DI Repubblica - La Repubblica.it

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Domenica
il reportage
Gli archeo-enologi e la vigna di Noè
La
di
DOMENICA 1 APRILE 2007
PAOLO RUMIZ
la memoria
Repubblica
Borsalino, tanto di cappello
GIANNI CLERICI e LAURA LAURENZI
Totò
segreto
DISEGNO DI FEDERICO FELLINI
A quarant’anni
dalla morte
del più grande
comico italiano
del Novecento,
canzoni, lettere,
poesie, appunti
inediti spuntano
dai cassetti
e dai ricordi
di casa De Curtis
MARIA PIA FUSCO
T
i luoghi
PAOLO D’AGOSTINI
ROMA
otò irridente Pulcinella, Totò severo gendarme, Totò pallido fantasma, Totò beffardo in frac e bombetta. Sono solo
alcune delle preziose statuine in legno, con le braccia snodate, allineate sugli scaffali della libreria che corre lungo le
pareti del salone di casa De Curtis. Più piccolo, in cristallo colorato, Totò
cardinale, uno degli otto esilaranti personaggi di Totò diabolicus. Poi le
testine, un numero incalcolabile di espressioni diverse, con sotto semplicemente la scritta «Totò». A coprire gli spazi, oltre a una statuina del
“suo” sant’Antonio, decine di fotografie di diverse età, dal bambino con
lo sguardo smarrito all’elegante principe della risata. Sono oggetti del
passato ma anche recentissimi, anzi la produzione si è intensificata in
occasione dei quarant’anni dalla morte. Ma ciò che più attira l’attenzione è il grande ovale appeso alla parete centrale, su cui è dipinto lo
stemma di famiglia — De Curtis di Bisanzio, conte palatino, cavaliere
del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna eccetera —, una colonna
sormontata dall’araba fenice protetta da un leone. «Mio nonno era
principe imperiale, tra gli antenati c’era l’imperatrice Teodora. E mia
madre ha gli stessi titoli del nonno in quanto porfirogenita. Significa che
puoi lasciare i titoli anche alle figlie. Sembra strano che mio fratello Antonio ed io abbiamo il cognome De Curtis, ma avendo solo una figlia
femmina, mio nonno fece fare all’epoca un decreto presidenziale ad
hoc, affinché il nome potesse continuare», spiega la nipote Diana.
(segue nelle pagine successive)
I
ROMA
l maltrattamento della lingua italiana («Parli come badi», «la pietra emiliana»), per non dire delle altre lingue («Noio volevàm savuàr l’indirìs»). La satira politica («e poi dice che uno si butta a sinistra») e in particolare la presa in giro della sinistra («Perbacco: la terra ai contadini, le ferrovie ai ferrovieri, i cimiteri ai morti»). L’una cosa abbinata all’altra quando si tratta del temuto e odiato invasore germanico:
«Bitte!», ordina perentorio il tenente Kessler; «grazie, un bitter lo prendo
volentieri», risponde Totò. La beffa antiautoritaria («Onorevole lei? Ma mi
faccia il piacere»). Il nonsense lessicale («Imputato, che cosa ha da dire a
sua discolpa?». «Alcune quisquilie e qualche pinzillacchera»). L’allusione
sessuale («Lei con quegli occhi mi spoglia: spogliatoio!»), di tutti i tipi compresa quella omo: «Guavda che ti movdo», minacciato nel mezzo di una
viziosa festa caprese. Vilmente gradasso coi deboli («Faccio un macello,
spacco tutto, faccio un’ecatombe») e furbamente ossequioso coi potenti
(«Portiere si nasce!»), salvo trovare il modo di fregarli.
L’esercizio vessatorio è di particolare soddisfazione se avviene a scapito delle tante “spalle” di lusso che da lui si facevano fare tutto: «Il mio nome è Beppa e sono signorina», enuncia cavernosa Tina Pica; «Lo credo bene», replica Totò capostazione in Destinazione Piovarolo. Invariabilmente pronto a esorcizzare la morte («Se ne vanno sempre i migliori: oggi è toccato a lui, domani toccherà a te...». Battuta presente tanto in La
banda degli onesti che in I soliti ignoti).
(segue nelle pagine successive)
Il palazzo dei Gattopardi di Palermo
STEFANO MALATESTA
cultura
Gozzano, postmoderno cent’anni fa
PAOLO MAURI e FEDERICO RAMPINI
la lettura
Ritorno a Fès, la città delle città
TAHAR BEN JELLOUN
l’incontro
Placido Domingo il “tenorissimo”
LEONETTA BENTIVOGLIO
Repubblica Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 1 APRILE 2007
la copertina
Memorie segrete
“Nessuno mi ricorderà”, dichiarò il grande attore in un’intervista
rilasciata poco prima di morire, il 15 aprile 1967. Quarant’anni dopo,
il suo mito è invece più vivo che mai. Mentre si preparano una mostra
e altre celebrazioni, la nipote Diana ci ha aperto la sua casa
per mostrarci le carte inedite di un uomo “che non buttava mai nulla”
Nei cassetti di Totò
MARIA PIA FUSCO
(segue dalla copertina)
l tono è divertito. «Lo so che oggi
certe cose sembrano stupidaggini, ma contano nel rispetto della
memoria. Lui ci teneva molto al
titolo. E nella vita si è comportato
da principe, se l’è meritato».
È lei, Diana De Curtis, che conserva e
protegge la memoria del nonno, un
compito in cui da sei anni sostituisce la
madre Liliana. Malgrado la presenza di
tante memorie, la luce che entra dalla
grande terrazza sul verde cancella ogni
ombra di malinconia del passato. «Viviamo tutti qui, mia madre, io, mio marito. E c’è anche lui, mio nonno, fa parte
della casa, della nostra vita, per noi è vivo. Per me è naturale occuparmi di lui, è
naturale parlarci, sentirlo vicino. Lavorarci è bello, perché la curiosità è grandissima, c’è sempre qualcuno, in Italia,
ma anche negli Stati Uniti, in Francia, in
Turchia, ovunque, che ci chiede di lui e
allora, attraverso i libri e le mostre, cerchiamo di raccontare l’uomo proprio
com’era».
Chiudo in fallimento, nessuno mi ricorderà, disse Totò intervistato pochi
giorni prima di morire, il 15 aprile 1967.
Invece, quarant’anni dopo, è più vivo
che mai nell’immaginario collettivo, se,
come racconta Diana, «nella tomba di
famiglia al Pianto, il cimitero di Napoli,
la gente porta poesie e preghiere, gli
chiedono favori, gli presentano la fidanzata, i bambini gli lasciano mezza gomma americana. La magia di Totò è proprio questa, nessuno pensa a lui come a
un morto, e non è l’attore a cui pensano,
ma una persona di famiglia, un nonno,
un padre, un marito, un amico, un fratello».
Diana De Curtis aveva dodici anni
quando Totò è morto e nella sua memoria personale, più che l’attore, c’è Antonio, il nonno. «Sono stata abbastanza
fortunata, i miei genitori si sono separati che ero ragazzina, in modo civilissimo, senza traumi, e poiché mio padre
faceva il produttore ed era sempre in giro, nonno si prese la responsabilità dei
due bambini. Si è occupato di noi e, pur
facendo dieci film l’anno, trovava il
tempo di accompagnarci alle feste, di
interessarsi della scuola. Senza parlare
dei regali che ci portava da fuori: quando tornava e apriva la valigia era sempre
una festa. Mio fratello da piccolino aveva una delle prime Ferrari elettriche». E
ricorda i riti: «Quando entrava, io e mio
fratello dovevamo prendergli l’uno il
cappotto l’altra il cappello e il saluto era
un bacio in fronte. Era il massimo. Non
c’erano abbracci o pacche o grandi gesti, non ci toccava. La balia tedesca che
avevamo, anche lei attenta ai microbi,
solo a lui permetteva di venire nelle nostre stanze: “Solo il principe sa trattare i
bambini”, diceva».
C’è un’unica cosa fastidiosa nel ricordo: «L’obbligo di portare sempre il cappello e di fare l’inchino ai grandi. Allora
non lo sopportavo, poi mi sono resa
conto che ritrovarsi una buona educazione è sempre utile. Ma non ho mai avvertito la mancanza di un’affettuosità
I
più esplicita, più fisica, perché nel suo
sguardo, nel metterti una mano sulla testa c’era tutto. Mia madre ed io la sentiamo ancora quella mano sulla testa,
sappiamo che c’è. Mia madre oggi ogni
tanto ci litiga, quando qualcosa le va
storto se la prende con lui, gli gira il quadro. “Ti metto in punizione, non ti accendo il cero”, gli dice».
La madre, Liliana De Curtis, critica un
po’ la dedizione di Diana al nonno. «Mi
dice che sono pazza da ricovero: ogni
volta che si avvicina o sono al computer
e c’è un’immagine di Totò, o scorro gli
incartamenti ed è sempre Totò. Ma per
me è una scoperta continua. Come attore l’ho scoperto da adulta, come persona lo scopro ogni giorno, leggendo i
suoi appunti, le poesie, gli scritti, le lettere. Se non fosse così mi annoierei e
smetterei».
Parlando con Diana, scorrendo con
lei le centinaia di carte — lettere, poesie,
appunti, canzoni, pagine di sceneggiatura, biglietti di treno, ricevute, certificati, una quantità enorme di documen-
tazione araldica, la riproduzione del conio per le monete, fotocopie di locandine, annunci di ogni tipo — la grande sorpresa è la disparità tra Totò, il grandioso
giullare dello schermo («inimitabile,
ma se c’è un erede è Benigni, ha la stessa purezza della poesia del comico, il
rapporto diretto con il pubblico, l’improvvisazione»), e Antonio De Curtis
privato.
«Ci sono sprazzi di follia nel suo carattere. L’eleganza della sua generosità,
quando si faceva accompagnare dal-
l’autista di notte a Napoli e metteva buste con i soldi sotto le porte dei bassi, o
dava soldi a mia madre quando entrava
in ascensore per non darle il tempo di
ringraziare. È folle la meticolosità con
cui teneva tutto e in quantità incredibile, i certificati di nascita in cinquanta fotocopie. Conservava tutto in modo maniacale. La cosa più incredibile è come
abbia fatto a preservare il servizio da toilette d’argento e d’oro, con due bottiglie
per il profumo, che gli aveva regalato Liliana Castagnola con le sue iniziali
Le “pinzillacchere”
di un genio comico
PAOLO D’AGOSTINI
(segue dalla copertina)
e ostentazioni di ignoranza travestite dai modi affettati
di chi la sa lunga («Adesso che siamo a Milano vogliamo
andare a vedere questo Colosseo?»). L’onnipresente
parodia («Tu bbona, io Tarzan») di tutto, compresa l’attualità.
Ne è un concentrato Totò truffa ‘62, dove Totò non si priva di
un travestimento da Fidel Castro e di uno da Kasavubu, ad avvenimenti cubani e congolesi freschi freschi.
Sono le battute, alcune celeberrime e ripetute allo sfinimento dalle generazioni che da poco dopo la sua morte hanno rilanciato e mantenuto sempre alto e popoloso il suo seguito: molte che rimbalzano da un film all’altro ma in realtà
provengono spesso dai palcoscenici di avanspettacolo e di rivista. Sono le battute la bussola per orientarsi nel superaffollato percorso cinematografico di Totò. Quelle che ogni spettatore attende con trepidazione per abbandonarsi, quando
arriva il momento, all’apoteosi. «Ho carta bianca!», sbraita
sempre più arrogante l’ufficiale tedesco occupante, fino a che
— con gioia palese non solo nostra ma anche degli attori, a
partire da Nino Taranto, che circondano Totò modesto ufficiale italiano nell’emergenza dell’8 settembre in I due colonnelli— esplode quel salvifico e liberatorio: «E ci si pulisca il culo!». Anche se probabilmente l’eventuale primo premio lo
vincerebbe il dialogo del wagon lit tra il maestro Antonio
Scannagatti e l’onorevole Trombetta, culminante nel fatidico «In galeeera, ti mando!». In Totò a colori, manco a dirlo.
Tra la breve fase iniziale anteguerra e quella finale dei “registoni” come Pasolini, lodatissime dallo spettatore critico e
colto, c’è l’oceano dei film, filmetti e anche filmacci annegati nell’indifferenza o nel disprezzo (non del popolo spettatore) e girati a raffica, in certi anni come il ‘50 o il ‘54 anche sette all’anno, che sono a dire la verità quelli immortali. Il ciclo
vero e pieno del Totò da grande schermo inizia con il 1947 di
I due orfanelli: «Chi dice che i soldi non fanno la felicità, oltre
a essere antipatico, è pure fesso». Filosofia confermata di lì a
pochissimo: «Si dice che l’appetito vien mangiando, ma in
realtà viene a stare digiuni» (Totò al Giro d’Italia). Altre piccole perle di morale o di saggezza si aggiungono in Totò le
Mokò(«Io sono integro e puro, sia di corpo che di spirito,
non ho commesso peccati né di carne né di pesce») e in
L’imperatore di Capri(«Sono un uomo di mondo: ho fatto tre anni di militare a Cuneo»). Sono questi, tra il finire
degli anni Quaranta e la prima metà dei Cinquanta, gli anni
veramente trionfali. Quando, peraltro, Totò è ancora attivissimo anche in teatro.
Stagione che tocca il suo apice in Totò Peppino e la malafemmina — l’altra palma d’oro, accanto a Totò a colori, alle
battute indimenticabili — dove i fratelli Caponi, scarpe grosse e cervello fino, raggiungono Milano in pelliccia e colbacco
per strappare il nipote studente Teddy Reno al gorgo della
perdizione in cui lo sta trascinando l’attricetta Dorian Gray.
Alla quale scrivono (Peppino scrive, Totò detta): «Signorina,
veniamo noi con questa mia a dirvi — addirvi, tutta una parola... Punto, e un punto e virgola. Perché non si dica che siamo provinciali».
L
Repubblica Nazionale
DOMENICA 1 APRILE 2007
stampate e una ciocca dei suoi capelli.
La Castagnola era una soubrette bellissima, per lei si erano sfidati a duello nobili di tutta Europa. Lei si innamorò di
Totò e per lui si suicidò negli anni Trenta. Conservare questo per tutta la vita
mostra un animo tenero, romantico.
Mia madre si chiama Liliana in memoria della Castagnola, che del resto riposa nella nostra tomba di famiglia. Nonno non buttava niente, neanche nei
sentimenti».
Il servizio da toilette, ciocca compre-
IMMAGINI
A sinistra,
il ritratto di Totò
disegnato
da Pier Paolo
Pasolini
e una foto
con dedica
dell’attore
con la moglie
Diana e Aldo
Fabrizi a Parigi
nel 1949
Tutte le immagini
di queste pagine
sono state
gentilmente
concesse
dalla famiglia
De Curtis
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
LETTERE E FUMETTI
In copertina,
a destra e in alto, Totò
in tre disegni di Fellini
Sopra, copertine
e pagine di Totò a fumetti,
rari albi di cui l’attore
curava la story-board
In basso, due pagine
di una lettera alla moglie
Diana e l’originale firmato
della poesia Statuina
a Francesca
sa, sarà esposto nella mostra che il 13
aprile verrà inaugurata a Roma a Palazzo Venezia. È solo una delle iniziative
importanti che celebreranno i quarant’anni dalla morte. Un’altra sarà l’omaggio della Festa di Roma, che presenterà in anteprima un documentario
realizzato da Diana De Curtis e Barbara
Calabresi. «Sarà una sorta di album di
famiglia, con documenti finora sconosciuti, come la raccolta di fumetti con
protagonista Totò, che ne scrisse i testi
e diresse la realizzazione; il suo primo
provino cinematografico; manoscritti,
lettere d’amore, poesie, canzoni».
Una parte del documentario a cui
Diana tiene molto è quella «dei luoghi, a
partire dalla Sanità a Napoli, dove i nostri bambini, quelli dell’Oasi, l’istituto
che abbiamo aperto nel rione, racconteranno l’infanzia di Totò come fosse
uno di loro. Ci sarà meno miseria e qualche antenna Sky, ma la Sanità è rimasta
la stessa dell’infanzia di nonno. Poi andremo a scoprire i luoghi delle sue vacanze, Viareggio, la Costa Azzurra, Capri, con la casa da cui con il cannocchiale spiava mia nonna in spiaggia. E i suoi
teatri. Un tendone in mezzo a piazza Risorgimento è il primo posto dove ha recitato, e racconteremo la storia della
caldarrostaia che gli regalò un cartoccio
di castagne, poi, diventato Totò, lui la
cercò e le comprò una merceria. Molti
dei teatri sono rimasti gli stessi, il Politeama a Palermo, per esempio, o il Brancaccio a Roma». E poiché Diana De Curtis ha un passato di attrice — ha fatto
perfino un film in inglese con Pavarotti,
una rarità assoluta, Yes Giorgio, dove interpretava una suora novizia con Paola
Borboni madre superiora — ricorda che
quando recitava al Brancaccio Il bugiardo con Gigi Proietti, sua nonna Diana andò a trovarla e si
commosse alla vista del palcoscenico, lo stesso di Totò.
Lettere e poesie svelano la
profondità del rapporto tra
Totò e la moglie Diana. «Era
una ragazzina di sedici anni quando la conobbe, entrambi era figli senza genitori, avevano molto in comune, si amavano in modo struggente. Ci sono
tante leggende sulla canzone Malafemmena, in
realtà è dedicata a mia
nonna. Malafemmena non
significa donna di malaffare,
ma cattiva, che ti fa soffrire,
non è una canzone per un flirt.
La prova è che quando si separarono, nonno le regalò una casa. Nonna lo ringraziò, ma lui le
disse: “Non devi ringraziarmi,
l’hai pagata tu con i diritti d’autore
di Malafemmena”».
Anche Franca Faldini, l’altro legame forte nella vita di Totò «era giovanissima quando si sono incontrati, ma
era più matura della sua età, molto posata, aveva un altro background. Secondo me con lei nonno si sentiva protetto,
poteva affidarsi, sono certa che lei gli ha
regalato una grande serenità, e lui ne
aveva bisogno negli ultimi anni della
sua vita».
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
il reportage
Grandi vecchi
DOMENICA 1 APRILE 2007
Produce grappoli da trecento anni, le sue radici affondano
per dieci metri nella fertile terra delle colline irpine ma l’origine
di questo patriarca - come dimostra l’esame del dna - va collocata
tremila anni or sono nell’Oriente dei racconti biblici
La vigna di Noè
e le sue sorelle
PAOLO RUMIZ
S
TAURASI (Avellino)
ul suo tronco abitano merli e scoiattoli, la sua base è coperta di edera
e disseminata di violette. Le sue favolose radici affondano nella pancia dell’Irpinia per dieci metri almeno, in un prato coperto di fiori blu
e papaveri. La pelle è quella rugosa e rinsecchita di un vecchio Navajo;
il busto s’attorciglia a un palo di castagno e forma una scultura di ottanta centimetri di circonferenza. Poi, a due metri e mezzo di quota, il coriaceo gomitolo si
dipana, diventa quattro braccia nodose che si piegano a novanta gradi, come capestri, e partono verso l’orizzonte disegnando una grande rosa dei venti. Quattro
branche aggrappate a fili di ferro, da cui pendono piccole protuberanze legnose
appena potate e pronte dar frutto. Per le trecentesima volta dopo trecento anni.
Ne ha di vita in corpo il patriarca di Taurasi, la vite in servizio attivo forse più
vecchia del pianeta, nata prima di Napoleone e della scoperta dell’Australia. Con
alcuni “cugini” più piccoli della stessa zona, è anche l’ultimo rappresentante
mondiale di una tribù antichissima, dal nome misterioso che viene da Oriente:
sìrica. Il capolinea di tremila anni di cultura, genetica, gusto e migrazioni nella
geografia eurasiatica fino al grande approdo
chiamato Italia. Un “rosso” mitologico della
Magna Grecia, arrivato sulla costa jonica da
chissà quando e da chissà dove, forse dalle
terre di Noè attraverso la Dalmazia, portato in
Italia da chissà quali mercanti — parrebbe su
navi elleniche degli iblei o degli intraprendenti focesi — e poi risalito fino alla terre fertili della Campania.
Lo assedia un frastuono di cinciallegre e calabroni, un brulicare di vita scomparso nel
Nord dei pesticidi, e tu ti chiedi dove stia il mistero di tanta forza. Il grande vecchio di Taurasi è sopravvissuto a tutto. Alla rivoluzione
del clima, all’abbandono delle campagne e al dilagare della boscaglia. Alla fillossera che un secolo fa ha annientato i vitigni europei. Alla barbarie delle potature
industriali che ha amputato e ucciso le piante più adulte. Alla tirannia degli enologi che ha prodotto vini perfetti e senz’anima. Testardo, ha tenuto duro contro
tutto. La dittatura della genetica, che ha umiliato la geografia e il territorio; le monocolture che hanno portato un patrimonio autoctono inestimabile a un passo
dall’estinzione; le infezioni epidemiche partite dai vivai industriali. Soprattutto
contro il dilagare dei chardonnay e dei cabernet, che ha evirato la biodiversità italiana e cacciato le “stirpi” più rare in riserve indiane dimenticate.
Irpinia, colline senza fine, fili di fumo che segnano qua e là i roghi dei giunchi
della potatura. Abbaiare di cani, pale eoliche a distanza, sorgenti; il sole affoga
nella bruma verso il Vesuvio e le prime luci si accendono sui villaggi di crinale. È
qui che trovi il vecchio brigante e i suoi fratelli, nascosti tra le smagliature del terremoto, in un terreno poroso dove il piede affonda senza sporcarsi, mimetizzati
tra viti di agliànico contorte come ulivi, protetti da querce, cachi, peri, ciliegi, salici, noci, mandorli, fichi e noccioli, in un piccolo podere sulla cima di un colle, sopra l’antica via Appia-Traiana. Qui, non in mezzo ai vitigni-reggimenti, alle file
infinite di piante-reclute schierate su terre nude e senza fiori, carne da cannone
da sacrificare in fretta sul campo del mercato.
Il suo nome è sìrica,
produce un rosso
morbido e dolce,
un sopravvissuto
che si credeva estinto
TRONCO
Il “patriarca” della vigna
di Atripalda a Taurasi
ha un tronco di ottanta
cm di circonferenza
L’hanno trovato quasi per caso, qualche anno fa. C’era un’équipe che stava
mappando le vigne dimenticate d’Italia. La guidava il trentino Attilio Scienza,
professore di viticoltura all’università di Milano, per conto della casa vinicola
“Feudi di San Gregorio”. La zona prometteva bene: terre fertili, cariche di vigoria, e una minuziosa topografia di vitigni autoctoni dai nomi arcani: fiano, agliànico, sciascinoso, mantonico, piedirosso, serpico e falanghina. Stavano lì, a marcare il territorio, a raccontare storie antiche come la biblioteca di Alessandria. Ma
quando arrivarono al podere del signor Sabatino Di Jorio, gli esploratori capirono presto di aver di fronte qualcosa di inestimabile. Una vigna secolare, con in
mezzo tre piante ancora più secolari. Roba mai vista prima.
I vecchi mormorarono un nome, sìrica, e subito iniziarono scoperte mirabolanti. Si vendemmiò, e dai bicchieri emerse a sorpresa un gusto morbido, dolce,
che si credeva estinto. Si esplorò il dna della pianta; si videro le affinità con l’agliànico, il lagrein e il teròldego; si appurò la presenza di componenti antiossidanti — e quindi anti-tumorali — sette volte più forti che in qualsiasi altro rosso.
Si tagliarono dei tralci e si riprodusse la pianta attraverso barbatelle nuove da cui
sono nati da poco i figli del grande vecchio. Solo alla fine ci si accorse di avere acchiappato per la coda un testimone del tempo, destinato alla cancellazione e all’oblio. Era come avere ritrovato gli ulivi del Getsèmani.
Ma non era solo la biologia; era la storia e la geografia che si svelavano. La vite
parlava come un libro aperto. Diceva di essere arrivata da un porto della Jonio chiamato
Siri e di avere preso da quello il suo nome. Svelava tracce indelebili del suo passaggio sulla
via Appia-Traiana, la marcava come una pietra miliare dopo un itinerario serpentiforme
alto sulla valle del Busento, Potenza e la Lucania profonda. Raccontava favolosi itinerari centro-asiatici e illirici. Illuminava angoli
sconosciuti della Magna Grecia. Diceva che
la struttura a spalliera della vite era quella “a
tennecchie” che i Sanniti avevano imparato
dagli Etruschi di Capua, e diceva pure che
quello sposalizio culturale fra uva greca e tecniche italiote poteva essere la spia di un innesto fra la pianta venuta da Oriente e
viti selvatiche ritenute sacre in terra etrusca.
La sìrica diceva soprattutto quello che la modernità omologante tendeva a dimenticare, e cioè che l’Italia, piantata in mezzo al Mediterraneo, era stata un favoloso laboratorio di contaminazione e di sopravvivenza delle specie. Racconta
Attilio Scienza: «In zone antiche e promiscue, ai margini delle mode, si era salvato un arcipelago di biodiversità che non aveva eguali nel mondo», un patrimonio
vitale che andava mappato in fretta e salvato dalla distruzione come gli animali
dell’Arca dal diluvio. Centinaia di vitigni rari dimenticati in terre meno “nobili”
come la Calabria interna, l’Etna, la Sardegna remota, il Molise o il Mantovano.
Lontano dalle Langhe o dalle terre di Montalcino. Un po’ come il sagrantino di
Montefalco, che stava letteralmente scomparendo e oggi, dopo un salvataggio
acrobatico, ha raggiunto i vertici della qualità.
Ma il patriarca irpino svelava anche il segreto della sua vecchiezza. Perché la
sìrica aveva tenuto duro lassù mentre due chilometri in là altre piante erano state spazzate via dagli acàridi della fillossera? Lentamente, i conti tornavano. Dipendeva da quel terreno soffice, paludoso e vulcanico, dalla grana delle sabbie,
abrasiva e ostica per gli insetti sterminatori. Si vide che un po’ tutta la Campania,
L’ha scoperta
un’équipe di enologi
che stava mappando
i vigneti autoctoni
dimenticati d’Italia
CAPOLINEA
È il capolinea del viaggio
iniziato tremila anni fa
nelle terre di Noè
e finito in Magna Grecia
Repubblica Nazionale
DOMENICA 1 APRILE 2007
grazie ai vulcani, aveva resistito alla pestilenza più a lungo di altre regioni e fra le
due guerre aveva esportato uva in mezza Europa, dove le vigne erano in ginocchio. Anni di fertilità irripetibile, da cento quintali all’ettaro, cui seguì, nel dopoguerra, la quasi scomparsa della regione dal mercato del doc. Un’eclissi che oggi si rivela un vantaggio e consente di affrontare la modernità senza avere liquidato la manualità contadina.
«È quasi soltanto a Sud — raccontano Pierpaolo Sirch e Marco Simonit, esperti friulani che apprezzano le terre tra Ofanto e Volturno — che la tecnica di potatura è rimasta corretta». Lo vedi anche dagli alberi sulle strade, o dai frutteti: nessuno, qui, si sogna di amputare rami più vecchi di due anni, quelli che faticano a
cicatrizzare e spesso restano con le ferite aperte alle intemperie, ai funghi e ai parassiti. L’Italia, fa notare Marco Simonit, è una terra di vigne inestimabili dove l’operazione fondamentale — la potatura — è spesso affidata a personale avventizio e incompetente. «Si tranciano rami vecchi con la motosega, si lavora solo per
far produrre, anche se questo va a scapito della longevità del vigneto. Il risultato
è che la Francia, la Spagna o la Grecia lavorano, in media, su vigne molto più vecchie di quanto non faccia l’Italia, che pure è il Paese col patrimonio storico più
straordinario del mondo. Da noi viti più vecchie di quarant’anni sono una rarità.
Tutti, specie nel Centro-Nord, pensano ai concimi, al passaggio dei trattori, alla
corretta palificazione, ai fili di sostegno, all’imbottigliamento. Il superfluo trionfa. Pochi pensano all’essenziale, costruire
una longevità. Il bello è che sono convinti di
saper potare e non accettano lezioni. Se poi
chiedi come mai le loro viti crepano così giovani, alzano le spalle, danno la colpa al clima
o ai fertilizzanti…».
Ecco, la sìrica è anche questo: un monumento alla buona manutenzione, il frutto
della cura di generazioni, una dedizione fatta di tempo, pazienza, attese, minuzia. Una
sapienza mediterranea che ha lasciato testimonianze uniche. A Pantelleria, dove la coltivazione ad alberello ha preservato un patrimonio genetico che nessuna vigna clonata
potrà mai costruire. In Francia, dove si fanno le feste della potatura per tramandare la sapienza dei vecchi, e dove nelle etichette si avverte il bevitore non solo
dell’invecchiamento in bottiglia, ma anche della vecchiezza della pianta. O nel
Priorato, sopra Barcellona, dove vigne centenarie crescono in campo aperto, rugose e contorte come le anime dannate nelle stampe di Gustavo Doré sulla Commedia dell’Alighieri.
Antonio Minichiello, della “Feudi di San Gregorio”, mi accompagna in mezzo
a piante venerabili, davanti alle quali sarebbe giusto far prostrare politici, scolaresche, manager, finanzieri d’assalto, tutti a chiedere scusa di cinquant’anni di
sprechi e sviluppo cannibalico. Guardi la sìrica e capisci: gli alberi da frutto che la
circondano hanno vaccinato il terreno, fornito una formidabile difesa contro le
pestilenze da monocoltura, protetto i vitigni dalle contaminazioni globali. E poiché le piante da frutto, per millenni, non sono mai state solo cibo ma anche rito e
comunione col sacro, ponte tra cielo e terra madre, ecco che la testarda longevità
dei patriarchi irpini nasce anche dall’antico rispetto per la vecchiaia, vista come
serbatoio di memoria vitale.
È una superstizione che la moderna biologia conferma: nelle piante secolari si
nasconde davvero la banca-dati della vita, un’esperienza in adattamento am-
Molti vitigni rari,
messi fuori mercato
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
RESISTENZA
Ha tenuto duro contro
tutto: infezioni, potature
industriali, dittatura
dei nuovi vitigni di moda
dalle uve di moda,
vengono riscoperti
e tornano a produrre
BENESSERE
Il sìrica è un vino rosso
ricco di antiossidanti
in misura sette volte
superiore agli altri rossi
bientale, un codice d’accesso alla salvezza genetica che in tempi di disastro climatico diventa indispensabile all’umanità. «È proprio in questa vecchiezza la
forza dei vitigni italiani, non nel giovanilismo sconsiderato che dilaga», s’accalora il professor Scienza. «È su questo che siamo unici al mondo, è su questo che diventiamo imbattibili rispetto ai vini sudafricani, cileni o californiani, prodotti di
piantagioni recenti».
Non vi è nulla di simile in Europa. Certo, in Alto Adige, in Slovenia o in Ungheria hai singoli esemplari anche più vecchi, ma sono viti protette, conservate in
chiostri o nei cortili delle case, monumenti “in vitro”, isolati dalle vigne. Qui hai
esemplari in campo aperto, un terra promessa inesplorata che si svela. Antonio
Minichiello la sente come un rabdomante, è certo che se si potessero esplorare
tutti i poderi verrebbero fuori altre sorprese. «Ho trovato un piedirosso ad albero, enorme… Si espandeva in orizzontale fino a formare un ombrello di centocinquanta metri di circonferenza, non bastavano i pali a tenerlo su. Ora lo hanno
accorciato… non abbiamo ancora potuto valutarne l’età». Si commuove, Antonio, per questa sua terra grassa e mai stanca, serpeggiante di fontanili, dove tutto ha sapore, dalle melanzane alle conserve fatte in casa.
Tramonta, l’ultima luce viola accarezza piante di broccoli, patate, aglio, finocchio e piselli, cresciute spontaneamente tra le vigne della leggenda. Ce n’è di strada da fare per scoprire il mistero italico di queste terre fertili e ondulate, inquiete, sismiche,
punteggiate di luci fin sulle cime dei monti, le
terre di Pitagora e Zenone, mitologico approdo dei Greci e fantastico laboratorio di contaminazione fra popoli italici, longobardi, etruschi, arabi, slavi, albanesi, normanni. Culture, sapienze manuali inestimabili che è possibile leggere sui rami di ogni albero. «Non mi
importano i master post-laurea — brontola
Simonit — qui c’è da ricostruire in fretta una
manualità perduta per salvare un patrimonio. Persino la Turchia e la Georgia hanno
scuole di potatura. L’Italia no… dobbiamo
arrivarci in fretta. A che serve il biodinamico se manca il buon senso?».
Ermete Realacci, presidente di Symbola, fondazione per le qualità italiane, è
convinto di essere alla vigilia di una seconda rivoluzione dell’enologia, dopo
quella salutare esplosa al termine dello scandalo-metanolo. È la rivoluzione che
riporta in luce l’anima delle viti. «Il futuro del vino non sta nella perfezione — si
infiamma Sirch — ma nel suo contrario! La perfezione fa emergere l’enologo.
L’imperfezione svela l’anima del territorio, mette in moto la memoria, accende
la fantasia, svela il genius loci. È come un amico, che lo ami quasi più per i suoi difetti che per le sue virtù». L’antropologo Lévy Strauss nel suo memorabile Il cotto
e il crudo, ricorda che ciò che è buono «da mangiare» è pure buono «da pensare»:
cioè ti alimenta culturalmente. Bere nutre anche l’anima.
Basta dunque con lo schioccare di palati saccenti, con le bottiglie blasonate in
défilée come altezzose modelle. «L’eccesso di tecnica ha annacquato l’identità,
mistificato i vini, imbalsamato il gusto, impoverito la memoria del palato», protesta Attilio Scienza. La bontà di un vino non discende da un’autopsia o da una
graduatoria a punti, ma da un insieme. Da una personalità, fatta anche di piccoli difetti. Se bere riesce a comunicare tutto questo, allora eccoci vicini all’anima
della pianta, dunque al segreto della vita. È così che il vino assolve fino in fondo il
suo compito. Ti riporta a Dio, come ai tempi di Noè.
“Il futuro del vino
non è nella perfezione
È il difetto che svela
l’anima del territorio
e attiva la memoria”
Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 1 APRILE 2007
la memoria
Oggetti simbolo
Celebra i suoi centocinquant’anni la fabbrica di Alessandria
che al culmine del successo, negli anni Trenta del secolo scorso,
osò fare concorrenza alla Stetson proponendo un modello
per i mandriani del Texas. La lobbia di Al Capone, la bombetta
di Hirohito, il cilindro di Fred Astaire, le tiare di alcuni papi
sono tutti usciti da quello storico stabilimento piemontese
Un cappello italiano nel far west
M
ercoledì il Borsalino
compie centocinquant’anni. O meglio,
compie centocinquant’anni la fabbrica
dei cappelli più famosi
del mondo, che fu fondata il 4 aprile del
1857. Il fascino della leggenda. Da un secolo e mezzo, con molti alti e bassi, in testa
alla gente che conta. E soprattutto ai miti,
alle icone del cinema, ai divi: uno per tutti
Humphrey Bogart in Casablanca. Ma Borsalino non è solo il
classico feltro, quello consacrato dall’omonimo film con
Alain Delon e JeanPaul Belmondo,
bensì ogni tipo di
cappello, confezionato con la più elegante perizia: dal cilindro al panama,
dalla bombetta al
fez, alla bustina, alla
feluca, dalla coppola al colbacco al nero, copricapo degli
ebrei ortodossi e dei
chassidim.
È lungo l’albo dei
testimonial eccellenti, che comprende pontefici e capi di
Stato, principi dell’industria e del sangue, registi, pittori,
artisti ma anche
grandi gangster come Al Capone e personaggi entrati nella
leggenda come Buffalo Bill. Nelle sale del
Museo Borsalino ad
Alessandria — duemila solo i pezzi
esposti, più quelli nei
magazzini — sono
conservati alcuni di
questi esemplari storici: dalla bombetta
dell’imperatore del
Giappone Hirohito a
quella del cavalier
Benito Mussolini, a
uno dei ben duemila
cilindri che lo scià di
Persia ordinò per le
celebrazioni dei
duemilacinquecento anni dell’impero persiano a Persepoli. E ancora: il
cappello di Tom
Mix, quello di Charlie Chaplin, cinque
tiare indossate dai
papi. Il copricapo
del Pandit Nehru e
quello confezionato su misura per Ezra Pound, il charro
in oro zecchino fatto
fare per Pancho Villa, il morbido feltro
di Robert Redford.
Gorbaciov comprò il suo primo
Borsalino in un negozio di Helsinki.
Chamberlain, Truman, Churchill indossavano abitualmente cappelli made in Alessandria. Giuseppe Verdi voleva che il suo Borsalino
fosse sempre di color nero. Humphrey
Bogart pretendeva che fosse in castoro
purissimo. I fotogrammi che testimoniano la fucilazione di Galeazzo Ciano mostrano un feltro che rotola, quello del condannato, e l’ingrandimento conferma
che si tratta di un Borsalino. Danzava leggiadro con in testa uno dei suoi molti cilindri Borsalino Fred Astaire. Danzava e
cantava con la sua mitica paglietta sotto
braccio Maurice Chevalier: era una pa-
glietta intessuta in quell’angolo del Piemonte. Si ritiravano in conclave extra
omnes i cardinali con in testa il rosso galero, con nappe e trenta fiocchi, naturalmente made in Alessandria. Indossavano cappellini Borsalino le prime hostess
delle linee transoceaniche Twa.
E, mito nel mito, il panama: talmente
fitto ma anche talmente flessibile, in fibre
e germogli di Carludovica palmata, da
potersi arrotolare e chiudere nella custodia di un sigaro. In panama vip e sovrani,
star, presidenti, scrittori: Napoleone III e
Theodore Roosevelt, Edoardo VIII d’In-
ghilterra e Gustavo di Svezia, Gabriele
D’Annunzio e Ernst Hemingway, Gary
Cooper e Orson Welles. Giovanni XXIII ne
ricevette uno in dono . Quasi tutti i panama più famosi e più fotografati erano Borsalino, oggi il tipo di cappello tornato più
prepotentemente di moda.
Nei primissimi anni Novanta l’azienda
celebrò se stessa con una selettiva campagna autopromozionale che consistette nel regalare a cinquanta italiani importanti un pregiatissimo modello in pelo di
lepre con le iniziali, all’interno, stampate
in oro: nella lista il presidente della Re-
pubblica Cossiga, il premier Andreotti,
ma anche Gianni e Umberto Agnelli, Luca di Montezemolo, Federico Fellini,
Umberto Eco, Alberto Sordi e Vittorio
Gassman.
Ma è soprattutto all’estero che il marchio si era esteso, conquistando anche
mercati poveri, da cui fiorivano gli affari
migliori. Per esempio l’esportazione delle bombette nere per le contadine del
Perù. Proprio dalle Ande venivano importati peli e materie prime di pregio che
venivano lavorati ad Alessandria e tornavano in Sud America. Il fez marocchino
più venduto in tutto il Maghreb nei primi
decenni del secolo scorso recava il marchio Borsalino. In India spopolavano il
siddara e la bustina, anche ricamata, provenienti dalla fabbrica di Alessandria. Negli anni Trenta l’azienda ebbe l’ardire di
fare concorrenza alla Stetson del Texas
producendo un cappello da cowboy marchio Borsalino. Riuscì per decenni a vendere centinaia di migliaia di bombette
nella city: perfettamente british.
Ma fu in Francia, all’avanguardia nella
produzione dei cappelli, e non in Inghilterra, che il fondatore dell’azienda Giu-
Confessioni e ricordi di un uomo cresciuto col capo coperto
Quando mi feci fare un cranio di legno
per essere ammesso al Queen’s Club
GIANNI CLERICI
arebbe certo troppo autocelebrativo
chiedere che fosse pubblicata, tra le
storiche immagini di questa pagina, la
foto della mia cresima, scattata alla fine degli anni Trenta. Al di là del mio ben noto fascino, già avvertibile nell’età infantile, l’immagine rivela aspetti di costume sui quali mi
trovo solo oggi a riflettere.
Ancora in calzoncini corti, il soggetto non
solo indossa, sotto la giacchettina, una cravatta a farfalla. Ma, quel che più sorprende,
è un cappellino di tessuto leggero e morbido, a tesa larga e circolare. Qualcosa che la
madre aveva ritenuto utile, ma che dico, indispensabile, alla solennità della cerimonia.
In un’altra foto che celebra lo storico avvenimento, ai miei fianchi sorridono non
solo la mamma in ovvia veletta, ma il papà
con quel copricapo che Il Cappello da Uomo
di Giuliano Folledore definisce a «maschettatura concava», e cioè con due rientri laterali sopra l’ala orientata verso il basso, spiovente. Al fianco di mio padre, l’anziano zio
Pierre, mostro di eleganza noto anche per
aver dissipato il patrimonio famigliare a Parigi, si segnala addirittura per una lobbia,
con i risvolti di lucido raso rivolti verso l’alto.
Non si creda che le immagini si riferiscano a famiglia aristocratica. Le connotazioni
erano tipiche di una società medio borghese, nulla di più. Voglio solo dire che, in quei
tempi, e poi su su, fino a tutti gli anni Sessanta, il cappello era parte addirittura ovvia
di un abbigliamento maschile quotidiano.
Frequente anche per i bambini, tenuto conto che era addirittura obbligatorio tra i boy
scout dei tempi, quei finti soldatini chiamati balilla, che indossavano il fez, copricapo di
curiose origini arabe adottato dal Partito
Nazionale Fascista.
Nel ripercorrere gli albi fotografici amorevolmente assemblati dalla mamma, mi ritrovo anche su un campo da tennis, il capo
sempre coperto. In una foto indosso un berretto di tela a tesa lunga e rigida, mentre la
cupola, la parte superiore, è floscia. Nell’altra ho in testa un basco, che avevo insistito
ad ottenere, entusiasta per la leggenda del
tennista francese Jean Borotra, soprannominato Le Basque Bondissant, che tradurrei
Il Basco Salterino: uno dei famosi Quattro
Moschettieri capaci di strappare, per la prima volta nella storia, la Coppa Davis agli
americani.
Fu quello il mio copricapo preferito, tanto
da conservarlo nelle prime gare della nazionale, nell’immediato dopoguerra, nonostante le minacce di un capitano severo che
non tollerava altro che il bianco, il colore del
tennis.
Al di fuori dello sport, non mancai invece
di indossare un Borsalino, regalatomi per un
anniversario, cappello del quale ero orgogliosissimo, tanto da portarmelo dietro anche all’Università: dove commisi, un giorno,
S
FOTO GAMMA
LAURA LAURENZI
Gli inizi furono
in un cortile
Poi il salto industriale
importando
da Manchester
a fine Ottocento
macchinari
modernissimi
OPERAI
Dall’alto in basso:
un’immagine dello stabilimento
Borsalino di Alessandria
risalente all’inizio del secolo
scorso; Arnaldo Zulfarino,
addetto al “bridaggio”
cioè la lavorazione dell’ala
del cappello; due operaie,
che erano chiamate
col nomignolo di “borsaline”
la colpa di dimenticarlo, per non più ritrovarlo, alla riapertura del mattino seguente.
Apparve subito impervio il recupero di
una copia di quel tesoro, ma una gita a Parigi, per il torneo del Roland Garros, mi offrì
una nuova chance di innamorarmi. In una
vetrina di rue Saint Honoré campeggiava un
modello a me sconosciuto, e irresistibile.
Era di feltro beige, e aveva una cupola talmente morbida che si poteva adattarla con
le dita, secondo gusto e necessità. Si chiamava Mossant, e, nel vantarne le qualità, il
venditore mi garantì che avrei potuto indossarlo anche sotto la pioggia, senza procurare danno.
Lo portai con orgoglio un paio di stagioni,
ma il dono della mia prima decapottabile,
una MG, gli fu fatale. Volò via, mentre ero in
gara con un altro sciagurato, e secondo alcuni servì in seguito da copricapo a uno spaventapasseri, quei simulacri d’uomo che allora usavano, nei campi.
La mia vita, e il mio cappello, avrebbero
dovuto trasferirsi in seguito a Londra, nel
corso di un tentativo di stabilirmi in quella
città, quale vice del vicecorrispondente del
Giorno.
Già avevo partecipato al Torneo di Wimbledon, e ritenevo quindi che, per il Queen’s
Club, meno periferico, sarebbe stato un
onore avere un tennista par mio tra i soci.
Era, mi informarono, indispensabile che un
membro mi presentasse, ma come telefonai
all’unico che conoscessi, il mio amico Lord
Aberdare, fui un tantino sorpreso nel sentirmi dire che, per l’ingresso al Club, sarebbe
stato meglio indossare il cappello.
Dove trovarne uno adatto, domandai, per
sentirmi rispondere: «Da Herrington, of
course. Vai pure a mio nome». Mi recai quindi da Herrington e, non appena ebbi menzionato l’amico, mi si aprirono davanti porte e sorrisi, e fui guidato in una sorta di laboratorio, contiguo alla sala di accesso.
Rimasi di fronte ad un anziano, gentilissimo signore, che tra mille scuse iniziò a misurare la mia scatola cranica, e ad annotarne chissà quali dettagli. Mi ripresi soltanto
per capire che quelle misurazioni sarebbero
servite a costruire una replica della mia testa, nella fattispecie in legno. E venni informato che, nel giro di una settimana, il mio
cappello sarebbe stato pronto. Per il futuro,
avrei potuto commissionarne quanti ne desiderassi, anche a distanza.
Rimango ancora a chiedermi se fu grazie
al cappello, o alle mie qualità di tennista, che
fui felicemente ammesso al Queen’s Club.
Posseggo ancora quel cappello, e me lo
metto in testa, seppur molto raramente.
Non dico non sia ancora perfetto, ma fu Lord
Brummel ad affermare che l’uomo elegante
non si fa notare camminando dall’Eros di
Piccadilly a Trafalgar Square.
Qui, mi guardano tutti, di sotto i loro atroci berrettini da baseball, e non mi va proprio.
Repubblica Nazionale
DOMENICA 1 APRILE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
PERSONAGGI CELEBRI
Da sinistra a destra, una galleria di celebri possessori
di Borsalino: Humphrey Bogart, Al Capone, Jean-Paul
Belmondo, Alain Delon, il compositore Alfredo Casella,
Ernest Hemingway, Gary Cooper, Winston Churchill,
Yul Brynner, Warren Beatty, Anthony Quinn, Frank Sinatra
seppe Borsalino, un ragazzo
di sedici anni, decise nel lontano 1850 di trasferirsi a imparare il mestiere. Nel ’56, ottenuto
il certificato di cui i cappellai
girovaghi avevano bisogno
per aprire un laboratorio,
tornò a casa e nel ’57, in un cortile di via Schiavina ad Alessandria, gettò le fondamenta di
una ditta che sarebbe
presto diventata, per
prestigio e qualità, la nu-
Con il 1968 inizia
un rapido declino:
il pubblico maschile
abbandona
l’accessorio
diventato “borghese”
MANIFESTI
In alto l’evoluzione
del marchio Borsalino
In basso, manifesti pubblicitari
della “Antica Casa” Borsalino
della prima metà
del secolo scorso
Dopo una lunga crisi
il fatturato è tornato
ad aumentare
mero uno nel mondo.
Per oltre un secolo la storia dell’azienda si sovrappone e si confonde con quella del cappello. Un nome proprio si sostituisce a un nome comune: in vari vocabolari della lingua italiana borsalino con
la b minuscola è sinonimo di cappello;
prodotto e marchio si identificano.
Imparando dall’esperienza inglese il
fondatore impresse una svolta industriale importando da Manchester macchinari moderni. La fase artigiana era alle
spalle. Trasferitasi nel 1888 nella sede storica di corso Cento Cannoni, l’azienda
sfornava cinquecentocinquanta cappelli al giorno che diventarono cinquemilacinquecento nel 1909. Oltre il sessanta
per cento della produzione era destinato
all’export. Nei ruggenti anni Venti si tocca il tetto dei due milioni di cappelli l’anno, un record destinato a dimezzarsi dopo la crisi del ‘29. Dieci anni più tardi l’azienda ottiene il brevetto di «fornitore ufficiale della casa del Re e Imperatore».
Alla guida c’è Teresio Borsalino, che
consolida un’altra tradizione di famiglia,
quella legata alla filantropia e al mecenatismo, fortemente circoscritti ad Alessandria, vera città-azienda, diventata la
capitale mondiale del cappello. È la Borsalino e la sua dinastia imprenditoriale,
paragonabile solo a quella degli Olivetti
di Ivrea, a costruire l’acquedotto, l’ospedale civile, il sanatorio, la casa di riposo, la
rete fognaria. E a intraprendere in proprio una politica sociale all’avanguardia
con l’istituzione di una cassa malattie,
una cassa infortuni, una cassa pensioni,
una colonia estiva per i bambini, cioè per
i figli di impiegati e impiegate e delle operaie, le mitiche «borsaline».
La fine della Seconda guerra mondiale
segna una grande ripresa, con la creazione di una cinquantina di nuovi modelli
l’anno. Ma il declino è in agguato. Il tramonto del cappello, simbolo del vestire
borghese, reca la data fatidica del ‘68 ma
è poi negli anni Ottanta che le vendite subiscono un crollo, al culmine di una lenta ma costante disaffezione. Addio feltri,
addio lobbie, vecchie foto ingiallite dei
padri e dei nonni. La Borsalino, i cui cappelli continuano a fare scuola nel mondo,
smette di essere un mito e i passaggi di
proprietà si susseguono assieme alle scissioni e alle vicissitudini aziendali. Negli
anni di massima crisi viene ceduto lo stabilimento storico di corso Cento Cannoni, attuale sede dell’Università di Alessandria, facoltà umanistiche.
Oggi la Borsalino conta in Italia centocinquanta dipendenti, sforna novantamila cappelli l’anno e nel 2006 ha avuto
un fatturato di venti milioni di euro, con
un aumento previsto del dieci per cento.
La nuova strategia aziendale punta sulla
diversificazione. Oltre ai rinomati cappelli che, dopo decadi di semi oblio, sono
tornati in auge, Borsalino produce abiti e
accessori, dai guanti alle giacche, dalle scarpe addirittura alle biciclette.
Per i suoi centocinquant’anni l’azienda si autofesteggia con molte iniziative. Uno spettacolo teatrale, l’istituzione di una borsa di studio per una
ricerca sul cappello Borsalino nella storia del cinema, la realizzazione di un’antologia di dieci racconti noir dedicati al
Borsalino. E ancora: una mostra fotografica ad Alessandria sui più importanti
cappelli storici, il lancio di un nuovo profumo denominato Panama, che viene
presentato al Cosmoprof in questi giorni.
Per l’anniversario viene poi proposta
una collezione ispirata a un classico nato
proprio nel 1857, il Virgilio Dorsè. I pezzi
sono rigorosamente numerati, esattamente 1857 come l’anno di nascita, e riguardano quattro prodotti: il cappello, in
versione arrotolabile, con l’ala bordata in
seta; il berretto, e cioè una classica coppola gessata; l’abito monopetto a due
bottoni ispirato all’eleganza di Cary
Grant; e infine — come ti reinvento il cappello — il casco da moto color ardesia e
blu, disponibile anche in versione da sera, foderato in raso di seta.
Repubblica Nazionale
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
i luoghi
Sicilia perduta
DOMENICA 1 APRILE 2007
Saloni, tappezzerie preziose, l’Isotta Fraschini nera
in garage, una rete segreta di scale e corridoi per rendere
invisibile la servitù. Siamo nella Palermo anni Venti
e Francesco Alliata, principe bambino, esplora casa sua,
Palazzo Villafranca. Oggi, a 87 anni, ricorda quei giorni
Vita da Gattopardo
nel palazzo-labirinto
«P
STEFANO MALATESTA
PALERMO
otevi essere andato a Timbuctù o in Patagonia, avere visto cose meravigliose e
passato momenti unici. Ma quando,
tornato a Palermo, salivi su per il corso
e cominciavano ad apparire i balconi a petto d’oca del nostro Palazzo, il Palazzo Villafranca, allora l’emozione che
era diventata più intensa, mano a mano che ci avvicinavamo a piazza Bologni, si trasformava in pura felicità. Solo in
quel momento il viaggio che avevi appena fatto e la casa che
ti aspettava prendevano un senso. E il senso era questo: tu
appartenevi a quel luogo, non perché fosse imponente, o
perché avesse le mura più spesse di tutti gli altri palazzi della nobiltà palermitana, o per i tre scaloni del palazzo, i cinque saloni, la lucentezza delle macchine parcheggiate nel
garage, il modo con cui la gente ti guardava quando entravi o uscivi dal portone, e tutto il resto; ma perché quella dimora, così legata alla nostra famiglia, trasmetteva invisibili onde di affetto, che avevano il potere, appena la
vedevi, di tranquillizzarti, di assicurarti che non c’era nulla da temere e che anche il futuro, come stava avvenendo per il presente, non avrebbe portato cambiamenti. Non solo per noi, ma per tutti quelli che ci
vivevano».
Francesco Alliata è nato qui, ottantasette anni fa,
come suo padre, suo nonno, il suo bisnonno, e moltissimi altri Alliata, la famiglia siciliana più carica di titoli
al tempo della monarchia. E se in questa mattina di marzo, gloriosa come una giornata di maggio, mi ha portato
fino a piazza Bologni con la scusa di una passeggiata, non
è per tessere un elogio del casato ma per lenire una ferita.
Nel 1943 l’invasione della Sicilia da parte degli americani venne accompagnata da tremendi e inutili bombardamenti di Palermo (inutili perché si trattò di uno sbarco lubrificato dall’olio d’oliva locale) che rasero al suolo, insieme con le case popolari dei borghi marinari,
alcuni tra i più rappresentativi palazzi dell’aristocrazia.
Lo shock in una classe che si credeva immune dagli orrori della guerra, pensando che le altolocate
amicizie internazionali avrebbero funzionato da
schermo, fu immenso. Lo stesso Francesco aveva accompagnato la madre al porto, una delle aree più devastate, dove una loro carissima amica, Giovanna
Lanza, piangeva disperata davanti alle macerie di una
delle più belle ville di Palermo, progettata dal Basile. Il
Palazzo Ugo-Salvo, accanto a Palazzo Villafranca, era
stato in parte polverizzato durante i primi minuti dell’attacco aereo. Ed anch’io ricordavo perfettamente di aver visto, molti anni più tardi, nelle fotografie che testimoniavano quel periodo, una figura avvolta in un cappotto troppo
grande che si chinava a frugare fra i resti di un palazzo. Era
Tomasi di Lampedusa, l’aria totalmente disperata, che cercava qualche cosa, qualsiasi cosa tra le macerie del suo palazzo che potesse fargli ricordare un momento della sua vita passata. Mentre il Palazzo dei Villafranca aveva resistito
a tutte le esplosioni e dopo la guerra era stato riaperto, anche se più sommessamente di prima.
Ma da diciotto anni, per una di quelle storie di eredità che
in Sicilia, terra affollata di cultori del causidico, prendono
“C’erano due cortili e due
campane: suonavano ogni volta
che arrivava un ospite e ricordo
uno scampanellio continuo”
le dimensioni e le forme di un labirinto, è avvenuto un fatto che per Alliata ha avuto lo stesso risultato dei bombardamenti: il Palazzo gli è stato “sottratto”, questo è il verbo
che ha sempre adoperato accennando al tentativo di sottrarre tutti gli oggetti preziosi contenuti nelle stanze al patto di prelazione stipulato tra tutti i membri della famiglia
per evitare la dispersione del patrimonio. C’è voluto del
tempo prima che Francesco capisse che era stato lui ad essere defenestrato dall’eden della sua infanzia, e quando ne
ha avvertito fino in fondo le conseguenze ha cominciato ad
adoperare la memoria in funzione taumaturgica, ricreando quello che non aveva più e scrivendo su Palazzo Villafranca un lungo, ironico e appassionato ricordo per Dimore storiche, una rivista dei proprietari di famose magioni
andata subito esaurita.
Infatti uno degli aspetti più paradossali dell’aristocrazia
siciliana è il suo successo letterario, direttamente proporzionale alla velocità con cui quella società si è dissolta ed
immensi patrimoni sono stati venduti. Questo dilapidare
folle, questo scialacquare come riflesso pavloviano di un
mondo che sa di essere destinato alla rovina si presta a infinite variazioni letterarie sul tema della catastrofe. Ma
Francesco ricorda che questa attitudine non c’è mai stata
nei suoi cromosomi, non è qualcosa di connaturato all’essere siciliani: «La nobiltà siciliana ha ereditato dai suoi antenati uno spagnolismo in cui l’apparenza, il fare bella figura, il parere molto più che l’essere avevano un’importanza suprema... Erano e si sentivano todos caballeros e in
questa veste non si volevano occupare né della buona amministrazione né più semplicemente dell’amministrazione, dicevano di non voler maneggiare quel denaro che poi
andavano reclamando quando si trattava di spenderlo. E
preferivano vivere di vendita piuttosto che di rendita. Come la Spagna secoli prima aveva rinunciato a dare stabilità
ai suoi successi militari cacciando gli ebrei e i musulmani, le uniche teste economiche e commerciali del
Paese, così gran parte della nobiltà siciliana viveva in città lasciando le terre agli amministratori e preparando con le sue mani la
rovina».
«Naturalmente c’erano delle eccezioni come la nostra famiglia. Mia
madre non volle mai uniformarsi a
questo andazzo di sprechi e di lussi.
Il motto della famiglia era “mavult
principem esse quam videri”, bisogna essere principi piuttosto che
sembrarlo. Mio nonno materno
aveva addestrato la prima delle sue figlie a gestire il patrimonio costituito da
immobili e terre, e quando morì mio padre fu lei come vedova del primogenito a
prendere le redini degli affari, sollevando innumerevoli proteste da parte delle cognate e da
parte dei cognati che la vedevano come l’ultima arrivata».
«Fin da ragazzi ci venne chiarito che il privilegio non stava nel comportarsi in maniera stravagante e dispendiosa,
ma nella possibilità che avevamo tutti noi di coltivare le belle arti, l’archeologia, la musica, la pittura. Il peccato maggiore era non far nulla, la terribile neghittosità di certi siciliani, e tutti eravamo sospinti verso quella che veniva chiamata un’operosità illuminata. Può sembrare paternalistico oggi, ma noi imparammo il dialetto siciliano perché nostra madre diceva: “Se non dialogate con i vostri contadini
nella loro lingua essi vi considereranno estranei e non vi capiranno”. Mia madre lavorava anche di notte, dopo avere
compiuto i doveri di padrona di casa, rinchiudendosi nel
suo minuscolo studio, l’unica stanza ad avere il telefono
che portava il numero 579. La chiamavano “la principessona” ma era un soprannome che stava ad indicare delle
qualità morali. Era nobile in un senso che oggi si é perduto
e non solo per il blasone, a cui certamente teneva, e che portava con sé oltre qualche privilegio anche molti ferrei obblighi. Come quello di essere generosa nei confronti degli
altri, e spartana in famiglia».
«La casa girava intorno a due cortili, quello di ponente e
Repubblica Nazionale
DOMENICA 1 APRILE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
TESORI
FOTO PER GENTILE CONCESSIONE DI FRANCESCO ALLIATA
In queste pagine alcune immagini
di Palazzo Villafranca. Da sinistra, il particolare
di uno dei soffitti; il salotto impero con il grande
ritratto di Agata Valguarnera; il rivestimento
interno della “portantina d’oro dei principi”;
un’altra sala del Palazzo; il particolare
di un decoro; il portone con l’arme inquartata
del Serpotta; un particolare di un grande azulejo;
lo scalone; l’affresco su un soffitto
In basso, un dipinto della collezione
e, ai lati, le cariatidi del palazzo
quello di levante, dotati di due campane. Da qualche parte
ho letto di un duca siciliano che aveva l’abitudine di suonare una campana ogni volta che intratteneva relazioni
strette con una sua giovane compagna: uno scampanio diretto a tormentare la moglie sua vicina di casa, da cui si era
separato. Nel palazzo Villafranca le campane venivano
suonate per avvertire i proprietari che c’erano dei visitatori, e se penso per un momento alla mia infanzia rivedo come un film con una colonna sonora composta da uno
scampanio continuo».
«Gli abitanti stanziali del Palazzo erano i tre fratelli Alliata con le loro famiglie, la nonna Giuseppina, e naturalmente tutti gli addetti alla casa tra i quali uno dei principali era Totò La Pietra, il portiere, che durante la guerra diede
prova di un tale attaccamento a questo edificio da restare
sbalorditi. Quando io ero ancora ragazzo molte proprietà,
come il “Firriato dei Villafranca” a Palermo — un parco di
settanta ettari che da piazza Politeama arrivava a piazza
Croci e dal mare saliva per un chilometro — era stato da
tempo in parte espropriato (per costruire il tetro carcere
dell’Ucciardone e per tracciare il viale della Libertà, sontuosa passeggiata cittadina) e per il resto venduto, così come il Castello di Villagonia, sulla spiaggia di Taormina, era
stato espropriato per farne i dormitori dei ferrovieri. Ma
avevamo ancora l’amatissima Villa Valguarnera a Bagheria, portata in dote da Agata, ultima del ramo primogenito
dei Valguarnera, di cui esisteva un ritratto con ampia scollatura nel salotto giallo del Palazzo. Quando i suoi figli maschi cominciarono a crescere Agata fece coprire la scollatura con un merletto. A Bagheria io, giovanissimo, andavo
per controllare le raccolte dei limoni, così come andavo a
Santo Stefano di Briga, ad un’ora di tram da Messina, a vendemmiare nei terreni portati in dote da mia madre».
«Ma il Palazzo stava al centro di tutto questo andare e venire ed era nostra residenza abituale. Una delle parti più
spettacolari era l’infilata dei saloni: salotto rosa,
quello giallo impero per le visite più intime,
che stava accanto alla più grande camera
da letto del Palazzo, dove tutti gli Alliata erano nati. Nel salone più grande si
tenevano le serate musicali con la
partecipazione di cantanti famosi
come Maria Caniglia e Beniamino
Gigli. Qualche volta anche mia
madre ci cantava qualcosa e solo
dopo insistenti richieste dei parenti accennava ad una romanza
del Tosti. Come d’uso negli antichi
palazzi nobiliari, non esisteva una
vera e propria camera da pranzo,
perché si apparecchiava la tavola in
uno dei saloni, a seconda delle circostanze e del numero dei commensali».
«Ma non ho contato il salone da ballo che
aveva otto magnifiche, gigantesche porte. E lo studio, uno dei pochissimi ambienti del Palazzo che non avesse le pareti rivestite della seta verde “lampasso” delle nostre filande ma del cuoio di Cordoba martellato, per fare più
onore ai quaranta stemmi che rappresentavano i nostri titoli nobiliari. Quella degli Alliata era una proprietà indivisa
e altri locali molto frequentati erano la biblioteca e la sala
da sera. Una volta anche le stanze adibite all’amministrazione erano affollate di ragionieri ed amanuensi che riempivano libri di conto con una bella scrittura a svolazzi, anche nelle partite doppie. Ma quando ci stavo io, a Palazzo
erano già spariti tutti i documenti e i conti — dal 1300, dall’arrivo degli Alliata a Palermo, in poi — erano stati sistemati in contenitori di pergamena, custoditi in armadi alti
cinque metri, dipinti di bianco con filettature d’oro, numerati da 1 a 34».
«Questo era il nostro mondo di ogni giorno. Ma queste
dimore storiche potevano essere ingannevoli come un iceberg in cui è visibile solo una parte del tutto, con la parte nascosta molto più grande. Non dovevo avere più di sette, otto anni quando, ritrovatomi in un’ala poco conosciuta del
Palazzo, fui costretto a bussare ad una porta che avevo riconosciuto essere quella della stanza di mio zio, chieden-
dogli di andare in bagno. Lui aprì una porticina interna e mi
si parò davanti uno spazio immenso, pochissimo illuminato, costituito da passaggi da scale che davano su altre
scale e via di seguito, come nelle Carceri d’invenzione del
Piranesi. Questi passaggi erano percorsi da itinerari alternativi a quelli abituali per permettere ai camerieri, ai fornitori e a tutta la gente del Palazzo di portare le cose da servire senza essere avvistati in un continuo viavai. Qui si trovavano anche tutti i locali che funzionavano da depositi delle dotazioni del Palazzo: argenterie, porcellane, e poi mobili, divani, sedie, quadri non esposti, e montagne di biancheria. Tutta questa roba all’origine era stata catalogata e
sistemata in armadi che avevano inchiodato dietro alla
porta un elenco. Poi l’accumulo, per quanto ordinato, si era
fatto incontrollabile e, quando da ragazzini giravamo alla
scoperta del Palazzo, l’apertura di questi armadi costituiva uno dei momenti più affascinanti. Non sapevi mai cosa
ti si rovesciava addosso».
«La geometria del Palazzo non aveva un senso solo orizzontale ma anche verticale. Nei piani più alti e nelle soffitte
regnavano calma e quiete, mentre mano mano che si
scendeva cresceva il via vai che raggiungeva il suo culmine nelle cucine, dove transitavano, ai bei tempi, incessantemente legname, carbone, farina, quarti di
bue, maiali, giare d’olio, contenitori di vino, casse di castagne, mandarini, ciliegie e pere, cassette di verdure
e di pesce, sacchi di fave, lenticchie e ceci, pezze di formaggio da dieci chili, barattoli di caponate, peperoni,
melanzane sott’olio, le acciughe di Sciacca ed il tonno.
Queste vivande salate e vari formaggi, come il maiorchino ragusano e la tuma persa, per evitare che scomparissero in una notte portate via da topi particolarmente voraci, erano sistemati in mobili di origine spagnola chiamati “fresquera”, dotati di intelaiature con rete metallica
per lasciar passare l’aria e impedire il furto nello stesso
tempo. Accanto alla cucina c’erano le dispense che mandavano quell’odore così tipico di olio, fave, pesce conservato ed altro che si chiamava “riposto”. Ma ai tempi
miei queste dispense erano ridotte ad una stanza non
grande dove si conservavano pure i dolci per cui la Sicilia è famosa nel mondo, appunto dolci di riposto di
media e lunga durata: bocconotti, conchiglie, seni di
vergine, panzerotti, buccellati, gelati di campagna,
pasticciotti, pietra fendola e trionfo della gola».
«Nei cortili si aprivano i garage. Lo zio Alvaro aveva
comprato un’Isotta Fraschini nera, un’auto allo stesso livello della Rolls Royce inglese, un’auto dannunziana come poche, che lo zio non fece mai uscire dal
garage. La nostra era invece una Fiat modello 505 tutta verde, che veniva messa in moto con una manovella
inserita sotto il radiatore. Per l’illuminazione dei fanali ci
servivamo di un accumulatore, ma per evitare di uscire di
notte dalla Palermo-Messina, una stretta strada sterrata e
cosparsa di pietrisco, alzavamo una lanterna a petrolio. Per
arrivare allo Stretto da Palermo ci voleva un giorno intero e
a volte anche più. La macchina era stipata di valigie, scatole, vivande, copertoni, pezzi di ricambio. Si bucava mediamente due o tre volte durante il viaggio e, prima che lo
chauffeur rattoppasse la gomma e fossimo in grado di ripartire, passava un tempo interminabile. Ma quell’andare
precario e traballante, quelle automobili che sapevano più
di carretti a mano, seppure di lusso, rimangono nella memoria come delle escursioni in cui quando le cose andavano male in realtà erano andate benissimo».
“Le dispense della cucina
mandavano quell’odore tipico
di olio, fave, pesce conservato
che si chiamava riposto”
Repubblica Nazionale
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 1 APRILE 2007
Nell’aprile 1907 veniva pubblicato “La via del rifugio”,
il suo primo libro. Dieci anni dopo la raccolta
di reportage dall’India, “Verso la cuna del mondo”
Un doppio anniversario che invita a ripercorrere la breve vita
di questo autore che si attribuiva “poca voce”
ma che ha attraversato il Novecento con successo crescente
Guido
Gozzano
Il poeta di Nonna Speranza
postmoderno cent’anni fa
PAOLO MAURI
l 1907, per Guido Gozzano, fu l’anno del debutto. Aveva, fino ad allora, pubblicato qualcosa in piccole riviste, ma solo ora tentava il
libro. La via del rifugio uscì dunque ai primi
di aprile, esattamente un secolo fa, per i tipi
di Renzo Streglio, un editore di origine canavesana che aveva bottega nella Galleria Subalpina, in pieno centro di Torino. La madre di Guido,
Diodata Mautino, partecipò alle spese o se le accollò in toto, è un particolare mai chiarito fino in
fondo. Con la copertina disegnata da Filippo Omegna l’esile volumetto cominciava dunque la sua
carriera e il «bel Guido» con lui. Italo Mario Angeloni fu il primo a scriverne sul Momento, il quotidiano cattolico di Torino, in una nota dedicata a tre
libri di poesia, poi ci fu Francesco Chiesa e poi Francesco Pastonchi sul Corrieree diversi altri. Non ci fu
invece la critica di Dino Mantovani, che allora teneva cattedra sulla Stampa.
Una delusione? Sebbene ostentasse indifferenza il giovane poeta (aveva allora ventidue anni) era
tutt’altro che disattento a quanto lo riguardava. Basta leggere, in una lettera all’amico Carlo Vallini,
poeta anche lui e autore del poemetto Il giorno, la
reazione ad una nota del Momento successiva alla
recensione di Angeloni. Diceva, questa nota, che la
Direzione del giornale per rispetto del pubblico
doveva necessariamente dire «che tale volume è
macchiato da tali immonde sozzure e turpitudini
da doversi ritenere inutile qualsiasi ulteriore giudizio critico». Gozzano riceve il giornale a Camogli e
scrivendo agli amici una lettera collettiva così reagisce: «Ah, il Momento! Merda. Com’è divino il mare», e dopo la digressione marina organizza il contrattacco e cerca commenti sul commento del quotidiano: «Mi si vuole far passare per un rinnegato!
Ma — Cristo porco! — vi pare che ci sia in me la stoffa di un anticlericale?».
Il 1907 è anche l’anno in cui la tubercolosi, che già
si era manifestata anni prima, si acutizza: Gozzano
è al mare per curarsi, la medicina impotente lo invita a cercare «bei cieli più tersi»: un calvario che lo
porterà fino in India (come racconta in questa stessa pagina Federico Rampini) e si concluderà con la
morte precoce a soli trentatré anni, nel 1916. Ma
torniamo all’esordio: esile il libro lo era davvero.
Erano state eliminate, su consiglio di un altro intimo amico giornalista e poeta, Mario Vugliano, le
poesie meno originali. «La voce è poca» avrebbe
scritto di sé Gozzano. In un memorabile saggio Eugenio Montale fece i conti: La via del rifugio conteneva esattamente ventiquattro poesie e altrettante ce ne erano nei Colloqui, la raccolta del 1911 che
sarebbe stata il libro suo maggiore e definitivo. Se
si considera che due poesie dei Colloqui, la celebre
Nonna Speranza e Le due strade, figurano già nella
prima raccolta con qualche variante, si vede bene
quanto sia breve la via percorsa da Gozzano. Breve
e, se mi si passa l’aggettivo, miracolosa. È proprio
Montale a riconoscerlo: Gozzano attraversa D’Annunzio e se ne distacca, gli sopravvive proprio come si sopravvive ad una malattia. Ed è Gozzano
stesso, letterato malato appunto di letteratura, a
gioirne in versi e a ringraziare il buon Dio che poteva «invece di farmi gozzano / un po’ scimunito, ma
greggio / farmi g (abriel) dannunziano: / sarebbe
stato ben peggio!». E seguita: «Buon Dio e puro conserva / questo mio stile che pare / lo stile d’uno scolare / corretto un po’ da una serva...».
Il vezzo di nominare se stesso in versi, Gozzano
lo ebbe dunque da subito: sicché si può dire che
Guido Gozzano o meglio guidogozzano in tutte minuscole, è il vero personaggio della sua poesia, con
uno scarto che ne fa un esempio abbastanza unico,
a parte Dante, naturalmente. Ma quando dico “vero” non intendo dire “autentico” perché Gozzano
ama il falso e il primo falso è il proprio alter-ego
messo in versi: «Quello che fingo d’essere e non sono». La profondità della poesia gozzaniana sta tutta nel gioco che si instaura tra l’apparente e piana
narrazione di un mondo provinciale e borghese (il
I
salotto di Nonna Speranza, la villa della Signorina
Felicita) e la perfetta falsificazione del medesimo,
che sola lo rende perversamente godibile. Gozzano vive dunque di “citazioni”, di estratti, di esibite
malinconie e di improvvisi cambi d’abito, come
quando dice «sì mi vergogno d’essere poeta» annunciando d’aver intravisto in sé la «stoffa del borghese onesto». Cita il passato con la grazia e l’ostentazione di un preraffaellita, ma va più in là: l’alto e il basso in lui si congiungono (è lo “shock” delle cose stridule che notò Montale, il gusto di accoppiare le statue antiche con i prodotti dell’orto, i
porri e l’insalata).
Immaginiamo di “girare” le scene che avvengono nel celebre salotto di Speranza con un ritmo più
rapido: entrano gli zii «molto dabbene», la conversazione si fa cicaleccio, i frutti di marmo / protetti
da una campana di vetro / cadono a terra. Non è
quasi una farsa? In una lettera a Carlo Vallini, Gozzano immagina di tentar di chiavare Carlotta sul divano chermisi, ma non ci riesce perché teme l’arrivo degli zii. Goliardia? Gozzano, eterno studente in
legge che non si laureò mai, anche se nella Signorina Felicitasi rappresenta già Avvocato, fu anche un
goliarda e se ne tramandano le gesta innocenti, ma
qui c’è di più. Non sembrano le scene messe in piedi da Gozzano dei teatri di posa? La recitazione è
così perfetta che si teme lo stop del regista, ma recitazione resta. Gozzano finge tutto e si innamora
della sua finzione. Sicché la critica meno accorta
che si avvide solo dell’involucro esterno fece spallucce e si girò dall’altra parte, ma i lettori più fini a
cominciare da Renato Serra intravidero lo spessore di una avventura poetica che non cessava mai di
sorprendere.
E solo così si spiega il successo ormai, s’è detto,
secolare e le rinnovate letture che ogni generazione s’ingegna di aggiungere. Come dire: un’officina
sempre aperta che dal volume di Calcaterra e dai lavori di Giovanni Getto approda al già menzionato
saggio montaliano e all’exploit di Sanguineti, al
Meridiano curato da Andrea Rocca e, ancora, alle
indagini di Guglielminetti, Mondo, Contorbia,
Zaccaria e della Masoero. Non cito che qualche nome: all’Università di Torino è attivo un centro studi intitolato a Gozzano e da decenni si fruga tra le
sue carte, alla ricerca di qualche spicciolo in più.
Montale si domandava che cosa i posteri avrebbero pensato di lui e si provava a rispondere. Definito
crepuscolare da Borgese, Gozzano ha assunto le
vesti di un classico e insieme del primo poeta che
contrabbanda l’Ottocento in vesti novecentesche.
Non mi stupisce affatto, in un recente studio di
Giuseppe Zaccaria, vederlo diventare “postmoderno” con un vertiginoso aggiornamento, se non
altro lessical concettuale, che tuttavia rende
bene l’operazione, esibita, del riuso. Ricordate l’inizio di Totò Merumeni? «Col
suo balcone incolto, le sale vaste i bei
/ balconi secentisti guarniti di verzura, / la villa sembra tolta da certi
versi miei, / sembra la villa tipo, del
Libro di Lettura». Smontare una
poesia gozzaniana non è cosa da
poco: si trova sempre un altro sottofondo: l’ironia è una forma di
chiaroveggenza.
Congediamoci da lui frugando nella
soffitta di Villa Amarena, dove si aggirano
i fantasmi del Passato. «Tra i materassi logori e le ceste / v’erano stampe di persone egregie; /
incoronato delle frondi regie / v’era “Torquato nei
giardini d’Este”. / “Avvocato, perché su quelle teste
/ buffe si vede un ramo di ciliegie?”. / Io risi, tanto che
fermammo il passo, / e ridendo pensai questo pensiero: / Oimè! La Gloria! Un corridoio basso, / tre ceste, un canterano dell’Impero, / la brutta effigie incorniciata in nero / e sotto il nome di Torquato Tasso!». Pensava a se stesso? Può darsi. È allora che con
gesto gozzaniano guarda dall’abbaino il panorama,
deformato dal vetro: «Non vero (e bello) come in
uno smalto / a zone quadre, apparve il Canavese». E
rende per sempre “sua” la sua terra.
Repubblica Nazionale
DOMENICA 1 APRILE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
AUTORITRATTO AL FEMMINILE
Qui accanto due fogli di una lettera
in cui Gozzano si disegna in vesti
femminili (dal libro Lettere a Carlo
Vallini con altri inediti, a cura
di Giorgio De Rienzo, Torino, Centro
studi piemontesi, 1971). In basso,
il poeta fotografato con la madre
Nell’illustrazione al centro,
Gozzano visto da Tullio Pericoli
E la sacerdotessa-prostituta
gli svelò i misteri indiani
FEDERICO RAMPINI
a bellezza e la grazia raggiunge nelle donne una perfezione forse eccessiva: si direbbe che avanzano a un
passo di danza, avvicendando i piedi nudi e gemmati
sulla stessa linea retta, il che fa ondulare le anche con un ritmo
procace, mentre le braccia ignude, cerchiate di smaniglie, sono
sollevate in alto ad equilibrare strane anfore di argilla variopinta o di rame».
Guido Gozzano, autore di questo ritratto della femminilità
orientale, era arrivato in India nel febbraio 1912 per una ragione improbabile: curarsi. I medici italiani gli avevano suggerito
di andare nel Paese dei monsoni, infestato dalle epidemie, a cercare «un clima favorevole ai polmoni malati». Lo scrittore ne approfitta per inviare alla Stampa di Torino un diario di viaggio a
puntate. La raccolta viene pubblicata dagli editori Treves nel
1917 con il titolo Verso la cuna del mondo. Gozzano giunge in India con le aspettative favolose che su quel Paese si erano stratificate in secoli di “fantasie orientali”. L’opulenta Golconda rivaleggiava con i luoghi delle Mille e Una Notte nell’immaginario
degli italiani. Sull’induismo lo scrittore è impregnato dei pregiudizi dei missionari, ma impara a correggerli sul luogo. Dallo
sbarco a Bombay all’esplorazione delle coste meridionali, Gozzano si libera di quello che credeva di sapere, si lascia trasportare dalla potenza dell’impatto con l’India. Pratica uno stile di
scrittura sobrio, fatto di lievi tocchi impressionistici: gli consente di raccontare un viaggio intimo nelle proprie emozioni, e insieme di raccogliere con delicatezza i dettagli dei paesaggi, l’umanità, i costumi.
Lo shock dell’incontro fra le religioni è uno dei motivi di spaesamento. Arrivato a Goa, ex colonia portoghese, Gozzano ricorda che «il cristianesimo fu predicato in questa parte dell’India da San Tommaso, qui dunque si pronunciava il nome di Cristo quando l’Europa era ancora pagana, è un pensiero che dà
quasi uno sgomento d’esotismo estremo, di lontananza misteriosa nello spazio e nei secoli». Goa lo turba per le rovine imponenti della civiltà latino-cristiana dei colonizzatori, sfigurate
dalla natura tropicale. «Sosto nella frescura ombrosa d’un
frammento di volta a sesto acuto, rimasto in piedi per prodigio,
poiché sorretto da un solo muro superstite. La mia nostalgia
s’illude per un attimo d’essere in una chiesa diroccata della Romagna o dell’Abruzzo. Ma tre scimmie oscene — vero simbolo
apocalittico di Satanasso — occupano il vano dell’abside, una
frotta di pappagalli minuscoli corre sulle quattro ogive; non l’edera, non la lucertola amica animano la pietra morta, ma uno
strano rampicante dai fiori sogghignanti, e i camaleonti diabolici, dagli occhi strabici».
Non appena s’imbatte nei missionari percepisce la loro ripugnanza per i culti locali, che al cattolico sembrano intrisi di
una sensualità morbosa. Eccolo in un tempio di Madurai nel
Tamil Nadu: «Passa il corteo di Parvati portando in giro l’immagine della moglie di Siva; il feticcio, pupattola d’oro massiccio, dalla vita sottile, dai seni turgidi, dagli occhi d’onice incastonato sotto l’alta mitra ingioiellata, appare, dispare attraverso le cortine della ricca portantina. Accompagna la scena
un rombo di tam-tam, uno stridìo discorde di trombe e pifferi, incutendo nell’anima del forestiero un senso di paurosa
diffidenza, come un mistero tetro e grottesco. Ovunque nel
tempio famoso è una profusione di tesori e l’incuria più laida.
Un’infinità di lampade votive disegnano gli idoli colossali. Veramente non pensavo di trovare così intatta l’India favolosa,
le forme imparate a conoscere fin dall’infanzia sulle incisioni
e sui libri. È questa la terra di Brama? Di Brama l’ineffabile, colui che non dobbiamo nominare, se vogliamo che sia presente? Ma qui il nome divino è feticismo immondo, praticato da
un popolo forsennato che ha ridotto le speculazioni astratte a
un simbolismo pazzesco; un popolo che adora questi simboli e li ignora, un popolo che si genuflette, grida, invoca e non
sa chi, non sa che cosa».
Lungo il viaggio le resistenze di Gozzano verso le liturgie locali si attenuano, lasciano il posto alla simpatia. La spiritualità locale gli impone severi paragoni con l’Occidente. L’emozione più forte lo coglie a Benares sul Gange, il fiume sacro dell’induismo dove si celebrano anche i funerali. «Sono le sette,
l’ora della preghiera mattutina. E tutto ciò che vive scende verso il fiume. Dalle scalette tortuose tra palagio e palagio scende una folla varia, densa, incessante; uomini, donne, fanciulli, vecchi, giovani fachiri, pellegrini. E tutti pregano e meditano. La mia barca passa loro innanzi, deve deviare per non urtarli, ma quelli mi fissano e non mi vedono. Il loro sguardo è al
di là, la loro anima è perduta negli abissi dell’ineffabile. Strana città dove tutti credono! Perché molti di costoro non sono
fachiri, né santi, né pellegrini. Sono uomini di venti, di
trent’anni, vigorosi e sani: artigiani, mercanti, soldati, operai
che risaliranno le scalee per riprendere la lotta consueta, che
rientreranno nella vita, ma che ogni giorno, due volte al giorno, scendono nella morte, s’immergono nel fiume a colloquio
con la propria anima, per prepararsi quotidianamente al trapasso inevitabile. Odioso confronto coi nostri uomini, con i
nostri borghesi occidentali che ignorano ogni cosa dell’anima, deridono ogni scienza dello spirito».
Gozzano incontra una figura oggi ufficialmente scomparsa
perché fuorilegge, la Devadasis che pratica la prostituzione sacerdotale, «ancella di dio» di famiglia nobile istruita nello studio
del sanscrito, dei poemi sacri, del canto e della danza. Arrivata
alla pubertà «il fiore della sua bellezza deve essere raccolto da un
protettore di stirpe nobile, un nabab che sarà legato a lei con un
vincolo indissolubile». Questo legame inizia da parte della sacerdotessa «un tenor di vita che a noi parrebbe della più spudorata infedeltà. Poiché da quel giorno essa è addetta al culto di
Ramba-Devi, la Venere del Paradiso d’Indra, attende a cerimonie non descrivibili, ed è offerta dal sacerdote a tutti quei devoti
d’alta casta che pagano un obolo adeguato». Gozzano non si fa
velo della morale cattolica. «Sono i venti secoli di cristianesimo
che dinanzi a tali consuetudini ci fanno arrossire di pudore o
sorridere di malizia. Noi non possiamo comprendere un culto
erotico». Viene invitato a casa di un bramino ad assistere alla
danza recitativa di una Devadasis, rimane affascinato dal movimento delle mani. «All’estremità delle braccia immobili, s’agitano con un movimento vertiginoso di rotazione e di distorsione che sembra sconvolgere ogni legge anatomica. Hanno un officio importantissimo: disegnare lo scenario e le didascalie. Sulla misera cortina di stuoia appare la reggia favolosa, la riva del
Gange, il paradiso di Indra. La sola mimica della donna basta a
rivelarmi che in quell’istante la regina agonizzante giunge sulla
riva del fiume, scende nelle acque sacre. Il dolore, l’ansia, si tramutano in una gioia che fa del volto contratto un mistero di delizia. La morente rivive, invoca l’Eros dell’Olimpo bramano in
una strofa erotica che certo non troverebbe veste decente in nessuna lingua europea, e la mimica si esprime con un’intensità
che dà il brivido: brivido d’amore, brivido di morte. La donna arrovescia il capo, lo rialza; il suo volto è calmo, è uscita dalla ruota dell’esistenza, è giunta nel regno dell’impossibile: il non essere più, la grazia le è stata concessa nell’amplesso di Dio».
Sotto l’Impero britannico l’India che visita Gozzano sembra
segnata dal Kamasutra più che dal puritanesimo. Negli stessi
anni Edward M. Forster sta scrivendo Passaggio in India, il romanzo dove la suggestione sensuale travolge una giovane inglese, convincendola di essere stata vittima di uno stupro, mentre visitava in preda al turbamento le mitiche grotte di Marabar.
FOTO GRAZIA NERI
«L
La sua opera è come un’officina
sempre aperta, rileggere
e smontare oggi le strofe
gozzaniane riserva ancora
sorprese: il componimento
è pieno di doppifondi, l’ironia
è una forma di chiaroveggenza
Repubblica Nazionale
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 1 APRILE 2007
la lettura
Marocco nascosto
È passato molto tempo, un grande scrittore misura
con i suoi passi e i suoi sguardi la medina dell’antica
capitale dove è nato. Un viaggio che incrocia la memoria
e il presente, un arco di anni che ha trasformato
questo dedalo-gioiello pulsante di vita e di storie
in una vetrina dal cuore straziato e dall’anima assente
Ritorno a Fès, città delle città
TAHAR BEN JELLOUN
È
FÈS
passato molto tempo prima che riuscissi a ritornare a Fès che, con i miei
genitori, avevo lasciato nel 1955. Un
bambino di dieci anni non può apprezzare le bellezze e il valore di una medina
fondata nell’808 e che da allora non è cambiata.
È come se, per imparare a leggere, ti dessero da
decifrare un immenso manoscritto la cui bellezza e ricchezza non appaiono immediatamente. Non eravamo consapevoli di abitare in
una città storica, culla dei principali elementi
della cultura araba e musulmana. Ricordo una
città dalle viuzze strette, con i quartieri definiti
dalle corporazioni artigiane. Ricordo che le famiglie di Fès avevano un’alta opinione delle
proprie origini e che le altre città del Marocco
non potevano che essere sbiadite repliche della città delle città, Fès. Ho vissuto la mia infanzia in questa medina e non ricordo di essere stato molto felice. D’inverno faceva molto freddo,
d’estate molto caldo. Tuttavia nella mia memoria sono rimaste le pepite di qualche ricordo.
***
Fès, primavera 1951
Stamattina mia madre si è alzata molto presto.
Fa le pulizie di casa. Mio padre è andato a fare la
spesa al mercato. Mi ricordo che è uscito con due
grosse sporte in mano. Mia madre è nervosa. Ha
saputo soltanto ieri che il mio zio di Tangeri sarebbe venuto a passare qualche giorno di vacanza da noi. È un uomo esigente. Bisogna riceverlo come si deve. Non una nota stonata. Non
una traccia di polvere. Si dice che sia maniacale,
e lo stesso vale per sua moglie. Arrivano con tre
dei loro bambini. Panico. È la prima volta che
vengono a casa nostra. L’anno scorso hanno
ospitato i miei genitori nella loro casa di Tangeri per quasi un mese. Mia madre è sola. Sale sulla terrazza e chiama la vicina migliore: mi aiuti?
Puoi chiedere a Fdela di venire a darmi una mano? Ma certo, siamo vicine e amiche.
Mio padre arriva seguito da un portatore, che
a Fès chiamano zerzay. Ha comperato tutto ma
ha dimenticato il coriandolo e lo zafferano puro.
Ah, la rabbia di la mia madre quando se ne accorge! Hai dimenticato le cose più importanti!
Mio padre cerca di placarla. Niente da fare, bisogna tornare al mercato, nel quartiere Rciff da
Si Larbi, l’unico ad avere lo zafferano puro, non
adulterato, mentre il coriandolo occorre andarlo a prendere a Benjbara. Il treno arriva a fine
giornata. Fdela prepara il salotto e le camere. Per
fortuna, il periodo del grande freddo è finito. I
bambini dormiranno sui materassi del salotto,
mio zio e sua moglie nella camera dei miei genitori, segno di grande ospitalità. Mio padre osa ricordare a mia madre che loro avevano dormito
nella camera del figlio maggiore di mio zio, che
studiava in Spagna. Mia madre protesta: io,
quando ricevo qualcuno, ai miei ospiti offro il
meglio, preferisco privarmi di qualcosa ma voglio che siano ricevuti nelle migliori condizioni
e si trovino bene. I miei principi, la mia educazione sono così. Mangerò gli avanzi. Esageri, le
dice mio padre. Faccio quel che faccio perché è
la tua famiglia, è normale che sia nervosa e attenta al minimo dettaglio.
Mio padre ha assoldato uno zerzay e un
mulattiere. È andato alla stazione. Mia madre ha finito di preparare tutto e si riposa in
un angolo del salotto. Si è assopita.
Arrivano a tarda sera. Nessuna voglia
di cenare. Mia madre è delusa. No,
crolliamo dal sonno. Tutto il cibo cucinato è rimasto nelle pentole. Per fortuna che non era estate. Non avevamo
un frigorifero. La mattina dopo, mio
zio ha distribuito i regali. Un bel tessuto per mia madre, un taglio di flanella per mio padre, per me e mio
fratello e una stilografica Parker e
due vasetti di marmellata di fragole.
Ah, la marmellata! Che sapore
raffinato, con quei pezzi di frutti di
cui non conoscevo l’esistenza,
quel retrogusto ruvido e morbido allo stesso tempo, che cosa nuova e buona… Mia madre aveva nascosto i barattoli in cima alla credenza. La notte,
mio fratello e io ci alzavamo e partivamo alla ricerca di quei vasi che contenevano il sapore del paradiso.
***
Fès, febbraio 2007
Vista dal terrazzo dell’hôtel Palais Jamaï, la medina è una vecchia signora di un silenzio e di una
calma sorprendenti. Se non ci fossero sullo sfondo le stratificazioni del fumo nero liberato dai
forni dei vasai, verrebbe da credere che Fès fosse morta, di trovarsi davanti a una tomba fatta di
pezzi accatastati uno sopra l’altro e di tetti ingombri — ahimè — di parabole e di antenne. La
medina è un mistero muto. Non lascia trasparire nulla. Nessuna spiegazione, nessun segno
che ti guidi sul percorso per comprendere la città
e ciò che nasconde dietro le sue pietre e i suoi silenzi. Fès è lì, imperiale come dicono gli opuscoli
turistici, indifferente al mondo diremmo noi,
ma di un’indifferenza che deriva più dalla maestosità che da una volontà di essere al di sopra
delle altre città.
Per molto tempo i nativi di Fès sono stati convinti che la loro città fosse speciale e fuori portata, che le altre città non potessero essere che surrogati della città delle città.
La medina è incustodita. È stata abbandonata. Quelli che l’hanno amata non ci sono più. Le
famiglie si sono spostate verso l’uscita, dove i
Francesi hanno costruito delle case. La chiamano “la città nuova”. Non è più nuova, ma sempre
brutta, senza interesse. Quelle stesse famiglie si
sono spostate ancora più lontano, a Casablanca, città degli affari, del commercio e dell’innovazione. Ci si è abituati ad assistere all’agonia
della medina. Le pareti si sono crepate, le terrazze si sono infossate, le viuzze sono diventate
strette. Pilastri di legno e di ferro tengono in piedi case stanche che minacciano di crollare. Dodici secoli di vita e l’assenza di manutenzione
hanno finito per sfigurare una civiltà.
È il tempo della sopravvivenza. Va tutto al rallentatore. I quartieri che portano il nome dei mestieri non hanno più rapporto con il significato
originario. Si fa artigianato ma i turisti scarseggiano e la medina soffoca.
Sono le ingiurie del tempo. Si tenta di rimediare, di apportare qualche correzione. Questo
recente sussulto lo chiamano restauro. La pietra, il legno, il marmo e lo stucco vi si prestano,
ma l’uomo, il bambino dei vicoli bui, il gruppo
dei ricordi, le esalazioni di odori nauseabondi o
di profumi sofisticati, tutto quello che costituisce il cuore di una città, come restaurarlo? Da che
parte cominciare? È un’altra questione, una sfida difficile.
Una città così carica di storia che vacilla sotto
il peso di ciò che porta o di ciò che le fanno portare, un peso che varia secondo gli sguardi che
l’attraversano. Cosa mostrerà a quell’americano fiero di aver osato fare il turista in un paese
musulmano, un uomo che osserva la pietra e
cerca in un libro la pagina corrispondente? Fès
non mostra niente. Certo, espone i suoi mestieri più o meno ben fatti, vende i prodotti dei suoi
artigiani e passa il tempo ad aspettare. Forse a un
profeta verrà l’idea di fermarsi a Bab Mahrouk,
una specie di risposta a Eboli, dove, almeno in
un romanzo, sembra che Cristo si sia fermato.
Bab Mahrouk! La Porta del Bruciato! Chi sarà
stato l’infelice che ha dato questo nome a un posto così importante, in mezzo all’arteria più lunga della medina?
Arrivando nel quartiere di Shrabliyen, dove lo
Stato sta restaurando la moschea costruita nel
1206, sento delle grida. Un litigio. Alcuni curiosi
tendono l’orecchio. Non capisco i termini della
lite. Mi fermo e mi appoggio alla porta della bottega di un artigiano che vende graziose babbucce. Mi dice: si vede che sei di Fès, ma di quale
quartiere, di quale epoca, di quale ramo? Uno di
Fès si riconosce subito: l’eleganza, vecchio mio,
e poi la presenza, la raffinatezza... come ti chiami? Ah, sei un jellouni, i tuoi antenati hanno dovuto lasciare la Spagna in fretta e furia, più di cinquecento anni fa! Di quale ramo? Siete fehri,
touimi, o benjelloun dell’Andalusia? Tuo padre
non è quello che aveva il deposito al Diwane,
quel grande negozio di spezie all’ingrosso, erano due fratelli, di fronte alla piccola moschea...
persone perbene, gente di qualità... oggi è meglio non andare vedere com’è diventato il loro
negozio. Ci vendono plastica importata dalla Cina. Ah, questa Cina che ci invade delicatamente, in silenzio, vedi questi babbucce fatte a mano, certe volte ne trovo a un decimo del costo di
produzione, semplicemente fatte in Cina, ma gli
esperti non comperano la merce fabbricata in
Cina alla bell’e meglio, vengono da me, non sono numerosi quelli che preferiscono la qualità e
sono disposti a pagare il giusto prezzo! Me lo ricordo, tuo padre, non è mai stato alla Mecca, era
l’unico a dire che il pellegrinaggio era diventato
soltanto un pretesto commerciale. Siediti, che ti
ordino un tè. Devo raccontarti la storia di queste
urla. È la storia di una donna — non è delle nostre parti, voglio dire che non è una di Fès, qui dei
dintorni, forse è di Fassjdid, la città nuova, il marito ha divorziato e l’ha lasciata con tre bambini.
Succede sempre più spesso, con i tempi che corrono; prima non divorziava nessuno, si litigava
ma non si abbandonava per la strada la madre
dei propri figli. Il marito, un uomo di Fès, uno
istruito, non andava più d’accordo con la moglie
e soprattutto con la famiglia di lei che era sempre lì a metter becco nei fatti loro. Alla fine è scappato, ma si è comportato bene: le passa un buon
mensile, è un uomo ricco. Le ha lasciato la casa
e continua a provvedere alle necessità di tutti. È
molto generoso e per nessuna ragione al mondo
lascerebbe i suoi figli in condizioni di necessità,
ma la donna, istigata dalla madre, è diventata insopportabile. Soffre, grida e vuole distruggere
tutto. La sua sofferenza deriva dal fatto che l’ex
marito si è risposato e la nuova moglie ha appena partorito. È gelosa da impazzire. Un giorno ha
tentato di pugnalare la nuova moglie, ma qualcuno è intervenuto e il dramma è stato evitato. È
accecata dalla gelosia. Ha buttato fuori di casa il
figlio maggiore perché si è avvicinato al padre ed
è diventato suo complice. Lo detesta, lo rinnega
e l’altro giorno gli ha strappato tutti i vestiti e i libri. Ha perso la testa e vedeva suo figlio come il
suo peggior nemico semplicemente perché andava d’accordo con la nuova moglie del padre.
Qualcuno le ha consigliato di sporgere denuncia contro questo figlio che si è messo dalla parte sbagliata. Stamattina è fuori dai gangheri perché, appena ha sporto denuncia, il figlio è stato
messo in prigione. Già, devi sapere che, in Marocco, se un genitore denuncia il proprio figlio,
la parola del genitore non viene messa in discussione e il giudice non ha bisogno di testimoni per punire il figlio. È molto raro che succeda, qui da noi, ma la follia ha spinto questa donna a commettere l’irreparabile. Nella denuncia,
redatta dal padre della donna, il ragazzo era accusato di aggressione all’arma bianca nei con-
Era il 1951, lo zio di Tangeri
mi regalò una marmellata di fragole:
che cosa nuova e buona, con quei
pezzi di frutto che non conoscevo...
fronti della madre. È dovuta andare dal giudice a
piangere tutte le sue lacrime davanti a lui per
convincerlo a far rilasciare il figlio arrestato. Ha
ritirato la denuncia e il giudice ha minacciato di
farla perseguire per abuso di ricorso alla giustizia. Ecco perché è tutta la mattina che strilla. Nel
frattempo, il figlio si è trasferito definitivamente
a vivere dal padre. Vedi, all’epoca dei tuoi genitori queste cose non succedevano. Oggi, i giudici sono sommersi dalle domande di divorzio.
Tutto sta cambiando e Fès non è più in Fès, poveretta, è cambiata molto, si è svuotata dei suoi
abitanti, quelli che ne sono degni e la conoscono
bene. Oggigiorno quelli che ci abitano sono stranieri, voglio dire contadini, brava gente ma ignoranti che non sanno dove stanno... è su Fès che si
dovrebbero versare lacrime, non su un marito
che se ne va…
***
La fontana Nejjarine è stata restaurata. È su
tutte le cartoline. Il ministero degli Habus sta
restaurando la Qaraouiyine, la prima università araba e islamica al mondo fondata da una
donna. Ci sono i lavori in corso anche in una
parte del mausoleo di Moulay Idriss. Ma Fès è
stanca, forse malata, e non sopporta più il peso del tempo.
Questo patrimonio universale crolla sotto il
peso dei suoi occupanti. Per restituirlo all’estetica e alla bellezza delle origini, occorrerà
svuotarlo dei suoi abitanti, cosa impossibile e
che nessuno desidera. Infatti Fès è anche gli
uomini e le donne che la riempiono, che le
infondono il suo soffio umano. Tra la pietra e
la persona, la scelta è presto fatta: la persona.
***
Dopo questa visita alla medina, esco dallo
Rcif passando da Bab Sidi El Aouad e mi ritrovo su una piazza trasformata in parcheggio
per automobili. L’asfalto si è mangiato una
parte della medina, sul lato verso Bou Ajara.
Nella mia infanzia le macchine venivano tenute a distanza. Arrivavano fino alla Batha o
davanti alle porte principali della città, come
D’estate, la siccità delle pietre
si combina con l’ebbrezza della luce
che scende nelle case senza tetto,
case aperte sul cielo
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
FOTO CORBIS
DOMENICA 1 APRILE 2007
Bab Ftouh, Boujloud, Bab El Khokha.
Quando il marito di mia zia veniva a trovarci,
lasciava l’auto all’entrata di Bou Ajara. Io correvo a vederla, a toccarla, ad annusarla. Adoravo
l’odore di benzina che sprigionava. Per me era sinonimo d’evasione, di sogno, di viaggio e soprattutto di entrata in un altro mondo, il cosiddetto mondo moderno. La modernità, all’epoca, si definiva con oggetti e tecniche importati
dall’Europa. Noi bambini della medina, vivevamo ancora nella Jahilya o quasi. Mio padre mi
raccontava di come il figlio primogenito dei nostri vicini fosse riuscito, dopo una lunga lotta, a
convincere il nostro vicino, un nazionalista piuttosto rigoroso, a lasciarlo andare in Francia per
gli studi superiori. Il ragazzo, vestito in maniera
tradizionale, un giorno partì per Casablanca dove prese una nave che lo condusse a Marsiglia, di
là poi prese un treno e arrivò a Parigi dove il direttore del Politecnico lo stava aspettando, perché era il primo marocchino a iscriversi in quella scuola importante. Era curioso di vedere che
aspetto avrebbe avuto questo giovane che arrivava da un paese vicino, protettorato francese,
ma anche da una società rimasta praticamente
nel medioevo. Era subito dopo la guerra. Il futuro studente del politecnico aveva dovuto lasciare Fès in jellabae séroual. Arrivato a Casablanca,
si comperò un completo occidentale e passò dal
parrucchiere a farsi tagliare la treccia, segno di
appartenenza ad una vecchia tradizione.
Un anno dopo, il giovane tornò a trascorrere
le vacanze in famiglia. Il padre, fiero ma ansioso,
gli chiese: come hai passato il mese di ramadan?
Facevi tutte le preghiere? Aveva paura della contaminazione dell’occidente, paura di perdere il
proprio figlio, paura che la lingua francese gli rapisse quel figlio che era stato tanto brillante negli studi della lingua araba.
Aveva motivo di temere tutte queste cose. Citava l’esempio del figlio di un amico, partito per
andare a studiare medicina a Bordeaux, che non
soltanto perse la fede ma sposò una francese e rinunciò agli studi. Non osava più ritornare a Fès:
si vergognava e non aveva il coraggio di affrontare l’ira del padre.
LUOGO SACRO
Fès, considerata il centro
spirituale del Marocco,
è stata fondata sul finire
dell’Ottavo secolo
da Idris I , discendente
di Maometto. Il figlio Idris II
la elesse capitale
della sua dinastia nell’808
Rimase tale con alterne
vicende per secoli fino
a quando, sotto il protettorato
francese, perse questo
status in favore di Rabat
In questa medina, molti uomini sono nati,
hanno frequentato la scuola coranica, hanno lavorato duramente, non sono mai andati al mare
ma non si sono mai lasciati sfuggire i piaceri della primavera: gite in campagna alle fonti termali di Sidi Harazem per gli uni, soggiorni terapeutici ai bagni di Moulay Yacoub per gli altri. Rituali che i bambini adoravano e che davano molto
lavoro alle donne, perché si stava via per due o tre
settimane, andando ad abitare in case senza comodità dove, per garantire un soggiorno felice
alla famiglia, bisognava farsi in quattro. Oggi le
due stazioni balneari sono state modernizzate e
il rituale è stato abbandonato. L’acqua di Sidi
Harazem viene imbottigliata e Moulay Yacoub è
diventato un centro di cure per psoriasi e reumatismi.
A Fès il mistero non c’è più. Si è spostato o forse è proprio scomparso. Quando ti dicono che il
nome di Fès non ha alcuna ambiguità perché lo
storico di Cordova Er-Razi (Decimo secolo) lo ha
spiegato così: «Mentre facevano gli scavi per le
fondamenta, portarono alla luce un piccone
(fas) così fu chiamata madinat Fas (la città del
piccone)», non si può non restarne delusi.
«La Città del Piccone»! La Città delle città porta il nome di un attrezzo! La gente di Fès rifiuta,
ovviamente, quella spiegazione. Per loro Fès
non ha nessun bisogno di giustificare il suo nome. Non è una questione di logica. A Fès non si
chiede conto di nulla. Fès è eterna, con la sua luce filtrata dai graticci di canne, con le sue pietre
larghe e i profumi raffinati. La popolazione è
cambiata ma i luoghi non si sono mossi. Attraversandoli, si scopre ogni volta un’impressione
nuova o si rettifica la dimensione dei ricordi. Per
me è un esercizio violento e necessario: la memoria mi raccontava una storia dopo l’altra, mi
ILLUSTRAZIONE DI GIPI
prendeva in giro, trasformava la casa della mia
infanzia in un palazzo immenso, infondeva nel
chiaroscuro dei vicoli una luce sublime, spingeva le pareti per allargare gli stretti passaggi in ampi viali inondati dal sole.
Tra la Karaouiyine e il mausoleo di Moulay
Idriss ci sono solo negozi. Prima, ogni strada era
riservata a un commercio preciso: mercanti di
candele, profumieri, venditori di babbucce, tessuti e ricami... oggi, le cose si mescolano e le botteghe artigianali hanno ceduto il posto ai bazar
per turisti. La mia memoria si smarrisce, ci annega dentro come per non vedere come è cambiata la mia città. Non ricordo più i posti e le cose. Per ricostituire le tracce d’infanzia mi devo
sforzare.
«Si viaggia soltanto per conquistare o per farsi
conquistare», scriveva André Suarès in Le voyage du Condottière. Quando torno a Fès sono
spinto dall’idea di conquistare non la città ma un
aspetto della città che mi è sfuggito molto tempo fa. Ho un bel girovagare, esplorare luoghi e
persone, posso anche chiudere gli occhi e cercare in lontananza un profumo, un viso, un’emozione: non trovo nulla. Sconcertato, amareggiato e pieno di rammarico. Non sono più conquistato. Mi sento contraddetto e contrariato. Allora mi dico che dev’essere così per tutti, con la
propria città natale.
***
Anima ardente, spirito di una passione o di
una nevrosi incurabile, Fès abita il cuore e la sensibilità di tutti coloro che ci sono nati. Il mondo
si rivela lì, la vita si manifesta in un’evidenza contagiosa. Anche dopo che l’hai lasciata, non si assenta mai, rifiuta ogni tentativo di oblio, si erge
nella memoria e non si lascia intaccare.
Mi ricordo i giardini interni e quegli appartamenti quasi sospesi in mezzo agli alberi rigogliosi. Li chiamavano messryia, con una parola
che probabilmente viene da Massr, l’Egitto. Ma
per quale motivo? La messryiafungeva da rifugio
per un ragazzo, un po’ come una garçonnière o
un monolocale per studenti.
D’estate, la siccità delle pietre si combina con
l’ebbrezza della luce che scende diretta nelle case senza tetto, case aperte sul cielo, che ricevono
più sole che pioggia, una siccità che malgrado
tutto rende le case felici. Tutte le famiglie si conoscono, si osservano e si giudicano. Guai a colui che esce dal cerchio, a colei che prende la
strada dell’avventura verso un paese straniero,
che magari è poi la città accanto o la collina che
la separa da Fès. A Fès, non ci si mescola con nessuno, si persevera nella stirpe, si coltiva l’origine,
si affinano i legami, si canta insieme, si piange insieme, ci si sposa e non si divorzia.
Quell’epoca è passata. Fès non è più un gioiello prezioso ed unico. Ormai è soltanto una vetrina dal cuore straziato, forse perfino dall’anima
assente, disillusa, inconsolabile.
Vedere la medina da una terrazza lontana, osservarla come una natura morta animata dalle
piccole luci che disegnano finestre minuscole,
lucernai dai quali passa la felicità. Si immagina
che le piccole case siano felici, piene di bambini
e di allegria. In arabo, quando si vuole augurare
del bene a qualcuno, si dice «Dio riempia la tua
casa». La solitudine non è gradita né ricercata.
A Fès, l’individuo non esiste. Non è assolutamente riconosciuto. La prima domanda che ti
fanno è: di che famiglia sei? Di quale ramo, precisamente? Ah, sei il figlio di... Ah, che famiglia,
che Dio riempia eternamente la sua casa! Esiste
invece la famiglia, la grande famiglia, quella che
dà il senso alle cose, quella che disegna le linee e
i percorsi, quella che decide e tiene le fila.
Fès è stata per molto tempo un raggruppamento di grandi famiglie, quelle venute dall’Arabia, discendenti della stirpe del profeta, i chorfas, i nobili, e quelle espulse dall’Andalusia da
Isabella la Cattolica. Queste ultime si sono mescolate: musulmani ed ebrei hanno vissuto insieme la tragedia. Alcuni ebrei si sono convertiti
all’islam e questo spiega come grandi famiglie
musulmane di Fès portino nomi d’origine
ebrea: i Kohen, i Ben Chakroun, eccetera.
Tutte le famiglie si conoscono, si rispettano, si
osservano, talvolta si invidiano, si frequentano e
naturalmente si sposano. A tenerle unite è soprattutto un codice di civiltà, leggi non scritte ma
seguite con eleganza e naturalezza. Le feste rituali sono momenti in cui queste leggi entrano
in gioco. Questo codice comprende anche quello dell’abbigliamento e quello delle spezie, cioè
della cucina.
La cucina di Fès è un punto d’orgoglio, come un vestito da cerimonia, un caffettano ricamato di fili d’oro e d’argento, una sorta di alchimia in cui l’arte della buona tavola è fondamentale. Per fare qualsiasi cosa bisogna
prima sedersi attorno a un tavolo basso e rotondo. La cucina di Fès è la sorgente principale della cucina marocchina che ha il senso della diversità, dell’innovazione e della ricerca.
Oggi che le grandi famiglie di Fès hanno lasciato la città, la sua cucina viaggia con loro attraverso il Paese.
Traduzione di Elda Volterrani
Il testo fa parte dell’opera Marocco Roman
che l’autore sta preparando per Einaudi
Repubblica Nazionale
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 1 APRILE 2007
D.A. Pennebaker girò nel 1965 il tour del “menestrello” in Gran Bretagna
Nacque il primo rockumentario della storia, “Don’t look back”
Quarantadue anni dopo, quel film-culto viene
ripubblicato in cofanetto con rarissimi contenuti extra
Il regista ottantaduenne ricorda quell’avventura a partire
da quando il suo socio disse del musicista: “E chi è?”
Dylan
Bob
Fotogrammi dai ’60
così nasce una rockstar
“Accanto a lui
c’è Joan Baez, la sua
musa. Sono molti
i momenti in cui
compongono insieme,
ma si intuisce una
sorta di insofferenza
verso di lei”
GIUSEPPE VIDETTI
l giorno in cui il manager Albert
Grossman, varcò quella soglia,
quarantatré anni fa, trovò esattamente lo stesso disordine. «Cercavo il signor D. A. Pennebaker», disse a Richard Leacock, il socio in affari del regista,
«volevo proporgli di girare un film su Bob
Dylan». «E chi è Bob Dylan?», rispose Leacock. Grossman non si scoraggiò, tornò il
giorno dopo e chiese a Pennebaker in persona se voleva filmare il tour inglese del
suo giovane pupillo. Pennebaker accettò
e le quattro settimane di quella primavera del 1965 in cui con una sedici millimetri seguì ogni spostamento del menestrello in Gran
Bretagna servirono
a raccogliere le immagini per uno dei
più
acclamati
esempi di cinéma
verité e per il primo
“rockumentario”
della storia. Don’t
look back, presentato in anteprima a
San Francisco, non
senza polemiche, il
17 maggio 1967, viene riproposto quarant’anni dopo in
un cofanetto in vendita dal 20 aprile che
contiene il film originale, un dvd di
inediti, il flipbook
del video-cult Subterranean homesick blues e il libro con i
dialoghi pubblicato nel 1968 e mai più ristampato (Ed. Sony/Bmg, 152 minuti, 40
euro).
Lo studio di Pennebaker, il regista che
oggi ha ottantadue anni, è un cimelio da
modernariato. Si trova in una palazzina
prestigiosa dell’Upper East Side di
Manhattan ristrutturata di fresco, ma l’interno dell’appartamento non tradisce
nessun segno di modernità. È come entrare in un libreria antiquaria, lo stesso
odore penetrante, la stessa inquietante
penombra: ovunque vecchi libri, vecchi
giornali, vecchie locandine, persino una
macchina per scrivere che non dà l’idea di
essere inutilizzata. Le cerniere dei vecchi
armadi stanno cedendo sotto il peso degli
sportelli, i cassetti fanno fatica a rientrare
FOTO CORBIS
I
NEW YORK
LE COMPAGNE
Dall’alto, Dylan
con Joan Baez nel 1965
e nel 1982;
con la moglie Sara nel ‘69
nei binari consumati. Non ci sono televisori né computer in giro. Il tavolo da montaggio è lì davanti al maestro, devastato
dai segni dei taglierini. Una volta si lavorava di lama e di nastro adesivo per creare
le sequenze volute. Il digitale, con le sue
comodità, è rimasto completamente tagliato fuori dall’universo Pennebaker. Le
uniche novità sono il dvd di Monterey pop,
che documenta le leggendarie performance di Otis Redding e Jimi Hendrix filmate dal regista nel ‘67, e l’anteprima del
cofanetto Don’t look back. A nessuno dei
due è stato ancora tolto il cellophane. Sul
muro d’ingresso, mimetizzato tra immagini d’epoca, il manifesto di 101, il documentario sui Depeche Mode del 1989, l’unico suo contributo al pop contemporaneo.
«Vede, io non sono mai stato attratto
dalla celebrità», esordisce il regista, che
nel 1993 ebbe una nomination all’Oscar
per The war room, un dietro le quinte della campagna presidenziale di Bill Clinton.
«A Grossman dissi subito sì perché Dylan
era un signor nessuno con talento da vendere. Io ebbi la fortuna di filmare il momento in cui il cantautore di protesta stava per diventare una rock star. Credo che
neanche Grossman, quel giorno che bussò alla mia porta, si rendesse conto di
quanto repentino sarebbe stato il cambiamento di Bob Dylan di lì a pochi mesi,
proprio a partire da quel tour che in Gran
Bretagna scatenò un’isteria collettiva pari alla cosiddetta beatlesmania. Io ero totalmente ignorante in materia. Non intuivo che quello sarebbe stato l’ultimo tour
acustico di Dylan, che la sua svolta elettrica, pochi mesi dopo, avrebbe causato un
cataclisma nel mondo della musica. Vedevo solo che Dylan si annoiava a morte
quando si trattava di salire
ogni sera da solo sul palco,
mentre noi restavamo a
gozzovigliare nella green
room. Nel mondo della musica succedono cose incredibili», racconta, «pensi che
l’altra settimana ha suonato
alla porta un ragazzo che è
venuto fin quassù per farsi
autografare una copia di
Ziggy Stardust and the Spiders
from Mars, il documentario su
David Bowie che girai nel
1973. Mi sono sentito un traditore mentre firmavo, perché io
di rock non so un bel niente.
Andai a Monterey, solo perché
John Phillips dei Mamas and
Papas mi disse: “Hai mai sentito
parlare di quel Jimi Hendrix che
brucia la sua chitarra alla fine dei
concerti?”. Io ascoltavo e ascolto
solo jazz e musica classica. I miei
idoli sono Charlie Parker e le orchestre degli anni Trenta e Quaranta. Seguii il concerto di Bowie
con interesse, perché anche in
quel caso si trattava di una svolta
nella vita di un artista. David voleva “uccidere” quel suo alter ego
(Ziggy Stardust) che era diventato troppo
ingombrante, e per farlo annunciò al pubblico che quello sarebbe stato il suo ultimo concerto». Il delirio e le lacrime che la
dichiarazione scatenò quella sera all’Hammersmith Odeon di Londra sono
perfettamente immortalati dalla camera
a mano di Pennebaker.
Nel 1965, quando incontrò il ventitreenne Dylan in un ristorante di New
York e siglò l’accordo per la realizzazione
di Don’t look back con una stretta di mano, il regista era ancora il biondo ragazzo
“cool” al quale Bruce Weber avrebbe volentieri dedicato un servizio fotografico
per Interview. Proprio alla Caesar Tavern
del Greenwich Village, Pennebaker propose a Dylan di aprire il film con quello
che molti considerano il primo videoclip
della storia del rock: l’artista che canta
Subterranean homesick blues, sfogliando
cartelloni con le parole della canzone come fosse il suggeritore di uno show televisivo. «Bob fu entusiasta dell’idea», racconta il regista. «Buttammo giù degli appunti sul menu del ristorante, poi a Londra ci mettemmo alla ricerca di un angolo
che assomigliasse il più possibile alla zona di New York in cui abitava Dylan, sulla
Quarta Strada. Il posto ideale ci sembrò
una viuzza sul retro del Savoy, l’hotel dove alloggiavamo. La scena fu girata l’8
maggio 1965, tredici giorni dopo essere
sbarcati nel Regno Unito (nel dvd di inediti c’è anche lo stesso clip ripreso sul tetto dell’edificio).
Nativo di Evanston, Illinois, Pennebaker produsse il suo primo documentario, Daybreak express, nel 1953: cinque
minuti per raccontare, su musica di Duke
Ellington, la storia di una sopraelevata
della Terza Avenue che stava per essere
demolita. Insieme a Richard Leacock e
Robert Drew, girò all’inizio degli anni Sessanta una serie di documentari sui momenti cruciali della vita di gente comune
e dei potenti d’America, come i memorabili Primary, realizzato in Wisconsin durante le primarie di JFK e Humphrey, e Adventures on the new frontier, girato alla
Casa Bianca nelle prime settimane dell’amministrazione Kennedy. Albert Grossman (1926-1986), un talent scout che notoriamente pensava in grande, ritenne
che fosse l’uomo giusto per testimoniare
quel periodo cruciale della carriera di Dylan dopo aver visto un cortometraggio di
Pennebaker su Timothy Leary, Timothy
Leary’s wedding day / You’re nobody till somebody loves you. «Non ho mai voluto fare nessun altro cinema che questo», dice
Repubblica Nazionale
DOMENICA 1 APRILE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49
FOTO GRAZ
IA
NERI
IL COFANETTO
Il 20 aprile la Sony/Bmg pubblicherà Don’t look back: 65 tour deluxe edition,
un box che contiene il film originale girato da D.A. Pennebaker durante il tour
inglese di Bob Dylan nel 1965 rimasterizzato in digitale, più un nuovo dvd
di un’ora con materiale inedito e due libri. Tra i brani che Bob Dylan interpreta
per intero nei vari concerti, ci sono classici come Don’t think twice, It’s all right,
It’s all over now baby blue, It’s alright ma (I’m only bleeding), It ain’t me babe
e If you gotta go, go now. Gli extra contengono performance audio inedite
di Love minus zero / No limit, The lonesome death of Hattie Carroll e To Ramona
Il dvd inedito si apre con una versione mai pubblicata di Subterranean homesick blues
girata sul tetto di una casa londinese
RIPRESE
Nella foto grande, Bob Dylan
con D.A. Pennebaker durante
le riprese di Don’t look back,
nel 1965. In alto a sinistra,
due fotogrammi del film
Sopra, Dylan in un altro docufilm
girato da Martin Scorsese
GLI ALTRI FILM
JIMI HENDRIX
Jimi Hendrix fu filmato da Pennebaker
a Monterey nel 1967, con Otis Redding,
per la sua opera Monterey pop
Pennebaker. «Hollywood non è mai stato
un miraggio per me. I film che io prediligo
sono sempre legati alla realtà. Adoro il
primo Fellini e soprattutto Rossellini e i
maestri del neorealismo italiano. L’effetto che ho ottenuto con Don’t look back è
inevitabilmente legato al fatto che Dylan
non si sentiva filmato. Certo, a suo modo
recitava, ma se in ogni scena avessi dovuto posizionare le luci e allertare truccatori e costumisti l’effetto verité sarebbe andato a farsi fottere. Soprattutto in quelle
surreali conferenze stampa in cui i giornalisti che intervistavano Dylan sapevano di lui meno di quanto ne sapessi io».
Nel documentario, Dylan è decisamente troppo hip per non essere consapevole che “L’occhio”, come lui chiamava Pennebaker, era in azione: sul palco
sempre con giacca in pelle nera e rayban
scuri, fuori scena con magnifici cappotti e
attillati abiti neri da mod di cui aveva fatto incetta in un negozio di Newcastle.
Quando il circo di Dylan sbarca nelle varie città inglesi, un altro circo, ancora più
pittoresco, si mischia a quello del cantautore americano. Studenti, artisti locali,
come Donovan e Alan Price, giornalisti in
cerca di scoop e ragazze a caccia di autografi che aspettano per ore all’entrata degli alberghi. La prima conferenza stampa,
a Londra, è assai comica.
Dylan accoglie i giornalisti con in mano
una gigantesca lampadina.
Giornalista: «A che serve quella lampadina?».
Dylan: «Sapevo che me l’avresti chie-
DAVID BOWIE
È del 1973 il film Ziggy Stardust
and the Spiders from Mars
su un concerto di Bowie a Londra
BILL CLINTON
Nel 1993 Pennebaker fu candidato
all’Oscar per il film sulla campagna
elettorale di Bill Clinton, The war room
sto. Me l’ha regalata un amico cui tengo
molto».
Giornalista: «Qual è il tuo vero messaggio?».
Dylan: «Avere la testa sulle spalle e non
uscire mai senza una lampadina».
Accanto a lui, per tutta la durata del tour,
c’è Joan Baez, la sua musa, compagna dei
primi anni, che era già una star della musica folk quando Dylan tenne il primo concerto nel Greenwich Village. Sono molti,
nel film, i momenti in cui i due costruiscono la loro musica, con la chitarra e un pianoforte verticale, davanti alla camera di
Pennebaker. Ma s’intuisce anche che Dylan incomincia ad avere una sorta d’insofferenza verso di lei. «La verità», racconta il
regista, «è che Bob era già coinvolto in
un’altra storia. Si era innamorato di Sara
Lowndes, una ragazza madre che lavorava
nel mio ufficio e aveva conosciuto prima
della partenza per la Gran Bretagna. Questa era l’unica intimità che dividevo con
Dylan. Ero a conoscenza che, all’insaputa
di Joan Baez, aveva già lasciato il suo appartamentino sulla Quarta Strada per una
più confortevole sistemazione nella stanza
211 del Chelsea Hotel con Sara, che presto
sarebbe diventata sua moglie, e la piccola
Maria di tre anni».
Pennebaker dice che non è stata sua l’idea di frugare tra le vecchie pellicole. «Sono stati i miei collaboratori a farmi visionare filmati di intere canzoni che erano rimasti in archivio. E Bob ha accettato con entusiasmo di pubblicare quel materiale dopo
averlo visionato». Ma la forza del dvd inedito sta nelle canzoni interpretate da Dylan,
quei “talking blues” di denuncia eseguiti
con la sola chitarra acustica che sono più
potenti di mille rap contemporanei.
Cosa uccide quella magnifica spontaneità che tutti i grandi artisti hanno agli
esordi? «I soldi», dice secco Pennebaker,
che è ancora un buon amico di Dylan e
Bowie. E, per pudore, non sta lì a raccontare che l’anno dopo, nel 1966, la Abc sganciò
un anticipo di centomila dollari per girare
un documentario sul “Dylan elettrico” in
tournée con gli Hawks. A quel punto Bob
decise che avrebbe potuto dirigere il film da
solo e chiese a Pennebaker una consulenza
tecnica, insistendo sul fatto di girare in technicolor. I tempi di consegna non furono
rispettati e il progetto naufragò. Dopo una
timida anteprima a New York, nel ‘71, di Eat
the document, questo era il titolo, sono rimaste in circolazione solo copie pirata.
L’eroe della musica folk era ormai diventato il messia elettrico.
Repubblica Nazionale
50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 1 APRILE 2007
i sapori
Settimana Santa
Zuppa di pesce, baccalà mantecato, crostini di caviale,
cappon magro, pasticcini di marzapane. A rileggere
il menù quaresimale dell’Artusi si vede come
il precetto abbia stimolato la creatività
in cucina. E come il “digiunar
mangiando” anticipi le nuove
regole della dietetica
LICIA GRANELLO
«C
he tu mugoli o che un tu mugoli, pan di legno e vin di
nuvoli». Nelle vallate toscane del Casentino, dove un tempo la fame era regina, la Quaresima durava tutto l’anno.
«Ti puoi lamentare o non lamentare, ma per sfamarti hai
polenta di castagne e acqua», ricetta davvero striminzita e senza margini di manovra per regalare qualche
brivido in più al palato. Per un tempo lunghissimo, la cucina quaresimale e quella figlia della miseria hanno coinciso. Facendo di necessità virtù,
si appendeva l’aringa affumicata sopra la tavola e ci si strofinavano sopra le fette di polenta, illusione di sapore a zero proteine, interpretazione impeccabile del menù penitenziale.
Un passo oltre la lotta quotidiana per mettere insieme il pranzo
con la cena, la Quaresima invece si è tramutata in straordinaria occasione di tradurre nei piatti l’ingegno gastronomico. A partire
dalla frittura, abile trucco adottato nei luoghi di massima celebrazione del precetto per mitigare le rinunce del digiuno prepasquale. In teoria, nessuna infrazione al divieto di utilizzare i
peccaminosi grassi animali: si immergevano tocchetti di pesci e verdure in pastelle più o meno saporite — farina, rosso
d’uovo, acqua ghiacciata, vino bianco, birra — cuocendo in
abbondante extravergine portato a giusta temperatura. Se
proprio bisognava rinunciare alle golosità della cucina invernale — quella di cui si abusava durante il Carnevale,
carnem levare, togliere la carne subito dopo il giovedì
grasso — almeno si consolava il palato con un piccolo inganno. Nasceva così dai tempora, i tempi quaresimali,
l’amatissimo tempura, apparentemente importato
Cucina
Magro
di
Il buono della penitenza
dalla cucina giapponese (che invece l’avrebbe adottato grazie ai missionari gesuiti).
Appena più vicino allo spirito pre-pasquale, il passaggio in carpione: i bocconi infarinati, fritti, asciugati su
carta assorbente, riuscivano purificati e redenti dalla copertura con una riduzione di cipolla, aglio, olio e salvia,
con l’aceto, memoria del martirio cristiano. Altro modo di
aggirare i precetti del digiuno, l’uso del pomodoro, per trasformare il magrore dei pesci essiccati — stoccafisso in primis — nella morbidezza untuosa degli umidi.
Oltre le dispense povere e i monasteri, chi poteva permettersi il lusso di disarticolare la cucina quaresimale da quella della povertà, componeva menù di magro che lievitavano come un
meraviglioso pan brioche (di magro anche lui!). Un elenco lunghissimo di piatti a dir poco golosi, assolutamente aderenti alla
norma, quello pubblicato nel menù quaresimale di Pellegrino Artusi. Zuppa di pesce, baccalà mantecato (tra i latticini, pur considerati border line, il latte è quello più tollerato), gnocchi alla romana,
ma anche crostini di caviale, cappon magro, anguilla arrosto, su su fino al trionfo dei dolci, dei pasticcini di marzapane al gelato di pistacchi.
Sui fornelli dei ricchi, la sostituzione di carne e intingoli con pesci e verdure ha coinciso con lo stesso bisogno di depurazione primaverile che anima ancora oggi le prescrizioni medico-dietologiche di fine inverno. L’uscita dal tempo del freddo, la rinascita della natura dovrebbero indurre tutti a diminuire gli introiti calorici in favore di alimenti leggeri, diuretici, semplici, versione “terzo millennio” della cucina quaresimale. Siamo davvero così bravi?
In realtà, quasi mai la rilettura laica e dietetica del digiunar mangiando che testimonia i quaranta giorni di digiuno, passione e morte del Cristo, va oltre qualche
forchettata d’insalata in più o la sostituzione della cotoletta impanata con la finta magra mozzarella. L’urgenza della spesa di Pasqua non ammette distrazioni, se non per il
rito del pesce del Venerdì Santo. «Mangiate e bevete senza parlare, in silenzio», scrivevano nei refettori delle abbazie. Addentando un maritozzo con la panna, tipico dolce della
Quaresima in centro Italia, riesce perfino un sacrificio sopportabile.
Biscotti quaresimali
Agnolotti di magro
Stocco e patate
Pasta e ceci
Torcolo
(SICILIA)
(PIEMONTE)
(CALABRIA)
(CAMPANIA)
(UMBRIA)
Nati come cibo votivo della
Quaresima, vengono preparati
con infinite varianti. Ingredienti base:
mandorle, frutta candita, zucchero,
uova, farina, impastati e modellati
a mo’ di salsicciotti. Cotti, sfornati
e decorati con granella di pistacchio
La versione magra dei classici
agnolotti con l’arrosto – utilizzato
nella farcitura e come condimento –
richiede la lessatura degli spinaci,
poi tritati e insaporiti in tegame
Quindi si uniscono ricotta,
parmigiano, uova e noce moscata
Una delle tante ricette legate
alla spugnatura dello stoccafisso
prevede la cottura del merluzzo
in soffritto di cipolla ed extravergine,
con aggiunta di salsa di pomodoro
liquida, patate, peperoncino, olive,
origano. Si usa per condire la pasta
Il piatto di rigore nel primo giorno
della Quaresima napoletana parte
dall’ammollo dei ceci. Verso fine
cottura, si aggiungono aglio, origano,
sale, pepe, olio, poi le fettuccelle
spezzate. Si possono passare
parte dei ceci
Il dolce della Quaresima di centro
Italia è una ciambella lavorata
con burro, pinoli tostati e pestati,
zucchero, semi d’anice, uovo,
un pizzico di sale e il bicarbonato
a mo’ di lievito. Prima di infornare,
si aggiungono uvetta e frutta candita
Repubblica Nazionale
DOMENICA 1 APRILE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51
Riomaggiore (Sp)
itinerari
Valeria
Martinetti
è la versatile
cuoca
di “Gattò”,
ristorante-atelier
milanese. Il menù
è costruito
sulla rivisitazione
“magra” della
cucina mediterranea:
olio e salse d’erbe
per insaporire
pesce e verdure
Poppi (Ar)
Mammola (Rc)
Primo paese
delle Cinque Terre
partendo
da La Spezia,
è collegato
al borgo
di Manarola
attraverso la Via dell’Amore a picco
sul mare. La cucina è a base di pesce,
verdure e salse di noci e basilico
Costruita nel parco
del Casentino,
è patria
di produzioni
buonissime,
dal prosciutto
crudo ai legumi
e ai cereali. La farina di castagne entra
in molti piatti: per proteggerla dai tarli
i contadini la pressavano in cassoni
Arroccato
sulle falde
del Monte Seduto,
è famoso
per la lavorazione
dello stoccafisso
da più di un
millennio. Grazie alla ricchezza minerale,
le acque dell’Aspromonte restituiscono
tutto il sapore al merluzzo disidratato
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
LOCANDA DALLA COMPAGNIA
Via del Santuario 132
Tel. 0187-760050
Camera doppia da 100 euro
colazione inclusa
ALBERGO SAN LORENZO
Piazza Bordoni 2
Tel. 0575-520176
Camera doppia
da 70 euro
AGRITURISMO CANNAZZI
Contrada Cannazzi
Tel. 0964-418023
Camera doppia da 50 euro
colazione inclusa
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
CAPPUN MAGRU IN CASA DI MARIN
Via Volastra 19, località Groppo
Tel. 0187-920563
Chiuso lunedì e mart., menù da 25 euro
L’ANTICA CANTINA
Via Lapucci 2, tel. 0575-529844
Chiuso lunedì e martedì a pranzo
menù da 25 euro
IL MULINO
Via Mulino 26
Tel. 0964-418072
Chiuso lunedì, menù da 30 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
NON SOLO VINO
Via Colombo 180
Tel 0187-760558
MOLINO A PIETRA GRIFONI
Località Pagliericcio 192
Castel San Niccolò, tel. 0575-572873
STOCCO MAMMOLESE
Via Sigillò 5
Tel. 0964-418938
Gli astuti chef
da Quaresima
‘‘
MASSIMO MONTANARI
Chiesero a un fraticello
del convento
di Obdorsk: come è (...)
da voi il digiuno?
La nostra mensa,
secondo l'antica
usanza del romitorio,
è questa: durante
la Quaresima, stiamo
a digiuno completo
il lunedì, il mercoledì
e il venerdì. Martedì
e giovedì si prepara
per la comunità il pane
di frumento, la frutta
secca cotta
col miele, le more
di rovo o il cavolo
salato e la farina
di avena cotta.
Il sabato, minestra
di cavolo, pasta
con piselli, polentina
al sugo, il tutto condito
con olio.
La domenica, oltre
la minestra di cavolo,
il pesce secco
e la polentina (...)
La settimana
della Passione, poi,
cominciando dal lunedì
mattina fino al sabato
sera, per tutti i sei giorni,
non si prende altro
che pane e acqua (...)
‘‘
Da I FRATELLI KARAMAZOV
di Fjodor Dostoevskij
a «battaglia fra Quaresima e Carnevale», genere letterario di grande fortuna fra Medioevo e prima Età
moderna, di cui troviamo il primo esempio in un testo francese del Duecento, mette in scena «i cibi di magro» e «quelli di grasso», che si combattono in armate
contrapposte: da un lato i pesci, dall’altro le carni, spalleggiate da uova e latticini. I capponi arrosto si scontrano con i naselli, la passera e lo sgombro con la carne di
bue, le anguille con le salsicce di maiale. Le verdure militano in entrambi i campi, dipende da come sono condite: i piselli all’olio di qua, quelli al lardo di là.
La minuzia dei dettagli, il racconto circostanziato delle strategie di attacco e di difesa, fino alla vittoria di Carnevale e alla resa di Quaresima, che, pur di fare pace, si
rassegna a limitare la sua presenza sul territorio a poche
settimane l’anno, rappresentano in modo estremamente vivace le regole alimentari legate al calendario liturgico, che la Chiesa impose in Europa fin dal primo Medioevo: rinunciare ai cibi animali, in segno di penitenza,
per alcuni periodi dell’anno (Quaresima anzitutto) e
giorni della settimana, e nei giorni di vigilia prima delle
principali feste.
Ciò implicava una considerazione della carne come cibo per eccellenza, massimo desiderio alimentare: su
questo, la cultura medievale non aveva dubbi. Nell’immaginario collettivo il grasso era il valore forte, il magro
un semplice surrogato. I cibi “magri” (pesci e verdure all’olio, a cui si aggiunsero sul finire del Medioevo i latticini, che rimasero esclusi solo nei giorni di astinenza totale) acquisirono uno “statuto sociale” debole, subalterno.
La dieta sostitutiva poteva anche essere squisita: ottimi
pesci e verdure delicate potevano ben rimpiazzare la carne nei giorni stabiliti. Un’intera letteratura ironizza sulle prelibatezze che si spacciavano per pratiche di penitenza: Pietro Abelardo, nel Dodicesimo secolo, si chiede
quale merito possa esservi nel rinunciare alla carne di
tutti i giorni per acquistare pesci costosissimi e raffinati.
Il fatto è che, appunto, si trattava di sostituti. La diffidenza che fino ai nostri giorni ha accompagnato i cibi “di
magro”, a cominciare proprio dai pesci e dalle verdure,
trova la sua spiegazione storica nel carattere costrittivo
che per lungo tempo si è associato al loro consumo. La loro subalternità si rispecchiava anche nei tentativi, più o
meno riusciti, di imitazione delle vivande “grasse”, un
po’ come accade oggi in certi ristoranti vegetariani dove
si replicano, nei nomi e nelle forme, vivande di “carne
senza carne” che tradiscono un persistente senso di inferiorità culturale.
Ciò non toglie che gli obblighi quaresimali abbiano, di
fatto, aperto la strada ad attenzioni gastronomiche nuove. L’esempio più eloquente è quello della pasta, che si fa
strada nei ricettari medievali e rinascimentali proprio
come vivanda “di magro”: la molteplicità di preparazioni e di ricette che si elaborarono per rispondere agli obblighi liturgici aprirono capitoli nuovi nella storia della
cucina e dell’alimentazione.
Quando l’alternativa grasso-magro non fu più all’ordine del giorno, e le ricette di pesce e di verdure cominciarono a emanciparsi (non prima del Sei-Settecento) dal
loro imprint quaresimale, la molteplicità di esperienze
“obbligate” fatte nel tentativo di rendere appetibile anche la cucina di magro si rivelò un insospettabile investimento in termini di cultura gastronomica.
L
Polenta e aringa
Bigoli in salsa
Maritozzi
Zuppa di Pesce
Pansotti con salsa di noci
(TOSCANA)
(VENETO)
(LAZIO)
(EMILIA ROMAGNA)
(LIGURIA)
I pesci, squamati, deliscati, lavati
e asciugati, sono unti con olio
e avvolti in carta stagnola. La cottura
ideale è sulla brace. Si possono
consumare subito o dopo marinatura
in extravergine. La polenta è di mais
o di castagne, fresca o grigliata
Gli spaghetti di Bassano, lavorati
con farina e crusca – da cui il colore
scuro – devono essere cotti molto
al dente. Poi si spadellano con pepe
e prezzemolo nella pentola
della salsa, preparata sciogliendo
le acciughe nel soffritto di cipolla
Si parte da una ricetta povera come
la pasta del pane (farina, acqua, sale,
olio) ma arricchita di zucchero,
uvetta, pinoli, uova e cedro tritato
La doppia lievitazione, garanzia
di leggerezza, permette la farcitura
con panna montata
Zuppa o brodetto, l’ingrediente
base è il pesce fresco. Nella pentola
di coccio si cuoce a partire
dai pesci più consistenti fino
ai delicati gamberi. Si intensifica
il sapore con brodo fatto di teste
e spine, pomodoro, vino e spezie
La sfoglia si farcisce con un ripieno
a base di erbe amare, borragine,
bietole. Condimento: burro,
parmigiano e la salsa, preparata
pestando nel mortaio (il robot
da cucina scalda le noci) gherigli,
mollica bagnata nel latte, olio e aglio
Repubblica Nazionale
52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 1 APRILE 2007
le tendenze
Modernariato
Abiti metallici, tutine brillanti, occhiali specchiati,
borse e scarpe che sembrano uscite dal supermarket
di una surreale stazione lunare. Le ragazze sono
pronte a trasformarsi nelle moderne eredi dell’eroina
dei fumetti anni Sessanta, a cui gli stilisti s’ispirano
per imporre un nuovo modello di seduzione femminile
on usano navicelle spaziali.
Per muoversi nel traffico impazzito delle grandi città utilizzano ancora le auto, ma come l’eroica Barbarella s’innalzano su super-zeppe anni
Sessanta metallizzate e i loro tubini sono ricoperti di bolle dorate. Gli occhiali sono a fascia, come quelli filmici scelti dal genere androide. Le borse, color argento, bronzo, oro
o in pvc trasparente, sono come i puri contenitori che hanno segnato la storia dello stile
spaziale.
Benvenute, nell’estate più futurista che si
sia mai vista dagli anni Sessanta, quando si
immaginava che le donne si sarebbero vestite con completini ricoperti da placche a
specchio, con tute metalliche come quelle
disegnate da Paco Rabanne e mini abiti plastici con oblò alla maniera di Pierre Cardin e
Andrè Courrèges. Da allora sono passati
quasi cinquant’anni, ma oggi Barbarella è di
N
GIOIE DA UFO
Sembra un oggetto misterioso il bracciale
lunare di Pianegonda. Questo gioiello,
della linea Spy, è in argento
e onice intagliato perfettamente al laser
BAGLIORI DORATI
PASSI TRANQUILLI
È leggerissima l’intramontabile sneaker
Olympia, della linea Hogan
Ha un profilo sottile ed è realizzata
in pelle metallizzata con stampa cocco
e tessuto tecnico. Perfetta per le donne
che amano camminare in città
Borsa in pitone
laminato con tracolla
a catena d’oro lucido
e microborchie
La borsa di Roberto
Cavalli è decorata
con intrecci in nappa
Si può portare
con abiti di chiffon a fiori
e sandali piatti oppure
con jeans, camicia
bianca e giacca
donne
Spaziali
LAURA ASNAGHI
nuovo tra noi, in tante varianti di look, tutte
griffate dai grandi stilisti. Ma cosa ha spinto
la moda a scegliere, anzi “riscegliere”, la strada dello spazio? «La terra non ci basta più, vogliamo la luna — scherzano i Dolce e Gabbana — e per rendere la donna più sexy, abbiamo giocato su corsetti metallici che esaltano
le forme». La signora del futuro ha una dimensione stellare. E la conferma viene da
Donatella Versace: «La nuova Barbarella ha
grinta e carattere. E in lei si identificano le
nuove generazioni che vogliono conquistare il mondo facendo leva sul loro coraggio,
sulla loro dirompente femminilità e la loro
capacità di prendersi il meglio dalla vita».
I bagliori oro e argento di questa estate che
Etro, Gucci, Louis Vuitton, Blumarine e Roger Vivier sfruttano per gli accessori e che Valentino, Armani, Fendi, Prada, Ferragamo,
Missoni, Krizia, Biagiotti, Max Mara, Dell’Acqua, ma anche Iceberg ed Ermanno
Scervino, usano a piene mani per gli abiti,
sembra siano anche il segnale di una nuova
femminilità, più forte e consapevole. «L’argento degli abiti non è solo una scelta cromatica — conferma Ennio Capasa di Costume National — è quasi il simbolo di una donna più libera da schemi, che sa essere essenziale e sensuale allo stesso tempo». La moda,
dunque, come specchio dei tempi. «In giro c’è desiderio di fuga dalla volgarità imperante — spiegano Maurizio Modica
e Pierfrancesco Gigliotti di Frankie
Morello — ecco perché le donne hanno
voglia di “travestirsi” come moderne
Barbarelle ed essere rapite da un principe
alieno che le trasporti lontano dal vortice
della bellezza chirurgica e dell’alienazione
mentale. L’abito con le piastre metalliche le
protegge e le rende sicure».
Estetica e sociologia si fondono. «Le interpretazioni del futuro espresse dagli stilisti —
spiega Alberta Ferretti — altro non sono che
la speranza di cambiamento, la volontà di
una fuga in avanti rispetto a un mondo che
viaggia veloce ma, allo stesso tempo, resta
ancorato a vecchi problemi, sociali, politici,
umanitari». Ma nella visione di Granfranco
Ferrè, il sarto-architetto da poco chiamato
alla presidenza dell’Accademia di Brera, «i
bagliori metallici sono indispensabili per
esprimere lusso e preziosità, glamour e seduzione. Irresistibili e magici, accendono
un po’ tutto, ogni materia, ogni forma, ogni
tipologia di abito e di accessorio: i capi da sera scivolati e morbidi sul corpo, le bluse arabescate, il pantalone in denim lunare e le
borse in nappa tridimensionale traforata al
laser».
Il genere spaziale cattura anche Roberto
Cavalli. «Negli anni Sessanta — dice — l’uomo, spinto dalla curiosità, ha cercato di capire come sarebbe stata la donna del futuro
e come sarebbe cambiato il suo guardaroba.
Oggi, la moda, con l’aiuto di film, videogiochi, Internet e libri di fantascienza, ha tradotto lo stile spaziale in un genere alla Blade
runner, fatto di gadget futuristi mescolati a
capi iperclassici. Un abbigliamento volutamente strong per affrontare meglio le mille
sfide della vita».
ICONA SEXY
Una biondissima
Jane Fonda indossa
stivali argentei, mantella
metallica e calze
trasparenti nel ruolo
di Barbarella
Il film di Roger Vadim
del 1968 la trasformò
in un’icona sexy rimasta
nella storia del cinema
PIÙ CORAZZATA
Anche l’abito bustier
dei Dolce e Gabbana
è dedicato alla nuova
Barbarella. Sembra
una corazzetta rigida
ma in realtà è realizzato
in pelle morbidissima
spalmata di colore
con effetti metallici
STILE LIBERO
Le ballerine di Tod’s
con fibbia o laccetto sono chic
ed estremamente femminili
E in più sono anche versatili
e si adattano a ogni stile
SASSI D’ALTRI MONDI
E’ realizzata con sassi di resina
argentata su chiffon la collana
lunare di Maria Calderara, stilistaarchitetto di Brescia, che crea
gioielli da oltre vent’anni
Repubblica Nazionale
FOTO RUE DES ARCHIVES
Torna Barbarella, l’estate è futurista
DOMENICA 1 APRILE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 53
TUTTI IN MASCHERA
AVANGUARDIA SARTORIALE
Occhiali a mascherina
tecnologica realizzati
da Allison per Romeo
Gigli. È un modello unisex
che protegge gli occhi
in maniera panoramica
Ci si può specchiare nella borsa a tracolla
disegnata da Ennio Capasa per Costume
National, la sua linea di moda
che mescola elementi d’avanguardia
alla sartorialità del Made in Italy
DAMA DESNUDA
Disegnato da Matthew
Williamson
il micro-abito
di Emilio Pucci,
il marchio
che a maggio celebra
i suoi primi
sessant’anni
con una grande
installazione
artistica a Firenze
Ai piedi, sandali
futuristi, in pvc
e profili in pelle
colorata, prodotti
da Rossimoda
A completare
il look lunare
contribuiscono
i bracciali
geometrici
e la borsa
a tracolla
Con lei cambiò il costume
Un libero amore
da fantascienza
LUCA RAFFAELLI
C
IMPRONTA MARZIANA
È in lamé color alluminio
con un inserto in oro
la zeppa in capretto
per l’estate, firmata Prada
Anche le borse hanno
un’impronta “marziana”
COME I BEATLES
GOLDEN LADY
Ecco il bikini versione
Barbarella di Yamamay
È inserito nel catalogo
illustrato da Milo Manara,
il famoso fumettista
italiano che ha lavorato
anche con Fellini
Le sue donne
si ispirano alle pin-up
Stivaletto estivo,
in pelle argentata
e fibbia-morsetto
di Gucci,
disegnato
da Frida Giannini
Si porta
con pantaloni corti
alla caviglia
e stretti
sulla gamba,
come i Beatles
negli anni
Sessanta
LAMINATA SOBRIETÀ
Massimo rigore
per la borsa
spaziale di Jil Sander,
da sempre emblema
del minimalismo
La borsa fa parte
di un guardaroba
con abiti e gonne
dalle linee sobrie,
realizzati in tessuti
metallizzati
Le scarpe,
con tacchi di taglio
architettonico,
hanno inserti
di metallo
e vernice nera
V-MAGAZINE
Barbarella, l’eroina creata
da Jean-Claude Forest
e apparsa la prima volta
sulla rivista francese
V-Magazine nel 1962
IN SCIVOLATA
SCATTI GLAMOUR
Borsa da sera griffata
Calvin Klein
È la classica scatola
metallica, pulita
ed essenziale,
con chiusura a scatto,
color oro. La fodera
interna in satin beige
CONNUBI PLASTICI
Con un connubio di acciaio
e coni in plastica lucida
nasce la collana futurista
My Tetris di Tribe. Versatile
e divertente, si può chiudere
sul davanti oppure sul retro
hi si ricorda, all’ombra dei Dico, che alla fine degli anni Sessanta (nel secolo scorso), c’è
stata una rivoluzione sessuale? È stato allora che, improvvisamente, le
donne dei fumetti sono passate da un
ruolo secondario e castigato a quello
di protagoniste. L’evento è coinciso
con lo sdoganamento del fumetto
come lettura adulta e politicamente
impegnata. In Italia si ebbe con la nascita di Linus, nel 1965. In Francia tre
anni prima, grazie a Barbarella.
Creata da Jean Claude Forest, aveva
fatto il suo esordio in V-Magazine,
una rivista che in copertina aveva
sempre mostrato anonime pin-up.
Con quel personaggio disegnato era
stato un boom, come si diceva allora
e come capita alle cose che arrivano
quando tutti le stanno attendendo.
Barbarella vive in un lontano futuro — figlio delle speranze di quei tempi — in cui trionfa «l’armoniosa concordia universale dopo l’era barbarica della contestazione globale».
Cioè, si può far l’amore liberamente e
gioiosamente. Da giovane e bellissima terrestre, Barbarella gira per le galassie incontrando e amando gli strani abitanti di mondi altrettanto strani. C’è allegra ironia in tutto questo e
anche nell’ingenuità con cui Barbarella vive le sue tante storie d’amore
senza comprendere le sue capacità
seduttive. L’amore è per lei uno dei
modi più appassionanti per capire il
mondo e le persone. E, da donna ultramoderna qual è, il romanticismo
le è estraneo, così come la malizia che
proprio la sua ingenuità produce. Forest avrebbe trovato ogni escamotage per mostrarla come mamma l’ha
fatta, e avrebbe scritto dichiarazioni
inedite per un personaggio dei fumetti. Come quella volta che,
arrivata dopo un lungo viaggio
in un lontano pianeta, Barbarella si permise di esclamare:
«Farò l’amore con il primo che
mi disseterà. Promesso».
Non per smontare un mito,
ma il livello delle storie e dei
disegni non era poi così diverso da quello di alcune
delle migliori protagoniste
del pornofumetto italiano.
La differenza è che Barbarella era francese, e faceva
leva sui temi che sarebbero esplosi con il Sessantotto, non con il marketing sotterraneo e tutto
italiano degli appassionati del fumetto onanista usa e getta. E così, proprio
nel Sessantotto, Roger Vadim portò
sullo schermo Barbarella in uno di
quei film tratti dai fumetti che, visti
oggi, fanno innalzare salmi di ringraziamento agli attuali effetti digitali
(pare che De Laurentiis stia preparando, per il personaggio di Forest,
un nuovo progetto cinematografico). Infatti, nonostante la buona volontà, è tutto così tanto di cartapesta
da sembrare una recita scolastica.
L’unica cosa bella, Jane Fonda a parte, sono i costumi (firmati da Jacques
Fonteray e Paco Rabanne). E non a
caso i titoli di testa partono con uno
spogliarello di Barbarella in assenza
di gravità. Si toglie una tuta da astronauta fatta più che altro di cellophane e di plastica trasparente: sembra
più un impermeabile da motorino
che una tuta per viaggi spaziali. Nei
fumetti la nostra eroina può anche
essere casual: talvolta porta anche
jeans, o pantaloncini corti, o costumi
interi. Ma si cambia continuamente,
anche per potersi spogliare tra una
vignetta e un’altra.
L’indumento usato come arma seduttiva arriva nel fumetto italiano
con Satanik e Valentina. La prima
(nata nel 1964 da Magnus e Bunker,
gli stessi di Kriminal e Alan Ford), riscattava la sua bruttezza con una magia chimica. Trasformatasi in bellezza assoluta, indossava una calzamaglia come quella dei supereroi, ma
ampiamente scollata. Nella mano
destra una sigaretta con un lungo
bocchino. Ai piedi, ovviamente, scarpe con tacchi a spillo. Le stesse che
ama la Valentina di Guido Crepax,
nata con Linus: e sopra, spesso e volentieri, solo calze reggenti con giarrettiera.
Per Gianfranco
Ferré, gli abiti
con bagliori
metallici
sono da sempre
una grande
passione
Secondo
lo stilista, l’oro
e l’argento sono
segno di lusso
e di preziosità,
e di seduzione
In questa foto,
l’abito da sera
ha una linea
che scivola
morbida
sul corpo
Ferré
ha disegnato
anche pantaloni
in denim
metallizzato
per celebrare
il tema
spaziale
Repubblica Nazionale
54 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 1 APRILE 2007
l’incontro
È un artista al “grado superlativo”:
bravissimo, attivissimo e soprattutto
ricercatissimo. La sua voce, dal timbro
miracolosamente preservato
rispetto a quello degli amici-rivali,
continua a estasiare
le platee dei più grandi
teatri d’opera
del mondo. “Canto
sempre come se fosse
la prima e l’ultima volta,
e il ruolo che mi rende
più felice è quello che sto
facendo al momento”, dice mentre
continua a correre da un impegno
all’altro tra gli Stati Uniti e l’Europa
Tenorissimi
Placido Domingo
assima incarnazione
odierna di una figura
sempre più preziosa e
rara, quella del Grande Tenore, Placido Domingo sta fremendo come un leone in gabbia. Farlo
stare seduto per una conversazione generosa è un’impresa. Durante l’intervista (ottenuta dopo trattative di mesi,
perché «il Maestro è sempre impegnato») parla di continuo al cellulare. S’alza,
va in corridoio, torna, commenta, spegne finalmente il telefono. Ma come per
tutti i genuini “workaholic”, anche per
lui non lasciarlo acceso è un supplizio,
così dopo qualche istante lo riaccende.
Parte uno squillo e grida a qualcuno affettuosità in spagnolo. Esce, riappare, si
risiede. Svela che là fuori, oltre la porta
(siamo nel salotto del sovrintendente
dell’Opera di Valencia, avveniristico
teatro progettato da Calatrava), lo
aspetta una troupe che gira un suo ritratto televisivo. Poi dovrà tenere una
dotta conferenza destinata a un gruppo
di studenti; poi ha fissato un incontro
organizzativo per il concorso di giovani
cantanti da lui fondato e presieduto; poi
deve chiamare un assistente negli Stati
Uniti dov’è alla guida di due teatri d’opera, a Washington e a Los Angeles; poi
c’è da pensare al Don Giovanni di cui
sarà direttore d’orchestra, lavoro in cui
si prodiga con crescente convinzione e
al quale pensa di votarsi a tempo pieno
quando (quando?) smetterà di cantare;
poi s’appresta ad affrontare l’ultima replica del Cyrano de Bergerac, l’opera di
Franco Alfano di cui è acclamato protagonista qui a Valencia; poi, poi...
Non c’è requie per Domingo, il tenorissimo che sfida ogni logica del tempo
(ufficialmente è nato a Madrid nel ‘41,
ma poi chissà). Il suo segretario arranca esausto ricordandogli ulteriori ap-
vertito: attento, sei troppo giovane. Ma
sapevo che Mario Del Monaco e Ramon
Vinay lo avevano cantato alla mia stessa
età. All’epoca avevo già un vasto repertorio, però fu in Otello che compresi più
che mai a quale stadio di coinvolgente
perfezione, nella lirica, può arrivare il
connubio tra musica e teatro. Altro che
pezzo da museo: il melodramma è un
mondo vivo, che travolge, e che se offerto al pubblico nel modo giusto fa palpitare tutti, anche i più giovani».
Sostiene che è la frenesia degli impegni a imprimergli la carica: «Se mi riposo mi arrugginisco, sono perso, inesistente. Canto sempre come fosse la prima e l’ultima volta, e il ruolo che mi rende più felice è quello che sto facendo al
momento, che sia Otello, Cavaradossi,
Don José, Hoffmann, Sansone, il Duca
di Mantova, Parsifal o Il Primo Imperatore, titolo della nuova opera del compositore Tan Dun con cui ho debuttato
in gennaio a New York, dedicata al primo imperatore della Cina e ambientata
221 anni prima di Cristo. M’infiammo,
mi faccio catturare, m’identifico totalmente. Ora sono innamorato alla follia
Altro che pezzo
da museo:
il melodramma
è un mondo vivo,
che travolge, e che
se offerto al pubblico
nel modo giusto
fa palpitare tutti,
anche i più giovani
FOTO OLYMPIA
M
VALENCIA
puntamenti. Placido no, lui non pare
affatto stanco. Piuttosto è solido, solare, maestoso, quasi disumano nella vitalità senza crepe. La chioma è folta, il
sorriso è sornione, attorno agli occhi
sfoggia piccoli e seduttivi solchi di velluto. Neppure un’ombra di fragilità,
non un sospetto di cedimento. Ha un
magnetismo che conquista tutti, uomini, donne, fanciulle in vena di romanticismi, signore avide di eroi ottocenteschi, melomani raffinati e tifosi di
calcio (è un fanatico del football, ama
esibirsi in inni e brani popolari in occasione dei Mondiali e riferisce fiero che
suo zio «era il portiere della nazionale
spagnola, come anche il padre di mio
zio, il mitico Ignacio Izaguirre»).
Vorace di esperienze, è un fiume di
energia dal prodigioso eclettismo
espresso in oltre cento ruoli («per la precisione», specifica, «finora in palcoscenico sono stati centoventiquattro»).
Persino in un mondo impietoso come
quello della lirica resta tuttora inattaccabile da accuse d’invecchiamento: «In
tutta la mia carriera mi hanno fischiato
solo tre volte, e sono certo che le prime
due, a New York, erano agguati preordinati. La terza volta accadde a Vienna per
una Valchiria. Il mio segretario andò
dallo spettatore che mi aveva contestato e chiese: “Perché te la prendi con Placido? Ha cantato stupendamente!”. E
lui: “Ha sbagliato il testo tedesco in due
passaggi”. Però, che pignolo».
Non pago d’essersi imposto come il
tenore più completo della storia della
musica, un campione da Guinness grazie all’arco impressionante dei suoi
ruoli, insuperabile nel combinare a
una tecnica formidabile un talento teatrale così spiccato da far invidiare a sir
Laurence Olivier la sua interpretazione
di Otello, Domingo è entrato nel nuovo
millennio col timbro ancora ricco e
possente, denso di sfumature sensuali
(ha le risonanze morbide del violoncello) e miracolosamente preservato rispetto a quelli di Carreras e Pavarotti, ai
quali per anni s’è accompagnato nell’etichetta commercialmente superfortunata dei “Tre Tenori”. Ma c’è dell’altro: Domingo può essere anche un
musicista ricercatissimo, che scava
nelle partiture «accanendomi a sbrogliarne i segreti, i dettagli dietro le note
e tra le righe», spiega. «Seguo i cambi di
chiave paralleli ai mutamenti d’atmosfera e punto a colorare la voce a seconda della strumentazione».
Attore consumato, non a caso è amatissimo dal cinema, aitante Don José
nella Carmen di Rosi, trepido Cavaradossi nella Toscafilmata da Patroni Griffi, tormentato Moro di Venezia nel filmopera di Zeffirelli su Otello, ruolo che
viene considerato il suo apice interpretativo. Quando lo fece per la prima volta
in teatro, nel ‘75 ad Amburgo, si preparò
con centocinquanta ore di prove. Il debutto fu un trionfo, con cinquantotto
chiamate alla ribalta: «Avevo trentaquattro anni e in molti mi avevano av-
di questo Cyrano, opera poco nota e trascurata, come altre che ho fatto rinascere: Fedora di Giordano, Sly di Wolf-Ferrari, L’Africana di Meyerbeer, Francesca
da Rimini di Zandonai... Si credeva che
Fedorafosse un’opera per il soprano, invece ho scoperto che l’aveva cantata Caruso, dunque ci doveva essere una parte interessante per il tenore. Quando
l’ho interpretata mi faceva vibrare,
piangere e soffrire come mi succede con
Otello o con il wagneriano Siegmund».
Se gli si chiede come fa ad agitarsi tanto in giro per il mondo, a gestire due mastodontici teatri americani e a cantare in
continuazione, dice che lo sostengono
una salute di ferro e una passione «radicata in me fin dall’infanzia che trascorsi
in Messico, dove si trasferì la mia famiglia quando avevo otto anni». I genitori
erano cantanti-attori «col teatro nel
sangue. Avevano una compagnia di zarzuela, che è la forma originaria e più tipica del teatro musicale spagnolo, una
specie di operetta. Da piccolo, nelle produzioni, cantavo ruoli di bambino; si davano due rappresentazioni al giorno, la
domenica anche tre. Di sera, finito lo
spettacolo, si provava per l’indomani.
Allenavo la voce tutti i giorni, e intanto
prendevo lezioni di pianoforte e armonia al conservatorio di Città del Messico,
coltivando il sogno di fare il torero». Da
ragazzo cantava come baritono, «al
quale, nelle zarzuelas, toccano tradizionalmente le arie più belle. Solo lavorando molto sulla voce ho conquistato il registro di tenore». Il suo più utile apprendistato fu all’Opera di Tel Aviv, «dove feci dodici opere importanti in duecentottanta recite tra il 1962 e il ‘65. Ero pagato l’equivalente di trecento dollari al
mese. Una palestra straordinaria».
All’epoca già gli stava accanto la seconda moglie, Marta Ornelas, sposata
dopo un primo matrimonio contratto
da Placido quando aveva sedici anni, da
cui gli nacque un figlio. Quello con Marta, dalla quale ha avuto altri due maschi,
è un incontro vissuto come eterno e irrinunciabile, secondo prospettive coniugali molto latine e a dispetto della sua
tenace fama di tombeur de femmes: «È
una musicista magnifica. Per me è stata
una costante fonte d’ispirazione e la vera regista della mia vita. Bravissima soprano, rinunciò alla carriera per starmi
vicina ed educare i figli. Quando ci siamo conosciuti io ero troppo rude per lei,
troppo dentro la zarzuela, troppo pucciniano. Marta coltivava sfere più raffinate: Mozart, Schubert, Wolf, Brahms...
Cantava Lieder sublimi e non mi prendeva sul serio. L’ho dovuta corteggiare
molto a lungo».
Come direttore d’orchestra, Domingo racconta di avere avuto la fortuna d’ispirarsi a prestigiosi maestri del podio.
Ha lavorato coi più grandi: «Karajan otteneva effetti sconvolgenti senza sforzo
apparente. Chiudeva gli occhi e sul volto si percepiva la presenza interiore della musica. Rivedo ancora la sua mano sinistra che pareva afferrare i suoni e con-
durli al cuore. Kleiber era dotato di
un’immaginazione geniale che gli permetteva di trovare dimensioni nuove in
ogni partitura. Il mio Otello gli deve molto. Negli ultimi anni dirigeva pochissimo, voleva fare musica solo a suo modo,
e se non glielo consentivano non lavorava. Mi hanno diretto Abbado, Barenboim, Chailly, Giulini, Levine, Maazel,
Mehta, Muti, Ozawa, Sinopoli, Thielemann... Ma chi mi ha segnato di più resta Kleiber. Forse lo ammiravo tanto
perché sono il suo opposto, lavoro in
modo compulsivo, sono un pazzo».
Il conteggio dei suoi successi fa girar la
testa: «Sono trentanove anni che vado in
scena al Metropolitan di New York: vi ho
fatto oltre seicento recite cantando e
centocinquanta dirigendo. Al Covent
Garden di Londra sono state circa duecento le mie recite, come alla Scala, dove nella stagione prossima porto questo
Cyrano, opera magica e teatralissima,
che tiene conto dei versi di Edmond Rostand. Anche all’Opera di Vienna ho
cantato centinaia di volte, per non parlare di Salisburgo, Parigi, Chicago, Bayreuth...».
Non riesce neppure a rammentare
tutti gli impegni che ha nei prossimi mesi, tra una Valchiria a Washington e un
Romeo eGiuliettasul podio del Met. Nella sua lista vertiginosa figurano anche
prime assolute, perché gli piace commissionare creazioni del nostro tempo:
«Interpreterò a Los Angeles Pablo Neruda in un’opera ispirata al film con Massimo Troisi Il Postino, e la musica sarà
appositamente composta dal messicano Daniel Catan». Insiste nell’aggiungere nuovi ruoli al suo sterminato repertorio, «come la parte del baritono nel Simon Boccanegra di Verdi, in cui ho fatto
sempre e solo quella del tenore. Non che
io adesso voglia cambiare strada, ma ho
ancora un gran bisogno di mettermi alla prova». Esprime un’ombra finalmente umana di commozione confessando:
«Ogni giorno, quando mi sveglio, ringrazio Dio di farmi cantare».
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LEONETTA BENTIVOGLIO
Repubblica Nazionale