disse. «Una il«No,
non dirmi che ti sei
foto, credo. Ma non si vede un impazzito
davvero» disse al suo
tubo...»
Samsung. «Non ho voglia di
«Chi lo ha mandato?»
all'assistenza».
«Boh? La riga dove dovrebbe portarti
Aprì
il
primo
messaggio. Di
comparire il numero è in
nuovo,
in
allegato
c'era una fobianco. Mi sa che il telefono è to completamente nera.
Lo eliandato un po' in tilt».
minò
e
aprì
il
secondo,
anch'es«Ti credo» disse la mamma,
so accompagnato da un
Futuro
prossimo
- 74 -
rettangolo scuro. Ma qui c'era
qualcosa di diverso. Ora nella
foto si distingueva una forma,
delle linee appena visibili; era
come osservare una lastra radiografica senza metterla in
controluce.
Cancellò anche quel messaggio
e passò al terzo.
Qui le linee nella foto erano più
distinte. Scorse una forma vagamente umana che sembrava
seduta. Non ne vide le braccia,
ma racchiusi in un ovale chiaro
c'erano due fori scuri che potevano essere solo occhi.
«Ma che diavolo...»
«Cosa succede?» chiese Serena, posandole accanto una
barretta avvolta in carta bianca
e azzurra.
«Non so, mi arrivano strani
messaggi. Guarda».
Alice le mostrò le foto successive.
«Cos'è, una persona, quella lì?»
disse Serena indicando la figura al centro.
«Credo di sì. E dietro sembra...
mah, un furgoncino o un trattore... non capisco».
«Ma chi te li manda?»
«Non ne ho idea» disse Alice.
Bloccò lo schermo del telefono
e rimise l'apparecchio nella
borsa. «Non c'è nessun numero
di telefono. Forse è qualcuno
che mi vuole fare uno
scherzo».
«Sì, ma che scherzo cretino...»
Alice scartò la barretta e ne
addentò un morso. «Non so»
disse con la bocca impastata
dal cioccolato. «Se continuano
ad arrivare, domani porto il telefono in assistenza. Magari si
è incasinato il software...»
«La tecnologia» commentò Serena. «Guarda» aggiunse, tirando fuori dalla borsetta un
vecchio Nokia blu scuro «con il
mio di sicuro non mi ritrovo
strane foto. In compenso posso
creare le mie suonerie! In tuo
onore potrei comporre la colonna sonora di Psycho».
Alice sorrise. «Ne faccio a meno, ma grazie per il pensiero».
La via era buia, illuminata da
un unico lampione. Quegli ultimi trecento metri della strada
tra l'ufficio e casa sua la mettevano sempre in ansia. Non durante la stagione estiva, con il
sole che illuminava ogni cosa
intorno a lei; ma l'estate era ora
solo un bel ricordo e l'oscurità
silenziosa che la circondava,
rotta solo dal ticchettio ritmico
dei suoi passi sull'asfalto, la
spingeva a camminare spedita,
con l'orecchio teso ad ogni rumore sospetto.
A un tratto, attutito ma perfettamente udibile, si sparse
nell'aria fredda un tintinnio
continuo e insistente.
Alice aprì la borsetta e prese il
cellulare.
Dieci messaggi non letti. Undici. Dodici.
Il trillo non smetteva, i messaggi arrivavano uno dietro
l'altro.
La cosa iniziava a stancarla e, a
questo punto, anche a intimorirla.
Per un attimo fu tentata di cestinare tutto e spegnere il telefono. Poi però uno strano senso
di superstizione le fece cambiare idea. Si fermò a pochi passi
dal solitario lampione e aprì i
messaggi, uno per uno.
Una dopo l'altra, le foto acquistavano nitidezza.
Il veicolo sullo sfondo era
davvero un furgoncino. La
vernice verde era scrostata in
più punti e il parabrezza era
percorso da una crepa simile a
un fulmine; era parcheggiato al
centro di quello che pareva un
capannone, o forse una stalla.
Sopra il furgone si notava un
soppalco cui era possibile accedere mediante una scala a pioli
sulla sinistra. A destra del
mezzo, sotto il soppalco, c'era
un piccolo banco da lavoro con
alcuni sacchi di iuta, misteriosi
flaconcini e una piccola falce.
Ma la protagonista della
composizione era indubbiamente la persona al centro,
poggiata con la schiena contro
il parafanghi del veicolo.
Con sgomento crescente Alice
aveva iniziato a capire che si
trattava di una ragazza. Una ragazza con una felpa rosa e
jeans grigi.
Come in un sogno, aveva ripensato a quella mattina.
Mentre chiudeva la lampo dei
jeans, era rimasta con la testa
reclinata di fronte all'armadio,
indecisa se indossare il maglione blu scuro o la felpa color
confetto che aveva comprato a
New York l'anno prima.
- 75 -
Beh, è venerdì, aveva pensato,
e aveva optato quindi per un
abbigliamento più sportivo.
La mano con cui teneva il
cellulare, quando arrivò alla
decima foto – o forse era
l'undicesima, ormai aveva
perso il conto – iniziò a tremare. I lineamenti della giovane
erano ora ben visibili. Lineamenti che lei conosceva bene:
li vedeva ogni giorno. Sul collo
della ragazza, subito sotto la linea del mento, c'era una cicatrice. Alice alzò le dita a
sfiorarsi la gola; dove fino a
quindici giorni prima aveva
avuto una piccola cisti, ora
c'era un cerchio irregolare di
pelle nuova.
«Che razza di stronzata è mai
questa...»
«Buonasera, principessa».
La voce, che giungeva da dietro le sue spalle, le strappò un
grido.
«Non ti spaventare. Dimmi,
dove vai di bello?»
Alice non rispose. Aumentò il
passo, cercando con lo sguardo
i fari di qualche auto in avvicinamento. Ovviamente, non ne
vide.
«Ehi, ti ho fatto una domanda».
Una mano brusca l'afferrò per il
braccio e la obbligò a voltarsi.
Il proprietario della voce, un
ragazzo corpulento che poteva
avere pressapoco la sua stessa
età, la stava fissando. Un angolo della bocca era leggermente
sollevato in un ghigno, gli
occhi nascosti dietro lenti
piuttosto spesse.
«Ho appena mandato un messaggio al mio ragazzo» mentì Alice, e infilò il cellulare nella tasca
della giacca. «Sarà qui a momenti. Lasciami andare».
«Davvero? Beh, penso che non ti
troverà».
Alice ebbe il tempo di vedere un
movimento rapido alla sua sinistra. Poi un forte dolore scoppiò
su quel lato del volto e il mondo
si fermò.
C'era uno strano odore. Come di
muffa, di cose vecchie. Le ricordava quello che aleggiava
nella cantina del nonno.
Aprì gli occhi.
La luce era scarsa ma le ferì le retine come un flash. La testa
pulsava, un dolore che partiva
dalla tempia sinistra e scendeva
giù fino alle mandibole. Cercò di
coprirsi gli occhi con le mani ma
non le riuscì di muovere le
braccia. Qualcosa le bloccava
dietro la schiena.
Si trovava in un capannone.
Tentò di alzare la testa. Dal
soffitto pendevano diverse
lampade al neon, una luce fredda
e fastidiosa.
Alice era seduta su un sudicio pavimento di cemento, coperto di
macchie d'olio e segatura. La
schiena poggiava contro qualcosa
di duro e scomodo. Riuscì a piegare il collo all'indietro, ignorando la dolorosa sensazione di
avere piombo fuso al posto del
cervello, e vide con orrore che si
trattava di un furgoncino verde.
Un furgoncino vecchio e arrugginito con il parabrezza incrinato
da una crepa simile a un fulmine.
«Ti sei svegliata, principessa?»
Alice sussultò. Il ragazzo che
l'aveva portata lì era appena uscito da una porta all'altro capo del
capannone. Si incamminò verso
di lei piano, zoppicando in maniera vistosa. «Ne sono felice. Finalmente ora posso portarti nel
mio castello».
«Lasciami andare, per favore» lo
supplicò lei.
Lui continuò a camminare, fino
ad arrivare di fronte a lei. Crespi
capelli biondi uscivano da un malandato berretto blu; un graffio
piuttosto recente gli deturpava la
guancia destra rendendolo simile
a un malandato pirata. Si chinò a
fatica e le prese il mento tra le dita.
«Oh, no. Non ho fatto tutta questa fatica per niente. La principessa precedente è stata costretta
ad andarsene, quindi ora devi
prendere il suo posto. Oh, a proposito» aggiunse, «il mio nome è
Gaston. Cioè, non è sul serio il
mio nome, ma mi piace molto più
di quello vero. E tu come ti chiami?»
Alice restò in silenzio.
«Non importa. Me lo dirai prima
o poi». 'Gaston' si rialzò in piedi,
poi aiutò Alice a fare altrettanto.
«Ora ti libero le mani» le disse.
«Purtroppo l'altra principessa è
stata cattiva; mi ha fatto cadere
dal castello e ora come puoi vedere ho qualche difficoltà a muovermi. Non riuscirei a portarti fin
lassù. Perlomeno» aggiunse con
una strizzata d'occhio, «non tutta
intera. Quindi devi salire la scala
- 76 -
da sola» disse, indicando con la
testa lo spazio alle spalle di Alice.
Lei ripensò alle foto e ricordò il
soppalco al di sopra del furgone.
Si sentì mancare. Le viscere erano un groviglio urlante, la testa le
pareva imbottita di cotone.
Le foto erano state una premonizione. Uno sguardo al suo prossimo futuro. Se solo lei fosse stata
in grado di decifrarne il senso...
Il falcetto! Pensò ad un tratto.
Giusto. Su un lato del furgoncino
c'era un tavolino con sopra una
piccola roncola. Se fosse riuscita
a prenderla...
«Cosa c'è, principessa?» disse
Gaston. «Ti si sono illuminati gli
occhi. Cos'è, ti è venuta una bella
idea? Vuoi far felice il tuo Gaston, eh?»
Alice tentò di reprimere
un'ondata di disgusto. Facendo
fondo a tutta la propria forza di
volontà, si costrinse a sorridergli.
«Beh, s-sì...» disse, nel contempo
sforzandosi di ricordare dove
fosse il tavolino, se a destra o a
sinistra del furgone. Destra... sinistra... destra... sinistra.... era
una cosa elementare, ma lo stesso
si sentiva confusa.
Gaston intanto aveva portato le
mani dietro la schiena in un ripugnante abbraccio e stava sciogliendo i nodi che le tenevano
bloccati i polsi.
Destra.... sinistra... destra... sinistra...
Destra! Era a destra!
Nell'istante in cui le sue braccia
furono libere, afferrò le spalle di
Gaston e lo colpì in mezzo alle
gambe con il ginocchio, con tutta
la forza che aveva. Gaston si piegò in due e cadde all'indietro
urlando.
Alice con uno scatto si girò verso
destra e corse verso il tavolino...
ma trovò invece la scala per il
soppalco.
Idiota!
Il panico, e forse la botta alla testa, le avevano giocato uno
scherzo crudele. Crudele e probabilmente mortale.
Il tavolo era a destra del furgone,
guardando la foto. Ciò significava che lei sarebbe dovuta correre
verso sinistra.
Non riusciva a credere di aver
commesso un errore così assurdo.
Si fermò per un istante a vagliare
le sue opzioni.
Scappare verso l'altro lato del
capannone era impensabile. Sarebbe dovuta passare accanto a
Gaston e lui l'avrebbe afferrata
senza difficoltà. Anche se si stava
contorcendo a terra, avrebbe potuto allungare una mano e riuscire a bloccarla lo stesso.
A dividerla dall'unica arma a sua
disposizione c'era il furgone.
La sua sola speranza era provare
a salire sul soppalco. Forse
avrebbe trovato un'apertura da
cui fuggire.
Si arrampicò in fretta e furia sulla
scala. Il soppalco era pieno di funi arrotolate e grandi casse di legno.
Alice fece girare lo sguardo
intorno e quando gli occhi si posarono sull'angolo in fondo a destra le scappò un grido.
Una serie di lumini elettrici,
quelli di solito usati nei campo-
santi, circondava un materasso
gonfiabile ricoperto da un plaid
scozzese sgualcito. Sopra la coperta, Alice vide una gonna di lana e un maglioncino, entrambi
imbrattati da una sostanza scura.
Di fianco al materasso c'erano diversi sacchi della spazzatura
accatastati l'un l'altro. Da uno
strappo in quello in cima fuoriusciva una lunga ciocca di capelli
rossi.
Alice ricordò di aver letto un articolo sul giornale locale riguardante una ragazza scomparsa
di casa alcuni giorni prima. Gli
inquirenti pensavano fosse
scappata di casa in seguito a una
lite con i genitori. Ma forse la
sfortunata aveva subito un destino ben peggiore.
«Hai trovato la mia prima principessa, eh?» gemette Gaston. «Come ti ho detto» proseguì, la voce
roca e strascicata, «è stata piuttosto cattiva. Speravo che tu non
dovessi fare la sua stessa fine, ma
temo sarà proprio quello che ti
succederà».
Alice alzò lo sguardo velato dalle
lacrime verso la parete dietro al
materasso. E la vide.
Una finestra.
Piccola e chiusa da un vetro
sporco e pieno di ragnatele, ma ai
suoi occhi un cancello verso la
salvezza.
Si mise a correre, pensando che
avrebbe potuto usare una delle
corde lì intorno per calarsi fino
a...
All'improvviso, un piede rimase
incastrato in uno dei rotoli di funi
e Alice perse l'equilibrio. Cadde
- 77 -
in avanti, andando a sbattere
contro uno scatolone. L'urto la
fece indietreggiare. Il tacco della
scarpa finì oltre il bordo del
soppalco e lei precipitò.
Cadde nel vuoto aspettandosi uno
schianto che non avvenne. Sentì
invece un dolore improvviso e
lancinante alla gamba sinistra.
Il piede le era rimasto incastrato
nelle funi. Il peso del suo corpo,
nella caduta, doveva aver
spezzato la caviglia; ma la corda
le aveva impedito di sfracellarsi
al suolo.
Appesa a testa in giù, Alice vide
Gaston avvicinarsi. La sua zoppia
si era di molto accentuata; il
volto era rosso e gli occhi
sporgenti, mentre una mano era
premuta con forza fra le gambe;
ma la sua andatura, seppur lenta,
era costante.
Alice doveva riuscire a tornare
sul soppalco. L'unica via di fuga
era quella piccola finestra.
Tentò di fare forza sui muscoli
addominali per alzare il busto e
afferrare la corda con cui
arrampicarsi verso una possibile
salvezza; ma lo scarso allenamento e il dolore alla gamba le
impedivano di riuscire
nell'impresa.
Fu allora che si ricordò il tavolino. Si voltò e vide che si trovava
a vicinissimo a lei. Allungò il
braccio destro, ma le sue dita ne
sfiorarono appena il bordo. Alla
sua sinistra c'era il furgoncino. Vi
si appoggiò con la mano e si diede una spinta verso destra; il suo
corpo iniziò a ondeggiare come
un pendolo. Ma non era ancora
abbastanza.
«Cosa vuoi fare?» disse Gaston,
ormai a pochi passi da lei.
Alice si diede un'altra spinta e
questa volta riuscì ad afferrare il
bordo del tavolo.
Il falcetto era a pochi centimetri.
Fece forza sulle dita e con un gemito di dolore riuscì a spostarsi
verso il tavolo e ad afferrarne il
bordo con entrambe le mani.
«Cosa diavolo stai facendo?» gridò Gaston, e accelerò il passo.
Alice afferrò il falcetto
nell'istante in cui l'ombra di Gaston si proiettava sul ripiano di
legno. Ruotò su se stessa alla cieca, allungando il braccio destro e
urlando a squarciagola.
Il movimento le liberò il piede
dall'intrico della corda e Alice
piombò sul sudicio pavimento.
Davanti agli occhi scoppiarono
bolle scure e tutto fu buio.
cante di vermiglio, giaceva a pochi centimetri da lui.
Alice si mise carponi. Le faceva
male la schiena e la testa faticava
a tenersi salda sul collo.
Ma voleva raggiungere quei
campanelli.
Ne seguì il suono gattonando come una bimbetta.
A terra, Accanto alla porta da cui
Gaston aveva fatto la sua entrata,
trovò la sua giacca. Frugò nella
tasca destra e prese lo smartphone.
Non stavano arrivando altri messaggi. Era una chiamata.
Non c'era numero di telefono, ma
Alice pensava di sapere lo stesso
di chi si trattava.
Rispose, ma dall'altro capo non si
udirono voci.
Sentiva solo un respiro, sincronizzato alla perfezione con il suo.
Alice piegò le labbra in un sorriso ed ebbe la certezza, assurda
Suono insistente di campanelli. ma incontrovertibile, che anche il
Alice aprì gli occhi.
suo muto interlocutore avesse
Si trovava nel capannone. Tutto appena fatto la stessa cosa.
era silenzioso, tranne quello
In quell'istante, il collegamento si
scampanellio continuo.
interruppe. Di qualunque natura
Cercò di alzarsi, ma la caviglia fosse la forza misteriosa entrata
implose in un dolore accecante e in gioco quel giorno, aveva ormai
Alice ricadde a terra.
portato a termine con successo la
Si portò le mani al volto e vide propria missione.
con sgomento che erano ricoperte
di sangue. Allora spostò lo
sguardo davanti a sé.
E lo vide.
Gaston era a terra, il ventre
squarciato da un taglio in diagonale. Il sangue usciva ancora a
piccoli fiotti dalla devastante ferita. La lama della roncola, lucci-
- 78 -
Il Giudizio del TETRA
Eccomi qui. Jackie mi ha precettato per il Giorno del Giudizio,
ex-Giorno del Panda, ex-Giorno
della Victoria (che d'altra parte
non si è mai tenuto).
Da chi iniziare? Cosa c'è di meglio se non un racconto dal titolo
"Futuro prossimo", visto che si
parla di "dimenticare il futuro"?
Quando ho pensato alle specifiche... (aperta parentesi) ricordo
come fosse ora la Jackie disperata
che mi diceva che la Vic l'aveva
mollata su due piedi e che aveva
bisogno di solide specifiche per
non far fuggire i pochi aficionados e che da lì a poco sarebbe
iniziata l'edizione regolare e che
di certo avevo in mente qualcosa
(chiusa parentesi e tiro fiato)... ho
subito immaginato che spesso
occorre lasciarsi alle spalle il
passato per andare avanti, perciò
sarebbe stato interessante parlare
di qualcuno che invece avrebbe
voluto dimenticare il futuro.
Nelle specifiche ho evitato di essere troppo... specifico, benché
sperassi che qualcuno mi leggesse nel pensiero, ispirato dal titolo.
Rispondenza alle specifiche.
Nel caso di willow78 questo non
è avvenuto. La visione del futuro
non è stata qualcosa che la protagonista avrebbe voluto dimenticare. Per giunta la visione è rimasta oscura fino a quando gli
eventi sono precipitati. Anche nel
seguito del rocambolesco tentati-
vo di fuga, gli elementi desunti
dalle foto giunte per MMS sono
stati in gran parte inutili ed è poco verosimile che la protagonista
abbia notato tutti quei particolari
da una foto sullo schermo di un
cellulare, anche se fosse stato il
Galaxy Mega. In conclusione, i
misteriosi MMS, che costituiscono la visione richiesta, sembrano
solo un pretesto (necessario
perché le specifiche lo richiedevano) per raccontare una storia tipica dei vari "Criminal Minds" e
affini, ma non sfociano in una vera fonte d'ispirazione per qualcosa di originale.
Comunque può darsi che sia solo
rimasto deluso per un finale che
non spiega in alcun modo l'origine degli MMS. Non sono contro i
finali aperti, ma la trovata degli
MMS dal futuro avrebbe forse
meritato un finale più avvincente
di una comunicazione che si
interrompe.
Per quanto riguarda la richiesta di
una protagonista appesa a una fune, il compito è stato svolto con
cura, facendo della scena appesa
a un filo uno dei momenti più
convincenti del racconto.
stempera la tensione nel cliché: il
"già visto" rovina la sorpresa di
qualcosa che si preannunciava, in
qualche modo, originale.
sulta un testo in cui le azioni si
svolgono come al rallentatore,
con pause eccessive, mentre la
scena avrebbe richiesto velocità.
Comunque, tanto per
Il flusso dei pensieri. Ho trovato contraddirmi, ho trovato efficace
un'altra debolezza del racconto la scena a testa in giù. Le oscillanell'elaborata narrazione di ciò zioni, l'annaspare verso l'arma, il
che passava nella testa confusa colpo alla cieca, forse proprio
della protagonista durante la
perché non spiegati per filo e per
concitata fuga. Si insiste sul fatto segno, mi sono sembrati ben resi.
che fosse provata dal colpo subito
(per trovare una giustificazione Originalità. L'ho già detto: non
nell'errore della scelta del lato del si esce dai cliché se non per la
furgone), ma allo stesso tempo si trovata degli MMS dal futuro
racconta tutta una serie di ragio- (anche se mi ricordano qualcosa
namenti che rallentano l'azione. che, in questo momento, non so
Trovo che molte cose potevano ben definire). Peccato che ciò che
essere lasciate all'immaginazione rappresenta un possibile tocco di
del lettore, senza essere spiegate originalità rimanga inespresso,
in modo esplicito, lasciate intuire come se non si sapesse dove
attraverso lo svolgersi degli
andare a parare.
eventi. Per spiegarmi meglio
Chi era il misterioso interlocutore
faccio un esempio:
all'altro capo dell'etereo filo?
Il tavolo era a destra del furgone, Perché ha deciso di intervenire in
guardando la foto. Ciò significa- questo caso e non per altre vittiva che lei sarebbe dovuta correre me, per esempio quelle delle
verso sinistra.
puntate di "Criminal Minds"? C'è
Non riusciva a credere di aver
qualche legame con la figura,
commesso un errore così assurdo. alquanto imbranata, di Gaston? E
Si fermò per un istante a vagliare perché Gaston cercava la sua
le sue opzioni.
"principessa"? Quale dramma
S'era capito benissimo che cosa (infantile?) si nasconde dietro al
La suspense. Per quanto si sia
aveva sbagliato e perché. Nel pa- suo "modus operandi"?
tentato di creare attesa e
nico non fai errori per poi cercare Insomma, tante domande che poapprensione con l'arrivo degli
una spiegazione di cosa ti ha
trebbero ispirare possibili sviMMS in contesti ordinari, quali tratto in inganno, ma soprattutto luppi di una storia che meritel'ambiente familiare e di lavoro, non ti fermi a vagliare le opzioni! rebbe più respiro e un finale con
la tensione non sale se non
M'è sembrato di sentir pensare
un colpo di scena come si deve.
quando si scopre che nelle foto è Sheldon Cooper!
ritratta la stessa protagonista.
In conclusione, il ritmo della
Voto: 6+.
Peccato che immediatamente ci narrazione risente della volontà
sia l'incontro col serial killer che di voler descrivere tutto. Ne ri-
- 79 -
La piastrella
rotta
Sta rientrando a casa, in questo momento.
Spero che non calpesterà proprio me, accidenti.
Non ho passato trent’anni da
queste parti per farmi spaccare in due proprio ora.
Nessun essere vivente sta
pensando, sul fondo della
tromba delle scale, quindi
non è il caso di spaventarsi.
Del resto, cosa c’è di vivo, in
una piastrella esagonale uscita da una fabbrica che non
esiste neppure più?
A parte il sangue del suicida
che ho assorbito per restare
integra.
Mi è caduto sopra di testa,
dopo aver bruciato le corde
che i compaesani hanno usato
per sottoporlo alla Prova
della Verità.
Certo, che essere sospesi
sulla tromba delle scale del
palazzo in cui si vive solo per
essere sospettati di aver rubato un po’ d’acqua è qualcosa di assurdo….a meno di
non essere finiti nella Stagione Secca.
E non è un’estate normale, di
quelle torride che poi vengono annegate dai temporali
agostani.
Magari.
So che si tratta di una vera e
propria stagione.
Lo dice anche il titolo sul libretto di appunti della persona che viveva sullo stesso
pianerottolo del suicida: Stagione Secca.
Per parecchi motivi, l’inquilina era evitata dalle altre due
famiglie del palazzo.
Sembrava portasse male.
C’era qualcosa, nel suo
atteggiamento, che faceva
presagire il disastro che
avrebbe colpito Pian di Nespola di lì a poco.
Fu questo che disse prima di
morire il dirimpettaio della
donna, prima che gli altri si
convincessero che non aveva
rubato lui la tanica dei De
Regibus:” Forse ha trovato il
modo per sottrarsi alla minaccia di vedersi portare via
la casa. Io la capisco bene.
Andarsene da un posto dopo
trent’anni solo perché non risulti nell’elenco degli utenti
della fornitura d’acqua del
palazzo, è troppo”.
Lo è anche per me come piastrella. Mi piaceva il tocco
della cara signorina Tollini.
Portava calzature un po’ fuori
moda, ma c’era qualcosa di
gentile nel suo tocco. Quando
toccava a lei pulire le scale,
faceva molta attenzione a non
rovinarmi. Sono a forma di
esagono e con un decoro di
nastri da marinaio neri su
fondo sabbia. Non per
vantarmi, ma sono sempre
piaciuta agli inquilini
dell’epoca chic.
Ora sembra così lontana, ma
la colpa non è di nessuno.
Ho sentito alcuni inquilini lamentarsi con i visitatori della
signorina.
- 80 -
I suoi appunti hanno attirato
il povero Gianni al suo destino di morte, ma non è vero.
Quella della Tollini è stata
una premonizione: se si è rifugiata nella storia della Stagione Secca è stato perché ha
sentito prima degli altri che
l’acqua sarebbe scarseggiata
e non sapeva come rimediare
al disastro incombente.
Poteva solo testimoniare la
paura che incombeva a ogni
giro della manopola dei rubinetti.
Per me cominciò con il suo
ultimo turno nel lavare le
scale.
Usò meno acqua, perché aveva cominciato a non essercene più come prima: da un
estremo all’altro.
Prima le scale erano troppo
umide e io avevo parecchio
da bere, i miei colori restavano vividi come quando mi
collocarono qui il primo
giorno.
Certo i vicini si lamentavano,
perché di acqua ce n’era
troppa e le scale rimanevano
scivolose.
Venne il giorno in cui non
trovarono più nulla da ridire,
ma si diradarono anche i bucati e nella tromba delle scale
si sentiva.
Me ne accorsi anch’io, da come mi calpestavano: portavano sempre più polvere da
fuori e i sandali e gli infradito
mi davano fastidio.
C’era sentore di siccità.
E io sapevo che la situazione
non sarebbe migliorata.
La Tollini non mi dava fastidio, anche se non era messa
meglio degli altri, quanto a
igiene.
Sentivo il dispiacere che provava, quando saliva le scale.
Il suo passo era diventato
leggero come la polvere che
portava con sé, anzi, mi
sembrava fatta di polvere lei
stessa, ormai.
Viveva in un mondo tutto
suo: per sfuggire alla siccità
che aveva appena cominciato
a divorare la cittadina, si era
immersa nella sua storia.
Io non ho certo potuto seguirla nei suoi spostamenti,
mi ricordo soltanto l’ultimo
giorno in cui mi calpestò.
Mi sussurrò qualcosa tipo:”
Serba la memoria di quello
che hai visto per quelli che
verranno a vivere nel mio
alloggio. Colpa di quello che
ha visto sul quaderno. Non so
da dove mi sia venuto quel
disegno, né le parole che lo
seguono, non so cosa voglia
dire che l’acqua verrà con il
sangue di un innocente…e lui
mi ha fatto da portavoce, con
il risultato che sappiamo.
Penzola ancora sospeso nella
tromba delle scale…non posso restare a fissarlo, mentre
oscilla e sanguina. Ho ancora
la testa confusa per le poche
note che sono seguite, parlano di acqua e Guarda Fiume,
non so bene in che ordine”.
A quel punto si chinò e accarezzò il punto in cui il sangue
si era coagulato, sgorgando
dai legacci troppo stretti.
La paura e la sete, messe
insieme, lo avevano
stroncato.
Solo i suoi giudici erano
ancora vivi, pur se rinsecchiti
come pergamene di antichi
codici legali e i loro piedi non
stavano meglio.
Quanto alla tanica, non fu lui
a rubarla, lo giuro, per quel
che può valere la testimonianza di una piastrella.
La prese la Tollini, ma lo fece
a fin di bene.
Fu lei a metterla sul pianerottolo del terzo piano, dopo
aver spalancato la finestra
che dava sulle scale.
A suo parere, avrebbe attirato
la salvezza su di noi e io la
sto ancora aspettando.
Nessuno ha chiuso la finestra
e la tanica è ancora lì.
Vuota.
Lo so perché stamattina uno
dei bambini del terzo piano
l’ha urtata e il rimbombo
della plastica vuota è
echeggiato per tutta la tromba
delle scale.
Un’accusa?
No, una speranza.
Come lo so?
Dalla testimonianza di
Gianni.
Quarantotto ore prima.
Gianni, il dirimpettaio della
Tollini, bussò alla porta:- Signorina? È ancora lì? Si sbrighi, se non vuole perdere la
sua parte di acqua.
La donna socchiuse l’uscio e
diede un’occhiata distratta
alla tanica che il giovane si
trascinava dietro.
Era piena per più di metà.
La donna non si spostò.
Aveva un accappatoio verde
- 81 -
scuro che mise immediatamente sete a Gianni.
Gli faceva pensare alla menta
fredda dei ghiaccioli.
Si dominò:- Come le dicevo…
- La mia parte, certo. L’ultimo giro è riservato ai De Regibus. Non la voglio e neppure loro dovrebbero prenderla.
Ho sentito dell’acqua scorrere, da loro.
- Come vuole. Io scendo di
sotto da loro e…
La Tollini lo fermò.
- A me non dia nulla.
- Come?
- Mi ha sentito bene. Non la
voglio. In compenso, dopo
aver posato la tanica al loro
piano, venga a trovarmi.
Gianni eseguì quello che era
un ordine perentorio della
matura signorina.
Posò la tanica al quinto piano.
Pensò che per i De Regibus
non ci sarebbero stati problemi a trovarla.
Gli altri inquilini li aveva
approvvigionati tutti lui, che
abitava al piano vicino al rifornimento dell’acqua.
Non si trattava solo di buon
vicinato.
Al sesto piano pendevano le
corde della Prova della Verità.
Chi sarebbe stato anche solo
sospettato di furto avrebbe
oscillato nel vuoto, costretto
a confessare.
Un metodo molto persuasivo.
Era funzionato con il vicino
del quarto piano, colpevole di
aver rovesciato una mezza
bottiglia d’acqua: malestro
che aveva tentato di riparare
rubandone l’equivalente dal
bidone di rifornimento generale.
Gianni era stato costretto a
dirlo a tutti.
E il povero colpevole aveva
deciso di mandare i familiari,
di lì in avanti, a prendere
l’acqua.
La mezz’ora passata a
oscillare nel vuoto aveva
fatto sulla sua memoria lo
stesso effetto di un bel
ghiacciolo nella gola.
Di situazioni come quella, la
cittadina abbondava, ma era
il loro palazzo quello dove le
cose andavano peggio.
Il giovane, dopo aver posato
la tanica, si sentì apostrofare
dalla Tollini per l’ennesima
volta:- Ha finito? Venga subito.
Obbedì all’istante.
Quella donna aveva un modo
di fare autorevole.
Pensò che doveva essere stata
un’insegnante o una studiosa.
Nessuno degli inquilini la conosceva, perché era arrivata
da poco nella a Piana delle
Nespole.
Si era portata dietro parecchi
libri, alcuni con illustrazioni
degli uccelli chiamati Guarda
Fiume e aveva un’aria
scontrosa.
Fino a quando c’era stata
l’acqua, tuttavia, i vicini non
avevano avuto alcun motivo
di lagnarsi di lei.
Rispettava il turno di pulizia
delle scale senza protestare e
non faceva rumore.
Qualcuno aveva ridacchiato
per quel motivo.
Cosa faceva a parte le
faccende di casa e le commissioni una volta alla settimana?
Leggeva tutto il tempo?
Visite non ne riceveva mai.
Poi era cominciata la Stagione Secca e allora aveva cominciato ad accodarsi anche
lei con gli altri per ricevere la
sua parte di acqua.
Anche in quei frangenti,
tuttavia, non aveva mai perso
la calma.
Da come si comportava,
sembrava che la siccità fosse
un contrattempo che si sarebbe risolto presto.
Gli altri erano disperati.
Soprattutto Gianni.
Testimonianza di Gianni, il
dirimpettaio della signorina
Tollini:” Mi permetto di
aggiungere poche note al
disegno della mia vicina. Ho
capito che cosa ha rappresentato. È il capo stormo che
ci porterà fuori dalla Stagione
Secca. A me, che, ho sempre
letto molto, è sembrata la frase di apertura di un romanzo
dell’orrore. Sì, la tipica
invenzione fantastica dove
all’orrore dell’acqua che
scarseggia si può reagire
blandendo creature in grado
di trovarla. Prima ne ho riso e
ora, no, non posso più farlo.
Ho sempre temuto le catastrofi. Dalle nostre parti, ci
sono state alluvioni. In questo
caso, dobbiamo guardarci
dall’opposto. Altro che temere muri di acqua limacciosa
che travolgono tutto. Il fiume
ha cominciato a prosciugarsi,
- 82 -
lasciando esposti prima gli
isolotti e poi i pietroni e lo
stesso ha cominciato a succedere all’acquedotto.
Poco per volta.
La Stagione Secca non ha
fretta di imporsi.
Come le altre quattro, si è
manifestata per gradi.
Prima con la calura interminabile.
Poi con le nubi scure che non
scaricano la pioggia ma fanno
rumore e sprizzano qualche
saetta qua e là.
Infine, è venuta la polvere,
che si insinua nei giardini e
avvizzisce i prati prima del
tempo.
E io ho lasciato la tanica al
quinto piano per i De Regibus.
Poi sono sceso dalla signorina.
Lo giuro ancora adesso, non
mi pento di aver gridato
quelle parole contro i miei
accusatori.
Domani è la Prova della Verità e io spero che le corde
reggano, dopo che hanno
sopportato il peso di Lauri,
messo a dondolare lì come
cavia, per farlo pentire del
primo furto: si è salvato,
perché non è il tipo dell’innocente da sacrificare.
Nel mio caso…devo restare
appeso per tutta la durata
della prova…povero me,
sennò.
Mi toglieranno dall’alloggio
accanto al rifornimento
dell’acqua e dovrò tornare da
mia cugina….questo lo dico a
mia discolpa.
So come si può rimediare alla
Stagione Secca.
Leggendo le ultime righe degli
appunti della Tollis, ho trovato la
soluzione: riportare indietro i
Guarda Fiume.
Poverini.
Il sindaco li ha scacciati dai loro
canneti con la scusa che davano
fastidio ai turisti con le loro voci
stridule e i loro nidi.
Ma l’acqua la dobbiamo a loro.
La chiamano e in loro assenza,
moriremo tutti di sete.
In cambio vogliono solo un po’ di
pace e di tranquillità.
Una volta mio zio ne salvò uno
piccolo.
Lo aveva trovato, andando a pescare.
Aveva un’ala rotta ed era orfano,
ma lui lo fece guarire e lo tenne
in solaio, lasciandogli aperto il finestrino sul muro.
Così, quando fosse guarito, sarebbe potuto tornare dai suoi simili.
Non lo fece mai del tutto.
Neppure quando morì lo zio.
Tornò qualche volta nel solaio.
Io sapevo di quest’amico pennuto
dello zio, ma vivo lui, non andai
mai lassù a vederlo.
Era un uccello selvatico, malgrado fosse grato allo zio e abbastanza intelligente da non fare rumore.
Non avevo idea di come avrebbe
reagito vedendomi: non sono
certo pettirossi, quelli.
Sono alti un metro e hanno un
piumaggio multicolore.
Da lontano sembrano buffi, con i
pennacchi e le lunghe code, ma
hanno becchi lunghi e sanno
acchiappare pesci molto grossi.
Li ho riconosciuti, dalle descrizioni della Tollis: lei ha chiamati
Telikah, dal verso che fanno per
chiamarsi fra loro all’alba.
Non c’è niente di soprannaturale
nella sua storia, anche se a prima
vista non si direbbe.
Infatti lei non vuole farne un libro, ma solo un avvertimento per
i condomini, la cittadina e chissà
dove altro.
Il nostro sindaco non è stato
l’unico a scacciarli e il fiume
lambisce molte città.
Ho capito come fare leggendo
l’ultima riga.
La Tollis immagina che gli
uccelli si siano estinti senza lasciare resti.
A parte quelli del capo stormo.
Ossa e piume.
Sono stato in solaio.
C’erano.
Chi avrebbe detto che il vecchio
amico pennuto dello zio sarebbe
venuto a morire qui?
Eppure lo ha fatto, senza lasciare
odore, a parte quello dell’acqua.
L’ho detto alla Tollis, che mi ha
congedato, dicendo che serve
acqua per il rituale che richiamerà in vita il capo stormo dei suoi
appunti.
Non sa cosa voglia dire, è venuta
qui con l’urgenza di scriverli e
nient’altro.
Attende una risposta.
Io so cosa fare. Non busserò alla
porta dei De Regibus…e penserò
all’uccello del disegno, è il ritratto dell’amico di mio zio”.
Un paio di giorni dopo piovve, il
temporale partì dal punto del fiume dove l’addetto alla stazione
meteorologica controllò l’ultima
volta la colonnina con la carta e il
pennino che avrebbero dovuto registrare le precipitazioni.
- 83 -
Vide passare la donna poco
lontano.
Si era infilata fra i canneti.
Poi, sentì grida rauche e vide salire verso il cielo due Guarda
Fiume.
Qualche minuto dopo, si accorse
delle prime gocce che cadevano.
Il Giudizio del TETRA
Avevo sentito dire che Alexandra
è la penna più veloce dello
Skannatoio, ed è vero. Peccato
che la velocità non paghi: lo
Skannatoio non è una gara a chi
posta per primo. Perché non
sfruttare i giorni a disposizione
per costruire meglio la storia,
colmare le lacune ed eliminare i
refusi?
Le antipatiche specifiche! Lo
ribadisco, è antipatico. Diciamo
sempre che le specifiche sono
spunti d'ispirazione più che
vincoli da seguire alla lettera.
D'altra parte i "paletti" sono lì, in
bella mostra nel post d'apertura,
anche per evitare che si ricicli
materiale già pronto. L'idea è
semplice: offrire la possibilità di
scrivere qualcosa di nuovo in una
sola settimana, per avere un veloce riscontro da parte degli altri
concorrenti e far crescere la propria creatura affinché cammini da
sola, più matura, verso altri
concorsi. In ogni caso le specifiche ci sono e andrebbero rispettate per evitare penalizzazioni. Perciò il/la protagonista
avrebbe dovuto avere una chiara
visione del futuro e il/la protagonista avrebbe dovuto, a un certo
punto della storia, rimanere appeso/a a una fune.
La simpatia dell'originalità.
Chiusa la parentesi antipatica,
sottolineo ciò che mi è piaciuto
del racconto: l'atmosfera di una
minaccia incombente e la descrizione di un mondo ormai
condannato a morire di sete accostato a un ambiente "casalingo".
Da non trascurare, poi, il messaggio "ecologista", non sbattuto
in faccia al lettore, ma
tratteggiato con delicatezza.
Che dire poi del punto di vista
iniziale della piastrella? Si tratta
del personaggio meglio riuscito
del racconto, con una sua personalità ben definita (attenta psicologa di chi la calpesta, caratterizzata da un'alta opinione di sé)
e, soprattutto, capace di presentare i fatti senza descriverli in modo esplicito (tanto per chiarire
che l'horror psicologico di Poe
non è solo una citazione finale
tanto per citare Poe - che, comunque, andrebbe citato in
qualsiasi occasione, a proposito
ma anche fuori luogo).
Detto questo, arriva il
"purtroppo".
L'antipatia della coerenza. Per
quanto il narrato della piastrella
promettesse bene, la storia si
perde nel seguito con il punto di
vista del vicino di casa, con testi
scritti alquanto farraginosi e difficili da seguire, con la sovrapposizione di ricordi d'infanzia e le vicende presenti. Può anche darsi
che il sangue che ha imbevuto la
piastrella le abbia trasmesso il periodare del Gianni (a un certo
punto m'è venuto questo dubbio),
però sarebbe stato molto meglio
usare uno stile differente per il
"flusso di coscienza" della piastrella e per la testimonianza
scritta dell'inquilino.
Scrivere di getto o gettare la
scrittura? Sono il primo ad avere
poco tempo da dedicare ai miei
hobby, quindi capisco che si scriva quando si può, ma mi chiedo:
perché consegnare il lavoro così
presto? Perché non rileggerlo per
eliminare i refusi ed evitare che
siano gli altri a elencarli? Perché
avere delle buone idee, originali e
personali, per buttarle sulla carta
in tutta fretta? Siamo sicuri che
non sia rimasta qualche
incongruenza nella vicenda
narrata... tipo un "suicida" che in
realtà è vittima di un "omicidio
colposo"?
Insomma, l'atmosfera cupa e
claustrofobica di una vicenda che
si svolge nella tromba delle scale
di un condominio, così iniziata
bene, avrebbe meritato uno sviluppo meno confuso e, soprattutto, un finale meno "tirato
via".
Voto: 6 1/2 (alla piastrella, detratto il "liberamente tratto dalle
specifiche").
- 84 -
Diritto di replica
Approfitto dell’occasione per
ringraziare Tetractys del suo
gentile commento nel Giorno del
Giudizio. Aveva ragione sui punti
deboli nella mia storia. In effetti,
mi sono lasciata trascinare troppo
dalle immagini che crescevano
mentre fissavo le parole nel file.
Questione di troppa fretta nella
consegna? Dipende dal grado di
difficoltà delle specifiche e anche
da quello della storia che si ha in
mente. Ho sempre cercato di
sfuggire dalla Sindrome del Tieni
Tutto Com’è, per mostrare quanta
fantasia hai, ma stavolta deve essere successo qualcosa di simile.
Non per vanità, ma per il Terrore
dell’Ovvio. Ti viene quando cominci a rovistare nell’Armadio
delle Idee e hai paura del Babau
che altri non è che il Valuta Sceneggiatori di Viale del Tramonto:
a ogni tuo spunto, una smorfia. Io
ho ripensato a cos’ho scritto e ci
ho riflettuto su mentre compilavo
il solito quadernetto. Scrivere è
autodisciplina e le idee sono infinite, per chi sa vederle. Tipo la
“Cavallinità” di Platone (allo
scettico che gli aveva detto:” Vedo il cavallo, ma non la cavallinità”, aveva risposto:” Perché non
hai l’occhio di vederla”) e io rispondo all’amico scettico:” Nel
fantastico tutto è stato scritto e
detto” io rispondo:” In realtà le
varianti sono infinite, ma bisogna
avere l’occhio di vederle e anche
la precisione di renderle. Questa
è la sfida per chi vuole esprimere
se stesso artisticamente”.
Promessa da
marinaio
Il comandante si volta a sputare
un grumo di tabacco da masticare
in acqua, poi torna a sorridere
verso gli uomini legati davanti a
lui.
Ad un suo cenno, uno dei marinai
apre un sacchetto di cuoio e ne
versa parte del contenuto su un
barile.
-Dieci libbre e mezzo di noce
moscata: non ho idea di quali siano i prezzi attuali sul mercato nero, ma credo che sarebbero più
che sufficienti per garantire a
ognuno voi un bel gruzzolo- dice,
muovendo con la mano i semi
scuri. –Come avete potuto pensare che non me ne sarei accorto?I suoi occhi passano lentamente
in rassegna i quattro
contrabbandieri: tre di loro sono
veterani dai volti bruciati dal sole
e dalla salsedine, vecchi lupi di
mare che sopportano a testa alta
le sue accuse con l’espressione
stolida di chi deve dimostrare di
non aver paura di morire. Il
quarto, invece, ha il capo chino e
il terrore traspare limpido dai
suoi occhi grigi.
-Il commercio della noce moscata
è tassativo monopolio della
Compagnia delle Indie e costituisce uno degli introiti principali
della nostra Corona: non avete
alcun rispetto la nostra nazione?Dice, scendendo dal cassero e
passando lentamente davanti ai
quattro uomini: scosta con
disprezzo i tre veterani, cuori fin
troppo duri perché le sue parole
possano far breccia, e si ferma
davanti allo sbarbatello. –E lei,
signor De Biers? Il suo primo
viaggio e già diventa un
contrabbandiere? Non prova
alcuna vergogna nell’aver
ingannato la nostra amata compagnia?De Biers trema, geme, farfuglia
qualcosa: sembra troppo spaventato persino per poter articolare una difesa. Il capitano scuote il
capo e si volta con disprezzo,
sputando in mare un altro grumo
scuro.
-Non c’è giustificazione possibile
per una simile colpa: nessuno di
voi sfuggirà alla condanna- si
volta e osserva l’uditorio: è la
buona occasione per dare un segnale all’equipaggio. –Chi sottrae
alla Compagnia i frutti che le
spettano, verrà appeso al vento
come un frutto troppo acerbo.Il braccio si distende lentamente,
la mano che indica con la violenza del Giudizio di Dio, i marinai che trattengono il respiro in
attesa del responso.
-Impiccateli al pennone.Il silenzio risponde alla sua
condanna, il muto timore che traspare dagli occhi dell’equipaggio
e che scuote la falsa tranquillità
dei veterani condannati.
L’urlo che lo squarcia dopo pochi
istanti non è che l’apice del
trionfo del comandante, che gusta
lo spettacolo di De Biers che
crolla in ginocchio.
-Pietà capitano, pieta! Sono
pentito!- Urla. –Per Carità di Dio,
ho moglie e figli!L’altro passa la mano sul pizzetto
e osserva il biondino dimenarsi
come una un animale al macello.
Lo sguardo indugia sul volto pao-
- 85 -
nazzo e sul corpo ancora quasi
integro del giovane fiammingo,
poi un sorriso obliquo compare
sul suo volto.
-Come ho già detto, non c’è giustificazione possibile per la vostra colpa. Tuttavia, sarebbe
ingiusto attribuire la stessa pena
di fronte a responsabilità diversetorna indietro e appoggia le mani
sulle spalle del giovane con l’aria
benevola del padre del Figliol
Prodigo. –In fondo, la tua unica
colpa è stata quella di nascondere
la noce moscata nei tuoi bagagli,
non l’hai acquistata di nascosto
dagli indigeni di Run… forse per
te c’è ancora la possibilità di redimerti, con la giusta correzione.Le sue mani salgono a coronare
quel volto ancora combattuto tra
speranza e orrore, poi il comandante si alza e torna a rivolgersi all’equipaggio.
-Il marinaio Pieter De Biers non
verrà impiccato. Sconterà la sua
colpa in modo da dimostrare a
tutti noi la forza del suo pentimento.Vociare confuso dalla massa di
marinai: forse qualcuno ha intuito
cosa vuol dire con le sue parole,
ma le ipotesi sono ancora ben
lontane dalla realtà.
Frustate? Pena del gelo? Ceppi? I
suoi uomini hanno decisamente
poca fantasia.
-Il marinaio Pieter De Biers verrà
sottoposto al giro di chiglia: la
sua espiazione consisterà nell’essere legato mani e piedi a una
corda e trascinato lungo la chiglia
della nave da babordo a tribordo,
in modo da passare sotto la linea
di galleggiamento- proclama, per
poi voltarsi nuovamente verso il
disgraziato. –Se il tuo pentimento
è sincero, sono sicuro che non
avrai difficoltà a trattenere il respiro per tutto il tempo necessario. In caso contrario, puoi
sempre morire e porre fine a
tutto.Da uomo esperto, il capitano sceglie con accuratezza il punto dove praticare la pena, quello che
possa garantire un giro quanto
più lungo possibile e in cui i denti
di cane sono riusciti a salire più
in alto sulle fiancate.
-Trattieni il respiro- mormora a
De Biers uno dei marinai che lo
cala lungo il babordo della nave.–Anche se sentirai i brandelli
di carne che ti vengono strappati
via, cerca di non aprire la bocca e
di non dimenarti. È l’unica possibilità che hai.Il giovane comprende a malapena
cosa gli sia stato detto, poi il primo strattone sulle assi di legno
gli strappa un grido.
Il dolore attraversa il corpo,
esplodendo lungo tutta la schiena: dopo lo strappo iniziale, la
pena prosegue con un lento trascinamento, in cui la pelle viene
raschiata poco alla volta, ma con
costanza.
Pieter si sforza di respirare regolarmente e si prepara
all’immersione, ma quando
l’acqua raggiunge le ginocchia i
primi mitili gli lacerano le carni
con le loro punte affilate,
strappandogli un secondo urlo,
poi un terzo e un quarto, fino a
quando la sua testa non scompare
sotto il pelo dell’acqua.
Con la forza della disperazione,
Pieter sigilla la bocca e chiude gli
occhi, cercando di non prestare
attenzione ai tagli sempre più
profondi che scavano il suo corpo
fino alle ossa.
Bastano pochi istanti per spostare
il fulcro delle sue percezioni dalla
schiena martoriata ai polmoni, in
cui le urla di dolore hanno fatto
immagazzinare troppa poca aria.
La mandibola comincia a tremare: il corpo impazzito vorrebbe
spalancarla per obbedire ai suoi
impulsi primari, la mente lotta
per mantenerla sigillata e sopravvivere.
Infine il corpo ha il sopravvento e
le fauci si spalancano,
riempiendo d’acqua salata gli
spazi vuoti nel petto. È l’annegamento, l’istinto di sputar fuori il
liquido è inutile e le fitte di soffocamento nel petto segnano il
collasso degli istinti naturali.
La coscienza si dirada, il dolore
sfuma, le ultime percezioni scivolano su una mente vuota.
Spalanca gli occhi e inarca la
schiena, aspirando disperatamente l’aria con un rumore
strozzato. Impiega qualche
istante per rendersi conto di poter
respirare tranquillamente e poco
più per capire di trovarsi nell’intimità della sua casa.
Sua moglie e sua figlia dormono
profondamente accanto a lui e
sembrano non essersi accorte del
suo brusco risveglio: lui sfiora
leggermente la guancia e sorride,
lasciando che il battito del cuore
torni poco a poco alla normalità.
Deve aver avuto un incubo, ma,
per quanto si sforzi, non riesce a
ricordare cosa ha effettivamente
sognato: in realtà, l’unica cosa
che gli è rimasta è la sensazione
di soffocamento e di terrore con
cui si è svegliato, sensazioni
tanto realistiche che gli basta
- 86 -
pensarci anche solo un istante per
sentirgli mancare il fiato.
Scuote il capo per allontanare i
cattivi pensieri, poi sospira e si
alza dal letto: è ancora presto, ma
sa che non riuscirà ad
addormentarsi di nuovo e ne
approfitta per fare le cose con
maggiore calma.
Rabbrividisce quando comincia a
vestirsi e maledice gli spifferi che
filtrano da ogni angolo di quella
casa disastrata: il pigione che pagano per quel tugurio è basso, ma
anche così è difficile elencare
qualche beneficio che vada oltre
il mero tetto sulla testa.
No, non è vita quella che stanno
facendo da quando è stato costretto a chiudere la sua bottega e
se non fosse stato per quei due
angeli addormentati non avrebbe
esitato nemmeno un istante ad
affidare la sua fine a uno scorsoio.
È vestito, è pronto: raccoglie la
borsa con le sue cose e si avvicina di nuovo al letto. Con tutta la
delicatezza di cui è capace, deposita un bacio sulla fronte delle
due donne della sua vita per avere un bel ricordo da portare con
sé sull’oceano.
Farebbe qualunque cosa per loro,
qualunque cosa pur di farle uscire
dall’inferno in cui sono precipitati.
-Aspettami, amore mio- sussurra.
–Quando sarò di nuovo qui, ti
prometto che vi regalerò una vita
migliore. Costi quello che costi,
metterò fine a tutto questo.La accarezza ancora, poi mette in
spalla la borsa ed apre la porta di
casa.
-Pieter!La voce di lei risuona
all’improvviso dalla stanza semibuia.
-Pieter, promettimi anche che
tornerai.Pieter si volta e vede sua moglie
in ginocchio sul loro giaciglio,
con una mano appoggiata sulla
bambina ancora addormentata.
Sorride.
-Tornerò da voi- dice.-Questa è
una promessa di Pieter De Biers.-
Il Giudizio del TETRA
Non sarà stato l'ultimo minuto
per postare, ma evidentemente
era l'ultimo minuto che avevi a
disposizione, visti quegli articoli
sbagliati sparsi a manciate. Sarebbero bastate un paio di riletture in più e il racconto non
avrebbe peccato di sciatteria (in
ogni caso, lasciare qualche "orrore" qua e là, a poco meno di tre
ore dalla consegna, non è paragonabile a lasciarne altrettanti con
quasi una settimana a disposizione).
A chi non è mai capitato di svegliarsi nella notte urlando?
Beh, a me no. O almeno non che
io mi ricordi. Anche la Jackie mi
conferma che negli ultimi tre anni
non mi è mai successo, benché
non possa giurare nulla per gli
altri miei 43 anni. Comunque qui
si parla di un incubo premonitore,
che, come tutti i sogni, è facile a
dimenticarsi.
Mi è piaciuta l'idea del racconto
spezzato in due con l'inversione
temporale delle scene. L'incubo è
descritto in modo così reale da
non sembrare un sogno. Potrebbe
essere copia-incollato dopo il finale e nessuno se ne accorgerebbe. Dopo l'operazione, diventerebbe una classica novella
di marineria che, senza scomodare le dettagliate ambientazioni di
Patrick O'Brian, fa respirare
almeno una zaffata di salsedine.
Grazie all'inversione, ispirata
dalle specifiche della gara, regala
al lettore la soddisfazione di scoprire il dramma umano che il tono farsesco del "processo" aveva
tenuto in secondo piano.
Quindi la premonizione è stata
sfruttata a dovere, riuscendo a suscitare un pizzico d'interesse in
più sul personaggio del malcapitato contrabbandiere messo in
ombra dall'istrionica e strabordante figura del
"commander".
Can che abbaia non morde!
Quando ho sentito parlare del giro di chiglia in un post del Pretorian qualche settimana fa, son
subito corso a documentarmi. Il
"giro di chiglia" era una delle
tante cose di cui avevo sentito
parlare in varie occasioni e mi
ero fatto anche l'idea che fosse
qualcosa di doloroso, ma –
cribbio! – sempre meglio di
un'impiccagione – pensavo!
Wikipedia m'ha fugato ogni
dubbio spiegandomi quanto
mordessero i denti di cane. La
scena del giro ha reso giustizia
alla pena: anche se ormai siamo
- 87 -
abituati a leggere ben altro, in
poche righe il Pretorian ha
trattato tutto quanto c'era da dire,
col minimo di "pulp" indispensabile alla bisogna.
Meglio una zaffata di salsedine
o una bella secchiata d'acqua di
mare? Certo, l'ambientazione è
quella che è. C'era spazio per
calcare la mano, per rendere le
scene sul ponte e nella baracca
più vivide e descrittive. Un
appassionato di storie di mare le
avrebbe apprezzate e chi invece
ne è completamente a digiuno si
sarebbe un po' istruito. Qualche
accenno sparso alla Compagnia e
all'equipaggio non è poco?
Un consiglio? (Caspita! Due domande retoriche di seguito!) Riprendere il testo e colmare le lacune, senza appesantire. C'è già il
canovaccio della storia, perciò
non resta che abbellirlo con
qualche "occhio di bue" qua e là
che metta in risalto i dettagli. Il
minimalismo paga fino a un certo
punto, soprattutto nelle storie di
mare dove, in fondo, tutti hanno
un'idea di ciò che dovrebbe esserci (non foss'altro per colpa
dello squinternato Jack Sparrow)
e si sentirebbero gratificati nel
vederselo evocato davanti agli
occhi nel leggere la tragedia del
buon De Biers.
Che dire in conclusione...
Il braccio si distende lentamente,
la mano che indica con la violenza del Giudizio di Dio, i marinai che trattengono il respiro in
attesa del responso.
Voto: 7+ e impiccatelo al pennone!
domani carichiamo i
N o n c ' è p i ù p o s t o broncio,
bambini
e
andiamo a trovare i
in cielo
tuoi alla riserva.» Gi sfiorò le
I ricci rosso fuoco dondolarono,
sollecitati dalle mani delicate.
Polly li raccolse sopra la testa e
fece una smorfia allo specchio,
poi li rilasciò sulle spalle scoperte. «Jonas sei pronto?»
La voce arrivò dall'altra parte
della casa, attutita dalle pareti,
«ci ho ripensato, vai da sola.»
Lei appoggiò l'elastico sul lavello
e si spostò fin sulla porta, «eddai,
abbiamo lasciato i bimbi da papà
apposta. Non usciamo mai.» Altri
due passi sui tacchi alti, che non
sfoggiava da troppo tempo, fino
al salotto.
Jonas era seduto su una poltrona
reclinabile, una birra tra le dita e
lo sguardo fisso oltre le immagini
sbiadite di un film in bianco e nero.
«Me lo avevi promesso.»
Si voltò verso di lei, un sorriso
appena accennato e lo sguardo
supplichevole che ingentiliva i
profondi occhi neri, «Polly, ti
prego. Sono i tuoi amici del
college che senso ha che venga
anche io?»
Lei strinse i pugni e per un momento tutto il corpo esile sembrò
vibrare, subito dopo distese i muscoli e le labbra, e gli cinse le
spalle, appoggiandosi su di lui,
«devo vantarmi con loro, del mio
bellissimo compagno.»
Mantenne l'abbraccio qualche
istante e riprese a parlare quando
vide che non sortiva alcun
effetto, «va bene, facciamo così,
se mi accompagni e non tieni il
labbra con un bacio, «così potrai
fare tutti i "giochetti da sciamano" che ti mancano tanto.»
Due boccali di Chilli beer scivolarono sul legno bagnato e finirono tra le mani di Polly, che ne
passò uno al proprio compagno,
ridendo in modo fin troppo sguaiato a una battuta del ragazzo
biondo davanti a lei. Il quarteback che non l'aveva mai notata e
che ora sembrava pendere dalle
sue labbra. «Mi diceva Polly che
tu sei... Una specie di sciamano,
giusto?» Alcune gocce di birra e
saliva si rincorsero sul mento
pronunciato.
Jonas sorbì un sorso e gli concesse un'occhiata fuggevole, un
sorriso anche, ma non rispose.
L'altro, quello che un tempo era
stato un bullo e ora era solo un
mediocre uomo sulla trentina,
afflitto da una calvizie precoce,
diede una pacca al quarteback,
«oh-oh! Forse hai toccato un
nervo scoperto.» Poi si rivolse direttamente a Jonas, «sono cose
della vostra tribù vero? Cose che
i bianchi non devono sapere, giusto?» Una nota di sarcasmo,
nemmeno troppo mascherata.
Polly si schiarì la voce e sfiorò la
mano di Jonas, «vado al bagno,
poi ce ne andiamo. Kelly mi
accompagni?»
Lasciò scrosciare l'acqua del rubinetto, con entrambe le mani
aveva afferrato il lavello,
stringendolo, «ma che cacchio gli
è preso? Sono battute da fare?»
Kelly aveva finito di ritoccare il
- 88 -
proprio maquillage, «non te la
prendere, la loro unica qualità,
già non risiedeva nel cervello ai
tempi della scuola, e ora hanno
perso anche quella.»
Polly si lasciò sfuggire un sorriso
e ravvivò la chioma color fuoco,
«va bene, dai andiamo.»
«Certo che te lo sei scelto proprio
bello, il mustang!»
La guardò incredula dal riflesso
nello specchio, mentre ancora si
dava una passata di gloss.
«Voglio dire, se non avesse problemi con l'alcol sarebbe proprio
una bella cavalcata. Con il piccolo com'è?»
«Kelly, ma cosa vai blaterando?
Jonas non ha alcun problema con
l'alcol.»
L'altra le diede un buffetto,
mentre il sorriso si tramutava in
un ghigno su una maschera di cera. «Suvvia cara, vuoi dirmi che
ti sei accaparrata l'unico nativo
non alcolizzato dell'Arizona? Te
lo dico da amica, hai anche una
figlia non sua, dovresti stare
attenta.»
Polly dischiuse la labbra, appena
un po', lo sguardo incredulo fisso
su quel sorriso falso. Urlò subito
dopo, «Jonas è l'unico sobrio al
tuo tavolo di merda!» Si voltò di
scatto guadagnando la porta,
l'ultima frase la sussurrò soltanto,
«e aveva ragione lui.»
Tornò al tavolo qualche secondo
dopo, gli occhi acquosi e
l'espressione di chi non sarebbe
mai dovuta uscire. «Amore,
andiamo via.»
Lui si alzò di scatto e la
raggiunse, urtò il quarteback, facendogli rovesciare metà del
boccale sulla felpa del campus, e
la abbracciò. «Che è successo?»
«E che cazzo! Indiano di merda!»
Polly lasciò scivolare uno
sguardo carico di compassione
sul suo ex compagno di liceo e
afferrò il braccio di Jonas, «non
sarei dovuta venire.»
Jonas strinse le palpebre, una fitta
acuta alle tempie lo obbligò a
serrarle tra le mani. «Polly ti prego, vai da sola, è molto meglio.»
Sua moglie gli cingeva ancora le
spalle, fasciata nell'abito succinto
che aveva indossato per uscire.
«Come al solito.» Sibilò,
sconfortata e arrabbiata anche.
Afferrò la borsetta sul tavolino di
cristallo davanti alle gambe di
lui, e con un gesto di stizza alzò il
volume del televisore, «stordisciti
pure davanti alla tele. Non si può
mai fare nulla che non sia una
psicocazzata Hopi!» Si chiuse la
porta alle spalle con forza.
«Però, almeno, passerai una bella
serata.» Disse tra sé il ragazzo,
cercando il telecomando tra le
pieghe del copridivano
sgargiante.
Il suv scivolò sulla strada
sterrata, avviluppato da una nube
rosso tramonto. Occhi azzurri e
neri cercavano di oltrepassare la
coltre per scorgere l'ingresso
della riserva, due paia di manine
appoggiate al finestrino posteriore. «Quanto manca, papà?»
«Poco.» Sussurrò al piccolo che
si era appena accoccolato tra le
braccia della sorella.
«Come è andata ieri sera? Non te
l'ho più chiesto.» Le sfiorò il ginocchio nel porgerle la domanda,
ma ritrasse la mano, quando notò
l'espressione di lei.
«Come va ogni volta. Ogni volta
che mi lasci da sola. Fosse per te
vivremmo ancora qui, e davvero
sarei una murata viva.»
Rimasero in silenzio per i successivi quindici minuti che impiegarono a raggiungere la riserva. Jonas lasciò l'auto davanti al
chiosco di souvenir che era stato
il suo e prese in braccio il piccolo
che si era addormentato. Sua sorella, dall'alto dei suoi otto anni,
sfoggiava un passo veloce e sicuro. Legò i riccioli rossi, identici a
quelli di sua madre in una coda e
precedette la famiglia lungo la
via principale. «Andiamo da
nonno Tocho, Jonas?»
«Sì, tesoro. Anzi, vai avanti e
avvisalo che Ayawamat si è
addormentato, così prepara il
letto.»
La ragazzina iniziò a correre e
scomparve dietro la prima svolta.
Un cane scheletrico la rincorse
qualche istante, tuttavia voglioso
di gioco, per poi tornare a
ciondolare davanti al chiosco
delle bibite.
«Ti senti sicuro a mandarla da sola?» Polly indicò con un gesto del
capo un paio di ragazzi seduti su
delle cassette rovesciate. Una
dozzina di lattine di birra vuote
tra i piedi e una tra le mani.
«Sono pericolosi solo per se stessi.» Camminarono solo poche
centinaia di metri. Jonas sorrise
vedendo alla sua destra le reti da
letto usate per recintare un cortile, spostate quel tanto che bastava
a far passare la figlia di Polly,
«Eloise ha preso una scorciatoia.» Sogghignò.
Le ginocchia gli cedettero di
schianto un istante più tardi. Si
portò le mani alle tempie mentre
la vista si perdeva in un mare
- 89 -
denso e schiumoso di sangue. La
sabbia giallo ocra spruzzò granelli aurei, esplose il vortici,
sferzata da un vento inesistente.
«Jonas! Jonas, che hai?» Polly gli
strinse le spalle, la stoffa ruvida
del jeans le fece male alle dita.
«Jonas, ti prego...»
Non le rispose, gli occhi spalancati sul vuoto. Un vuoto che a
lui sembrava pieno di orrore e
morte.
Lo distesero sul letto di suo padre, non sapeva quanto tempo
fisse passato, né in quanti fossero
sopraggiunti ad aiutarlo. Ora però
era lì, nella casa in cui era cresciuto, con sua moglie, i suoi figli, suo padre e suo fratello. «Tocho...» sussurrò, non appena vide
le rughe sul volto di cuoio di suo
padre, incresparsi in un sorriso.
Scattò a sedere subito dopo,
cercò i piccoli con lo sguardo e si
sdraiò non appena li capì al sicuro. Polly era in piedi, il sedere
poggiato sulla stufa a legna, e un
dito tra le labbra. «Sei svenuto, o
qualcosa del genere. Per fortuna
poco dopo è arrivato tuo fratello,
o non sarei mai riuscita a portarti
fin qui.»
Jonas si era seduto, intanto. I piedi scalzi poggiati sulle assi tarlate
del pavimento, con l'alluce sfiorava la nappa di un tappeto. «Non
sono svenuto, ho visto.» Si voltò
di scatto verso suo fratello,
«Grande Orso, devi preparare
tutto per la cerimonia, e devi
farlo in fretta, ho paura che non
ci sia tempo.»
L'uomo che aveva il suo viso ma
spalle due volte le sue si precipitò
verso la porta, chiamò a sé anche
una donna rubiconda, dall'aria
gentile che Polly riconobbe come
Humita.
«Non abbiamo nemmeno fatto in
tempo a mettere piede qui, e
guardati!» Polly stava gridando,
incurante del fatto che Tocho fosse presente o dei due paia di
occhioni sgranati verso di lei, che
avevano perso ogni interesse per
Mr Magoo alla televisione. «Poi
ti domandi perchè ce ne siamo
andati? Credi che sia divertente
vederti masticare pejote come
fosse chewingum? Speravo che
andando via da qui sarebbe finita...» si passò le dita tra le
ciocche ribelli, poi si asciugò gli
occhi, «...invece non è finito proprio niente.»
Jonas rimase in silenzio, non le
disse nulla nemmeno quando la
vide raccogliere la borsa di cuoio
dal pavimento, né quando infilò
le giacche ai piccoli.
«Noi andiamo all'albergo al
confine, quando avrai finito di
parlare con gli spiriti, di fare
"l'Alo" facci un fischio.»
Tocho accompagnò il rumore
della porta con un gesto delle
spalle, le strinse, mentre batteva
veloce gli occhi. Sorrise appena,
poi estrasse una lunga pipa
intarsiata dal cassetto del tavolo
in formica azzurra. «Non l'ha presa tanto male, Alo.»
Passò la pipa e un accendino al
figlio, ancora seduto sul bordo
del letto, «mah, no. Poteva andare peggio.»
I punti cardinali e gli elementi
erano stati benedetti, i legni oleosi e profumati: accesi. Humita si
era premurata di preparare la sala
del consiglio, perché fosse usata
per la cerimonia. Jonas Doppio
Sguardo era seduto al centro della
stanza vuota, le gambe incrociate
e le braccia appoggiate sulle ginocchia.
Attorno a lui, i membri del consiglio aspettavano, fumando, che il
pejote che aveva ingurgitato facesse effetto. Quando spalancò
gli occhi, ammutolirono, anche
chi non lo stava guardando, quasi
che le palpebre avessero fatto rumore.
Dondolò il torso in senso antiorario, il volto proteso verso alto,
contro il piccolo fuoco, acceso
nel braciere davanti a lui.
Non c'era nessuno con lui, adesso.
Solo quel deserto che conosceva
tanto bene e il vento. Avrebbe
corso a perdifiato, gridato anche,
ma si distese, perché era la
sabbia. Quindi aspettò.
Sentì i piedi dei primi che
camminarono su quella terra, non
il suo sangue, ma la sua gente.
Poi piedi più duri, zoccoli e ruote
di ferro. Nel tempo che impiegò a
voltarsi le ruote divennero di
gomma dentata e le calzature più
morbide e li vide: tutta la sua
gente stava camminando. Suo padre, ingobbito ormai, e stanco,
suo fratello. Ogni singolo
membro della tribù si stava
allontanando e lasciava dietro di
sé una scia di sangue e putridume. Distese le dita, rovistò tra i
granelli. Pelle su pelle e sentì
l'abbraccio di lei. Polly lo stava
baciando, e le sue labbra avevano
il sapore dell'acqua fresca.
Guardò in basso, perché poteva
farlo.
Sua moglie e suo figlio stavano
giocando sulla sabbia, Eloise
lanciava un bastone a un cane ne-
- 90 -
ro, ma lui non stava volando.
Non era l'aquila, non era vento.
Il corpo di Jonas ebbe un sussulto, socchiuse gli occhi e
quando li riaprì, le iridi non erano
più visibili. Grande Orso si avvicinò di un passo, lo avrebbe
toccato se suo padre non glielo
avesse impedito con uno sguardo.
«Quello che l'Alo sta facendo è
solo per la sua conoscenza. Se
stia davvero cambiando il futuro,
noi non possiamo saperlo, ma sta
agendo per il meglio.»
Era invischiato, appeso, senza
altra possibilità che guardare, a
centinaia di metri da terra. La sua
famiglia viveva la propria vita,
suo figlio era un uomo ormai, ma
non aveva ricevuto il dono, o la
maledizione. Era un medico, e
aveva deciso di lavorare
nell'ospedale della riserva. Ma
era la riserva a non essere più la
stessa.
Si contorse allora, cercando di
strappare i legacci collosi che lo
imprigionavano al cielo, sopra le
nubi. Era il Chochokoi, ma adesso non gli era di alcun aiuto. Si
dibatté ancora, poi vide decine di
costruzioni sorgere come metastasi, sulla sua terra ormai malata.
Accavallarsi a un ritmo folle, e
orde di gente entrare e uscire.
Dovette guardare lontano per
scorgere ciò che era rimasto del
suo popolo, molti chilometri più
a sud. Lontano dal Pork River,
lontano dalla loro casa.
Strinse le palpebre, per vedere
suo figlio lottare come un leone
contro le malattie causate dalle
contaminazioni e dall'alcolismo.
Decise di recidere le funi che lo
intrappolavano in cielo. Per
quanto dolci e morbide, per
quanto lo trattenessero dove lui
era sempre voluto stare.
E si voltò.
Le corde erano dita intrecciate ed
esili braccia bianche, le funi: i
morbidi capelli della sua Polly.
Quando precipitò sulla terra, riuscì a udire solo il crepitio del fuoco e il respiro cadenzato degli uomini che lo avevano
accompagnato.
«Io devo restare qui» Tutto il
consiglio attese che si fosse
alzato. Non domandarono nulla.
Lo seguirono con lo sguardo fino
alla porta, barcollante.
Solo suo fratello lo raggiunse per
porgergli la camicia a quadri e la
giacca di jeans. «Cosa hai visto?»
«Niente che non sapessi già.»
Abbracciò Grande Orso e prese le
chiavi del suo pick-up dalla tasca
posteriore dei calzoni. «Le tieni
ancora lì?» Poi uscì.
Guidò per pochi minuti, il tramonto aveva imporporato il deserto, e adesso, i due speroni di
roccia brulla che di solito scandivano le ore, sembravano canini
insanguinati. Svettavano dalla
distesa rossa, come se l'avessero
divorata, e ne anelassero ancora
qualche brandello.
Raggiunse l'hotel ma non ebbe
bisogno di aspettare, sua moglie
era nella Hall, i bagagli vicino ai
piedi e uno sguardo fin troppo
eloquente.
«Non bisogna essere un Alo per
intuire cosa sei venuto a dirmi.
Ma io non ce la faccio, non è la
mia vita.»
«Potrebbe non essere così. Potresti restare.»
Lei gli sfiorò le labbra con un ba- L'ispirazione delle specifiche.
cio e infilò le dita tra i lunghi
Questo racconto è un esempio di
capelli scuri, «no.»
come le specifiche possano essere fonti d'ispirazione. Le "funi"
alle quali era appeso il protagonista durante la visione fanno parte
integrante della seconda visione,
non sono un accessorio tirato per
lo scalpo, ma una metafora
Il Giudizio del TETRA
dell'esistenza di Alo fino a quel
momento: dolci legami che lo
Che dire. Non posso sostenere
che non mi sia piaciuto (e uso la tengono lontano dal dovere di
usare il suo dono per nobili scopi.
doppia negazione per non sbiD'altra parte "da un grande potere
lanciarmi troppo).
derivano grandi responsabilità"
I bivi. La vita è fatta di scelte ed
L'America ci ha colonizzati?
essere uno sciamano ha i suoi
Beh, è inutile ribadirlo: sì! Non
vantaggi. Fantastica la scelta
della "visione" iniziale. Quello mi riferisco al racconto in sé, in
che sembra l'inizio del racconto è quanto Polly non ha mai fatto
in realtà la "chiara visione del fu- mistero della sua passione per i
turo" ed è una bella sorpresa sco- nativi americani. Mi riferisco,
prirlo quando il protagonista de- invece, al fatto che si possa
leggere un racconto come questo,
cide di lasciar andare la sua
compagna da sola dicendole: "E' con numerosi riferimenti a un
meglio così". Si sente che deve mondo a noi "alieno", riuscendo a
essergli costato deluderla ancora seguire tutto alla perfezione. La
una volta, ma la sua scelta, vissu- cultura statunitense ci è familiare,
ta in solitudine, come dev'essere anche se magari non spiccichiasolitario chi possiede il "dono", mo una parola d'inglese, grazie a
Hollywood e ai film e ai serial
era la migliore possibile.
che produce. Sfruttando questa
E' il preludio alla scelta che lo
porterà a tornare nella riserva per "colonizzazione" culturale, il
restare di nuovo solo, dopo aver racconto non ha bisogno di spiegare per filo e per segno il perché
sciolto i teneri legami che lo
tengono sospeso nel cielo, dove e il percome, eppure acquista un
una volontà debole lo avrebbe re- senso e ha qualcosa da dire anche
legato per il resto della sua vita, a a noi occidentali a est
dispetto di qualsiasi visione apo- dell'Atlantico.
calittica del futuro. Ma il protagonista sceglie ancora per il me- In conclusione, avrete capito che,
quando ho scritto "non posso dire
glio, quel "meglio" che suona
come un dovere, ma che invece è che non mi sia piaciuto", volevo
solo l'onore che lo lega alla sua dire che questa storia mi è piaciuta un sacco!
gente e alla sua terra, senza il
quale un uomo non sarebbe un
Voto: 8 (anche per il pejote )
uomo.
- 91 -
del Comitato, come noi, sta di una delle sue storie e
L a s t a n z a r o s s a parte
dunque amici e amici degli non solo per le poche gocce
Ascoltami, sembrerà strano
ma è andata così, in fondo
questa storia è incredibile.
Cosa darei per fumarmi una
sigaretta!
Sarà stato, credo, Settembre,
o giù di lì. Quanto tempo sarà
passato? Boh!
Accadde tutto per via di un
gioco, come molte cose. Ero
andato a casa di Pilar
Sanchez, un villino a due piani al quartiere Palermo.
Gente strana i Sanchez, specie quei Sanchez, che più
borghesi non si può, ingegnere lui, ingegnere lei. Insieme
avevano fondato una società
di costruzioni famosa in
mezza Argentina.
Quella sera i genitori di Pilar
erano in Uruguay per ignoti
motivi, forse per lavoro. Casa
libera, non ci sembrava vero
avere un posto così per una
delle nostre solite riunioni.
Lei, Pilar, mora e sui ventuno
anni, gran fica, dovresti vederla, mi accolse con la puzza
sotto il naso tipica dei
borghesi, specie dei borghesi
di sinistra, neanche fossi uno
scarafaggio coprofago. Lui,
Martin Hoeness, il suo ragazzo, belloccio sì, uno che
piaceva alle donne, specie di
un certo tipo di donne come
Pilar, era un anarchico, ma
dotato di un quoziente
intellettivo a due cifre, e forse
solo per questo mi pareva il
meno antipatico tra i due.
Eppure entrambi facevano
amici.
E poi c’erano altre quattro
persone. Li catalogai con
molta facilità anche perché di
vista li avevo conosciuti un
po’ tutti. Erano quelli del
gruppo di Cordoba, in trasferta.
Hugo Sciss, un tizio patetico
ma convinto di avere il diritto
di gestire l’intera riserva degli aneddoti per la serata,
Claudio De Vitis, un "brutto
competitivo", amico intimo e
zerbino acido di Manola Rodriguez, nota frequentatrice
dei raduni “a imbuco”, specie
se nella Baires bene.
Gabriela Spotini, una ragazza
grassoccia e anonima, l’avevo vista sì, altre volte, ma
non avevo capito amica di chi
fosse e che ruolo avesse. Aveva sempre un’aria così rancorosa che sembrava le mancasse… Beh, insomma, mi hai
capito.
Il mio interesse verso di loro
e per la politica, più in generale, te lo confesso, amico
mio, era praticamente nullo.
Anche se mi piaceva farne
parte perché mi sembrava essere preso in qualcosa, una
specie di grande progetto.
E poi c’ero io, certo, anche se
non ti ho detto ancora il mio
nome. Ma soprattutto c'era
Maria Bellotti. Per lei, ero lì.
Inutile dire che in fatto di
donne sono sempre stato un
idiota.
Borges sarebbe venuto a
nozze con uno come me,
inserendomi come protagoni-
- 92 -
di sangue gringo che scorrono nelle mie vene, quello
gringo vero, dico, quello
gallese. Maria mi aveva stregato. Era un fatto fisico, soprattutto, ma anche mentale.
Il fatto che fosse anche un
fatto mentale era una scusa
con la quale cercavo di
consolare il mio animo di
disegnatore di fumetti fallito,
con tutta la mia ammirazione
per il grande Héctor Germàn.
In poche parole, ero lì, non
per via della politica e del
Comitato, non per cambiare il
Paese o il mondo, ma con la
speranza neanche poi troppo
segreta di scoparmela.
Molto triste come le cose si
riconducano, a volte, ai minimi termini. Oh, ma tu avresti
dovuto vederla com’era
bella!
Ma andiamo con ordine,
torniamo alla mia storia.
Dopo le solite discussioni relative alla gestione dei
rapporti con la Juventud
Guevarista, la questione di un
paio di Montaneros infiltrati
che non ci era parsa molto
limpida, l’inquietudine sulle
notizie sui compagni
scomparsi, l’idea per
sdrammatizzare e scaricare la
tensione venne a Martin. Ne
fui sorpreso.
Avvenne un minuto dopo che
Gabriela Spotini si congedasse, per via di un impegno non
meglio definito, lasciandoci
chiusi nella grossa sala della
villa.
- Ciao, mi raccomando, di-
vertitevi! – Disse.
- Ciao! – Le risposi, non degnandola della minima
attenzione.
Pensavo, sai, che Martin non
fosse in grado di prendere
iniziative individuali,
neanche se queste fossero ludiche.
O non l’avevo valutato bene
o la sangria cominciava a
farmi effetto.
- La facciamo, allora, la seduta spiritica? – Disse il ragazzo con un sorriso da star
del pallone. In effetti, notai
che aveva una certa somiglianza con Mario Kempes.
- Dai! – Intervenne Manola, lo sapete che la chiesa cattolica è contraria a queste
stronzate!
Ridemmo tutti di gusto.
- Allora, se è così, non la
facciamo! – Le rispose Hugo.
- E poi non ci credo. E ho
paura! – Continuò, eccitata,
ridendo, senza curarsi della
contraddizione palese, peraltro sincera, suscitata dalle
sue parole.
- Ma sai che questa è, invece,
un’idea EC-CE-ZIO-NA-LE!
– Le rispose Pilar, battendo le
mani e sporgendosi in avanti
per far ammirare a tutti, specie ai maschi, la scollatura,
senz’altro notevole. Era
davvero un po’ troppo civettuola per giocare alla rivoluzione. Ma si sa come vanno
queste cose.
Claudio attese, cercando
d’interpretare la posizione
contraddittoria di Manola in
materia, e parve restare per
un po’ tra le spine. Hugo dis-
se che la seduta spiritica
l’aveva fatta poco prima al
gabinetto e, proprio per questo, consigliava di non
entrarvi.
- Scemo! – Gli fece eco Maria. - Però, sarebbe
elettrizzante, dai! – E sorrise.
Come sapeva tirare su
quell’angolo della bocca
mentre parlava, amico mio,
ecco, non ti puoi immaginare! Solo per quella smorfia,
un po’ da puttana un po’ da
vergine, me la sarei fatta lì,
senza pensarci, su quel tappeto turco pregiato, con tutti
che guardavano e magari
intonavano l'Internazionale.
Per alcune cose, sai, sono
sempre stato dissacrante, specie nelle cose cui comunque
ho creduto. Potrà sembrarti
curioso ma è così.
Mi guardarono sì, ma sempre
per via della seduta spiritica
quasi fossi diventato, stranamente, arbitro della decisione. Alzai le spalle e il mio gesto fu interpretato come un
“sì”. A ruota, gli indecisi,
Manola e Claudio, cedettero.
Martin tirò fuori, allora, la tavola ouija in modo teatrale.
- Era di mia nonna, se l’è
portata dietro dalla Polonia. Disse. – Lei faceva la cartomante a Boca.
La fissammo un po’
interdetti. Era fatta bene con
tutti gli arabeschi al posto
giusto. Ci disponemmo in
circolo attorno al tavolo
tondo della sala, Pilar prese
un bicchiere vuoto e lo capovolse fissandolo al centro
esatto.
- 93 -
- Spegni le luci, Martin. Ordinò poi la padrona di casa, - e prendi tre candele rosse, che le accendiamo. Sono
in quel cassetto lì, quello
della credenza.
- Tre candele? – Chiesi, senza
accorgermene.
- Sì, perché? – Mi rispose Pilar in modo acido neanche le
avessi chiesto se il suo seno
fosse naturale. - Tre candele
ci vogliono, no?
Boh, pensai.
Nel giro di un minuto stavamo già iniziando. Maria era
bellissima alla luce soffusa
delle candele. Era proprio di
fronte a me. Mi chiesi come
avrebbe reagito se le avessi
sfiorato una coscia con il piede.
Ma quella fu l’ultima delle
mie osservazioni veniali
perché poi avvenne quello
che avvenne.
Pilar voleva dare di se stessa
un’immagine signorile in
tutto quello che faceva. La signorilità è qualcosa che trasuda in un borghese, non la si
può lavare nemmeno con
anni di conversione alla causa
dei poveri. Così era lei. Onde
per cui, s’immerse nella parte
di medium con estrema efficacia e un poco di teatralità,
vaneggiandosi con quel suo
lungo vestito invernale e
scollato. Noi, intanto, tenevamo tutti le dita appoggiate al
bicchiere, come avevamo visto fare nei film.
- Spirito! Spiritoooo! – Cominciò la ragazza.
- E dacci un taglio, Pilar!
Sembri la strega cattiva di
Biancaneve. - Le fece Hugo,
ridendo, tra il biasimo di tutti
e degli “Ssssh!” d’indignazione. Inarcai un sopracciglio. Mi chiesi perché mai mi
stessi umiliando in quel modo
per stare dietro a una donna.
"É il suo sorriso", mi sentii
rispondere. "Quella smorfia
che conosci bene. Per quello
stai qui."
Già, mi risposi, fissando la
mia musa, e il sopracciglio
tornò al suo posto.
- Spirito, ci sei? – Ora Pilar
sembrava meno teatrale e un
po’ più pragmatica.
Hugo le diede una botta con
la spalla e le disse:
- Ma non dovevi dire “batti
un colpo”, prima?
Pensai che, se fossimo stati
dentro un film dell’orrore,
Hugo sarebbe stato il primo a
crepare, con la gioia di tutti i
telespettatori.
Invece accadde una cosa strana. Il bicchiere si mosse
verso la lettera “S” e poi
verso la lettera “I”. Mi
guardarono tutti con un po’ di
sospetto. La “S” si trovava
dalla parte di Maria, ovvero
proprio di fronte a me. Dovevo essere stato io quello che
di più aveva contribuito alla
spinta. Invece, sai, non era
vero. Era successo tutto da
solo, non so dirti come.
Non ci credi?
Sorrisi, quella cosa stava diventando davvero curiosa. Mi
chiesi dove saremmo andati a
finire.
- Spirito, hai qualcosa da
dirci? - Chiese ancora Pilar,
in tono un po’ meno
baldanzoso. Forse, così facendo, ponendo una domanda
articolata, pensava che sarebbe stato più difficile per
me o per altri fare i furbi.
Ma il bicchiere, in tutta risposta, fece una strana traiettoria.
Leggemmo le lettere che
indicava, una a una.
M-O-R-I-E-N-T-E-S-T-O-DO-S-V-E-D-R-E-M-O-S-EN-T-R-E-U-N-A-H-O-R-A
- Morirete tutti. Verrete entro
un’ora… - Mormorò Pilar. Cosa?
E poi accadde. Ebbi una visione.
Noi, e forse altri, come dei
demoni, coinvolti in una specie di orgia indefinibile, tra
sesso e sangue. Una stanza
rossa. Corpi nudi, con
qualcosa sulla testa, e ferite,
sfregi sulla pelle, urla. Le nostre urla.
Urlammo tutti insieme.
Perché quella visione, amico
mio, l’avevamo vissuta tutti.
Dopo esserci confrontati,
cercammo di razionalizzare.
Io prima degli altri.
- Sentite, - feci con un
bicchiere di sangria in mano.
- Non è successo niente, è
stata solo suggestione. Questo, in genere, accade quando
si fanno queste cose. É un
classico.
- E come ti spieghi - mi
attaccò Claudio, il "brutto
competitivo" - che abbiamo
avuto tutti, tutti, la stessa visione? Come te lo spieghi?
Mai razionalizzare, specie
quando la razionalizzazione
- 94 -
nega l’evidenza e il razionalizzatore diventa il fulcro
catartico dove sfogare la
tensione di un "brutto competitivo". Mi guardai attorno. Il
tavolo ouija ancora rovesciato, le ragazze in preda a
una crisi isterica, abbracciate
l’una all’altra, Martin che fumava una canna e giocava,
nel frattempo, con la maniglia della porta.
- Non lo so, non me lo spiego. - Ammisi.
Con la coda dell’occhio ero
distratto dai movimenti di
Martin.
- É chiusa. - Diceva.
- Cosa non ti spieghi? Incalzò Claudio come se fossi
stato io il colpevole di quello
che era successo. Trassi
spunto, in quel momento, per
imparare una lezione morale.
“A volte tacere è importante
perché se parli, indipendentemente da quello che dici,
catalizzi l’odio verso di te.”
- É chiusa, cazzo. – Ripeteva
intanto Martin.
- Non mi spiego niente, dicevo solo che…
- Ti ha detto che non se lo
spiega! - Intervenne Hugo.
Per lui quell’intervento doveva essere un assist per una
battuta, che non ebbe però il
tempo di pronunciare. Si girò
anche lui verso Martin.
- No! Devi spiegarmi! Come
mai! – Claudio era fomentato
dal mio modo mite di
affrontare i contraddittori.
Tutti, amico mio, scambiano
spesso la mia gentilezza per
debolezza.
- Piantatela, ragazzi! –
Intervennero le ragazze. Manola,
in particolare, sembrava la più
sconvolta di tutte.
- Mi volete stare a sentire? - Urlò
Martin - Questa porta, la porta
della sala, è chiusa a chiave!
Com’è possibile? Non possiamo
uscire.
Ci fiondammo tutti a vedere. In
effetti, era proprio chiusa. Era
strano. Pilar sosteneva che quella
porta non avesse chiavi. E poi da
lì era uscita Gabriela, solo un’ora
prima.
- Oddio, il Demonio! – Fece Pilar, accasciandosi al suolo.
- E questo, adesso, come te lo
spieghi, eh? Come te lo spieghi,
genio! – M’incalzò di nuovo
Claudio.
Per tutta risposta, gli diedi una
sberla e lo feci volare come uno
straccio. Sai, amico mio. Ti ricordi della gentilezza di cui prima? Bene, ha un limite, pure
quella.
C’era qualcosa di strano, però. La
porta, che si apriva verso
l’esterno, unica via di fuga dal salotto e di conseguenza dalla casa,
era come sigillata. Provammo a
buttarla giù a calci e spallate,
senza risultato. Non era una di
quelle porte massicce ma non era
meno così resistente. Era molto
strano. Era come se ci fosse dietro qualcosa. Come una leva.
Ovviamente, il telefono si trovava nell’altra stanza. E lo udimmo
squillare.
- Il telefono! - Fece Pilar, irrequieta. - Chi sarà a quest’ora? I
miei hanno chiamato nel primo
pomeriggio.
Il telefono continuava a squillare.
- La porta è chiusa per farci resta-
re qui e morire tutti, come nella
nostra visione! Avete capito?
Questa stanza diventerà rossa con
il nostro sangue e poi, e poi ….Detto questo Pilar urlò, in preda
all’isteria.
Il telefono smise di squillare.
Manola e Maria si avvinghiarono
attorno a Pilar per cercare di
consolarla e di placarla, ma cominciarono anch’esse a piangere.
Fissai Maria. Era bella anche
quando piangeva, ma vederla
piangere sfilava via l’anima. Noi
ragazzi contemplammo le ragazze con un certo imbarazzo,
convinti della nostra carenza
d'iniziativa. Eravamo il sesso
forte ma non eravamo ancora venuti a capo della situazione. Certe
convinzioni non le può sradicare
nemmeno il più profondo materialismo dialettico. Noi maschi,
loro femmine.
- Ragazze - fece Hugo, quasi
leggendomi nel pensiero. - Ma
che razza di materialiste siete! Vi
fate suggestionare dai fantasmi?
Il comunismo è più forte di
qualsiasi demonio. Prenderemo il
Diavolo e lo deporteremo in Siberia!
- Piantala, Hugo. - Disse Pilar, ed
era strano vederla così determinata. Prima giocava a fare la signora, ora lo era diventata, una
signora. Era anche lei, davvero,
una bellissima ragazza. - La visione, l’avete vista tutti? Pensiamoci! Che cos’era? Cosa ci facevamo là? Era l’Inferno, quello?
Ci torturavano? Ci… o mio Dio!
Tutti tacquero, immersi in se stessi. Compreso me. Cercai di ricordare, ma qualcosa me lo impediva. L’orrore non confortava il
ricordo. Presi una decisione
- 95 -
improvvisa.
- Sentite. Il telefono è di là. Davanti alla finestra, abbiamo il
giardino. Anche se urlassimo,
non ci sentirebbe nessuno. Ma
siamo solo al secondo piano. Giù,
saranno sì e no dieci metri. Sono
magro. Se facciamo dei nodi a
qualche tovaglia, mi calerò in
giardino, farò il giro, risalirò e
troverò il modo di liberarvi tutti.
- Ma sei matto? - Mi fece Maria,
avvicinandosi, con gli occhi
ancora lucidi dal gran piangere e
sfiorandomi il braccio. - É pericoloso, non puoi!
Stava in pensiero per me? Era
proprio così, amico mio. Qualcosa si mosse nel mio basso ventre.
Certo, capisci bene perché
qualcuno ha detto che le donne
sono il motore del mondo? Per lei
avrei fatto anche le capriole col
triplo salto mortale all’inferno e
sarei anche tornato indietro.
Mi esaltai.
- Compagni! Datemi una mano,
per favore. Vediamo di risolvere
questo problema in fretta che,
oltre tutto, devo anche andare in
bagno a pisciare.
Così, ti racconto la fine della storia.
- L’avete legata bene? Non vorrei
si staccasse. – Dissi. Pilar aveva
tirato fuori il suo corredo di
nozze. Era di lino, molto pregiato.
- É legata bene! - Fece Claudio,
un po’ invidioso del mio ruolo di
eroe e un po’ rancoroso del
ceffone che gli avevo dato.
Mi voltai.
Fuori era notte fonda ormai, il
freddo era intenso.
Buenos Aires, le luci oltre il
giardino, i ricordi del Mundial
appena vinto.
Povera mia amata città. Povero
mio Paese calpestato, davanti alle
onde di un oceano testimone e
ruggente.
- Vado.
Mi sporsi dal davanzale mentre
tutti gli altri tenevano l’altro capo
delle lenzuola annodate.
- Accidenti, al cinema sembra più
facile.
Ma ero già sceso di qualche metro.
- Stai attento, ti prego! - Fece
Maria.
Alzai gli occhi per guardarla.
Com’era bella. Il suo viso
sembrava una luna, il suo sorriso
scintillava in bianco rifrangendosi di luci pur in una notte senza
stelle.
Ce l’ho ancora davanti quel viso.
Perché fu l’ultima volta che lo vidi.
Appena giunto a terra, degli uomini senza uniforme mi afferrarono, coprendomi di colpi e
insulti, infilandomi un cappuccio
sulla testa e trascinandomi via.
Per concludere, amico mio.
Ormai sai tutto. Tutto è chiaro davanti ai nostri occhi.
Gabriela Spitoni era la spia. Da
quello che ho intuito ci seguiva
da tempo. Uscendo, aveva messo
qualcosa dietro la porta. Forse
una sedia o un mobile o qualche
gancio di quelli che ha la Polizia.
Per non farci uscire, certo. Poi,
una telefonata silenziosa e via.
Forse l'ha fatto per trattenerci. O
per vendetta. O forse la polizia
era troppo indaffarata nelle retate,
quella notte, e aveva bisogno di
un po’ di tempo in più per arriva-
re anche da noi e catturarci tutti
insieme.
Il tempo di una seduta spiritica.
Non lo trovi buffo?
Quanto alla visione. Ora è chiara.
Ci hanno portati tutti dentro una
stanza rossa. Ci hanno denudati,
torturati, tutti insieme, poi una
alla volta, hanno violentato le ragazze. Ho sentito le loro urla
disperate, quelle di Maria, senza
poter mai rivedere il suo viso,
nemmeno una volta.
Ho sentito poi anche le urla degli
altri. E le mie. Le mie le hai
imparate a riconoscere bene
anche tu. Specie quando mi infilato gli elettrodi della batteria sui
testicoli e chiudono il circuito.
Sì, in un certo senso questo è
davvero l’inferno. Qualcuno, uno
spirito, voleva avvertirci. Si sa, i
morti conoscono il futuro.
Chissà dove sono gli altri... Sono
ancora vivi? Non lo so.
Ora però sono qui, non so da
quando, probabilmente in quella
stessa stanza rossa. Credo che
non mi abbiano mai spostato da
lì. ma non ne sono sicuro.
Racconto com’è andata a te, vicino di stanza. So che mi ascolti,
oltre la parte di cartongesso,
anche se non puoi parlare per via
del bavaglio che hai alla bocca.
Io morirò, me l’ha detto lo spirito. Ma se tu dovessi farcela, lo
spero, ti prego, racconta questa
storia. Qualcuno deve sapere.
Non importa che tu sappia o meno il mio nome, il mio nome non
è importante. Voglio che ricordi
almeno il suo nome, Maria
Bellotti.
- 96 -
Il Giudizio del TETRA
Adesso tutto è chiaro. Mi ero
chiesto perché alla fine avessi ceduto alle pressioni e mi fossi
sottoposto a questo Giorno del
Giudizio. Ora lo so. Dovevo
leggere questo racconto.
Non ho idea di cosa sia stato, di
che cosa mi abbia colpito di più.
Non so razionalizzare le emozioni, non riesco a scavare dentro di
me per dare un ordine ai moti
dell'anima.
Può essere stata l'ambientazione
argentina, così vicina alla nostra
sensibilità, ma anche così esotica
e lontana; possono essere stati gli
echi di Borges o le tavole de
L'Eternauta; può essere stata la
Storia (quella con la "S" maiuscola) che, per quanto si voglia
ricordarla, finisce sempre per essere dimenticata, mentre in chi
l'ha vissuta ed è sopravvissuto lascia ferite che non potranno mai
rimarginarsi; può essere stata una
vicenda che è "fantastica" e vera
allo stesso tempo; o possono essere state quelle "onde di un
oceano testimone e ruggente".
Può essere stato tutto questo e
anche molto altro, ma non chiedetemelo di preciso: non lo so.
Voto: 10
S ka n
Destino
Iceberg dritto a prua!
Le parole della vedetta Fleet
tormentavano i pensieri del primo ufficiale Murdoch, chiuso
nel proprio alloggio con le mani immerse nell'acqua del lavabo.
C'era mancato poco. Dannatamente poco.
Il suono della campana aveva
portato con sé l'incubo peggiore: la nave puntava dritta contro
un iceberg.
Il capitano Smith si era ritirato
nel suo alloggio mezz'ora prima, quindi toccava a Murdoch
prendere in mano la situazione.
E doveva farlo in fretta. Stava
per ordinare l'indietro tutta,
nella speranza di rallentare a
sufficienza da poter aggirare
l'ostacolo, quando si era reso
conto che quasi certamente non
ce l'avrebbero fatta. Se l'iceberg
avesse colpito la fiancata, il
danno sarebbe stato immenso.
Aveva allora dato un ordine
folle. Rallentare, ma mantenendo la rotta. Un coro di proteste si era levato sul ponte di
comando, ma Murdoch era
stato irremovibile.
Tirò fuori le mani dalla bacinella. L'acqua era ghiacciata e
le dita erano diventate insensibili. Se le passò sugli occhi
stanchi, provando un immediato sollievo.
Aveva salvato la nave.
Certo l'impatto era stato forte;
la prua aveva subito un duro
colpo, ma solo due compartimenti stagni si erano
Ventiquattr'ore...
Senza Testa
danneggiati.
"Dovremo procedere piano e
con cautela" aveva detto
Andrews, gli occhi ancora
colmi di panico posati sui piani
della sua nave, "ma sono
convinto che potremo salutare
la Statua della Libertà".
In pochi minuti Murdoch era
diventato un eroe.
Ma non era così che lui si sentiva.
Sebbene avesse salvato la vita
di centinaia di persone, era spaventato a morte. E non si trattava della normale reazione emotiva a un pericolo scampato per
un soffio.
Era reale, tangibile terrore.
Si sentiva colpevole, come se la
propria decisione fosse stata un
passo falso, un errore che
avrebbe avuto conseguenze devastanti.
Si guardò nel minuscolo
specchio appeso sopra il lavabo
e stentò a riconoscere se stesso.
Gli occhi infossati e il colorito
pallido lo facevano assomigliare più a un cadavere che a un
uomo.
Uscì dalla cabina e salì con
passo strascicato fino al ponte
A.
La notte era fredda e limpida,
una di quelle notti in cui ci si
sente felici di essere al mondo.
Ma nel cuore di Murdoch si
aggirava solo una tenebra vischiosa. L'acqua sotto di lui,
piatta come una lastra di vetro,
pareva minacciarlo con la sua
fissità innaturale. Il rumore dei
- 97 -
motori era alle sue orecchie la
voce di un dio adirato che dal
fondo degli abissi cercasse di
fermare la lenta avanzata
dell'Inaffondabile.
Tu non dovresti essere qui, gli
sembrava dicesse lo sciabordio
dell'acqua sulla prua ferita.
Fu distolto da tali cupi pensieri
da uno strano scricchiolio, un
rumore come di ramoscelli
spezzati. Si guardò intorno e
per un istante gli parve di veder
vibrare l'intera struttura del
transatlantico.
Sentì poi un vociare concitato.
Gli ospiti, pensò. Dopo lo spavento iniziale, gran parte dei
passeggeri era ritornata nelle
proprie cabine. Qualcuno doveva aver invece deciso di festeggiare il mancato affondamento facendo schiamazzi sul
ponte. Murdoch prese l'orologio dal taschino. Era mezzanotte e quaranta.
In quel momento, un urlo
squarciò il buio della notte.
Murdoch corse nella direzione
da cui proveniva la voce e andò
quasi a cozzare contro un essere di cui all'inizio non riuscì a
decifrare la natura, salvo poi
comprendere che si trattava di
un uomo cui era stata mozzata
la testa. Questi fece ancora due
incredibili passi in avanti, poi
come se finalmente si fosse reso conto della mancanza di una
così importante appendice, si
accasciò con uno schianto sul
legno del ponte.
«Il vetro!» urlava una donna,
forse la stessa che aveva gridato poco prima. «Si è staccato
da quella finestra e... Oh mio
Dio!»
Le urla si moltiplicarono, sovrastate da clangori metallici e
rumore di vetri infranti. Murdoch si sporse oltre il parapetto e
ciò che vide lo paralizzò.
I rivetti si staccavano dalle
paratie esterne, uno per uno,
come tappi da bottiglie di spumante. Sui ponti, i vetri implodevano, le assi di legno
scricchiolavano e si spezzavano
con schiocchi secchi. Qualcuno
passò correndo e strillò che i
ponti inferiori erano allagati.
Murdoch pensò con orrore che
era come se la nave si stesse
suicidando.
«Alle scialuppe!»
Il grido raggiunse il primo ufficiale, che subito si mise all'opera. Il ponte fu presto colmo di
persone terrorizzate che si
accalcavano l'una sull'altra nel
disperato tentativo di mettersi
in salvo; per un'ora e mezza
Murdoch e l'equipaggio si
occuparono delle operazioni di
evacuazione.
Per un istante il fragore parve
placarsi e Murdoch udì le note
di una melodia suonata da violini.
Poi la situazione precipitò.
Il Titanic iniziò la sua discesa
verso gli abissi dell'Atlantico.
Allora, il cuore di Murdoch si
fece leggero. Quell'anomalo
senso di colpa svanì. Gli parve
quasi di sentire un clic, come di
un meccanismo sfasato che
infine si rimette a funzionare
correttamente.
È così che dev'essere, pensò.
Si guardò intorno e vide che le
scialuppe erano esaurite.
Indossò il suo salvagente e con
un ultimo sguardo al gigante
morente, si lanciò verso il nero.
Il Giudizio di master_runta
Il tuo brano ha del potenziale,
hai usato uno stile che in genere non mi piace ma solo per
una questione di gusto, quindi
non è un problema.
Ciò che ti consiglio vivamente
di fare è:
1) di essere meno prolissa,
nell'editing avevo cancellato
senza scherzare un buon 2025% delle parole che hai usato
perché non servivano.
Una regola d'oro è: "dove puoi
usare 5 parole, non usarne 7;
dove puoi usarne 2, non usarne
5"
Applicala con dedizione se
vuoi che la tua scrittura diventi
più scorrevole.
Bisogna usare le parole giuste,
non bisogna usarne tante.
2) Non usare il tell per
raccontare tutti i passaggi della
tua storia.
Non ti sto dicendo di diventare
una fanatica dello show, ci
mancherebbe, ma tu hai usato
100% tell. E la cosa si è sentita,
molto.
- 98 -
Il mastro carpentiree doveva
sputare in acqua, sollevare un
sopracciglio e fare un cenno di
assenso col mento, da quello
tutti avrebbero capito che la nave sarebbe arrivata quantomeno
a new york (secondo lui).
E questo era solo un esempio,
te ne avevo segnati almeno una
dozzina.
Quindi ragionaci e vedi se ti
convenga cominciare a virare
verso una scrittura meno
raccontata. Secondo me avresti
da guadagnarci molto.
3) Usa meglio gli "a capo" e gli
stacchi di paragrafo.
Ti aiutano molto a dare delle
indicazioni visicve al lettore
per permettergli di capire
quando cambia tempo, quando
cambia scena, quando cambia
punto di vista, quando cambia
velocità.
Sono uno strumento potente.
4) quando crei una storia, devi
sempre partire da qualcosa e
poi costruirgli attorno tutto il
resto, fino a che tutti gli elementi sono al loro posto.
Io ti consiglio di partire dai
personaggi, perché quellid el
tuo racconto non sono caratterizzati molto bene. Agiscono,
pensano, girano, ma alla fine di
tutto, di loro, non sappiamo
nulla. Senza dei personaggi tridimensionali, nessun lettore si
appassionerà alla storia. I lettori
vogliono fare il tifo, vogliono
aspettare il momento in cui i
personaggi ce la faranno, o moriranno, o altro.
Sono molto importanti, non
sottovalutarli e non metterli in
secondo piano rispetto agli
avvenimenti. Perché gli avvenimenti, in una storia, sono tanto
importanti quanto lo sono i
personaggi che li vivono o li
provocano.
5) Ogni tanto hai delle uscite
molto belle, però le banalizzi/sgonfi sistematicamente
con errorini a monte o a valle.
Ti faccio l'esempio del suicidio
della nave. è una bella figura,
che però è messa lì senza che il
momento sia preparato e quindi
perde del tutto il suo potenziale. Lascia che il lettore rallenti
un attimo prima di scaricargli
addosso una bomba del genere.
Inserisci un paio di righe in cui
Murdoch si guarda attorno, nota dei dettagli (magari funzionali poi alla scena del suicidio),
descrivigli un quadro d'insieme
fatto di particolari che poi,
quando gli dirai del suicidio, si
metteranno tutti al posto giusto
come le tessere di un puzzle e
l'immagine ne uscirà rafforzata.
Anche prima, mi ricordo,
quella del dio che urla, perché
dire dal mare o dal cielo? scegline una sola. la rendi più
immediata e poi già ci si mettono i lettori a fraintendere, a
farsi venire i dubbi, eccetera
anche quando tu scrivi tutto
chiaro, figurarsi se gli metti
delle ambiguità.
Questi sono gli aspetti su cui,
secondo me, la tua scrittura
avrebbe bisogno di focalizzarsi.
Ovviamente non devi per forza
concordare con me, i miei
commenti sono consigli che io
do secondo quella che è la mia
esperienza, per quello che è il
mio occhio, ma ognuno poi è
libero di prenderli e gettarli a
mare senza salvagente
Detto ciò spero di esserti stato
utile e averti fornito qualche
interessante spunto di riflessione
Ci rivediamo allo skan di
gennaio, spero!
ovviamente non badare troppo
ai toni secchi che ho usato, è
solo perché mi sono trovato di
punto in bianco da "ooohhh,
posso fare tutto con tranquillità" a " ca**o, non ho il tempo
di rifare tuttoooo, devo correreeee"...
Quindi non te la prendereeeeee...
Diritto di replica
Ciao Master!
Caspita che nervoso fare tanto
lavoro e poi vedersi andare
tutto in fumo... Egoisticamente
parlando, mi spiace soprattutto
di non aver potuto sfruttare il
tuo editing.
Comunque non ti preoccupare
per il tono "secco", che poi così
secco non è.
Ti ringrazio per il tuo
commento, molto preciso.
Il punto che mi ha un po' rattristata è il 2. Sono anche io una
- 99 -
forte sostenitrice del "show,
don't tell", quindi sentirsi dire
che ho fatto tutto il contrario è
una bella mazzata... mi autogiustifico pensando che ho scritto
il racconto a velocità supersonica, anche se è una giustificazione un po' tirata per i capelli, tipo "il cane mi ha mangiato i
compiti"... Di certo mi impegnerò in futuro per non cadere
di nuovo nella trappola.
Rileggendo il racconto alla luce
delle tue parole, mi trovo assolutamente d'accordo con il
punto 5. In effetti il passaggio
dalla calma piatta al delirio totale è troppo netto. Nella revisione per Skan Magazine ho
inserito un paio di frasi prima
della scena con l'uomo decapitato, sperando di introdurre il
disastro in maniera più "soft".
E' poco, lo so; a ben vedere bisognerebbe riscrivere parte del
pezzo daccapo; ma spero possa
comunque bastare per migliorarlo almeno un po'.
Per quanto riguarda il 20/25%
di parole "di troppo", temo tu
abbia ragione; nella revisione
ho provato ad accorciare
qualcosa qua e là, anche se ho
faticato un po'. Ho sempre paura di togliere qualcosa che invece dovevo lasciare. Ecco, qui
poter vedere il tuo editing sarebbe stato più che illuminante,
proprio per capire dove e come
effettuare tagli intelligenti.
Nel complesso, sicuramente mi
hai fornito spunti di riflessione
interessanti. Spero solo di riuscire a metterli in pratica nelle
prossime prove.
Grazie ancora e alla prossima!
Lo svago
dell'una
Non c’entra nulla con gli edifici che ci sono lì intorno, se ne
rende conto, eppure, non riesce
a staccarsene, come se solo
quella giostra ottocentesca, con
i cavallini e le figure dipinte
delle sibille alate possa
riempirle la vita.
Quando non ci passa accanto,
la guarda dalla porta finestra
della camera da letto, che si
trova al primo piano e guarda
verso lo spiazzo occupato dalla
giostra.
È il suo svago preferito soprattutto nella pausa del lavoro,
all’una, quando si permette di
tornare indietro nel tempo come pare a lei, con il sottofondo
della domanda che non cambiava mai: Cosa sarebbe successo,
invece, se….?
La giostra ne ha fatto la sua
musica, quella con la quale fa
girare tutti i cavallini nel ricordo.
Il settimo le fa pena.
Poverino, è senza testa.
Lo aveva cavalcato Maddie
l’ultimo pomeriggio nel quale
la giostra aveva funzionato,
diffondendo note caramellose
nel quartiere.
Questo, fino a quando il pomeriggio estivo non si era scurito
come il ventre di una belva famelica in attesa di preda.
Lei stessa ne aveva sentito il
fascino.
Non temeva il temporale estivo, ce n’erano stati altri e la
giostra aveva continuato a
funzionare comunque.
Il fatto che Maddie volesse
farci l’ultimo giro premio per
aver acchiappato la bambola
portafortuna appesa a testa in
giù al cordino le era sembrato
giusto.
Poco importava se la pupattola
dai capelli di paglia aveva
perso la testa dopo lo strattone
che le aveva dato Maddie.
Ricordava ancora la testa dai
codini di stoppa.
Portava una coroncina nera di
pizzo, che completava il costume di feltro blu con la gonna
ornata da una riga grigia.
Aveva anche un grembiule
dello stesso pizzo della coroncina.
Solo che aveva una brutta
macchia rossa.
La ricordava bene, perché era
caduta dalla sua parte e lei
l’aveva raccolta quando la giostra si era fermata.
Maddie, a differenza di lei, non
era scesa dal cavallino.
Lo aveva abbracciato, anche
dopo che gli altri bambini erano scesi, giocando con la criniera vera.
Aveva nascosto la testa della
bambola nella tasca del
grembiulino estivo, perché non
voleva rischiare di perdere il
suo premio.
Il cielo si stava rannuvolando,
ma solo verso destra, pensava.
Non voleva scendere prima di
aver finito il giro.
Gli occhi di vetro del cavallino
grigio sembravano brillare di
felicità.
Era stata lei ad avvicinarsi al
giostraio tenendogli la bambola
- 100 -
decapitata.
- Mi dispiace- gli aveva detto.
L’uomo si era lisciato i baffi
grigi, reprimendo una smorfia
di nervosismo:- Nulla di irreparabile. La sistemerò stasera.
Sempre che la tua amica mi ridia la testa.
Aveva fatto segno a Maddie di
scendere, poi era andata da lei,
mentre il cielo aveva cominciato a brontolare come un
cane stanco di moine.
- Avanti, riportagli la testa della
bambola- le aveva detto –sono
sicura che ti farà risalire subito
sul cavallino.
- No, Ziska.
Ci ripensa ancora, dopo tanti
anni.
Cosa sarebbe successo, se avesse ceduto all’impulso di
afferrarla per il vestito con le
maniche a triangolo verde
salvia e darle il ceffone che meritava per essere così ostinata?
Avrebbe dovuto farlo.
Invece, aveva esitato.
La sua amica era la figlia
dell’industriale più in vista
della cittadina e magari avrebbe
potuto causarle dei guai.
Bastava che avesse stravolto la
realtà e sarebbe successo
qualcosa di brutto a casa.
In effetti, non avrebbe neppure
dovuto accettare l’invito di
Maddie alla giostra.
Perché andarci all’una di luglio?
Era un capriccio degno di lei.
Cosa sarebbe successo, invece,
se avesse rifiutato?
La musica della giostra le suona nella mente la stessa identica
domanda.
Invidia i vicini.
D’accordo, sono tutti canuti e
mezzi sordi, ma questo è il
loro vantaggio su di lei in
quel momento.
Non sentono quella musica.
E non rivivono il Giro
Interrotto.
- Scendi, Maddie. Sta per
piovere.
- No. Il giro è valido. Lo voglio finire.
Il giostraio non aveva spento
il macchinario.
Aveva guardato la bambola
decapitata con il grembiulino
macchiato e aveva lisciato
l’abito.
Proveniva da un paese molto
lontano e la persona che
l’aveva confezionata non esisteva più da tanto tempo.
Aveva resistito a tante mani
di bambini e bambine, eppure, quel pomeriggio la sua
fortuna doveva essere finita,
lo aveva capito dal sangue sul
grembiulino; l’anima della
creatrice si era involata fra le
saette e ne occorreva un’altra
per tenere insieme la giostra.
Succedeva con le anime, si
sfilacciavano e precipitavano
nel nulla.
E se era successo a lei, figuriamoci all’unica bambina rimasta sul cavallino.
Il giostraio gridò per chiamarla, preso da una fitta di
paura improvvisa.
Non ce l’aveva più con lei
per aver staccato la testa alla
bambola.
Aveva capito che quella
macchia era di sangue….non
ancora versato…
Il fulmine si abbatté sulla
parte di giostra dov’era
Maddie, interrompendo il giro a metà.
Nei giorni successivi alla tragedia, il padre di Maddie aveva fatto distruggere la parte
di giostra che rimaneva, dopo
aver ripagato il giostraio.
Inutile.
Ogni volta che lo faceva, si
ricomponeva da sola, tranne
che per il cavallino con la testa mozza e la bambola decapitata che pendeva dal cordino.
Allora, convinto di essere sul
punto di impazzire, aveva
venduto l’attività e si era trasferito altrove con la famiglia.
La giostra era rimasta
dov’era, a tenere compagnia
a Ziska.
Se non altro, la consolava trucemente: le sarebbe potuta
anche andare peggio.
Maddie avrebbe anche potuto
volerla accanto a sé sul cavallino dietro al suo.
Ecco il suo svago dell’una,
pensa anche in quel momento, guardando la giostra
dallo specchio della stanza da
letto.
È il suo preferito, perché è a
figura intera.
Ogni volta che vi si rimira,
pensa di essere un’invitata a
una festa prestigiosa.
Anche in quel momento si
atteggia a dama altera,
fingendo di essere ancora
all’epoca in cui ha conosciuto
Maddie.
E la giostra le suona ancora la
musica nella mente: Cosa sarebbe succes-
- 101 -
so, se invece…?
Ma si sta facendo tardi.
Deve tornare al lavoro.
Chiude la porta finestra e ha
l’impressione che la giostra
stia cominciando a muoversi,
con i cavallini che fanno su e
giù, ma non è possibile.
Non è ancora arrivata l’ora di
raggiungere Maddie e a finire
il giro insieme a lei: altrimenti le avrebbe fatto trovare
una parte della bambola come messaggio di Invito allo
Svago Eterno.
Il giostraio non c’è e il sole di
luglio splende.
Cammina veloce.
Guai a ritardare, in ufficio.
Dà un colpettino a un
oggetto.
Si direbbe una testa di
bambola, ma lei non se ne
accorge.
Il cielo comincia ad annuvolarsi e un’ombra compare
nella cabina dei macchinari.
La bambina viziata ha stufato
tutti, nell’aldilà.
Non ha voluto saperne, di dilazionare ancora il suo giro.
Stringe le ginocchia al cavallino e tiene la bambola decapitata con una presa di
ferro.
Il Giudizio di
master_runta
ciao anche a te, Shanda, scusami ma anche per te vale ciò
che ho detto poco fa a
Willow, non fare caso al fatto
che forse il tono sembrerà
secco e oltremodo diretto, è
solo perché sto facendo le
corse, non sono diventato un
tiranno nel giro di mezz'ora...
I miei consigli per te sono i
seguenti:
1) Rileggi. Ad alta voce. In
diversi punto la tua
punteggiatura è, come dire,
creativa.
Non aiuta il lettore a seguire
il giusto ritmo, anzi, a tratti
ostacola nella comprensione
dei concetti e della scansione
del periodare. Soprattutto le
virgole.
Sinceramente io fossi in te le
rivedrei, quando rileggi, non
seguire ciò che tu sai del brano, segui in modo fedele ciò
che tu hai scritto e le virgole
fuori posto le noti subito,
almeno una buona parte.
Quelle ambigue costituiscono
lavoro di fino, ma sono anche
quelle più discrezionali.
2) Anche tu te ne esci con
una certa frequenza con delle
belle trovate, hai un tipo di
scrittura molto evocativo,
tende a creare immagini e
sensazioni nella mente di chi
legge. Il che è una cosa buona, ma in questo brano hai
usato questa tua capacità in
maniera un
po'sterile secondo me. Nel
senso che c'è, si apprezza, ma
non è che sia di supporto agli
snodi principali della storia o
alla struttura della trama,
eccetera. Non che non lo sia
per nulla, ovviamente, solo
che se con questa abilità puoi
dare 10, non posso certo ritenermi soddisfatto di vederla
utilizzata per 2, hai un 80%
di margine non sfruttato che è
lì che ti aspetta!
3) Non so che tipo di penna
tu sia, ancora ti conosco poco, l'impressione che ho avuto è che tu sia una penna
"istintiva", di quelle che si
mettono davanti al foglio e si
mettono a inseguire un ricordo, uno spunto, una linea
di trama, un po'allo stesso
modo in cui si rincorrono le
farfalle. Nel senso che tu
corri dietro all'ispirazione e la
metti su carta, lasciando che
sia lei a guidarti.
(o, almeno, questa è l'impressione che ho avuto io, magari
è tutto il contrario e allora
ignora questo punto)
Potresti, secondo me, provare
invece a cercare di imbrigliare questa ispirazione e forzare
lei a fare quello che dici tu.
Programmando meglio la storia, decidendo gli elementi, la
loro funzione e la loro
funzionalità, avendo ben
chiaro ciascuna cosa a che ti
serve esattamente.
In questo modo diverrebbe
più facile per te bilanciare
meglio li sforzi e indirizzare
questo tuo talento che hai di
essere evocativa
- 102 -
(quello del punto 2), nelle direzioni in cui ti restituisce il
maggior effetto, la maggior
efficacia.
Prendi questo consiglio con
le pinze però, perché, come si
dice, "chi lascia la strada
vecchia per la nuova..."
Oppure non so, cerca tu un
modo per cercare di ottimizzare l'impatto dell'evocatività sulle tue storie, alla
fin fine ti conosci bene
(immagino), forse sai meglio
tu come lavorare per andare
in questa direzione.
4) fai attenzione alle figure
retoriche che usi, ce ne sono
state alcune che mi hanno
fatto sollevare un sopracciglio.
Per esempio: perché il ventre
di un predatore affamato si
dovrebbe scurire?
Non farti prendere la mano
dalla lirica e dall'impatto
delle parole scritte, ricordati
la funzionalità. Se usi una
metafora che non rende l'idea
che vuoi far passare, non solo
non ti fa guadagnare punti
ma, anzi, diventa controproducente.
5) ritorno al consiglio del
punto 1)... rileggi bene prima
di postare, questa volta te lo
dico per le ripetizioni. Ne
avevo trovate alcune nel brano che con un minimo di
attenzione in più si sarebbero
potute evitare senza grossi
problemi.
6) l'aspetto che mi ha infastidito del brano è che è un
po'caotico. Ci sono pochi e
insufficienti riferimenti ai
personaggi, ci sono diversi
passaggi in cui, secondo me,
è poco chiaro chi fa cosa con
chi e chi dice cosa a/di chi.
A fine lettura molte cose trovano il proprio posto, ma che
succeda a fine lettura è un
po'tardi. Nel primo paragrafo
in corsivo-flashback, non è
immediato neppure quanti
personaggi ci siano nella scena, figurarsi quali.
Questo mi porta a proporti
una riflessione più ampia che
include anche questo aspetto.
Ciò che ti invito a considerare è la differenza tra ciò che
sa il narratore da ciò che sa il
lettore: il tipico "il lettore non
sta nella tua testa".
Cose che per te sono chiare e
palesi, non è detto che chi
legge le colga, banalmente
perché tu ordisci il tutto e sai
a cosa serve ciascun elemento, il lettore no, glielo devi dire in modo che ce l'abbia
chiaro, devi porre l'accento
sui dettagli più rilevanti e
permettergli di seguire e capire il tutto con una facilità ragionevole.
Se vuoi tenere qualcosa nascosto, la tua abilità deve stare nel farlo in modo che il
lettore creda di aver capito
una cosa, anche se tu, in
effetti, gli hai dato tutti gli
elementi per capirne un'altra,
così alla fine arrivi ad aver
preparato in modo appropriato le basi per eventuali ribaltamenti di prospettiva o
per qualche bella sorpresa
che il lettore non si
aspetta.
Però tutto ciò lo devi fare
sempre tenendo a mente la
chiarezza espositiva, perché
un lettore che si perde, magari torna indietro di qualche riga e rilegge, ma se ancora
non si trova, poi è facile che
abbandoni la lettura a metà.
In questo senso non aiuta la
scelta che hai optato di usare
formattazionii uguali per cose
diverse. Per esempio, il corsivo è sia per i flashback che
per i pensieri diretti. Questo
crea confusione e riduce la
chiarezza.
7) Anche a te dico la stessa
cosa che ho detto a willow:
usa in modo più oculato gli
stacchi di paragrafo. Servono
al lettore per capire quando
cambia scena o qualche presupposto. Nel finale ne
mancano almeno almeno un
paio.
Comunque, il brano se fosse
stato più comprensibile non
sarebbe stato male, anzi,
l'idea alla base è carina,
anche se non si capisce bene
da cosa derivi e da dove arrivi l'elemento soprannaturale
che si respira dalla scena del
sangue sulla bambola in poi.
Però comunque hai dei numeri, Shanda, se impari a
metterli al servizio della storia e non viceversa, per me
puoi migliorare tanto.
Bene, è tutto per ora, ci rivediamo allo skan di gennaio!
- 103 -
Diritto di replica
Ringrazio Master runta di
cuore per il suo commento,
era quello che ci voleva per
me, da sempre abituata a scrivere da sola e con un
rapporto schizofrenico con la
propria arte. Certo, ho letto
qualcosa agli amici ai tempi
del liceo, ma erano tipi molto
lovecraftiani: la usavano come sfogo, ma non la vedevano come un modo di essere e
di lavorare. Questo significa
molto. È pericoloso vedersi
contro: la vita, il mondo, gli
editori. Io non sono mai stata
così. Ho sempre creduto che
il modo di porsi come artisti
professionali ci fosse.
Occorre molta gavetta e
molta umiltà, ma bisogna
anche sapere giocare a favore
di se stessi e non contro: basta con il vedere rivalità e basta con la Sindrome del Ne
Resterà Uno solo o della
Scrittura Lavoro Solitario.
Tutte invenzioni e lo
Skannatoio, nella figura di
Master runta, ne è la prova.
S ka n
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
autore
XXII
anark2000 51
shanda06 1 4
willow78
21
Albertine
38
Slash1 588 White Pretorian
GDN76
kaipirissima Mark it zero Polly Russell mother95A cristiano r. Callagan
NOR
Rovignon
David G.
7
XXII½
35
29
36
33
15
17
31
28
-
risultati e classifiche
XXIII XXIII½ XXIV
13
16
24
6
14
12
15
16
21
17
18
23
14
12
6
15
19
-
- 104 -
XXIV½ XXV
9
8
22
11
11
32
10
42
33
12
8
-
TOT
1 48
1 05
95
74
50
50
48
43
42
33
31
28
21
20
19
7
N o n pe r d e t e
i l n u m er o d i
F eb b r a i o
2 01 4
N el s eg n o
di un a
n u o va e r a
S ka n
G e n n a io 2 0 1 4
AMAZING
MAGAZINE
Anno 2
N u me r o 1 7
La rivista
multicanale di
narrativa fantastica
liofilizzata istantanea
Dark Side
Neve di sangue
di Sol Weintraub
D ime n t ic a r e il fu t u r o
La stanza rossa
di Mark it zero
No n c ' è p iù p o s to
in cielo
d i P o lly R u s s e ll
Promessa da
marinaio
di White Pretorian
La piastrella rotta
di Alexandra Fischer
F u tu r o p r o s s im o
di willow78
Ventiquattr'ore
senza testa
Destino
di willow78
Lo svago dell'una
di Alexandra Fischer
Close Encounters
elaborazione di Loredana Castorelli