Domenico Sartori LE GUERRE E LE FILOSOFIE Storia, favole e

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Domenico Sartori LE GUERRE E LE FILOSOFIE Storia, favole e
Domenico Sartori
LE GUERRE E LE FILOSOFIE
Storia, favole e considerazioni.
Nota dell’autotre.
Ho volutamente inteso dividere questo mio lavoro in “libri” anziché in “capitoli” non per il vezzo di copiare gli antichi, ma per il
semplice motivo che a parte i primi tre, che per una maggiore comprensione andrebbero letti di seguito, a tutti gli altri il lettore potrebbe dare la priorità che meglio crede. L’impianto principe comunque
è sostanzialmente unico ed è dato dalla natura della netta condanna
verso la guerra e verso la sopraffazione dell’uomo sull’uomo.
Non essendo né un letterato, né un intellettuale né tanto meno un
filosofo di professione, ma solo un ex operaio metalmeccanico, ho
comunque provato a esaminare talune questioni dal lato filosofico
perché dati i temi non potevano essere affrontate che in tale maniera,
in modo tale però da non sembrare ragionamenti per “addetti ai
lavori”, come talora, chissà perché, usano fare certi filosofi di
“mestiere” i quali sembra vogliano di proposito rifuggire la spiegazione semplice, sicché l’eventuale lettore o ascoltatore profano finisce per convincersi che la materia è troppo complicata per lui e non
vale la pena di essere seguita.
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Libro 1° e prologo: IL SECOLO BREVE E LE TECNOLOGIE
Nonostante gli innumerevoli avvenimenti che lo hanno caratterizzato e attraversato e nonostante i cambiamenti scientifici, tecnologici, economici, culturali, politici e sociali siano stati talmente numerosi e di portata e rilevanza tale sicché non solo in un altro ma neppure
in più secoli precedenti si erano mai verificati in tale misura , il ventesimo secolo è stato definito “il secolo breve”, che tuttavia, per paradosso, data la concentrazione di talmente tanti accadimenti si sarebbe
in qualche modo dovuto dilatare diventando un “secolo lungo” a contenerli tutti con agio, volendo continuare a considerare i tradizionali
lassi temporali dei ritmi di vita dei secoli precedenti.
Secolo frenetico quindi, dove la storia racchiusa dentro i confini
dei singoli stati nazionali non sarebbe stata più la sola storia di questi
ma sarebbe diventata, da un certo punto in poi, la storia del mondo
dentro cui far stare la propria. E ancora secolo breve e densissimo
oltre che di eventi rivoluzionari politici e scientifici anche di un altro
accadimento eccezionale dovuto a una espansione demografica mai
prima verificatasi sul pianeta in simili proporzioni, e nonostante nel
medesimo tempo i grandi conflitti si siano attivati con la migliore
solerzia possibile, in ogni continente, a sfoltirne le popolazioni attraverso guerre mondiali, civili, settoriali, genocidi di minoranze,
pulizie etniche, conflitti religiosi o ideologici, guerre di rapina per il
possesso delle risorse, ecc.. Quindi benchè all’uopo abbiano concorso le più sofisticate, specialistiche e moderne tecnologie, questa
caparbia umanità, quasi per dispetto, si è moltiplicata come non mai
perché, per contro, le medesime nuove scoperte scientifiche, altrimenti indirizzate, hanno anche permesso di rendere più facile o meno
difficile e faticoso il lavoro e la vita e hanno consentito, nel contempo, l’allargamento dei processi di alfabetizzazione estendendo a
sempre più ampi strati di popolazione la possibilità di accesso alle
conoscenze di tecniche e sistemi idonei a migliorare la qualità, le
condizioni e la durata della vita con conseguente arricchimento generalizzato dei bagagli culturali non solo sotto il profilo scientifico o
artistico, ma anche sportivo, del tempo libero, del costume, nonché
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della conoscenza di fatti politici e di cronaca della realtà quotidiana
sia del proprio paese che del resto del mondo.
Per contro è accaduto – e tuttora accade – che questo sviluppo non
abbia avuto una espansione omogenea e una parte consistente del
pianeta ne sia rimasta esclusa principalmente, anche se non esclusivamente, a causa proprio di quelle guerre dettate dagli egoismi, dalle
incomprensioni culturali, dagli odi razziali, politici o religiosi.
Premesso che dai centri di potere, anche dei paesi democratici,
talune notizie sono talora veicolate alla popolazione in maniera distorta o vengono del tutto celate – per cui diventa onerosa per il cittadino la comprensione della realtà – tuttavia i processi informativi e
divulgativi hanno addirittura assunto negli ultimi decenni una tale
ampiezza e varietà di tematiche che il rischio di essere oggetto di
sovrainformazione, spesso qualitativamente scadente, veicolata in
tempi sempre più serrati, ha finito per orientare i fruitori verso comportamenti selettivi data la evidente impossibilità, posta dai limiti
oggettivi delle capacità ricettive, di poter seguire con un minimo di
cognizione e attenzione una siffatta enorme valanga informativa, dal
momento che gli individui, per quanto curiosi e attirati da una
miriade di richiami, sono alla fine giocoforza indotti a indirizzare la
loro attenzione in maniera più determinata verso tematiche ad essi
più consone e affini e in maniera più superficiale verso altre per loro
meno attraenti o più ostiche. Non va nemmeno tralasciato il fatto che
con il tempo gusti e obbiettivi tendono anche a variare.
Ad ogni modo è innegabile che una enorme e straordinaria rivoluzione culturale si è verificata nel ventesimo secolo. Da qui anche la
crescente consapevolezza di un numero sempre più alto di donne e
uomini che coscienti del loro maggiore sapere altrettanto sono diventati consci di sapere di non sapere, realizzando nella pratica di tutti i
giorni che ogni domanda soddisfatta da una risposta finisce spesso
per generare altri quesiti che chiedono a loro volta di essere risolti
ma non sempre lo sono. Sta di fatto che le risposte fornite all’umanità
nel ventesimo secolo sono state per quantità, qualità e natura di gran
lunga molto maggiori di quelle acquisite in ogni secolo precedente.
A tale proposito viene da pensare che il contenitore, il secolo, si sia
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rivelato troppo angusto a far entrare agevolmente tutto il contenuto e
ciò avrebbe dovuto, se gli fosse stata data la possibilità, attraverso un
qualche meccanismo virtuale o arcano, potergli concedere un suo allargamento fino alla bisogna. Questo induce a supporre che se l’attuale secolo dovesse, per ciò che concerne le tematiche scientifiche e
della comunicazione, seguire le tendenze di quello trascorso, si
avvierebbe a diventare un secolo brevissimo per cui dovremmo
contemplare o ipotizzare preventive modificazioni dei parametri di
rilevazione temporale in modo da far diventare, che ne so…, un
giorno lungo quarantotto ore e un secolo lungo duecento degli anni
attuali, tanto più che un uomo o meglio una donna, che statisticamente vive più a lungo, grazie al progresso scientifico, potrebbe in un
prossimo futuro attraversarlo tutto per intero. Come fare? Semplice!
Basterà accendere i retrorazzi del “veicolo spaziale Terra” fino a
ridurre alla metà ( facendogli raddoppiare i tempi ) dei moti di rotazione e rivoluzione di questa “astronave” vagante nella sua odissea
spaziale con tutto il suo meraviglioso carico vitale, ivi compreso lo
stupendo e stupido fardello umano che è, assieme, l’unico elemento
raziocinante ma anche il principale elemento di disturbo dell’equilibrio naturale dell’astronave-pianeta.
Sto fantasticando naturalmente e i secoli ce li dovremo tenere così
come sono anche se saranno sempre più compressi. Comunque pensate…, vivere il tempo di duecento anni! Ma poi, in fondo, diventerebbero pochi anche questi.
C’è poi il problema che l’umano encefalo dovrebbe essere messo,in
ogni caso, nelle condizioni di tenere il passo con le sfide degli incalzanti cambiamenti che l’era tecno-elettronico-cibernetico-biologica
ci pone di fronte e chissà non sia proprio la piena immersione umana
in questa era - tenendo ben presente comunque che la scienza è solo
un mezzo, giammai un fine, men che meno un dogma – a fornire
l’input necessario all’ampliamento delle capacità umane nell’intuire,
apprendere, memorizzare. Resta il dubbio se poi l’uomo possa diventare anche più saggio, ma in questo senso dovrebbe essere la storia
che impartisce lezioni ed è per questo che qui l’ottimismo si fa più
debole. Ad ogni modo guardando al passato, se non la storia almeno
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la scienza ci ha insegnato che i tempi darwiniani paiono essere molto
più lenti e incostanti di quanto le esigenze dell’attuale contingenza
temporale richiederebbero, per quanto, come già detto, accelerazioni
dovute alle conseguenze del tuffo e immersione umana nell’universo
tecnologico e scientifico potrebbero stimolare parallele accelerazioni
delle capacità cerebrali, come probabilmente è già accaduto nel passato fino da epoche remotissime e in modo naturale quando, ad
esempio, fu scoperta la funzione e l’utilità del fuoco, non solo per
riscaldare, illuminare, cuocere cibi, stanare o difendersi dagli animali, ma anche nello scoprire, casualmente ma poi farne tesoro e pratica
migliorando le possibilità di sopravvivenza, che la punta di un
bastone scaldata sul fuoco e tuffata rapidamente nell’acqua ne aumentava la durezza: gli elementi molecolari del carbonio presenti nel
legno con il calore diventano assai più mobili variando le posizioni,
( l’attrezzo aumenta impercettibilmente il proprio volume): se raffreddati lentamente riassumono le posizioni primitive, se rapidamente non ne hanno il tempo e la struttura si “irrigidisce” indurendo. Lo
stesso principio fisico vale per la tempra degli acciai al carbonio e di
alcuni altri tipi di leghe. Altra scoperta quasi certamente casuale, di
cui l’uomo poi intuì il pratico vantaggio, fu il riscontro nello scoprire
l’utilità di una pietra scheggiata da un evento naturale e poi lavorata
intenzionalmente secondo il bisogno. Analogamente dicasi per la più
tarda scoperta dei metalli e il modo di usarli a proprio vantaggio:
probabilmente un fuoco acceso fra alcune pietre contenenti minerale
di stagno o zinco o rame ecc.., ne favorì la fusione e l’amalgama facendo scoprire fra le ceneri spente il nuovo materiale ricavato.
Oggi c’è il rischio di assistere al fenomeno di una umanità potenzialmente sommersa da ondate di prodotti tecnologici creati dalla sua
parte numericamente minoritaria, che naturalmente li sa anche usare,
mentre la parte maggioritaria o non ha le possibilità economiche per
accedervi o, potendolo, rischia di essere sopraffatta da una produzione incalzante e frenetica in continua trasformazione il cui uso complesso e specialistico rischia di renderne troppo difficoltosa la comprensione e il governo. Ne consegue che un ulteriore compito della
scienza, ma anche dell’economia, sarebbe quello di operare scelte
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atte a far sì che le scoperte scientifiche per uso civile e collettivo tendano tanto alla riduzione massima dei costi quanto a una adeguata
durata e alla massima semplificazione degli usi. Il problema non
nuovo, ma oggi maggiormente evidente, consiste quindi nel fatto che
il bagaglio cognitivo medio dell’umanità rispetto al grado di
apprendimento delle scienze matematiche e derivate pare per paradosso - dal momento che il dato di frequenza scolastica è numericamente molto maggiore che nel passato – qualitativamente inferiore se
rapportiamo, ad esempio, uno studente di oggi che abbia frequentato
un uguale numero di anni di studio a uno studente di qualche decennio fa, nel medesimo tipo di disciplina scolastica. Esemplificando:
l’uso ormai sistematico, fino dai primi anni di scuola, della calcolatrice tascabile o di apparecchiature analoghe rischia di far dimenticare come si esegue una semplice operazione aritmetica, vedi ad
esempio una divisione, per non dire una radice quadrata, mentre nel
mondo è crescente in maniera esponenziale il bisogno di persone
dotate dell’attitudine e della preparazione alle scienze matematiche.
Non sto certo affermando che non si debbano usare i calcolatori dal
momento che sono stati concepiti per darci un poderoso aiuto e oggi
non se ne potrebbe fare a meno; sto solo dicendo che il saper effettuare calcoli aritmetici o algebrici senza l’ausilio delle macchine aiuta a
mantenere il cervello più attivo e vitale e dovrebbe, dovrebbe…, agevolare la comprensione del mondo che ci circonda. Diceva Galilei
che<< il grande libro della natura è scritto in linguaggio matematico>>, infatti la matematica, come erroneamente si potrebbe essere
inclini a pensare, non è sola esclusiva di quelle scienze percepite
come aride e cerebrali, perché sta nella poesia, ma anche nella prosa,
sta nella pittura e nella scultura, così come prepotentemente sta nella
musica e nelle altre arti. Parlando di tecnologie civili e domestiche,
vediamo come in una comune abitazione dei nostri giorni sia possibile trovare tutte quelle apparecchiature costruite per renderci più comoda e facile la vita, anche se talora la pubblicità ci induce a comperare cose magari superflue che la vita te la ricomplicano. Ad esempio, dopo esserci liberati di alcune incombenze della vecchia
economia rurale di sussistenza, si nota una certa tendenza verso un
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ritorno a quei mestieri che ormai sono stati delegati alla grande industria: non è un ritorno all’antico, è la prova che l’industria quando
non sa più cosa proporti di nuovo ti induce a riscoprire e praticare
magari per hobby l’antico camuffandolo da nuovo. Allora ti propone
di farti i gelati in casa, di farti il pane in casa, di frantoiare le olive
dell’unico olivo del giardino, di farti il vino con l’uva del paio di viti
che hai nell’orto, e di farti anche la grappa, ecc… E per ognuna di
queste incombenze “ecologiche” ti propone l’acquisto di quelle apparecchiature: frantoi, impastatrici, torchi, alambicchi, in miniatura,
prospettandoti un ritorno alla sana economia domestica del buon
tempo andato.
Comunque siccome di apparecchiature elettromeccaniche in una
casa se ne contano a decine non proverò neanche a farne un elenco
dato che sicuramente ne scorderei un bel numero; dico solo che mi
trovo spesso a pensare che a una casalinga, o anche a un casalingo,
che sappia destreggiarsi con abilità facendo funzionare una casa
moderna, dovrebbe essere conferita una laurea in elettronica applicata; ad esempio: chi sa fare funzionare al meglio, in tempi rapidi e
mantenendo la calma, l’impianto delle luci dell’abete di Natale?
Per contro capita talora di ascoltare noti intellettuali o certe celebrità del sapere, che una laurea, o più di una con annessi masters,
l’hanno ottenuta, i quali con una punta di ostentato sussiego confessano di non sapere usare il computer o una segreteria telefonica o un
telefonino cellulare o altre apparecchiature, (diavolerie moderne).
Mi rendo certamente conto che al nostro tempo sia tutt’altro che
semplice governare la nostra vita mantenendosi più o meno al passo
di un mondo incalzato da una tecnologia in continua e rapida
trasformazione, ma se non compissimo qualche sforzo per cercare di
adeguarsi al mutare delle situazioni, rischieremmo di trovarci in
compagnia di un novero di persone – naturalmente sto esagerando
prospettando una situazione limite – somiglianti ai cosiddetti
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idioti specializzati, geniali nel fare una cosa e praticamente incapaci
in tutto il resto.
Lo stesso discorso fatto sulle tecnologie domestiche vale anche in
altri ambiti, ad esempio appena mettiamo il naso fuori casa e saliamo nell’automobile, quel mezzo pensato ab ovo per facilitare l’uomo
negli spostamenti. Oggi al suo interno, a parte i dispositivi di sicurezza, il cui buon funzionamento ci è indicato dalle apposite spie
luminose, praticamente inesistenti fino a non molti anni fa, ci troviamo un mucchio di apparecchiature elettroniche, talora di dubbia
utilità, per cui se la funzione del veicolo è rimasta la stessa nella
sostanza originaria – qui la campana di allarme andrebbe suonata per
motivi che esulano, in parte, dal progresso scientifico – questa però è
venuta a scemare di valore assoluto a causa di un parco macchine
ormai soffocante per numero e per dimensioni sempre maggiori in
rapporto all’uso pratico, che mette in crisi la vita dei centri storici, di
cui l’Italia è piena, impossibili da modificare e da adattare a scelte
politiche già poco lungimiranti in decenni passati ma ora sempre più
fallimentari, quando non scellerate. La dimostrazione sta negli
ingorghi sempre più frequenti, nei rallentamenti, nella paralisi e
quindi nei paradossali allungamenti dei tempi di percorrenza dei
veicoli circolanti che rendono ormai antieconomico il trasporto di
persone e merci perdurando questo stato di cose. Se a ciò si aggiungono i costi astronomici a cui sono giunti i carburanti e l’inquinamento atmosferico, non resta che la sconsolante ammissione che ci
stiamo facendo del male con le nostre mani. Non rimane, mentre
consideriamo in fretta ipotesi alternative, che peraltro non occorre
inventare ex novo, che usare l’auto il minimo indispensabile sapendo
che quel tempo sarà impiegabile anche per ascoltare la radio o il C.D.
preferito, telefonare e spedire messaggi (sapendo che è proibito farlo
in corsa), regolare l’impianto di climatizzazione, regolare elettronicamente i deflettori, regolare l’alzo delle luci secondo la collocazione
dei carichi di bordo, regolare i sedili e il volante – da fare da fermi(io e mia moglie usiamo la stessa auto), regolare il tettuccio apribile,
controllare spie e indicatori, controllare e impostare il sistema satellitare che nonostante ti indichi la via più breve non ha il potere di
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districarti dal traffico e infine, pure andando a “passo di lumaca”provocare un incidente perché così impegnati in tutte queste operazioni
ci si è scordati di controllare la vettura davanti che si è fermata di
botto a uno stop.
Elettronica e robotica a iosa quindi, proprio come in ogni ufficio e
in moltissimi altri luoghi di lavoro. Prendiamo ad esempio un reparto
di chirurgia di un moderno ospedale. Oggi un buon chirurgo non solo
è tenuto a conoscere perfettamente l’anatomia, in particolare di
quella parte del corpo di cui è specialista e usare al meglio i tradizionali strumenti operatori – e lo stesso discorso vale anche per un medico di un qualsiasi altro reparto specialistico – ma questo chirurgo, e
tutti gli altri specialisti, devono essere altrettanto perfettamente edotti
sull’uso e sulle funzioni di un numero sempre maggiore di apparecchiature meccaniche e elettroniche impiegate negli ospedali, nelle
case di cura e negli ambulatori, sicché un buon chirurgo è oggi colui
che è chiamato anche a essere un buon tecnico operatore delle nuove
strumentazioni; ne consegue che le sue conoscenze e competenze
devono espandersi invadendo campi nuovi che prima non gli erano
congeniali. L’uso di queste tecnologie spesso non si apprende a
scuola, ma direttamente “sul campo” e il bisogno, in tutti i settori, di
tecnici altamente specializzati diventa sempre maggiore. Per contro,
a marcare la loro carenza numerica, sono i casi documentati di nosocomi, ma anche di aziende industriali manifatturiere, che acquistano
macchinari costosi e all’avanguardia che poi rimangono inutilizzati
perché non è stato possibile reperire il personale specializzato addestrato al loro impiego.
Da queste considerazioni si desume come non sia affatto infondata
l’esigenza di indirizzare una fascia maggiore di popolazione scolastica verso le scuole superiori e universitarie abilitate agli insegnamenti
tecnico-specialistici e assieme a ciò l’esigenza di trovare sistemi atti
a migliorare o sfruttare al meglio le capacità di apprendimento e i livelli culturali medi delle popolazioni in generale. Tuttavia un balzo
culturale evolutivo non si imporrebbe tanto o solo per ovviare a
queste carenze e quindi non tanto per trovare soluzioni alle problematiche alimentari, energetiche e sanitarie, del resto in certa misura
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già in fieri, ( seppure con difficoltà, perché l’attuale classe dirigente
politica, formata da autentici dinosauri scampati per disgrazia all’estinzione, sembra pensare a tutto fuorché destinare risorse alla ricerca scientifica), quanto alle esigenze inerenti alle relazioni umane: va
pensato, per paradosso, all’impegno da mettere nel fare “violenza”
alla nostra parte violenta per imporci la convivenza pacifica, ormai
unico passaggio stretto della sopravvivenza umana, affinché gli
uomini in un prossimo futuro possano guardare senza rimpianti a
quella (nostra) epoca di uomini antichi con ancora un piede e metà
della persona dentro il margine della protettiva caverna e il resto del
corpo fuori, allo scoperto, vulnerabile e intriso di quella tecnologia
che ci aveva prepotentemente investiti rischiando di travolgerci e
stordirci, mentre noi, pure consci delle enormi potenzialità di bene e
di male che poteva riservarci, non avevamo ancora compreso o deciso la via da seguire, proprio perché, assieme al piede, dentro la caverna tenevamo ancora una buona parte della nostra testa.
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Libro 2°
LA QUESTIONE DELLA MEMORIA
Ad ogni modo la questione relativa alla ricerca di sistemi idonei a
fare aumentare le capacità intellettive umane non è una novità in
quanto sappiamo che fino dalle più remote epoche storiche, in certi
periodi, le civiltà più evolute economicamente solide e durature vi si
cimentarono ottenendo talora rimarchevoli risultati. Per venire ai
giorni nostri, (dato che pare non sia ancora compiutamente possibile
risolvere il problema ricorrendo alle scienze bioingegneristiche e mediche intervenendo direttamente sulle cellule cerebrali umane, anche
se soluzioni di tale natura potrebbero non essere lontane: penso ad
esempio agli studi e alle ricerche per la cura delle malattie cerebrali
degenerative e agli studi per migliorare il funzionamento delle cellule
stesse allungandone l’efficienza nel tempo), potrebbe essere interessante indagare su quali e quanti potrebbero essere i sistemi o i metodi
maggiormente efficaci a fare aumentare le capacità di apprendimento
e memorizzazione, agendo dall’”esterno”, utilizzabili dal maggiore
numero di persone possibile a cominciare dalle giovani popolazioni
scolastiche. Ricerche in tale senso non mancano a partire dalle conoscenze in nostro possesso sulla materia, ad esempio su che cosa è la
memoria o meglio su che cosa sono le memorie: dell’udito, del tatto,
dell’olfatto, della vista, del gusto, quindi memorie relative ai sensi.
Ogni individuo può essere più o meno sensibile, ricettivo, a uno o più
stimoli diversi. Bisognerà poi anche valutare l’aspetto delle memorie
legate ai temi, o ai lavori e ancora delle memorie di breve, di medio e
di lungo termine.
Bisognerà pure valutare i modi o i metodi migliori per mantenere
allenata la mente e i sistemi migliori per “immagazzinare”le conoscenze e di come tenere, “gestire”, il magazzino. Tutto questo e altro
sapendo che l’uomo utilizza al meglio solo una piccola parte del suo
cervello: alcuni studiosi affermano non essere più del 10%.
Per aumentare l’intelligenza? Pure essendo controverso il fatto se
memoria e intelligenza siano due aspetti della stessa questione o due
facce della stessa medaglia, è indubbia l’esistenza di una stretta cor-
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relazione fra i due valori. A tale proposito esistono studi, fra i molti
altri, di uno dei grandi pensatori tedeschi del ventesimo secolo il quale,(secolo), se farà inevitabilmente ricordare la Germania per le sue
colpevoli e tragiche responsabilità politiche del periodo nazista, le
farà anche in parte mitigare, anche se non fino al riscatto, dal grande
contributo dato all’Europa e al mondo dall’opera della nutrita schiera
di pensatori che lo stesso secolo ha prodotto in quel paese. Nel caso
specifico mi riferisco a Hans Blumenberg , 1920 – 1996, ideale
discepolo di Edmund Husserl, che i questa specifica questione
troviamo profondamente immerso nelle ricerche antropologiche a
esaminare il paradosso umano – raffrontato quasi in parallelo al famoso calabrone che in teoria, avendo il corpo troppo grosso e le ali
troppo piccole, non potrebbe volare, ma resta il fatto che, sembrando
essere state violate le leggi della fisica, vola – e chiedersi come questo essere costantemente esposto al rischio del fallimento abbia potuto superare momenti assai critici e sopravvivere.
Ma perché poi l’uomo sarebbe una provocatoria eccezione sottratta alle leggi della natura? Il filosofo parte dall’assunto che in natura
tutte le specie, nel caso specifico quelle animali, sono costituite da
specialisti che hanno trovato e, o continuano a ricercare un loro ambiente specifico al quale adattarsi per sfruttare al meglio la loro specializzazione.
Rispetto a questa regola l’uomo è stato una eccezione, almeno per
quanto ne possiamo sapere, in quanto individuo non specializzato.
Saltando ora, anche in sintesi, il racconto del susseguirsi delle fasi
- eventuali, in quanto frutto di supposizioni differenti – che hanno
condotto a questa de-specializzazione, che richiederebbero un discorso complesso nel quale vengono formulate le domande se possa essere intervenuta una “regressione” di un essere in precedenza specializzato o se si debba pensare a una fase evolutiva ciclica particolare, che richiama o rimanda comunque alla filogenesi, vale a dire
agli studi sulle teorie evoluzionistiche, che molto hanno svelato ma
che ancora molto avranno da dirci; qui il discorso ci porterebbe lontano e comunque fuori dalla mia portata e quindi partiamo dal punto
in cui Blumenberg, facendo proprie le teorie di un altro studioso
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tedesco, Paul Alsberg, che di professione faceva il medico, autore nel
1922 de “L’enigma dell’umanità”, ancora oggi parecchio consultato,
espone le sue conclusive risposte che conducono a un primate-ominide privo di specializzazione. In ogni modo questo fenomeno di despecializzazione ha indotto un mutamento o è sfociato in un avvenimento sorprendentemente unico che è stato l’andatura eretta che ha
trasformato in bipede un individuo che si muoveva sui quattro arti.
Da qui la teoria dell’animale che data la sua mancanza di ruolo specifico sceglie di fuggire davanti ai suoi inseguitori, o per essere più
precisi sceglie l’azione a distanza, dato che ha gradatamente perduta
quella capacità alla lotta corpo a corpo più consona all’animale selezionato.
Si ricostruirà una specializzazione riuscendo a calcolare, grazie alla
distanza, essenza che diventa invenzione e opportunità, alla visione
binoculare e alla posizione eretta la facoltà di fare proprie e usare
delle protesi – una pietra, un bastone o altri oggetti – da lanciare evitandogli così il contatto ravvicinato del corpo a corpo. Scoprirà in
questo modo sia il vantaggio della distanza, sia la facoltà di guadagnare tempo e questa sua capacità di temporeggiare o indugiare non
sarà dovuta al fatto di possedere una ragione ma, all’inverso, al fatto
che possiede una ragione per avere appreso l’arte, via via più affinata, dell’indugiare e del temporeggiare, e farne memoria, la quale gli
procurerà quelle forti emozioni generatrici dell’intelligenza.
Lo stesso concetto di ribaltamento dei dati vale anche, secondo
Blumenberg, rispetto alla mano che non assume importanza fondamentale esclusivamente grazie al pollice opponibile ma anche perché
diventa l’attrice principale del processo di ri-acquisizione specialistica raggiunta non perché l’antenato dell’uomo assumendo la
posizione eretta ha liberato le mani, ma giacché l’ominide, ancora
quadrupede, comincia a lanciare pietre, diventa allora sensato
affermare che la stazione eretta divenne necessaria perché le mani
ora occupate dagli strumenti – protesi - richiedevano, esigevano la
conversione dalla condizione di quadrupede a quella di bipede.
Il calabrone, uomo, dunque vola ed è stata paradossalmente questa
sua mancata facoltà di adattamento a un ambiente, nicchia, specifico
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che se da un lato lo ha esposto al rischio del fallimento, (le specie che
non si adattano scompaiono), dall’altro lo ha posto davanti a una provocazione che egli, unico essere fra tutte le specie, è riuscito a superare; infatti la specie umana, a differenza delle altre, non sapendo o
potendo trovare la collocazione specifica ha trasformato ogni angolo
del mondo in cui si è insediata in un ambiente adatto a vivere. Anche
da qui l’evoluzione, dato che ogni realtà ambientale trasformata ha a
sua volta trasformato il trasformatore.
Ora, al nostro tempo, l’uomo nudo e inerme in un ambiente spoglio
resta in teoria un animale primitivo e privo, come nel passato, di specializzazioni; nei fatti, essendo egli riuscito a munirsi di svariatissimi
tipi di “protesi”, che continuano ogni volta a suscitare quelle emozioni forti che creano intelligenza, è diventato un essere dalle molteplici
specializzazioni, processo tendente a perpetuarsi nel tempo all’”infinito”; fattore questo che porta con sé anche numerosi rischi autodistruttivi, ma non mi pare però si riferisca a questi concetti il papa
quando con foga si scaglia contro la scienza e i suoi pericoli, che egli
identifica invece di natura a-teologica.
Tuttavia pare più che ragionevole porsi le domande del nostro filosofo che ha attraversato quasi tutto intero il tragico secolo ventesimo, il quale si chiede se non sia il caso di porre un freno al moltiplicarsi delle protesi; io direi: pensare seriamente e saggiamente alla
loro selezione o meglio, meditando sull’eredità che nell’arco della
propria vita ognuno lascerà ai suoi discendenti, l’uomo dovrà pensare
di operare quelle scelte per le quali in vita sarà in grado di assumersi
le responsabilità rispondendone in prima persona. Abbozzavo queste
pagine proprio nei giorni del terremoto che ha colpito L’Aquila e
l’Abruzzo; ci sono stati crolli di edifici di recente costruzione e chi li
ha fatti, lucrando sulla pelle altrui, quali assunzioni di responsabilità
per il futuro si era accollato? Ancora un altro esempio fra i molti: se
al fine di produrre facilmente energia si privilegiano opzioni come
quelle del nucleare “sporco” che lascerà il mondo in balia di tonnellate di scorie mortali la cui pericolosità andrà esaurendosi solo in
migliaia di anni, queste scelte non solo saranno inopportune ma
anche irresponsabili dato che sconsideratamente scaricheranno il pro-
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blema sulle generazioni future. Su questo tema esistono pareri diversi, contrastanti e anche opposti e quindi potevo proporre un esempio
suscitante maggiore consenso o minore contrasto, ma ho di proposito
voluto parlare del nucleare dato che su questo argomento esporrò più
avanti alcune mie considerazioni.
Immagino siano molte le persone che almeno una volta hanno letto
o avuto l’occasione di assistere a teatro o alla televisione alle prestazioni di persone capaci di memorizzare, dopo un breve tempo di
ascolto o di osservazione , grandi serie di parole, nomi, oggetti, numeri, ecc.., che riescono poi a elencare nel modo in cui sono stati disposti o nella sequenza in cui sono stati indicati, o in senso inverso, o
in modo intervallato o in qualunque maniera l’eventuale esaminatore
possa richiedere. E’ accertato che alcune persone sono dotate più che
altre della cosiddetta “memoria fotografica” o di maggiore capacità e
rapidità di apprendimento per doti naturali; ma si è anche altrettanto
accertato che molte persone sono in grado di ottenere tali risultati
adottando sistemi specifici, particolari e, o personali idonei a incrementare la loro capacità di apprendere e memorizzare, e ove questi
sistemi o metodi potessero essere diffusi su ampia scala potrebbero
condurre a risultati sicuramente benefici per l’umanità. E pure se si
obbiettasse non essere accertato che attraverso l’acquisizione e la
memorizzazione di un maggiore numero di nozioni l’individuo diventa più intelligente, tuttavia è verosimile se non proprio certo non
sia vero il contrario. Comunque è ormai assodato essere le capacità
cerebrali umane sfruttate assai al di sotto delle loro reali potenzialità,
per cui non sarebbe affatto strano che sia possibile trovare il modo
sia di ampliarle che di usarle in maniera migliore.
E’ risaputo che nell’antica Roma a tutti gli studenti di retorica,
materia per studenti delle classi superiori, venivano fatti apprendere a
memoria migliaia di nomi, cose, oggetti, luoghi, fatti o altre entità
che venivano numerate. Di queste poi gli studenti si servivano per
memorizzare, per connessione o attinenza, ulteriori nuove nozioni
inerenti sia alle loro materie di studio sia ai discorsi che avrebbero
dovuto tenere. Accadeva che attraverso tali metodologie di apprendimento gli studenti erano in grado di ripetere parola per parola, tal-
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volta anche dopo averli ascoltati o letti una sola volta, interi brani.
E parlando di memoria, tutto ciò mi ha fatto venire in mente un
libro scritto da Roberto Vacca e Cristina Ambrosetti, uscito nel 1990
ma, per la mancanza di riferimenti e connessioni storiche relative al
1989, forse ultimato almeno un paio di anni prima, edito dal gruppo
Fabbri, Bompiani, Sonzogno , dal titolo “Il labirinto della memoria”.
Una vicenda di spionaggio fra grandi potenze, che miravano a
impadronirsi di un metodo, particolarmente efficace per aumentare
rapidamente la memoria, affiorato casualmente dal passato. La vicenda iniziava da un antefatto storico in parte veritiero e in parte elaborato dagli autori per ragioni inerenti l’arricchimento della trama, i cui
personaggi principali erano Giulio Camillo Delminio, Leonardo Da
Vinci e il re di Francia Francesco 1°. Giulio Camillo Delminio, 14851544, era un erudito letterato e umanista italiano, un veneto nativo di
Portogruaro, Venezia, studioso delle dottrine neoplatoniche e delle
discipline cabalistiche, le ultime viste a quel tempo in maniera assai
diversa da quanto o come sono considerate oggi. Lo studioso aveva
progettato di scrivere una <<curiosa>>enciclopedia della scienza intitolata <<La idea del theatro>> . Da alcune fonti si apprende che
questa idea rimase a tale stadio e non prese corpo in quanto sembra
che l’erudito non ne ponesse poi mano. Altri, fra cui gli autori del
libro, che hanno indagato più a fondo scovando altre pubblicazioni
sull’argomento, affermano che l’idea prese corpo solo che essa, ovvero la sua decodificazione non si concretizzò, come si poteva
supporre, in uno o più libri, (anche se un libro venne in effetti scritto
dal suo ideatore), ma si sviluppò e prese forma in una costruzione o
“theatro” che il Delminio costruì in Francia per il re Francesco 1°,
che per questo suo lavoro lo retribuì con 500 ducati. La forzatura sul
prologo, del resto confessata come tale, è invece rappresentata dal
fatto che si vuole sia stato Leonardo Da Vinci in persona a presentare
lo studioso veneto al re di Francia nella sua nuova e maestosa residenza; ma dato che Leonardo morì nel 1519 e Delminio arrivò in
Francia sia pure di poco dopo quella data il falso storico diventa evidente: non si può comunque escludere che l’umanista avesse in un
tempo precedente chiesto a Leonardo, che era ospite del re, di essere
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aiutato a farsi introdurre presso il sovrano francese.
La residenza, o castello reale in questione era quello di Chambord a
quattordici chilometri da Blois, sulla Loira, uno dei più imponenti e
splendidi esempi di architettura del rinascimento francese, costruito
per Francesco 1° a partire proprio dall’anno della morte del grande
genio di Vinci. A parte il theatro le cui misure ideali di base erano 40
per 40 metri, del quale Delminio si dice avesse fatto un modello in
scala da sottoporre alla visione del re, il castello reale stesso rappresentava per lo studioso lo strumento culturale e la sfida ideale allo
sviluppo del suo disegno, in quanto secondo il suo metodo ogni
piano, stanza, anfratto, salone, corridoio, terrazzo, volta, nicchia,
scala, ballatoio, muro, colonna, torre, camino, finestra , porta, guglia,
ecc.., opportunamente numerate e battezzate diventavano fonti di
informazioni e racconti e descrivevano nozioni che facilmente restavano impresse nella mente di chiunque le avesse assimilate se le
avesse apprese secondo un certo ordine e una certa logica. Queste
nozioni erano quindi esposte in modo tale da richiamare per relazione, affinità o attinenza, altri concetti, idee, esposizioni, conoscenze
facilmente memorizzabili sempre seguendo tale metodologia.
Questo sistema che doveva rappresentare per il re, i suoi ministri e
collaboratori una formidabile arma di sviluppo intellettuale per rendere la Francia più evoluta e potente rispetto alle altre nazioni, per
motivi inerenti alla vicende storiche, probabilmente belliche o economiche, andò accantonata e poi dimenticata. Non però perduta, perché
venne riesumata da un altro illustre italiano, un gesuita nato a Macerata nel 1552 e morto a Pechino nel 1610. Parlo di Matteo Ricci, il
quale - secondo le ricerche poi pubblicate da Jonathan D. Spence nel
libro “Il palazzo della memoria di Matteo Ricci”, edito da Adelphi
nel 1983, dal Saggiatore (1987) e ancora Adelphi nel 2010 – ricostruì
il palazzo della memoria nella capitale del Celeste Impero.
Oggi a Pechino, enorme metropoli in tumultuosa trasformazione, di
questo straordinario personaggio resta solamente una lapide, in quanto la sua tomba, che figura ancora descritta sulla maggior parte delle
guide turistiche, non esiste più essendo stata purtroppo distrutta dalle
guardie rosse nel periodo maoista della “rivoluzione culturale”: per
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la verità la tomba nel corso dei secoli è andata distrutta perlomeno
altre tre volte.
Ma di Matteo Ricci vale certo dire di più ed è quanto mi appresto a
fare nel “capitolo” seguente che in buona misura dedicherò a lui.
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Libro 3°
MATTEO RICCI : I GESUITI e altri…
Come un po’ tutte le storie che mi appresto a raccontare amo, ove
ritenga esista l’esigenza, predisporre il terreno esponendo quegli antefatti che potranno tornare utili al lettore per comprendere in modo
più completo l’insieme della vicenda.
Il terreno predisposto all’evangelizzazione dell’estremo Oriente –
che peraltro sortì risultati piuttosto modesti – era stato dissodato da
colui che fu chiamato “l’apostolo dell’Oriente”, vale a dire il gesuita
Francesco Saverio nel 1542, appena due anni dopo la fondazione
della Compagnia di Gesù , realizzata da Ignazio di Loyola.
In realtà anche altri tentativi di penetrazione erano stati effettuati
ben prima di queste date, tuttavia l’unico – non il solo in verità e in
seguito farò solo alcuni nomi dato che dirne di più non aggiungerebbe molto costrutto ai fatti di per sé abbastanza completi – personaggio di grande rilievo, in particolare per il libro di conoscenze che ci
lasciò, che prima di allora aveva intessuto significativi rapporti con la
Cina era stato Marco Polo, senza dimenticare il primo breve viaggio
del padre e dello zio; ma ciò era accaduto secoli prima, vale a dire sul
finire del 1200.
Marco, pure recando con sé un messaggio papale da consegnare al
sovrano dell’Oriente non aveva certo intrapreso quel viaggio per motivi evangelici ma spinto oltre che dalla curiosità, dalla fame di avventure e conoscenze, soprattutto dalla natura propria degli uomini
che esercitavano quella sua professione di mercante di cui i veneziani
e anche i genovesi rappresentavano l’archetipo in Europa. Tuttavia
intraprendere questi lunghi viaggi con un minimo di sicurezza non
sarebbe stato possibile senza che prima non si fosse realizzata la conquista, la riunificazione, stabilizzazione e pacificazione delle turbolente province orientali nel grande e unico impero cinese unificato da
Gengis Khān, che permise la realizzazione della “pax mongolica”.
Pure non scordando mai lo scopo del suo viaggio Marco trascorse
la giovinezza e buona parte dell’età matura affascinato e stregato da
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quel paese, il Katai, governato da Kubilai Khān, nipote del grande
condottiero Gengis Khān, e dal suo entourage di una dinastia non cinese; infatti vivendo egli in quella corte di stirpe mongola non
imparò mai la lingua cinese ma l’idioma di quei nuovi governanti.
Quando alfine ritornò in patria con il racconto delle cose fantastiche
viste e vissute in quel paese, lasciò i lettori europei colmi di stupore e
sbalordimento.
Di Matteo Ricci, che ripercorse le orme del suo celebre connazionale tre secoli più tardi, si può senz’altro dire che, a parte l’avere
subito la magia di quei luoghi, che contagiò tutti quelli che in quel
tempo li visitarono, essere stato l’anti Marco Polo e questo per
l’essenza stessa del diverso compito della sua missione, ma anche per
la sua propria personale natura umana; resta il fatto che entrambi lasciarono di sé un ottimo ricordo nel paese che li aveva ospitati. La
sfida che Ricci tentò fu inversa e comunque differente di quella del
mercante veneziano: egli infatti cercò di avvalorare come meritevole
di rispetto la civiltà Occidentale e cristiana presso quel grande paese
che andava fiero della propria superiorità culturale.
Tentativi di evangelizzare l’Oriente estremo erano stati fatti addirittura prima del viaggio dei Polo ma non diedero sostanzialmente risultati, tuttavia permisero, anche se a una cerchia ristretta di occidentali, di acquisire conoscenze di quel lembo di mondo fino a quel
tempo ignorate. Uno di questi primissimi viaggiatori fu Giovanni di
Pian del Carpine, nativo, appunto, del paese umbro di Pian del Carpine nel 1182 circa. Era stato uno dei primi discepoli di S. Francesco
e dopo questa sua fondamentale esperienza ricevette la carica di provinciale per la Germania nel 1228 e per la Spagna nel 1230.
I primi decenni del 13° secolo furono caratterizzati dallo straripante
espansionismo mongolo e questo fatto aveva destato nell’Occidente,
nei suoi sovrani e in particolare nel papa Innocenzo 4° grande preoccupazione, tanto più che i mongoli nel 1241 erano giunti nell’Europa
dell’est e avevano espugnato Cracovia e Breslavia, avevano quindi
sgominato un esercito inviatogli contro a Liegnitz (Legnica), la città
polacca della Bassa Slesia. Nel ‘42 si spostarono a sud e saccheggiarono Spalato e Cattaro. Per porre fine a questa montante marea che
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sembrava non trovare ostacoli, facilitata anche dalle numerose discordie impedenti un’intesa fra i prìncipi cristiani, al papa non restò
che inviare delle ambascerie fra i Mongoli per sondare le loro intenzioni, ma non solo, e la delibera decisamente azzardata, per non dire
impudente fu, 1) tentare di convincere i Mongoli a fare con l’Occidente cristiano una alleanza contro i mussulmani – e questo nella
logica di quella scienza politica ci poteva anche stare -, 2) convertirli al cattolicesimo. La prima delegazione a partire fu appunto
quella guidata da Giovanni di Pian del Carpine che di fatto inseguì i
mongoli giacché questi si stavano ormai ritirando perché avevano
compreso di avere oltrepassato i limiti utili, fisiologici, di una conquista che potesse essere stabilizzata nel tempo. Partito nel 1245 da
Lione, Giovanni attraversò la Germania e la Polonia e seguendo la
scia dell’orda in ritirata giunse all’accampamento imperiale di Sira
Ordu , presso Karakorum nell’agosto del 1246, giusto in tempo per
assistere all’assemblea, detta Kuriltay, di Güyük nuovo khān, che
regnò solo per due anni. Costui accolse con curiosità e benevolenza
la delegazione del papa Innocenzo ma fu egli, di rimando alle proposte del capo dei cristiani, a invitare il papa e i prìncipi cristiani a dichiararsi suoi vassalli. Risposta analoga a questa fu quella che ricevette il re di Francia Luigi 9° il quale nel 1249 aveva inviato una
ambasciata guidata da Andrea di Longjumeau che arrivò fino in
Mongolia. Giovanni di P. d. C., che era ritornato alla curia papale
verso la metà del 1247, pure consegnando al pontefice la deludente
lettera del khān, portava con sé anche una relazione sui Mongoli dal
titolo “Historia Mongolorum”, la quale può senz’altro essere considerata la più antica esposizione storica e geografica giunta all’Occidente medievale da quei lontani paesi. Tale narrazione, riedita nei
“Sinica Francescana”, 1923-1933, si rivelò ricca di notizie riguardanti il popolo mongolo, i suoi usi e costumi, la sua religione in
maggioranza di carattere animista, le sue tecniche di guerra con particolare cura alla nomenclature a descrizione delle armi in uso a quel
popolo. Secondo il francescano, che tese a compiere lo sforzo per
individuare il carattere e gli eventuali punti di contatto e confronto
della sua civiltà con quella orientale, in particolare mongola, la gente
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che egli conobbe si mostrava interessata più alle conquiste che ad
altre cose, né pareva essere attratta dalla ricchezza culturale della
multiforme civiltà occidentale. In effetti Giovanni era giunto in quelle terre e fra quelle genti in “leggero anticipo” e non potè conoscere
quindi quei mongoli rapidamente sinizzati che solo un decennio più
tardi conobbe Marco Polo.
Dopo quella missione in estremo Oriente a Giovanni di Pian del
Carpine vennero affidati altri importanti incarichi ai quali ottemperò
instancabile fino al 1252, anno della sua morte avvenuta a Antivari
nel Montenegro.
I predicatori di quel tempo, in particolare i francescani, ma anche i
domenicani, mandati in Oriente, furono una nutrita schiera e dire di
tutti anche brevemente occuperebbe parecchio spazio, che però non
aggiungerebbe molto al proposito di mostrare lo sforzo di penetrazione evangelica in quelle remote province, sforzo che, anche se non
molto fruttuoso, pure a singhiozzo raggiunse qualche scopo, per cui
aggiungerò solo un paio di nomi di uomini che mi sono parsi interessanti anche per aspetti che esulano da quella che fu la loro specifica e
primaria missione. Il primo fu un francescano fiammingo di nome
Guglielmo di Rubruck o Rubrouk, mentre altre varianti grafiche
danno anche Roebruck, Rubroeck, Ruysbroek e Rusbruiquis.
Questo religioso viaggiatore era nato, come facilmente avrete compreso, nel paese suddetto, vicino alla città di Cassel, nelle Fiandre, in
una data compresa fra il 1215 e il 1220 e morì nel 1293. Presi i voti
nel 1251 si recò in terra santa seguendo la crociata guidata dal re di
Francia Luigi 9°, il Santo, l’unico signore europeo che aveva accolto
l’appello lanciato nel 1243 dal papa Innocenzo 4°. La preparazione,
come si evincerà, andò per le lunghe: le prime truppe partirono nel
’48 e attesero il re che giunse nel ’50. La spedizione si risolse in un
disastro e lo stesso re fu fatto prigioniero. Come minimo, per gratitudine, la chiesa romana doveva farlo santo; e infatti lo fece.
Come ebbi a dire, per questa crociata il papa si era appellato anche
ai mongoli, ricevendone vaghe promesse, ma in sostanza un rifiuto,
al che, indispettito, il pontefice propose una crociata anche contro di
loro, ma non trovò alcun ascolto.
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Questo pontefice, che fu essenzialmente un uomo politico, visse
certamente tempi burrascosi, destreggiandosi su più fronti; ma la sua
battaglia più strenua fu quella combattuta contro la casa imperiale di
Svevia, battaglia già iniziata dai suoi predecessori ma da lui conclusa
e coronata dal successo, in verità un poco fortuito: fatti come la scomunica comminata all’imperatore Federico 2°, fattore che lo mise in
cattiva luce presso vari sovrani e prìncipi europei, la sua morte inaspettata e il non avere lasciato eredi – in realtà un figlio c’era, Enzo,
ma era prigioniero nelle carceri a Bologna, dove rimase fino alla
morte – concorsero al successo finale di Innocenzo. La gloria per il
suo trionfo sul principale simbolo del potere temporale europeo fu
però macchiata dall’onta ben maggiore, indelebile e perpetua, per
avere egli promulgato nel 1252 la bolla “Ad extirpanda” con la quale
fu consentito che l’inquisizione, nelle sue pratiche indagatorie contro
le eresie, facesse uso della tortura, con le abominevoli conseguenze
che poi ne seguirono.
Sotto il suo papato l’attività missionaria ebbe un rinnovato impulso
e in particolare con i due nuovi ordini dei francescani e dei domenicani . E appunto il francescano Guglielmo di Rubruck, mentre si trovava in terra santa ricevette l’incarico di partire, assieme ad altri due
confratelli, per recarsi presso la corte mongola di Mangu Khān. Iniziato il suo viaggio da Costantinopoli nel 1253, Guglielmo fu ospite
presso vari signori dei paesi attraversati fino a che giunse alla corte
del nobile Sartaq, figlio di Batū Khān il quale non professava la religione animista del luogo. Immaginiamo quanto dovette essere stata
grande la sorpresa di Guglielmo nel constatare che questo signore,
forse sovrano di una delle province dell’impero, era un seguace della
religione nestoriana, vale a dire cristiana, seppure ritenuta eretica. Il
francescano forse non sapeva, dato che ormai doveva essersi perso il
ricordo, che i nestoriani del 5° secolo erano stati fatti oggetto di persecuzione da parte dei cristiani che erano nell’ortodossia. I nestoriani, dopo la condanna loro inflitta dal concilio di Efeso del 431, per
non subire lo sterminio dovettero fuggire in Oriente. Fu così che la
dottrina nestoriana portò il suo apostolato fino in Tartaria, in Mongolia, in India e in Cina. A tale proposito il primo documento cristiano
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rinvenuto in Cina è stata la famosa iscrizione di Si-ngan, scolpita sia
in lingua cinese che siriana nel 781 ed è della chiesa nestoriana. Il
successo di questa dottrina in quelle lontane province orientali fu tale
che nel 12° secolo si contavano fino a 200 diocesi, alle quali facevano capo alcuni milioni di fedeli di religione cristiana nestoriana. La
fase discendente di questo culto iniziò con l’invasione di Tamerlano,
Timur nella lingua tartara, mussulmano dell’ortodossia sunnita, il
quale fu peraltro considerato un flagello anche per lo stesso mondo
mussulmano. La decadenza nestoriana subì poi un vero tracollo a
causa delle persecuzioni curde e turche e sopravvisse solo in piccole
comunità, una buona parte delle quali rientrarono poi nel cattolicesimo romano.
Ma torniamo a Guglielmo di Rubruck che, attraversati i valichi dei
monti Urali, arrivò nel 1254 alla corte di Mangu Khān dove fu ricevuto benevolmente. Aggregatosi al corteo imperiale giunse a Karakorum giusto in tempo per celebrare la Pasqua in una chiesa nestoriana.
Nell’agosto dello stesso anno, dopo aver constatato l’impossibilità di
portare a buon esito la sua missione, dato che anche Mangu Khān
chiedeva ai prìncipi cristiani di farsi suoi vassalli, iniziò il viaggio di
ritorno. L’anno successivo era a Tripoli di Siria, poi partì per la
Grecia dove si ritirò in meditazione in uno dei monasteri del monte
Athos. Del suo viaggio stilò una relazione in latino la quale, per la
dovizia dei particolari, i precisi rilievi e annotazioni di tipo etnico,
linguistico e religioso e le notizie sui costumi e comportamenti delle
popolazioni incontrate, fu considerata fra le più importanti fonti medievali acquisite al fine della conoscenza delle genti dell’oriente e
mongole in particolare.
Il successivo e ultimo viaggiatore-predicatore fra quelli inviati in
Oriente che voglio porre all’attenzione è un altro francescano che si
chiamava Giovanni da Montecorvino, piccolo paese o borgo nelle vicinanze di Salerno, dove egli ebbe i natali nel 1247. Non si hanno
notizie precise di quando fu inviato in Asia, ma sapendo che ricevette
l’incarico da papa Niccolò 4°, anche costui francescano, si deduce
che fu comunque prima del quattro agosto del 1292, data della morte
del pontefice. Ricevuto il compito di diffondere le Scritture fra
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i pagani, entusiasta si apprestò all’opera e attraversata l’Armenia, la
Persia e l’India giunse infine in Cina a Kambalik o Hambaliq, che significava la città del Khān.
Non ne avevo ancora fatto cenno perché sicuramente il lettore avrà
già immaginato ciò per proprio conto, ma non è superfluo dire dello
spirito di sopportazione, dei disagi, delle fatiche, del coraggio e della
fede nella propria missione che erano necessari ai predicatori-viaggiatori di quel tempo nell’affrontare i pericoli del compiere viaggi
così lunghi e densi di incognite intrapresi, quando le condizioni economiche lo permettevano, a dorso di mulo, oppure anche semplicemente a piedi, incontrando popolazioni sconosciute, talora ostili, per
non dire dell’estremo pericolo rappresentato dalle bande di predoni
senza scrupoli e senza legge, attraversando territori impervi ed esposti a fenomeni climatici di ogni genere.
Nella città del Khān, odierna Pechino, Giovanni da Montecorvino,
vinta la notoria riluttanza di quei popoli ad accogliere fedi estranee al
proprio credo – ci piace pensare che questa benevolenza accordatagli
sia stata anche frutto del ricordo lasciato in quel paese, in particolare
a corte, da Marco Polo che era da poco partito per il viaggio di ritorno alla sua Venezia -. Resta il fatto che Giovanni, più e meglio di
ogni altro confratello che lo aveva preceduto in quei remoti luoghi,
riuscì nel suo intento di diffondere il messaggio cristiano e il suo
apostolato produsse frutti insperati. Gli venne concessa la licenza di
costruire chiese e conventi e essendo arrivata a Roma la notizia dei
suoi successi, dal pontefice gli fu conferita la nomina di arcivescovo
di Kambalik -1307-.
Anche Giovanni da Montecorvino scrisse una interessante relazione del suo viaggio e della vita della capitale, ma non la portò personalmente a Roma dato che rimase in quella che era diventata la sua
nuova patria fino al momento della sua dipartita terrena avvenuta
nella capitale cinese nel 1328.
Come si è potuto vedere, nel periodo che andò dalla metà circa del
13° secolo ai primi decenni di quello successivo, i Polo non furono
certo gli unici viaggiatori europei che raggiunsero la Cina, una Cina
che mostrò a costoro un carattere non propriamente “cinese”, dato
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che la dinastia regnante, i dignitari, gli ufficiali, i protocolli di corte e
probabilmente anche alcuni ordinamenti legislativi erano mongoli,
tuttavia la nuova classe dominante e, naturalmente, la dinastia, gli
Yuan - che fu quella che prima al mondo introdusse la cartamoneta
dandole valore legale – che regnò fino al 1368, conscia della superiorità culturale del paese che aveva conquistato, tese quasi da subito a
sinizzarsi. Quanto ai sentimenti dei cinesi autentici erano combattuti
da due forze divaricanti: da un lato il fastidio di un governo straniero,
“barbaro”, dall’altro l’orgoglio perché questo governo aveva portato
all’apogeo l’espansione, la potenza, l’unità e la stabilità dell’impero.
Dopo Giovanni da Montecorvino i viaggi dei missionari in estremo
Oriente si diradarono fino a cessare praticamente del tutto. Probabilmente la peste originata, pare, in India, che colpì l’Asia provocando
23 milioni di morti e di seguito l’Europa provocandone addirittura
altri 25 milioni, concorse fortemente all’interruzione delle spedizioni
evangeliche della chiesa di Roma. Il 1348 fu l’anno di maggiore
virulenza in Europa di quel morbo che è rimasto nella storia come la
più grande catastrofe umanitaria provocata da un’epidemia.
Un altro motivo della interruzione delle spedizioni evangeliche in
Cina stava anche nel fatto che forse era stato commesso un peccato
di alterigia dato che non si era sufficientemente valutato il fatto che i
cinesi erano un popolo orgoglioso, convinto della propria superiorità
culturale, non disposto ad accettare indottrinamenti da persone provenienti da paesi che loro ritenevano barbari
In breve, del lavoro di apostolato dei missionari cristiani non rimase praticamente nulla e tutto venne dimenticato: sarebbero passati più
di due secoli prima che degli occidentali fossero ancora ammessi,
dopo non poca reticenza e diffidenza, in quella che nel frattempo era
diventata la Cina guidata dalla dinastia Ming, la dinastia del Celeste
Impero, 1368 – 1644.
L’Occidente , il Cristianesimo e i papi – non tutti in verità e per
questo di tanto in tanto non mancarono i motivi di screzio tra la corte
di Pechino e quella romana e più spesso a causa dell’alterigia di questa ultima – dovettero comprendere che i tentativi di penetrazione
fatti in precedenza erano stati piuttosto dilettanteschi e avventati,
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compiuti da persone, pure di buona volontà, ma del tutto impreparate
a comprendere la filosofia di quei popoli e muoversi fra essi con tutto
il tatto e la diplomazia conseguente.
Avvenne pertanto che a un religioso intelligente e sensibile a queste tematiche fu affidato il compito di preparare un nuovo metodo di
“attacco” alla Cina attuando una preventiva selezione dei religiosi da
inviare, i quali una volta insediati avrebbero dovuto costituire una
“testa di ponte” per un futuro radicamento e allargamento del cristianesimo. Costui era il gesuita Alessandro Valignano e la prima persona di cui si servì fu padre Michele Ruggieri che nel 1578 era andato
in missione in India e da lì lo fece venire presso di sé a Macao.
Solo venti anni prima della data succitata le flotte portoghesi avevano fondato le loro prime colonie alle porte della Cina e i cinesi
della costa, gente pratica e portata ai commerci, non mancarono di
cogliere le occasioni per concludere buoni affari, incrementare i guadagni e i contatti si stabilirono.
Ruggieri raggiunse Macao nel 1579 e subito si dedicò all’apprendimento della lingua mandarina che era l’idioma parlato dalla classe
dirigente e colta, dagli aristocratici, dagli ufficiali e dai mandarini. Ai
due religiosi fu poi permesso di spostarsi da Macao a Canton, dando
inizio a quella che sarebbe diventata la lunga marcia di avvicinamento alla capitale. Il 10 settembre del 1583 padre Ruggieri, che nel frattempo era stato raggiunto da padre Matteo Ricci, assieme a questi
prese residenza a Chao-K’ing, che allora era la capitale della
provincia di Canton. Per giungere fino a questa città i nostri eroi avevano dovuto usare tutta la prudenza e tutta la diplomazia di cui furono capaci, ma non mancò nemmeno, in verità a fasi alterne, una
inconsueta disponibilità dei mandarini.
E siamo arrivati pure noi, dopo una lunga marcia di avvicinamento,
al nostro personaggio principale, Matteo Ricci e quando ci si imbatte
in una persona che desta un insolito interesse vale la pena di approfondirne la conoscenza.
Il terreno predisposto all’evangelizzazione dell’Asia era stato dissodato da colui che fu poi chiamato “l’apostolo dell’Oriente”, vale a
dire quel Francesco Saverio che due anni dopo la fondazione della
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Compagnia di Gesu , realizzata da Ignazio di Loyola nel 1540, sbarcò nella colonia portoghese di Goa, nell’India centromeridionale,
sulla costa occidentale bagnata dall’oceano Indiano. Dopo aver svolto la sua opera evangelica in quella colonia, Francesco Saverio si
spostò a Malabar, quindi nel regno di Travancour o Travancore, antica e storica regione meridionale dell’India, nello stato di Kerala. Da
qui partì per le Molucche, dalle quali raggiunse il Giappone e da questo paese volse poi lo sguardo alla Cina, la sua agognata meta e nel
mentre compiva il viaggio verso il grande paese fu colpito da una
grave affezione polmonare che lo portò alla morte sull’isola di Shang
- Chuang, (Sungchiang), sulle coste cinesi centromeridionali. Era
l’anno 1552.
Matteo Ricci era nato a Macerata nel 1552, lo stesso anno della
morte di Francesco Saverio quindi e di costui colse idealmente
l’eredità, anche se poi la sua personalità di uomo libero lo condusse a
interpretazioni soggettive, ritenute poco ortodosse, di alcuni passi
delle Scritture: sembra quasi di vedere nell’anziano che muore e nel
bimbo che nasce un immaginario ideale passaggio di consegne.
Voglio anticipare che nemmeno questa seconda ondata evangelizzatrice, compresa quindi l’opera magistrale di Ricci, lasciò poi una
grande impronta in Cina, ma ciò non è certo imputabile alla sua persona, anzi: altri insistettero dopo di lui con esiti di certo più modesti
e in ciò contribuì non poco la presunzione romana che continuò a
non comprendere, o non volle comprendere – come del resto anche
oggi in buona sostanza continua a accadere – che la ragione non è
una sola e non sta nelle tasche di nessuno, ma le ragioni sono molteplici e assai probabilmente l’avvicinamento alla verità, sempre relativa, sta nel confronto alla pari fra tutte. Sembra che l’Occidente cristiano – e forse anche altre universalità religiose – sulla questione
dogmatica sia affetto da una forma di “inconsapevole” egocentrismo
obnubilante, ritenuto peraltro del tutto normale: andiamo a evangelizzare e se siamo respinti, talora con violenza, diciamo stupefatti:
“come! Andiamo a portare loro la luce e questo è il loro ringraziamento?” Proprio non siamo sfiorati dal pensiero che della nostra luce
a loro può non interessare poi molto dal momento che ne hanno
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già una di loro che peraltro non intendono proporre forzatamente ad
alcuno dato che comprendono che forzature in questo senso sarebbero puri atti di violenza.
Dopo una prima istruzione elementare impartitagli da insegnanti
privati fra le mura domestiche – la sua era una famiglia benestante di
vecchia origine nobiliare – nel 1561 Matteo continuò gli studi nella
sua città natale in una scuola che era stata aperta dai gesuiti. Nel ’68
si trasferì a Roma con l’intenzione di studiare giurisprudenza, forse
in obbedienza ai desideri della famiglia, però il 15 agosto del 1571
entrò nel collegio romano della Compagnia di Gesù dove si dedicò
agli studi scientifici, in particolare quelli matematici sotto la guida
dell’eccelso maestro Christoph Clavius, famoso matematico e astronomo tedesco, 1537- 1612, amico anche di Galileo.
Fu in questo periodo che Matteo maturò il desiderio di farsi missionario in Asia, anche se c’è da immaginare non siano mancate le
sollecitazioni dei suoi superiori che avevano compreso il grande potenziale del giovane studente.
Nel 1577 era a Coimbra, in Portogallo, sede di una delle più prestigiose università europee, sorta nel 1308. L’anno seguente salpò da
Lisbona alla volta di Goa, la colonia portoghese sulla costa indiana,
dove si fermò per completare gli studi di teologia, al temine dei quali
fu ordinato sacerdote. Lo stesso anno ricevette l’ordine di partire per
la Cina e precisamente per l’altra colonia portoghese in quel paese,
Macao, dove si fermò per apprendere la lingua cinese che assimilò in
maniera perfetta così come altrettanto bene assimilò la cultura orientale, non solo, ma contrariamente alla predominante mentalità dei
mercanti, ma anche dei religiosi che lo avevano preceduto, ribaltando
la usuale forma mentis europea, calcolatrice e colonizzatrice, che non
gli era propria, si cambiò il nome in Li Madou, ma poi i cinesi lo
chiamarono Xitai, che significava maestro dell’Occidente. Il suo
viaggio proseguì poi per Chao-king, odierna Kao-yao, nella regione
del Kuangtung, dove si congiunse con l’atro pioniere delle missioni
cinesi, che già abbiamo incontrato, il gesuita Michele Ruggieri, nativo, nel 1543, della provincia barese. Da Kao-yao i due confratelli si
spostarono, nel ’79, a Chau-chou, odierna Jiaoxiang, storica colonia
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della Cina , che dall’arrivo degli europei ebbe instabili andamenti
storici passando dalla Cina al Portogallo, poi alla madrepatria e da
questa alla Germania, 1898, dopo di che, nel 1914, fu occupata dal
Giappone e ritornò definitivamente alla Cina Nel 1922.
A quel tempo in Cina vigevano leggi che vietavano tassativamente
l’entrata nel paese agli stranieri, salvo, pare di capire, casi particolari
e infatti Matteo Ricci riuscì a ottenere il permesso per due brevi soggiorni a Canton, grazie alla benevolenza dei mandarini, nel 1580 e
’81. Ma fu solamente nell’anno 1583, 10 settembre, dopo diversi inconvenienti, che i nostri religiosi poterono usufruire della deroga e fu
concesso loro di prendere residenza a Chao-king, che era la capitale
amministrativa cantonese. Solo l’esercizio di una scrupolosa prudenza permise ai missionari di rimanere in quel luogo conquistato con
enormi difficoltà e a tale proposito essi si guardarono bene dal dichiarare il loro scopo ma a chi chiedeva loro il perché della loro venuta, in particolare ai mandarini, pure non negando di essere religiosi
rispondevano che erano venuti attratti dalla fama, giunta anche in
Occidente, del buon governo condotto in questo paese. Manifestando
subito le loro reali intenzioni non sarebbero stati accolti dato che non
era concepita fra le religioni di quel paese una palese, ma nemmeno
occulta, forma di ”evangelizzazione” che sarebbe cozzata contro un
sentire, una filosofia e un orgoglio popolare e dirigenziale che ritenendo barbaro il mondo esterno riteneva, di conseguenza, di non
avere niente da imparare da questo, non solo, ma che idee differenti
dalle proprie, eventualmente importate, avrebbero potuto rappresentare un pericolo per l’armonico equilibrio e la stabilità del paese.
I gesuiti si astennero quindi dal prendere per primi l’iniziativa, ma
si risolsero di parlare della loro fede solo se interrogati: bisognava
pertanto stimolare la curiosità dei loro visitatori e in particolare quella dei mandarini. Nella sede che era stata loro concessa avevano collocato bene in vista un grande quadro che ritraeva la Madonna col
suo bambino fra le braccia e naturalmente chi li andava a visitare non
mancava di domandare chi fossero le figure rappresentate e quale
significato avessero e fu così che i nostri gesuiti furono “obbligati” a
parlare di religione. I confratelli avevano portato con loro anche nu-
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merosi altri oggetti, alcuni dei quali se non proprio sconosciuti perlomeno differenti dal punto di vista meccanico o artistico; fra questi
vi erano strumenti musicali, apparecchiature astronomiche, congegni
per calcoli matematici, orologi di varie fogge e dimensioni, mappe o
viste di città, progetti di abitazioni, ritratti a colori a olio, grossi volumi splendidamente rilegati con pagine finemente stampate e illustrate
e altre cose ancora. Tutto ciò incuriosiva fortemente i loro interlocutori e li stupiva alquanto e dato che avevano maturato un’idea di un
mondo esterno barbaro e primitivo dovettero constatare che così non
era. Presto la notizia che anche fuori dal loro paese esistevano civiltà
evolute si diffuse e i nostri religiosi erano chiamati a rispondere a
domande sempre più numerose e le risposte richiamavano spesso a
nuove questioni. La loro casa diventò in breve un ininterrotto via vai
di gente, in particolare di uomini colti e di mandarini che venivano
anche da province lontane. Fra i gesuiti spiccava l’erudizione di
padre Matteo Ricci il quale, ormai preceduto dalla sua fama, fu invitato dall’imperatore Wan-li a trasferirsi a Pechino, dove grazie alle
sue ampie conoscenze scientifiche, in particolare matematiche e
astronomiche, acquisì dal sovrano (che era inavvicinabile) dei privilegi che lo facilitarono enormemente nella sua azione di apostolato.
Di Ricci ci sono giunti vari ritratti, uno dei quali a figura intera che
mostra una persona piuttosto alta, asciutta, il volto dai lineamenti
marcati, naso leggermente aquilino , importante; grandi occhi dallo
sguardo profondo, ieratico, lunghi baffi bianchi spioventi e barba del
medesimo colore che scende folta e fluente a formare due punte; alto
copricapo a tronco di cono, la parte più larga sulla sommità, lunga e
ampia veste da dignitario chiusa sul davanti annodata in vita da una
fascia con due lembi scendenti; ventaglio aperto sulla mano destra.
E’ sempre nella capitale imperiale, Pechino, che fonti autorevoli,
suffragate da ricerche poi pubblicate, in particolare quelle di Jonathan D. Spence, già in precedenza citate, assicurano come il Ricci
avesse riesumato le conoscenze di Giulio Camillo Delminio e avesse
costruito in questa città il palazzo o “teatro della memoria”, non è
dato sapere se nelle misure primitive o in scala ridotta, o se più probabilmente lo avesse solo disegnato nella figura intera e nelle sue
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diverse viste, sezioni e particolari, con ovviamente incorporato il suo
sistema di apprendimento rapido. Del resto è stupefacente il fatto che
egli abbia appreso la lingua cinese e ne abbia assimilata la cultura in
modo così rapido e totale. Il che fa pensare ci si trovasse di fronte a
una mente geniale e data l’ampiezza del suo scibile, c’era senz’altro
da supporlo, oppure di fronte a un uomo certamente molto dotato
d’intelletto, che poteva però essersi servito di un metodo di apprendimento particolarmente efficiente.
La sua grande sfida fu tuttavia di altra natura dato che egli neppure
per un momento dimenticò l’essenziale scopo del suo viaggio in quel
paese, scopo che rimaneva di natura evangelica.
Nella Cina di quel tempo erano professate sostanzialmente tre
grandi fedi: il buddismo, il taoismo, e il confucianesimo. Matteo, che
trovava presenti in quest’ultima molti elementi comuni con il cristianesimo, si risolse a compiere una drastica scelta promuovendo un
“conflitto”. Reputando e constatando essere il buddismo e il taoismo
maggiormente seguite dal popolo e quindi potenzialmente più concorrenziali verso il cristianesimo, decise di aprire nei loro confronti
le “ostilità” , mentre verso il confucianesimo e la sua etica – più seguito dall’aristocrazia e dal ceto governativo – operò una scelta di un
lavoro in simbiosi. Non è nemmeno corretto definire il confucianesimo una vera e propria religione ma piuttosto una concezione filosofica e ideologica della visione del mondo, (anche il buddismo in realtà contempla una visione più filosofica che dogmatica della vita),
più vicina alle teorie concettuali delle classi al potere: l’imperatore,
la corte, i dignitari, i mandarini, gli intellettuali, la gerarchia militare.
In definitiva una visione rispondente e ubbidiente a un disegno politico che trova la sua sintesi nell’incondizionato rispetto del subalterno verso l’autorità che tale è per disegno celeste: la parallela regola
cristiana del dare a Cesare quel che è di Cesare e ancora l’umile ottemperanza verso le disposizioni superiori, o ancora l’accettazione
fino all’esaltazione virtuosa del sacrificio nelle difficoltà terrene in
cambio del premio ultraterreno.
Padre Matteo Ricci comprese essere proprio quella la religione che
gli avrebbe consentito, attraverso quelle similitudini convergenti, di
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aprire dei piccoli varchi nei quali incunearsi per fare entrare poi la
sua confessione. Non solo, ma per il raggiungimento di questo suo
fine, fu anche disposto ad acquisire e fare propri alcuni principi basilari del confucianesimo accettando, ad esempio, la più antica e radicata delle convinzioni religiose cinesi, pure sapendo che sarebbe
stata condannata come eretica da Roma, come poi in effetti fu: il
culto degli antenati, che Ricci accettò, fece proprio e piegandolo ai
suoi propositi se ne avvalse per comprovare la stretta correlazione e
similitudine del confucianesimo con il cristianesimo nell’affermazione di fede relativa all’immortalità dell’anima.
Naturalmente fra tutte le grandi religioni è possibile trovare punti
in comune o convergenti; la questione è se li si vuole riconoscere
perché nell’economia, arida, del progetto serve evidenziarli, oppure
non li si vuole vedere giacché non appaiono proficui o addirittura
sembrano dannosi ai propri disegni. A tale proposito sia nel buddismo che nel taoismo si potrebbero evidenziare similitudini col cristianesimo altrettanto, se non più, evidenti che col confucianesimo e
ciò vale anche per l’islamismo. Esiste insomma una sorta di disonestà culturale calcolata o, a volere essere indulgenti, un meschino
pragmatismo dietro a operazioni come queste, ma non mi riferisco
certo a Ricci, piuttosto a uomini a vertici dei poteri religiosi e a situazioni sia del tempo passato che presente. Non è quindi l’accidia,
pure criticabile ma in qualche modo comprensibile, di chi si culla
indolente nel proprio bozzolo, a tenere lontane fra loro le fedi, ma il
freddo calcolo di chi vede nelle altre null’altro che avversarie da
annichilire.
Tornando all’opera di Ricci va evidenziato che il più grande ostacolo che dovette affrontare fu nel momento in cui egli si trovò
nell’impossibilita di dare a dio un nome cinese in quanto la Cina,
forse la più antica civiltà del mondo, in tutta la sua storia non si era
mai fatta sedurre dal monoteismo, pure avendolo magari contemplato. Per Matteo, Li Madou, fu un vero busillis. Il confucianesimo
aveva sempre trovato il suo disputante antagonista nella filosofia
laica, che aveva finito per conferire a quel credo, che ne accettava il
concetto, un <<mandato celeste>> che serviva a legittimare l’autorità
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dell’imperatore e delle gerarchie. Premesso che il divino del buddismo e del taoismo diventava immanente, vale a dire che Dio è la natura ma anche viceversa – al contrario quindi dell’ortodossia cristiana
dove invece Dio è trascendente, vale a dire che a Dio viene assegnata
una esistenza disgiunta dalle cose - nella lingua dei cinesi esisteva
una infinità di modi con cui chiamare o alludere a dio, in quanto non
esisteva l’idea dell’essere supremo unico. Alla fine Ricci trovò per il
suo dio un appellativo concepibile e accettato anche dal confucianesimo e questo nome fu Tian Zhu, <<Signore del cielo>>. Con questo
appellativo compì il coronamento dell’immenso sforzo filosofico,
teologico, letterario e politico realizzato nella lingua mandarina
attraverso il testo, completato nel 1607, che il maestro gesuita aveva
pensato e ideato espressamente per i cinesi tenendo conto del pensiero, dei valori, della cultura e della filosofia di quel paese, nell’intento
di spiegare il pensiero cristiano al popolo dell’Impero di Mezzo della
<<luminosa>> dinastia Ming che durò dal 1368 al 1644.
Il testo in questione elaborato da Ricci era il Catechismo cattolico
cinese, tradotto in italiano solamente nel 2006, testo col quale il maestro d’Occidente Xitai, si propose l’immane strenuo sforzo di fare
comprendere, anche concettualmente, a quel mondo così lontano il
pensiero filosofico e religioso occidentale.
Vediamo ora in quale modo compose la sua opera. Egli la concepì
in forma di dialoghi e infatti nel suo Catechismo cinese vi si trovano
ben 592 scambi di tematiche, discussioni o colloqui che si susseguono fra un dottissimo letterato confuciano, generato dalla fantasia di
Ricci, che si contrapporrà all’interlocutore, il Ricci stesso, confutando sapientemente punto per punto le tesi cristiane del maestro. Alla
fine il dotto dovrà puntualmente arrendersi alle manifeste superiorità
delle tesi cristiane. E’ “ovviamente” (siamo al solito discorso per cui
una ovvietà è tale se c’è la volontà di riconoscerla) pacifico che,
come in questo caso, se tanto l’ipotetico interlocutore di comodo
quanto colui che conduce il gioco dei quesiti e anche delle soluzioni
si riconduce alla medesima persona il risultato finale è già scontato.
Forse non esistevano altre soluzioni ma accusatemi pure di essere in
malafede se non riesco a vedere che il consumarsi di una “accortezza
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gesuitica”, anche se il nudo candore della meccanica usata non poteva non sembrare che lo scudo legittimo per respingere le eventuali
malevoli critiche. Ma sia chiaro, non sto considerando la faccenda
con lo sguardo del contemporaneo, per giunta nemmeno credente, ma
dopo il sempre faticoso tentativo di chi, essendosi calato, naturalmente per quanto possibile, nel tempo e nel clima in cui maturarono
gli eventi cercando di spogliarsi delle proprie incrostazioni mentali e
sapendo che anche con ciò le possibilità di errare restano concrete e
alte. La critica quindi non è gratuita, ma oggettiva e non intacca minimamente la mia simpatia per Matteo Ricci anzi lo rende, come
piace a me, più umano. Tuttavia pure tenendo in mano il bandolo
della matassa pare che il nostro maestro, inoltrandosi a fondo in alcune dissertazioni, finisse per incappare in difficoltà di non poco conto
nel dipanare quella matassa da egli stesso – il suo virtuale conduttore – (mi sembra di vedere una partita di scacchi giocata, nel ruolo di
sfidante e sfidato, dalla stessa persona), volutamente aggrovigliata
per creargli difficoltà dalle quali, da una lunga meditazione, doveva
uscire la soluzione migliore. Un solo esempio: in questo caso l’argomento verteva sul celibato dei preti e Ricci si trovò talmente spiazzato verso il suo interlocutore da giustificare il celibato, anche, come
un contributo dato al controllo delle nascite; motivazione che pare
molto banale ma che nel contesto della mentalità popolare di allora
doveva apparire più accettabile, non perché a quel tempo esistessero
problemi di sovrapopolazione, come una siffatta “profetica” risposta
potrebbe fare supporre oggi, ma poiché le difficoltà di fare breccia in
un popolo che onorava profondamente l’istituzione familiare erano di
forza tale che andava giustificata nel modo più convincente possibile
la rinuncia ad avere una discendenza per una persona che avendo
accettato l’ufficio di intermediatore fra l’umano e il divino doveva
astenersi da alcune pratiche mondane. L’interlocutore virtuale confuciano si lasciò convincere, il popolo cinese non lo fece mai.
Ad ogni modo Matteo Ricci sapeva bene che avrebbe dovuto
scendere a dei compromessi che mettevano in discussione l’ortodossia della sua fede, ma sapeva anche che questo era il prezzo da pagare affinché il suo credo venisse accettato. Uno fra i numerosi punti in
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discussione non poteva nemmeno essere definito compromissorio ma
un vero e proprio cedimento e si trattava, come dicemmo, della sua
accettazione, che coinvolgeva anche l’embrione di chiesa cattolica da
lui costituita in Cina, del culto degli antenati. Roma, per quel particolare contesto, pure con le dovute riserve, s’era definita a tollerare o
derogare su quel punto, nell’aspettativa di un rientro quanto prima
nella retta dottrina. Questa aspettativa durò fino a quando Ricci rimase in vita, dato che immediatamente dopo nella chiesa romana scoppiò la rivolta contro il <<rito cinese>>, il quale trovò inaspettati sostenitori e la controversia si trascinò a lungo dal momento che tale
rito venne abolito da Clemente 11° solo nel 1715. Contestualmente a
ciò questo papa, non si capisce se per scarsa diplomazia, insensibilità
personale o semplicemente presunzione, inviò in Cina un legato incaricato di informare l’imperatore Kangxi che Roma rivendicava i propri diritti sopra l’esigua comunità cattolica cinese. Intromissione
inconcepibile, ancorché inammissibile per un paese che nella sua storia non aveva mai dovuto affrontare problemi di contrasti fra potere
politico e religioso. Per tali motivi i rapporti fra Roma e Pechino si
guastarono.
Si comprese presto però che il bersaglio vero del papa non era tanto
un maggiore controllo sulla chiesa cinese ma erano i gesuiti stessi.
I motivi di questa loro caduta in disgrazia erano da scorgersi nel
fatto che questi erano ormai ritenuti troppo potenti, ma soprattutto
dal fatto che si erano saputi creare “pericolosi” spazi di autonomia,
anche politica. Ora era cominciata la resa dei conti attraverso una
azione demolitrice, proseguita nei secoli fino ai giorni nostri con gli
ultimi colpi loro inferti tanto da Paolo 6° che da papa Wojtyla, che
accusandoli di essere troppo secolarizzati si volle rammentare a essi
e alla loro congregazione, qualora l’avessero fatta passare in second’ordine, la sempiterna struttura piramidale della chiesa cattolica,
le cui regole non possono essere messe in discussione, tanto meno
cambiate dato che se quando e ove ciò dovesse avvenire sarebbe
sempre per volere e decisione verticale. Naturalmente lo stesso vertice si riserverà il diritto, se lo ritenesse di propria utilità, di chiudere
un occhio e talora entrambi. Infatti i problemi, allora come ora, creati
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a Roma dalla Compagnia di Gesù non furono tanto di natura dogmatica quanto politica e i primi, anche se lievi, furono usati per risolvere
i secondi. Quelli del nostro tempo sono sostanzialmente rappresentati
dalla Teoria della liberazione verso la quale il Vaticano ha sempre
manifestato la sua idiosincrasia più ferma e la sua chiusura totale.
Troppo secolarizzata, si disse, e perciò invitata perentoriamente a
disinteressarsi di politica. Intendiamoci, la chiesa di Roma non si è
mai disinteressata di politica, quindi il messaggio a talune organizzazioni cattoliche che proveniva e, o proviene dalla sede centrale è: “se
e quando farete qualcosa sarà solo come e quando decideremo “Noi”.
E dato che l’orientamento politico è sempre stato di una certa inclinazione, cioè partigiano e complementare al potere secolare, le organizzazioni dogmaticamente ultraortodosse, più ossequiose e gradite al
vertice, hanno tranquillamente sempre derogato dalla linea evangelica se ciò serviva a rafforzare il potere temporale e politico dell’itero
organismo. Queste organizzazioni non sono mai incappate in provvedimenti disciplinari, anzi!
Oggi i gesuiti, sottoposti a particolare sorveglianza, sono meno di
ventimila, sono in costante calo e operano soprattutto nel continente
africano e in quello asiatico. La loro presenza in Cina, pure essendo
molto discreta, è comunque significativa e si distingue nella gestione
di scuole a Hong Kong, dove esiste una università cattolica, e ancora
a Macao e a Xiamen. Sono presenti anche a Shangai e in un’altra
ventina di centri sparsi per tutto il paese. A Pechino hanno da poco
fondato un centro amministrativo che si occupa della formazione di
manager e di un ulteriore centro per ricercatori e studenti stranieri.
In realtà la loro opera sia nella “regola” o ordinamento che nella
sostanza, ora obbediente alle direttive papali, tese nel passato ad assumere talora iniziative autonomiste, vedi il rito cinese, vedi ancora
l’organizzazione di comunità autogestite e autonome dai regimi coloniali europei: in Brasile e in Paraguai con l’azione antischiavista di
Pietro Claver, che può richiamare alla mente l’attuale e sempre duramente contestata da Roma teoria della liberazione; l’approvazione
del tirannicidio; l’opposizione all’assolutismo, (anche il papa-re era
un sovrano assolutista), acquisirono consensi e con la loro crescita di
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potenza e prestigio politico acquisirono e affinarono metodi di insegnamento dall’efficacia assai fruttifera. Ma questa loro esposizione
sopra le righe provocò la reazione dapprima dei domenicani e poi
anche dei giansenisti , ( anche questi secondi però oggetto più tardi di
interdizione papale perché accusati di eresia, fino alla scomunica dei
gruppi più radicali). Nel 18° secolo tuttavia, forse nella speranza di
esorcizzare o scongiurare gli attacchi sempre più duri al loro ordine,
la Compagnia registrò un mutamento di rotta politica schierandosi
contro le monarchie cosiddette “illuminate”, ma questo atteggiamento non sortì gli effetti sperati, perché oltre ai giansenisti della seconda
generazione, diventati oramai antipapali e usciti dal cattolicesimo,
furono oggetto dell’avversione di altri ordini religiosi, nonché degli
enciclopedisti francesi. Per questi motivi fra il 1759 e il 1768 la
Compagnia fu sciolta dapprima in Portogallo, poi in Francia, in
Spagna, nel regno di Napoli e nel ducato di Parma e Piacenza,
mentre altrove si trovava sospesa sul capo la spada di Damocle. Questa deriva si trascinò fino al 1773 quando papa Clemente 14° soppresse del tutto la Compagnia, che tuttavia riuscì a sopravvivere in
Russia dato che la zarina Caterina seconda non diede esecuzione alla
bolla papale. I gesuiti di Russia, assieme a quelli di Napoli e Sicilia,
vissero in sospensione rendendosi visibili il meno possibile fino a
quando ricevettero il permesso di esistenza legale da Pio 7° nel 1804.
Dieci anni dopo lo stesso papa restaurò la Compagnia: era il tempo
del suo conflitto con Napoleone, il tempo della sua fuga da Roma a
Genova sotto la protezione di Vittorio Emanuele primo di Savoia: la
Compagnia gli sarebbe tornata utile. Poi, dopo la definitiva sconfitta
dell’imperatore a Waterloo, il papa, il 7 giugno del 1815 rientrava a
Roma ripristinando il regime assolutista.
Parlando di organizzazioni cattoliche ve n’erano ben altre che avevano un concetto interpretativo assai poco ortodosso o particolare del
Vangelo e tuttavia erano non solo difese e protette dal vertice ma da
questo ricevevano la benedizione, il placet e i necessari aiuti politici
e materiali alle loro azioni “evangeliche” nel mondo.
Senza andare a pescare nei secoli lontani e per esemplificare, farò
solo un paio di nomi di organizzazioni recenti. Prima fra queste è
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l’Opus Dei o Società della Santa Croce, fondata a Madrid nel 1928
da Josè Maria Escrivà de Balaguer. Il suo compito dichiarato era
quello di diffondere nella società e in particolare negli ambienti intellettuali i fondamenti della perfezione cristiana. Se per ambienti intellettuali intendeva i centri di potere politici e economici lo scopo del
fondatore fu certamente raggiunto. Josè Maria e la sua organizzazione diventarono il braccio destro ecclesiastico della dittatura franchista e ne giustificarono, quando non ne esaltarono la sua politica. Il
fondatore dell’Opus Dei fu poi beatificato per meriti acquisiti da
papa Wojtyla.
L’altra organizzazione, da noi meno nota perché non europea, è
quella dell’Ordine dei Legionari di Cristo, congregazione dell’estrema destra cattolica impostata su rigidi metodi paramilitari. Fondata
nel 1941 dal messicano Marcial Marciel Degollado, classe 1920, ha
sempre potuto contare sulle simpatie e gli appoggi degli ambienti più
reazionari e integralisti e dei circoli golpisti di paesi latinoamericani.
Venuto in Spagna nel 1946, Degollado allacciò stretti rapporti con gli
ambienti del cattolicesimo integralista del regime franchista. A partire dal 1956 vennero alla luce le prime denuncie a suo carico da parte
di giovani seminaristi che lo accusavano di abusi sessuali sulle loro
persone, ma fu sempre protetto da uomini potenti della chiesa, fra
questi il segretario di Stato vaticano Sodano che vedeva in Marcial
un collaboratore utile alla causa di espansione apostolica e politica in
America latina. Forte della protezione e immunità il “nostro eroe” ,
che era anche un morfinomane incallito che nemmeno si peritava di
smentirne la pratica, continuò pure nell’altra pratica di abusare
sessualmente di molti dei suoi seminaristi, che poi confessava e con
il ricatto obbligava al silenzio. La chiesa di Roma pure conoscendo i
fatti non lo rimosse dal suo incarico. Nuovamente denunciato nel
1997 da otto dei suoi ex allievi legionari rischiò di finire processato
dal tribunale ecclesiastico, ma ancora una volta la sua pratica venne
insabbiata dall’allora responsabile della Congregazione per la Dottrina della Fede, cardinale Ratzinger. Solo nel 2006 lo stesso neo
eletto papa Ratzinger, Benedetto 16°, scongiurato il pericolo di un
processo per le implicazioni pubbliche che avrebbe assunto, per l’età
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ormai troppo avanzata di Marcial Marciel Degollado, lo sospendeva
a divinis invitandolo a ritirarsi in meditazione e preghiera. Il 30 gennaio del 2008, a 87 anni suonati, Marciel è morto negli Stati Uniti
d’America, a Huston in Texas, nel silenzio quasi generale e la chiesa
romana ha potuto tirare un grosso sospiro di sollievo.
Come si vede le condanne da Roma possono venire o non venire,
ma i criteri affinché ciò accada sono… come dire, come le vie del
cielo, infiniti e imperscrutabili. Premettendo che canaglie di questo
calibro sono reperibili in qualsiasi ambiente del contesto umano, non
è possibile comunque evitare di porsi domande del tipo: se i vertici di
una grande organizzazione religiosa, che sostiene di essere maestra,
tra l’altro, di grandi valori e principi etici e morali, sanno che fra i
suoi membri vi sono persone, ricoprenti alti incarichi di responsabilità e guida verso sottoposti e comunità, che violano sistematicamente e in modo sprezzante quei principi di cui si dicono portatori,
perché non agiscono in maniera tale che il male commesso venga
fermato? E ancora, perché questi vertici non si chiedono cosa tali
persone potranno insegnare e quali mai potranno essere i frutti della
loro semina? E noi, cosiddetti uomini e donne della strada, come dovremmo considerare coloro che potendo fermare l’orrore chiudono
gli occhi, la bocca, le orecchie e anche il naso per non sentire il
fetore, dato che il fine, in fin dei conti giustificherebbe il mezzo?
Ma torniamo all’eclettico padre Matteo Ricci, o come egli stesso si
battezzò, Li Madou. Uno degli articoli verso cui si concentrò maggiormente la curiosità dei cinesi era la mappa del mondo che Matteo
e il suo confratello Ruggieri avevano portato con loro. Anche i cinesi
avevano le loro mappe, chiamate dai loro geografi “descrizioni del
mondo”. In queste mappe quasi l’intero spazio era occupato dalle 15
province della Cina. Attorno a queste era dipinto un poco di mare
con poche isole, sopra le quali erano scritti dei nomi di paesi di cui
avevano sentito parlare e tutto questo insieme “extracinese” non era
più grande di una loro piccola provincia. Naturalmente gli interlocutori di Ricci, resi edotti della realtà – quando il gesuita, mostrando
loro una mappa del mondo con le varie entità territoriali debitamente
collocate e nominate, (anche la cartografia europea di quell’epoca,
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naturalmente, non era del tutto precisa), indicò loro la parte spettante
alla Cina, che era pure consistente ma certamente molto più piccola
di quanto essi credevano – protestarono vivamente rifiutando di riconoscere una tale realtà. Ma dopo che Ricci e gli altri confratelli spiegarono che quel disegno del mondo era il frutto del lavoro di esploratori, navigatori, geografi e cartografi dell’Ovest che si erano dedicati
con la massima cura nel dare a ogni paese la sua forma, dimensione,
collocazione, conformazione interna, con relativi confini e nomi, i
più ragionevoli fra quei saggi si arresero alla evidenza dei fatti, e a
questi seguirono poi gli altri. Questa rivelazione del mondo ai cinesi
avvenne quando ancora i gesuiti si trovavano a Chao-King, ma poi fu
proseguita a Pechino e accadde che ai missionari fu commissionata la
preparazione di un certo numero di copie di queste mappe, con i nomi e le iscrizioni in cinese e molti mandarini e uomini di scienza di
quella provincia, l’imperatore per primo, ne chiesero il possesso. Poi
la notizia varcò i confini provinciali e furono spedite copie ai governatori di tutte le altre province del paese. Ma Ricci non si limitò alla
produzione di semplici mappe dato che il suo lavoro più importante
fu la realizzazione del “Grande Mappamondo” con iscrizioni in cinese, un’opera di grande abilità e notevole precisione per quei tempi
che ha rivelato al mondo una insospettata abilità e competenza di
Ricci come cartografo e geografo.
Perché allora, ci si chiederà, di questo straordinario personaggio il
mondo occidentale, del quale avrebbe dovuto essere fiero, non seppe
più nulla per secoli e solo di recente alcuni giornalisti e scrittori
hanno voluto giustamente riesumarne il ricordo e l’opera? I motivi
sono già stati in buona sostanza già detti, ma se Roma era intenzionata a richiamare all’ordine i gesuiti non li volle tuttavia zittire del
tutto, anche se per un breve periodo di fatto ciò avvenne. Ciò che
però volle cancellare era il ricordo di persone come Pietro Claver o
Matteo Ricci che avevano avuto la colpa di rapportarsi con i popoli
incontrati ribaltando la forma mentis eurocentrica politico-religiosa
che a questi nostri, e non solo a questi in verità, non apparteneva,
avendo essi cercato di comprendere il pensiero e la filosofia delle
genti incontrate. Non è un caso che ci siano oggi enciclopedie, anche
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importanti, che a Ricci dedicano appena poche righe e che nella storia della Compagnia di Gesù, forse per ignoranza, forse per ossequio
a Roma, parlando dell’evangelizzazione della Cina di Matteo Ricci
non fanno nemmeno menzione.
Io voglio dire ancora un paio cose su di lui ricordando che egli pure
rispettando profondamente il paese in cui fu mandato, fino a assimilarne alcuni riti, tradizioni e costumi, non perse mai di vista il suo
mandato missionario, dato che rimase fedele al suo incarico di cattolico romano, ma, la sua vita sta a dimostrarlo, non fu nemmeno mai
sfiorato da quei propositi che dietro all’imperialismo celavano l’indottrinamento evangelico a coronamento “nobilitante” del primo.
Anche per questo l’Occidente cristiano non avendo potuto contare su
di lui lo condannò all’oblio. E quindi nell’oblio finì non solo l’autore
del Catechismo cinese, ma anche tutto il lavoro di una mente i cui
interessi spaziarono dalla matematica alla cartografia e da questa alla
filosofia e naturalmente alla teologia dato che di ciò lasciò opere preziose scritte in cinese e ignorate per secoli come: le “ Conversazioni
catechistiche”, “Dell’amicizia”, “Dieci paradossi”, “Lettre e commentari dalla Cina”; opere tradotte e pubblicate in italiano solamente
dopo oltre tre secoli dalla sua morte, cioè fra il 1911 e il 1913; opere
essenziali per la conoscenza della Cina del periodo maturo dell’Impero Celeste. Né va scordato il suo “Trattato dell’arte mnemonica”.
Dissi poco innanzi della contestazione verso il rito cinese scoppiata
a Roma subito dopo la morte di Matteo Ricci e del fatto che ci volle
più di un secolo per la sua abolizione, un tempo piuttosto lungo
anche per una organizzazione elefantiaca abituata, generalmente, a
muoversi con calcolata cautela. Grandi ostacoli comunque non ve
n’erano, né dubbi nell’ortodossia. Allora perché indugiare? Forse ci
fu un periodo in cui la questione non venne ritenuta rilevante e passò
in secondo piano. Nel 1623 venne eletto papa Urbano 8°, al secolo
Maffeo Barberini, grande amante delle arti ma piuttosto limitato
come animale politico: lo si potè appurare quasi subito alla sua
partecipazione alla guerra dei Trent’anni, dato che egli non riuscì o
non volle tener conto che l’elemento principale, quello religioso che
l’aveva scatenata, pure senza scomparire si era a poco a poco mutato
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in politico e risultò perdente il suo confronto-scontro con la geniale e
spregiudicata politica del cardinale Richelieu che, indifferente del
destino dell’elemento cattolico controriformista, si alleò pure con i
prìncipi luterani pur di salvare le sorti della Francia, privilegiando la
“ragion di Stato”; la qual cosa anche Urbano 8° intese fare, ma con il
suo prevalente comportamento da capo temporale non poteva anche
pretendere di restaurare il cattolicesimo nei paesi germanici e del
nord Europa salvando, come si dice, la capra e anche i cavoli. E qui
si manifestò la sua pochezza politica. Si potrebbe dire a suo conforto
che egli, a differenza di Richelieu, aveva davanti un compito più arduo e gli fu difficile operare scelte nette, ma ora il discorso ci porterebbe troppo lontano. Il suo nepotismo fu invece insuperato: fece
cardinale il fratello e due nipoti, e il padre di questi due, Carlo Barberini, che ebbe talmente tante donazioni in immobili, terreni e denaro,
(si parlò di una cifra di 100 milioni di scudi, ma forse non era veritiera), da lasciare enormi buchi nelle casse dello Stato, buchi che
vennero riempiti con l’imposizione di nuove tasse: non fu un caso se
Urbano 8° ebbe il nomignolo, (le pasquinate), di papa gabella. Il suo
mecenatismo fu tuttavia splendido, specialmente nei riguardi
dell’architettura e dato che ebbe la fortuna di servirsi di geni quali
Lorenzo Bernini, Pietro da Cortona, Carlo Maderno e Andrea Sacchi,
tramite l’opera di costoro potè donare a Roma quella insuperata
impronta barocca che ancora è possibile vedere. Personalmente ho da
dire che fra gli stili architettonici quello barocco non mi ha mai
trasmesso sensazioni positive, ma è un fatto personale dato che non
riesco a disgiungere lo stile dall’epoca, per me inquietante; cosa che
invece, stranamente, riesco a fare con la pittura della stessa epoca che
mi affascina quasi senza riserve.
Urbano 8° era anche poeta, fino da giovane, e si circondò di poeti,
che naturalmente lo incensavano facendogli credere di essere più
grande di quanto in realtà non fosse: il verso barocco era ridondante,
la rima ricercata oltremisura, il contenuto di <<una precarietà estrema>>, (Rendina). Fra i poeti a lui più vicini c’erano due gesuiti, Giacomo Balde, originario dell’Alsazia e Casimiro Sabriewski di nazionalità polacca che <<assistettero>> il papa nel revisionare gli inni del
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“breviario romano” e assai probabilmente prestarono la loro opera di
competenti anche per altri lavori del medesimo genere: Claudio Rendina, “I papi - Storia e segreti”.
Non è quindi da escludere che grazie all’amicizia di questi poeti
gesuiti la fronda montata alcuni anni prima contro l’ordine si fosse
placata. Non solo, nel 1627 per ordine dello stesso Urbano 8° fu eretta la nuova grande chiesa barocca dell’ordine dei gesuiti intitolata a
sant’Ignazio di Loyola, con annesse pertinenze dentro alle quali la
religione andò di pari passo con la scienza. Ma poi ci si spaventò
dell’elevato grado di autonomia, di sapienza e conoscenza raggiunto
dall’ordine e delle conseguenze che ciò avrebbe potuto comportare se
queste si fossero diffuse al di fuori dell’ambito ecclesiastico: avrebbero cioè potuto rappresentare, secondo i vertici, un reale pericolo
per la stabilità stessa della chiesa.
Infine nelle missioni, particolarmente in quelle orientali, non poteva più essere taciuta la cronica rivalità fra domenicani e gesuiti.
Il paragrafo che seguirà per alcuni punti è stato tratto dall’interessante libro di Carlo M. Cipolla “Vele e cannoni”- il Mulino 1965,
1983, 1989, 1999. Ho in più occasioni avuto modo di affermare che
le grandi scoperte e le conquiste occidentali di territori, colonie, basi,
avamposti, sia in America che in Africa, furono generalmente effettuate da uomini, al servizio di stati monarchici europei, che recavano
con sé armi da fuoco che le popolazioni assoggettate non avevano
mai visto ne mai ne avevano immaginata l’esistenza. Diceva Paolo
Giovio, 1483 – 1552, lo storico italiano fatto vescovo da Clemente
7°, amico del Vasari e grande collezionista d’arte, che il solo rumore
dell’artiglieria bastava a convertire le genti di quei paesi alla fede di
Gesù Cristo. Riguardo all’India e alla Cina le cose invece non furono
così semplici dato che, anche se le armi occidentali – parliamo in
particolare dei cannoni – erano più sofisticate, potenti e precise, in
Oriente non erano sconosciute, anzi! Fino dal settimo / ottavo secolo
della nostra era alchimisti e artigiani cinesi si erano dedicati, in varie
zone del paese, a selezionare e mescolare certe miscele dalle quali
avrebbero poi scoperta la polvere da sparo. Tali miscele, usate anche
a scopo bellico, all’inizio venivano impiegate come dei rudimenta-
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li razzi usando canne di bambù, trovarono maggiore impiego come
farmaci e, o soprattutto per fabbricare fuochi artificiali. Dalla Cina
l’uso della polvere da sparo si diffuse poi in Corea, in Giappone e in
altri paesi dell’estremo oriente, compresa l’India e a tale proposito va
segnalata, per correttezza, l’esistenza di una teoria , non molto assecondata in verità, che indicherebbe l’India come il paese nel quale
sarebbe stata scoperta la polvere da sparo.
Quando arrivarono i primi europei, portoghesi prima e poi olandesi, trovarono che in India e in Cina l’uso dei cannoni era già conosciuto, solo che tali manufatti erano di scadente qualità e il loro uso,
specialmente in Cina, dato che in India furono usati abbastanza di
frequente in alcune regioni dopo il 1360, non era mai stato considerato valido in azioni di guerra. Del resto lo stesso Vasco de Gama
quando arrivò a Calicut, (Calcutta), nel 1498, si rese subito conto che
l’artiglieria europea era largamente superiore a quella asiatica.
Quando i portoghesi giunsero in Cina la reputazione della potenza
dei loro cannoni li aveva già preceduti e accaddero episodi curiosi
del tipo di quello successo nel 1517 a Fernão Perez che giunto a Canton, per saluto, fece sparare una bordata di colpi di cannone: i cinesi
che non conoscevano questa abitudine furono presi dal terrore perché
mai avrebbero immaginato che si potesse dimostrare la cortesia con
le armi da guerra. Sicché cinesi, indiani e giapponesi si fecero degli
europei un’idea di gente pericolosa e violenta né, a dire il vero, gli si
poteva dare torto.
I cinesi che andavano fierissimi della loro civiltà plurimillenaria
mai avrebbero accettato che dei barbari potessero possedere degli
strumenti, delle conoscenze scientifiche o degli armamenti più avanzati dei loro, ma si dovettero arrendere all’evidenza.
Accadde allora che in Cina, come in India e poi anche in Giappone,
le autorità di questi paesi cercassero di ingaggiare artigiani e mastri
fonditori specializzati nella fabbricazione di grosse armi da fuoco. Il
Portogallo vietava – anche se un certo numero di cannoni fu venduto
in alcune regioni per metterle le une contro le altre – fino alla pena di
morte, che europei operassero in tale senso per conto di questi paesi;
tuttavia un certo numero di artigiani fonditori, attirati dai forti gua-
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dagni e quindi disposti a correre il rischio fu trovato. E la chiesa di
Roma? Naturalmente ci si infilò anche lei e nel primo Concilio Ecclesiastico provinciale di Goa, India, nel 1567, decretò il divieto per i
portoghesi di vendere o anche prestare artiglieria ai mussulmani e anche agli indù, anche se questa fosse stata usata solo per celebrare le
loro feste e i loro riti: vedremo poi che anche gli stessi religiosi violarono le proprie norme. Fra i primi artigiani fonditori fuorilegge ci
furono due italiani di Milano imbarcati in Portogallo, i quali erano
giunti a Calicut nel 1506. I loro nomi erano Giovanni Maria e Pietro
Antonio che, dopo essere entrati in contatto con il sovrano di Calicut
e esserne diventati amici, iniziarono a lavorare per lui fondendo dalle
300 alle 400 bocche da fuoco di varie dimensioni. Avevano corso un
grossissimo rischio ma il compenso era stato alto. Il problema era ora
quello di tornare in patria a godersi il gruzzolo; ma voci del loro lavoro illegale erano corse e furono scoperti e condannati a morte.
L’anno prima quattro veneziani erano giunti a Malabar – città sulla
regione costiera indiana affacciata sul Mar Arabico, non molto lontana da Goa – con l’intenzione di fabbricare cannoni, ma le cronache
non ci dicono se furono scoperti: forse per viaggiare non avevano
scelto navi portoghesi. Ma del resto accadde poi che sia gente portoghese, che olandese e in seguito anche inglese prestò la sua opera,
presso i principati e i governi di questi paesi asiatici, come esperta
nella costruzione e nell’uso delle armi da fuoco.
Ma siamo all’eterna faccenda di quella che oggi viene chiamata
con estrema leggerezza “tolleranza zero”: i primi che incappano nella
legge pagano salato, poi le maglie si allargano e passa un po’ di tutto.
Furono gli stessi gesuiti a barattare i loro “consigli”, le loro consulenze e conoscenze e la loro opera diretta prestata ai costruttori di
armi locali in cambio di concessioni a erigere nuove missioni, oppure
si proposero come intermediari fra i cinesi, conoscendone la lingua, e
i portoghesi per favorire il commercio di artiglieria pesante.
Anche al tempo in cui, 1622, Macao fu attaccata dagli olandesi, la
difesa della città venne affidata all’esperto di balistica, il matematico
gesuita padre Giacomo da Rho, 1593 – 1638, il quale con un ben
centrato e fortunato colpo di cannone riuscì a colpire il deposito delle
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munizioni del nemico facendolo saltare in aria.
Sempre a Macao i gesuiti usarono l’artiglieria pesante per risolvere
una guerra privata contro i domenicani, sparando sul monastero di
san Domenico dove questi si erano barricati: questo per dire di quanto buon sangue scorresse fra i due ordini.
Anche altri gesuiti restarono famosi per la loro abilità di fabbricare
cannoni in Cina. Il primo, o il più noto, fu padre Joann Adam Schall
von Bell, di origine germanica, 1592 – 1666. Arrivato in Cina nel
1623, fu secondo solo a padre Ricci per la fama raggiunta in quel paese, per i risultati ottenuti come missionario, per la sua notevole cultura, per le competenze matematiche e astronomiche. Lasciò decine
di scritti in cinese i quali affrontavano i più svariati argomenti. Durante il regno dell’imperatore Chu Yu-chiao, (T’ien ch’i) e successori, godette di enorme influenza grazie al suo contributo culturale e
politico. Diventò mandarino di prima classe e a corte convertì al cattolicesimo numerose dame di palazzo e poco mancò che convertisse
anche l’imperatore Fu-lim, (Shum Chih), (della dinastia Quing, che
durò dal 1644 al 1911). Poco dopo il 1640 costruì a Pechino una
fonderia per cannoni che diresse personalmente. All’interno del perimetro della fabbrica fece collocare un altare e prima di ogni colata,
per propiziarne la buona riuscita, celebrava un rito cristiano. Tra il
1661 e il 1665 cadde in disgrazia in seguito a congiure che mandarini
e uomini di palazzo, invidiosi del suo prestigio, avevano tramato ai
suoi danni.
Il secondo uomo era padre Ferdinand Verbiest, fiammingo, 1623 –
1688. Fattosi gesuita, nel 1641, raggiunse in Cina padre Schall solo
nel 1659, al tempo cioè in cui stava per maturare il periodo difficile
del suo confratello e maestro e forse proprio per queste ragioni cadde
in disgrazia anche lui e dovette subire alcuni anni di carcere. Riuscì
tuttavia a riscattarsi grazie alla sua intelligenza e le sue conoscenze
scientifiche, in particolare in quelle astronomiche in cui eccelleva. E,
come dice il famoso detto, in questo caso rovesciato, presto fece il
percorso inverso, cioè dalle “stalle alle stelle”, dal carcere alla corte
imperiale, dove si fece apprezzare acquistando grande influenza. Costruì numerosi strumenti astronomici per l’osservazione del cielo, e
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naturalmente, anche quelli bellici, come aveva imparato dal suo maestro. Stabilì i principali punti geografici che delimitavano l’impero
poi, sia come geografo che come diplomatico, diresse il negoziato fra
la Cina e la Russia quando si puntualizzarono e stabilirono i confini
fra le due nazioni. Si attivò poi presso la Sede romana affinché fosse
introdotta la lingua cinese nella liturgia cattolica e anch’egli, come il
suo più anziano compagno e maestro, lasciò numerosi scritti scientifici e opere di carattere religioso.
Nonostante l’apporto e la consulenza di numerosi europei nella
realizzazione di artiglieria pesante in Cina, questa rimaneva nel
complesso piuttosto scadente e lo stesso Matteo Ricci ne conveniva,
infatti scriveva:<<, le loro armi difensive e offensive sono molto
fiacche e solo hanno una certa apparentia per apparire alle rassegne>>. C’è però da dire che Ricci morì nel 1610 e qualche decennio
più tardi la tecnologia era probabilmente migliorata: infatti lo fu, ma
solo di poco e il divario qualitativo fra l’artiglieria occidentale e
quella orientale rimase immutato, anzi tese ad allargarsi. Il fatto era
che, almeno per quanto riguarda il periodo della dinastia Ming, ma
anche quella successiva, nell’impero la categoria degli artigiani non
fu mai né molto numerosa né mai sufficientemente apprezzata e collocata socialmente in alto. Anche la classe militare era poco considerata, anzi la debolezza dell’esercito era un fatto innegabile anche per
le stesse autorità: di fatto una piccola e aggressiva potenza esterna
avrebbe potuto impadronirsi dell’impero senza eccessiva fatica e il
fatto che non fosse ancora accaduto era perché dall’esterno la Cina
appariva ancora come una grande nazione coesa e in buona sostanza
lo era, ciononostante rimaneva vulnerabile per la mancanza di una
adeguata difesa. Vista dall’interno, invece, si percepivano tutti i punti
deboli: all’Occidente era rimasta in mente la devastante potenza
dell’esercito mongolo, ma questa potenza era ormai tramontata da
secoli. La spiegazione di questo scarso interesse alla difesa stava nel
fatto che la nazione godette di lunghi periodi di pace e avvenne che
l’”arte” militare fu sempre meno stimata. Ancora una volta facciamo
parlare padre Ricci:<< I soldati di questo paese sono una categoria
sventurata….Cosa possono essere i soldati in un paese in cui la loro
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posizione è considerata disonorevole e riservata agli schiavi >>.
Da quanto si evince abbiamo potuto constatare che i gesuiti che
costituirono le loro missioni in Cina erano tutte persone scelte, di forte personalità e notevole spessore culturale, doti che per la chiesa di
Roma rappresentavano altrettante ricchezze. Possedevano, purtroppo,
uno spiccato senso di autonomia, certamente politica , d'altronde non
era semplice a quel tempo consultarsi a breve con Roma da quei
luoghi remoti se decisioni dovevano essere prese nell’immediato. Ci
fu poi anche autonomia rispetto all’ortodossia dottrinale, ma pare
non sfociasse praticamente mai nell’eresia, come avvenne in altri
ordini senza che questi incappassero in reprimende, anzi ricevendone
il consenso. In Cina ci fu l’accettazione di alcuni precetti del confucianesimo, ad esempio con Ricci, e pure l’accettazione di cariche
come il mandarinato, vedi Schall von Bell, alle quali si accedeva
dopo il superamento di difficili esami volti a accertare le conoscenze
scientifiche, artistiche, letterarie, nonché religiose (della loro religione) del candidato; ma era lo scotto minimo da pagare per potere fare
breccia nella filosofia di quel popolo. E questi fatti potevano certo
fare poco piacere a Roma, la quale possedeva tutte le risorse per la
loro soluzione; ma usandoli come pretesto finì per preferire altri
ordini religiosi più docili e rispondenti alle sue direttive.
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Libro 4°
EUROPA, ITALIA, U.S.A: POLITICA E SOCIETA’
L’Europa del diciannovesimo secolo, dopo la travolgente e sanguinosa parentesi napoleonica, alla quale seguì la temporanea restaurazione, del Congresso di Vienna, dello status quo prerivoluzionario,
andò a completare la formazione degli altri grandi stati nazionali
come l’Italia e la Germania che comportarono l’assestamento – ridimensionamento dell’Impero austro-ungarico, ma anche francese con
la perdita da parte di questo ultimo, nel 1870, dell’Alzazia e della
Lorena a favore della Germania.
Ma questo ultimo traguardo ai nuovi stati non bastò e volendo imitare le vecchie consolidate potenze europee anelarono a diventare,
come ne andasse del loro prestigio, anche potenze coloniali. E fu
sulle aspirazioni di chi, con lo sguardo rivolto al passato, non bastandogli più un regno e desiderando un impero, non più possibile da
ottenere nella vecchia Europa sostanzialmente, solo momentaneamente, assestata, che si videro la Germania e l’Italia proiettarsi su
quelle parti del continente africano non ancora militarmente occupate
dalle altre potenze coloniali europee solo perché reputate agli occhi e
agli stomaci di queste meno appetibili.
La Germania nell’ultimo quarto di secolo era diventata una formidabile potenza economica e marittima e il fatto le aveva permesso di
assumere un ruolo egemone in Europa, grazie anche all’abilità del
cancelliere Bismark, magari visto all’estero con poca simpatia e se ne
intuiscono le ragioni, ma un autentico genio della politica: attentassimo al mantenimento degli equilibri continentali, ma abilissimo soprattutto a curare gli interessi del suo paese senza suscitare troppa
irritazione fra le potenze più dirette concorrenti. In realtà l’Inghilterra
vedeva con una certa apprensione l’accresciuta e concorrenziale potenza marittima germanica, mentre in Francia le ferite materiali e
morali della guerra del ’70 erano in larga misura ancora tutte aperte.
L’imperatore Guglielmo 1° pienamente conscio dell’abilità del suo
cancelliere si era totalmente affidato a lui e aveva in modo incondizionato condiviso la sua saggia politica di non espansione imperiale e
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coloniale extraeuropea, nel contempo, in Europa, la nazione germanica, o prussiana, consolidava la sua sicurezza attraverso un patto
con l’Impero austro-ungarico nel 1879, allargato poi all’Italia nel
1882: la Triplice alleanza, che geograficamente divideva l’Europa in
senso trasversale per premunirsi da eventuali azioni ostili francesi e
inglesi a ovest e della Russia a est, verso la quale i rapporti, un tempo
ottimi, si erano raffreddati per gli interessi, territoriali, contrastanti di
questa con l’Austria.
Con la salita al trono di Guglielmo 2°, 1888, succeduto al brevissimo regno del padre Federico 3°, le cose cambiarono. Guglielmo 2°,
spirito esuberante, impulsivo e vanaglorioso, pressato da una lobby
di suoi favoriti ostili al ruolo di deus ex machina assunto da Bismark,
si lasciò convincere a costringere quest’ultimo – nonostante che proprio in quel momento stesse tentando una difficile ricucitura dei rapporti con lo zar, e dimentico delle raccomandazioni del padre e del
nonno di continuare la collaborazione con il cancelliere di ferro – a
dare le dimissioni: 1890. In realtà attraverso questa sua risoluzione il
kaiser mirava in politica interna a un riavvicinamento con il partito
socialista decisamente ostile perché troppo duramente osteggiato dal
cancelliere. In politica estera, invece, il sovrano abbandonava la saggia politica fino a quel momento seguita da Bismark per imitare
l’esempio degli altri stati colonialisti europei. Nel 1898 la Germania
espandeva quindi la sua influenza fuori dall’Europa acquistando
dalla Cina la città e l’interland di competenza di Chiao Chou, (Kiaut
schou), sulla baia omonima e l’anno successivo acquistava dalla
Spagna le isole Caroline e Marianne. Si insediò successivamente
anche in Africa nel Togo, nel Camerum e in Marocco, 1905-1906.
Anche l’Italia fino al 1880 si era dichiarata contraria alla partecipazione a imprese coloniali, ma poi, in seguito all’occupazione francese
di Tunisi, temendo di subire, questa parve essere la motivazione, un
isolamento in Europa e nel Mediterraneo, si pronunciò per una misurata espansione in Africa – questo per dire del pensiero europeo del
tempo nei confronti del continente africano: terra di “nessuno” o di
chiunque desiderandone una fetta avesse allungato una mano.
Abbiamo poco sopra fatto una data, ma nella realtà già dal 1869 la
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compagnia di navigazione privata Rubattino aveva acquistato la baia
e il porto di Assab, Eritrea, all’estremità meridionale del mar Rosso:
dietro l’operazione commerciale c’era comunque il governo italiano,
che però non voleva figurare per evitare eventuali proteste egiziane
ma anche inglesi. La compagnia girò poi ufficialmente il porto al
governo italiano nel 1882. L’Italia dunque da quel momento avrebbe
scelto il Corno d’Africa, Etiopia e Eritrea, scontando anche in questa
avventura, per superficialità, scarsa esperienza o pressappochismo, le
batoste di Amba Alagi del 1895 ad opera delle truppe del negus
Menelik e quella di Adua del 1896: poco tempo prima, sperando
nella sottomissione spontanea del negus, l’’Italia lo aveva armato con
un’ampia scorta di fucili e quattro milioni di proiettili che dovevano
servire, secondo le richieste del monarca etiope, a combattere i suoi
nemici interni e questo era anche vero, resta il fatto che dopo averlo
armato si agì senza tenere conto che quelle armi ci sarebbero state
puntate contro.
Digerita quella batosta, tra il 1911 e il 1912 fu la volta dell’occupazione della Libia che l’Italia sottrasse alla Turchia.
Fu all’incirca a questo punto, quasi alle soglie del primo conflitto
mondiale, anche se ciò non è sostenibile dal punto di vista cronologico, che ebbe termine il diciannovesimo secolo. Fu infatti dopo il
1912 che le moderne scienze belliche tradussero nella pratica le capacità evolutive della seconda rivoluzione industriale, anche se in verità
già in Libia furono impiegati alcuni aerei, ma quasi esclusivamente
con funzioni di ricognitori – ma sull’impiego aereo in Libia torneremo più avanti – perché non si aveva ancora intuito quali sarebbero in
effetti potute essere le potenzialità dell’impiego aereo in guerra; ma
tali lacune furono prestissimo colmate e le macchine da combattimento non furono più mosse dalla forza muscolare umana o animale,
(in realtà muli e cavalli si usarono ancora, però rapidamente a decrescere), ma da motori che sviluppavano l’energia data dai nuovi
combustibili fossili che sarebbero diventati, e ancora oggi sono, le
materie prime per le quali si continuano a fare le guerre per il loro
accaparramento; guerre mosse da una logica che non si sa se più
idiota o aberrante che così in breve si riassume: “facciamo la guerra
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per impossessarci del petrolio con il quale fare funzionare, (tra le
altre cose) le portaerei, gli aerei e i carri-armati coi quali faremo la
guerra per impossessarci di nuovo petrolio…” Assioma “geniale” e
guardandomi intorno scorgo i volti di questi “arguti” leader e dei loro
sodali d’avventura del mio tempo sparsi per il mondo, anche se molto più concentrati in quello occidentale, i quali raccontano la favola
che se riuscissero ad avere il controllo delle fonti energetiche, sottraendole dalle mani dei governi illiberali, dispotici, arretrati e poco affidabili, queste sarebbero sicuramente bene usate e costerebbero pure
di meno. Una domanda sorge spontanea, come diceva Lubrano: mi
saprebbero rispondere costoro ragguagliandomi su quanto è aumentato il costo del petrolio, nonché delle altre materie prime da quando
è cominciato il secondo conflitto iracheno, nonché quello afgano?
Ma a parte ciò è proprio l’argomentazione a essere diabolica. Perché?
Fino a quando hanno potuto negare lo scopo reale della guerra
irachena, persino mentendo e spergiurando con indecenza e anche
con il sostegno dei media, che mi pare improbabile essere stati così
facilmente ingannabili e quindi da ritenere conniventi e corresponsabili, il consenso in qualche maniera ha potuto reggere, ma quando
non è stato più possibile dissimulare l’inganno, con incosciente candore si è tentato di far passare quella guerra come una normale, congenita, umana, necessaria reazione a un male: il barbaro dittatore.
Dato che la storia lo ha già sperimentato in maniera orrenda, e
quindi non è vero che non insegna nulla, la banalità del male, se ad
arte veicolata, sembra possa essere accettata quando questo viene
fatto percepire come necessario, finendo per armonizzarsi con i sensi
della sfera emozionale e calzare come la giusta scarpa nel suo piede.
Allora passano i concetti di guerra giusta, guerra santa, guerra preventiva, guerra umanitaria, dei volenterosi, della libertà durevole e
via con simili amenità: tutti titoli che paiono di una infinita e incolpevole soavità, ma che nei fatti si propongono l’invasione di paesi
sovrani, la distruzione di città e la soppressione di vite umane in
maniera violenta, arbitraria e impunita.
Se l’accettazione della guerra sotto una qualsiasi forma e il farne
l’abitudine dovesse diventare un fatto naturale, diventerebbe anche
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altrettanto naturale che un numero crescente di persone finisse per
accettarla e giustificarla andando a ingrossare la congerie di coloro
che galleggiano beati nel mare magnum del pensiero dominante che
tutto generalizza e tutti assolve. Ma le cose non stanno così, dato che
i cittadini che appoggiano con gli strumenti della democrazia governi
che preventivamente è risaputo essere loro intenzione usare le armi
per risolvere le controversie politiche, sono esattamente responsabili
al pari di questi per le morti ingiustamente provocate.
Ferme certezze? Io mi domando allora come mai all’inizio della
guerra in Iraq gli americani e la stragrande maggioranza dei media,
anche liberal, pure sapendo che il presidente mentiva – è curioso
questo fatto che gli americani non riescono a sopportare un presidente che menta - dato che le famose armi di distruzione di massa non
furono trovate dalle commissioni preposte al compito, lo appoggiarono con delle maggioranze bulgare e le voci contrarie, che c’erano e
tentavano di farsi sentire, furono tacciate da antipatriottiche, o peggio
da disfattiste e vigliacche: si fece pure una legge per colpirle penalmente: Action Act. Poi, alla fine del secondo mandato del presidente,
i medesimi cittadini americani e i medesimi media, salvo quelli legati
da obblighi strettamente ideologici o da interessi di bottega, mollarono il loro presidente, che finì col viaggiare su gradimenti talmente
bassi che chissà fino a dove si sarebbe dovuti risalire, nei 42 presidenti precedenti, per trovarne di simili. Fortuna che in quel periodo il
nostro presidente del Consiglio, cav. Berlusconi, che i gradimenti in
casa li aveva lui di tipo bulgaro, andò a trovare l’amico George per
rincuorarlo dicendogli che mai presidente degli States era stato
grande quanto lui. Questa stessa opinione pubblica americana ci dice
inoltre, ora, che l’avventura irachena è stata un tragico errore. Tali
fenomeni di ribaltamento di idee di 180 gradi si possono spiegare con
il fatto che un importante numero di persone in quel paese non
possiede sufficienti solide convinzioni personali e per questo diventa
facile massa di manovra di poco onesti e interessati furbastri che
perseguono scopi personali: sia il presidente, ma soprattutto il vice
presidente, che forse era il vero manovratore della Casa Bianca, e un
certo numero di petrolieri amici, avevano certamente interessi privati
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nell’accaparramento del petrolio iracheno, per cui si può parafrasare
il celebre detto storico, “un pozzo di petrolio val bene una guerra”.
Ad ogni modo chiuso un conflitto se ne apre un altro, in Afganistan,
e pare che i cittadini americani che lo sostengono siano di nuovo una
solida maggioranza: staremo a vedere come si evolverà la situazione.
Non si deprimano però i cittadini americani; qua nel mio paese le
cose vanno ancora peggio dato che i miei concittadini sono stati lasciati cullarsi nell’illusione di essere dei furbi e quindi “col cavolo
che si faranno fregare”. Non è però tutto merito loro dato che dall’alto continuano a ripetergli che: “va bè, le cose vanno male in tutto il
mondo, ma qui da noi vanno meglio che altrove”. Sarà per questo
che siamo diventati l’ultimo vagone della locomotiva Europa.
Ho usato poco innanzi il termine “diabolico”, poco appropriato per
un non credente, resta il fatto che anch’io sono beneficiario di quel
lascito cristiano, greco e filosofico, che non è comunque stato l’unico
ed è quindi da non ritenersi saggio far entrare in maniera esplicita
nella Costituzione europea – Editto Costantiniano docet - : della cultura cristiana noi europei siamo intrisi, ma come dicevo non è questo
l’unico lascito che abbiamo ricevuto e su questo argomento tornerò
più avanti. Per ora, per farmi meglio comprendere, intendo esprimere
il senso di sconforto che potrebbe prendermi nel vedere la maggioranza del popolo che si dichiara credente, al quale si sono aggiunte le
schiere degli ex oppositori storici, ritenuti un tempo “zoccoli duri” di
altre ideologie totalizzanti, marciare compatti e convinti dietro le
logiche delle certezze “sempre incrollabili”, mai sfiorati da dubbi di
sorta; e se c’è ancora qualcuno che si ostina a non vederla così...
“peggio per lui !” C’è effettivamente il rischio che scoraggiati si finisca per concordare che: le categorie non esistono più; destra e sinistra
diventano indistinte, come pure bene e male si fanno indistinguibili.
Se permettete però la visuale mi rimane piuttosto nitida e lo sconforto è bene al di là dal cogliermi. Ma queste cose riguardano la mia
persona e non interessano il lettore, perciò torniamo al nostro tema.
In Francia covavano ancora vivissimi i sentimenti revanscisti originati dalla umiliante sconfitta del 1870 e in Italia non erano ancora
giunti a soluzione i problemi rappresentati dai territori irredenti del
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Trentino e della Venezia Giulia. Le questioni territoriali e economiche rimaste insolute e malamente covate fra gli stati europei diedero
la stura al nuovo secolo con la corsa al riarmo, che condusse allo
scoppio di una nuova guerra, la quale coinvolgendo, questa volta, potenze di più continenti propiziò quel salto “qualitativo” e quantitativo
conferendole l’appellativo di mondiale, e dopo aver prodotto devastazioni all’altezza del suo nome lasciò più strascichi di quanti problemi aveva inteso risolvere.
Iniziata nel 1914, rappresentò una variante totalmente inedita della
storia dell’umanità, in primo luogo perché fu la prima a essere definita mondiale, proprio per il coinvolgimento quasi totale dei grandi
stati moderni che misero al suo servizio tutte le loro migliori risorse
economiche e tecnologiche, nonché tutte le capacità produttive delle
moderne industrie nel fabbricare strumenti offensivi e difensivi, l’uso
dei quali, protratto fino all’esaurimento estremo, finì per superare di
gran lunga e rapidamente le previsioni delle risorse monetarie e umane ritenute all’inizio compatibili. Ci fu anche chi finì per arricchire,
mentre le popolazioni civili in larghissima parte patirono e pagarono
tutti i conti. A guadagnare furono ad esempio quelle industrie pubbliche e private che misero il loro potenziale produttivo al servizio della
guerra: ad esempio quella che era la più grossa azienda industriale
meccanica italiana – e ancora oggi è la maggiore – grazie ai proventi
di guerra portò il suo capitale dai 17 milioni di lire del 1915, ai 200
milioni del 1918. Ma sappiamo che questi fattori non rappresentano
una novità e sarebbe caso mai strano se si verificasse il contrario.
In secondo luogo, guardando solo alla più ridotta prospettiva continentale, il conflitto rappresentò anche l’ultima grande guerra civile
europea, dove ogni stato in lizza intese rivendicare nei confronti dei
nemici qualche cosa di cui si sentiva, o era stato defraudato. Comunque, come al solito, tanto le nazioni perdenti quanto quelle vincenti
ne uscirono prostrate economicamente e moralmente sconvolte,
infine agli stati europei spossati – i vincitori gioirono solo l’esaltante
effimero momento del trionfo – non rimase che la constatazione che i
propri problemi interni si erano ingigantiti: gli unici a trarre dei
vantaggi economici furono gli Stati Uniti d’America i quali avevano
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fornito armamenti e ora elargivano prestiti monetari, la cui restituzione ai tassi concordati andava onorata.
Se con la guerra qualche aggiustamento territoriale venne raggiunto, lasciò tuttavia aperti immani problemi economici e politici. Il risultato pratico fu che il ventennio trascorso dalla fine di questa
guerra alla successiva fu giusto il tempo trascorso a rinfocolare i
rancori e a produrre il riarmo. Poiché gli sconfitti, in particolare
Germania e Austria, furono trattati troppo duramente e alcuni dei
vincitori, in particolare l’Italia furono lasciati ai margini delle trattative di pace e della spartizione delle spoglie del nemico, rimuginarono patriottici sentimenti di orgoglio ferito e propositi di rivalsa che
sarebbero diventati i virus che innescarono l’insorgere della malattia,
ovvero la nascita dei regimi fascisti e nazisti che trascinarono l’Europa e il mondo in quella immane, devastante, assoluta tragedia che fu
la Seconda guerra mondiale, conclusasi con l’impiego dell’ultimo
ritrovato della scienza bellica, la bomba atomica.
E’ comunque troppo semplicistico e anche fuorviante attribuire la
nascita del fascismo al fatto che sia le aspirazioni che le rivendicazioni dell’Italia vincitrice a fare parte del novero delle gradi potenze
vennero da queste ultime, in particolare dall’Inghilterra, disattese e
respinte, per cui, per reazione, delusione, frustrazione, rabbia, l’Italia
si rinserrò in sé stessa in un ostile riflusso patriottico antieuropeo. In
parte ci fu anche questo, ma c’era ben altro che riguardava l’interno.
Le condizioni economiche in cui venne trovarsi la nazione, con i
problemi della ricostruzione dei paesi distrutti, la riconversione delle
industrie alla produzione civile, il ripristino dell’agricoltura lasciata
allo sbando, per la mancanza delle braccia dei giovani che erano stati
mandati al fronte, ma anche per i saccheggi e le devastazioni delle
zone occupate dal nemico, rese subito evidente che i problemi da affrontare erano assai più grossi di quanto non si fosse ipotizzato. Inoltre vennero al pettine i nodi delle promesse non mantenute, o meglio,
delle aspettative non concretizzate verso i giovani reduci tornati dal
fronte ai quali, a onor del vero, non era stato promesso nulla, ma la
voce che circolava al fronte, mai smentita e forse ad arte alimentata e
che fu quindi presa per buona, secondo la quale per chi si batteva per
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la vittoria, al ritorno a casa ci sarebbe stata la distribuzione delle terre
– il paese era per la maggiore ancora agricolo – rivelatasi poi infondata, lasciò nei reduci la sensazione di essere stati imbrogliati e questo fatto esasperò gli animi. Non furono quindi tanto il susseguirsi
degli scioperi operai delle città (che pure causarono problemi, ma
non tanto gravi dal momento che il paese era poco industrializzato) a
provocare la reazione dei proprietari e dei borghesi, quanto quelli dei
braccianti e salariati agricoli, in particolar modo della Toscana e
dell’Emilia-Romagna a far sì che gli industriali, ma soprattutto i
grandi proprietari terrieri, ma anche una parte di medi e piccoli, per
far cessare gli scioperi, o come essi dicevano, i disordini, armassero
squadre di picchiatori a cui affidarono il compito di riportare con la
violenza i ribelli all’ordine, privilegiando con questi metodi una
uscita dalla crisi in quella maniera autoritaria che condusse alla dittatura. Molti degli oppositori della prima ora, (anni venti), furono
costretti a fuggire: la cosiddetta “emigrazione” di quel periodo, verso
la Francia o anche l’America latina vide l’allontanamento di molti
reduci di guerra rimasti senza lavoro e senza terra: di fatto fu una
emigrazione-fuga di coloro che resistendo alle cariche squadriste
erano ormai stati segnalati come nemici del regime. Questi fatti avvennero prima del delitto Matteotti.
Le nazioni che vollero la seconda guerra mondiale ne stanno ancora pagando al presente i costi economici ma soprattutto politici. Ma
se sul versante economico le conseguenze sono state nel tempo parzialmente mitigate, a partire dal piano degli aiuti ai paesi sconfitti,
Marschall: l’America intuì, con ragione, che l’aiuto al rilancio economico degli sconfitti avrebbe rappresentato un vantaggio economico
anche per i vincitori con l’apertura di nuovi mercati per le sue esportazioni: io ti presto del denaro e tu comperi i miei prodotti; naturalmente il tuo debito rimane, ma se ti riprenderai economicamente
sarai in grado di saldarlo. Restavano tuttavia i vincoli restrittivi impostici per quanto concerneva la libertà dello sviluppo tecnologico in
diversi ambiti e se parve ovvio il divieto sulla ricerca e esplorazione
di settori come la scienza bellica, con conseguente divieto di produrre certe tipologie d’arma, meno ovvie apparvero le limitazioni in
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materie scientifiche di applicazioni civili e anche se poi con gli anni
molti divieti decaddero rimasero le conseguenze dovute al ritardo
tecnologico prodottosi e difficilmente colmabile, ma qui le responsabilità non vanno tanto attribuite ai vecchi nemici, ora alleati, quanto
ai miei governi, in particolare agli ultimi che hanno fatto mancare gli
adeguati finanziamenti alla ricerca, verso i quali l’accusa di miopia e
imprevidenza è puro eufemismo.
Esiste poi l’atteggiamento e il comportamento verso il grande alleato vincitore decisamente molto più incline alla sudditanza che all’alleanza. A tale proposito non può essere ignorata la realtà del costo
soprattutto politico che continua a gravare su questo mio paese, un
costo che a tutt’oggi sembra non dover scadere mai. Per dirla più
schiettamente, anche se è ovvio che tutti si rendono perfettamente
conto di ciò, ci sono formazioni politiche della destra, ma anche della
“sinistra”, che fingono di non capire, per cui pure sapendo le difficoltà di rivolgersi ai finti sordi o ai tonti di circostanza proverei a fare
il discorso più pacato e semplice possibile dopo aver risposto alla
seguente domanda: dobbiamo essere grati ai liberatori che ci hanno
aiutato a sconfiggere le dittature fascista e nazista? Certamente sì, è
ovvio, ricordando tuttavia, secondo anche un ragionamento fatto da
Enzo Mazzi, che questa gratitudine è sempre un fatto bilaterale e che
coloro che ci hanno liberato in quanto molto hanno dato molto poi
hanno anche ricevuto, ne consegue che se una gratitudine non fosse
bilaterale scadrebbe, da una delle parti, nel servilismo:<<non un riconoscimento di un dono ma piuttosto di una dipendenza>>. E’ inoltre
singolare che coloro che oggi su questo problema manifestano una
miopia di circostanza che rasenta la cecità – altri si dichiarano solo
realisti, ma lo sono anche più del re – sono i più diretti discendenti o,
avanti con gli anni, sono magari gli stessi che inneggiarono al duce
quando pieno di enfasi boriosa e stupida retorica proclamò la guerra,
non nel 1939 quando gli sviluppi erano ancora incerti, ma nel 1940,
quando con calcolo furbesco e interessato vide che la Germania di
Hitler conseguiva successi militari e la vittoria sembrava imminente,
perciò si dovevano abbandonare gli indugi perché sarebbe stato stupido non sedere al tavolo dei vincitori. Chi invece non approvava la
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guerra dovette subirla tacendo, perché il regime era anche questo:
impose il silenzio anche con i metodi peggiori verso i dissidenti e le
voci contrarie. Oggi i nipotini del duce con opportunismo degno
della migliore causa sembrano avere scordato che fummo liberati dai
guai in cui i loro genitori ideologici o reali ci avevano cacciati, pagando per questo un costo fatto di bombardamenti aerei effettuati
molto più spesso su obbiettivi civili, vale a dire sulle città italiane
compreso il mio capoluogo, Treviso, che pagò un alto prezzo di vite.
La mia Conegliano della quale, tornando alla mia giovinezza, ricordo
ancora le macerie rimaste per anni in alcune zone della città, nonché
Vittorio Veneto e altre località della provincia, per dire del piccolo
che mi circondava. Mentre invece per un altissimo numero di città
tedesche la distruzione fu pressoché totale dato che furono rase al
suolo completamente con bombardamenti che si susseguivano a ondate e a “lavoro” concluso pareva che immense ruspe fossero passate
loro sopra avendo spianato con rigore scientifico tutte le abitazioni
con il loro contenuto umano; per non dire delle atomiche sopra
Hirishima e Nagasaki. Furono gli stolti criminali governanti di questi
paesi europei a iniziare il macello, poi le popolazioni degli stessi pagarono il conto: massacri inutili subiti da persone civili inermi di
ogni età e sesso, alle quali per farsi una qualche ragione di tutto
quell’orrore non restò forse che percepirlo come una colpa o un enorme peccato da scontare e tutto questo, giacché colpe non ebbero, o
almeno non certo così gravi, rese il tutto ancora più abominevole.
Comunque fummo liberati, ma oggi a distanza di tre generazioni
non è più rinviabile la soluzione del quesito se sia accettabile che una
parte consistente della nazione continui a dichiarare con ostentata
enfasi, mentendo anche a sé stessa e sapendo di farlo, di essere libera, sapendo benissimo di trovarsi di fatto nella condizione di chi, per
colpa di padri stolti, avendo avuto bisogno di aiuto, a causa delle
scelte criminose e fallimentari di questi, trovò colui che non solo
dopo averglielo concesso chiese il conto e i ringraziamenti, come è
giusto e doveroso che avvenisse, ma pretese poi un riconoscimento
concreto nei fatti e nella sostanza tendente a protrarsi nel tempo in
maniera indefinita, cioè per sempre. E sinceramente un tale modo di
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esigere un risarcimento è riscontrabile solo nel modus operandi di
certi usurai che con la scusa di risolverti un problema momentaneo te
ne procurano uno permanente. È pacifico e indiscutibile che l’America intervenendo con uno sforzo economico, ma soprattutto umano
mediante le vite dei suoi figli più giovani e migliori – a tale proposito
mi sovviene la frase di un personaggio del romanzo di Dacia Maraini
“La vacanza” : fine estate 1943, Gigio un trentenne riformato perché
<<per loro non sono abbastanza uomo>>, aggiunge poi:<<La guerra
lo sai cos’è? Una selezione alla rovescia: i migliori muoiono e i peggiori restano a casa>> - andava ringraziata allora, come anche oggi e
nel futuro. Ma venendo proprio all’oggi chissà perché non mi stupisco se ancora una volta noto che i nipotini dei responsabili della tragedia che annichilì il mondo, fingono di dimenticare quegli uomini e
donne, perlopiù giovanissimi, italiani che si batterono pagando spesso con la vita per liberarci da un regime insulso e sanguinario che ci
trascinò nella tragedia alleandosi a un altro regime ancora peggiore.
Non vanno forse anche questi parimenti ringraziati? Io dico anche di
più perché erano donne e uomini italiani che riscattarono un popolo
dalla vergogna e fecero ciò che fecero senza chiedere nulla per sé
stessi. Oggi invece, chissà perché non mi stupisco, numerosi nipotini
del duce, tollerati, se non proprio fiancheggiati da questo esecutivo,
nonché da un codazzo di pseudo democratici dalla coda di paglia che
del “revisionismo storico” tipico dei servi dei regimi, che fa le loro
fortune letterarie e che nel valore di questi combattenti per la libertà
vedono rispecchiare la loro codardia, oggi, pavoni imbaldanziti, non
solo non ringraziano, che sappiamo sarebbe chiedere loro troppo, ma
prodigandosi nel manipolare la storia vorrebbero cancellare i partigiani dalla memoria del paese, paese che anche grazie a loro deve la
sua democrazia. Invece per costoro meglio sarebbe se non fossero
mai esistiti. Ma non potendo tanto, per materiali e ovvie ragioni,
tenterebbero di infangarne la memoria rispolverando la propaganda
nazista del tempo che verso i partigiani affliggeva i manifesti con
l’intestazione <<Achtung Banditen>>. Ma nemmeno questo pare sufficiente e allora vorrebbero sollevare un polverone ammorbante,
improponibile alle coscienze limpide, al fine di poterli rendere indi-
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stinguibili e poterli così, combattenti fra i combattenti, parificare ai
“repubblichini” di Salò. D’accordo che gli uomini da morti sono tutti
uguali, d’accordo che va pure riconosciuta la buona fede, ma non si
fa un buon servizio alla storia se non si distingue chi è morto per la
libertà da chi è morto per soffocarla.
Comunque non sarebbe certo onesto negare che anche nell’ambito
partigiano ci furono dei protagonisti di episodi biasimevoli e condannabili o che all’interno delle loro organizzazioni si infiltrò gente,
spesso a guerra quasi o già finita, che arbitrariamente compì le sue
vendette personali; ma attaccarsi a ciò per censurare la limpidezza
della storia partigiana significa, come dissi sopra, possedere una coda
di paglia grossa come l’abete di Natale di piazza san Pietro; e già che
siamo nella città evangelica, significa mostrare la paglia nell’occhio
altrui e nascondere la trave nel proprio. D’altro canto questi episodi
uscirono poi tutti alla luce del sole e vennero ampiamente documentati: per alcuni si ebbero delle condanne esemplari, mentre per altri ci
fu l’amnistia che, sia chiaro, cancellò reati da questa parte ma ancora
di più dall’altra per favorire un clima di riconciliazione: certo che chi
fu vittima diretta o anche indiretta , avendo magari perso famigliari,
talora anche incolpevoli, spesso non fu pago per ovvi e comprensibili
motivi, di ciò, e accadde pure che alcuni avendo subito gravissimi
torti sopportarono il proprio dolore in silenzio, mentre talora alcuni
dei responsabili si permisero anche più di altri di alzare la voce. Ma
fu proprio con la complicità di alte cariche del nuovo Stato democratico che non si fece una completa pulizia anche dove si sarebbe potuto o dovuto e si continuarono a mantenere parecchi scheletri nei
metaforici armadi, anzi, si scoprì poi un autentico, divenuto famoso,
“armadio della vergogna” contenente pacchi di documenti “dimenticati” per decenni, che raccoglievano le testimonianze delle atrocità
compiute dai nazisti in ritirata, spesso aiutati dalle autorità civili e
militari fasciste delle Repubblica fascista del nord. Costoro compirono orrendi massacri sulle popolazioni civili dei paesi da loro attraversati durante il ripiegamento, coadiuvati, come dicevo, dalle autorità
fasciste repubblichine e dagli uomini della famigerata “Decima
Mas”: delitti che si volle far cadere nell’oblio e per i quali, quasi, mai
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nessuno fu chiamato a rispondere. Perchè nessuno pagò? Realpolitik
bello, che altro sennò? Recentemente è venuto alla luce anche un secondo “armadio della vergogna” i cui documenti sono al vaglio degli
esperti e degli inquirenti: pare sia relativo alle nefandezze delle camicie nere nelle zone occupate dall’Italia nella Slovenia e nella Croazia
durante la seconda guerra mondiale: staremo a vedere le novità che ci
riserberà.
Comunque oggi il problema, che molti dicono non esistere e altri,
pure ammettendolo, bellamente ignorano mettendo la testa sotto la
sabbia, è il seguente: a più di sessant’anni dalla liberazione abbiamo
disseminate su tutto il nostro territorio le basi militari dei “liberatori”
e il fatto, per quanta candida buona fede si voglia concedere, non può
esimerci dal constatare come ciò faccia di noi una democrazia a
libertà vigilata e quindi limitata.
Mettiamo che avessimo sul nostro territorio le basi militari russe
perché, alla spartizione delle zone di influenza fatta dai vincitori a
Ialta, l’Italia era finita sotto l’influenza sovietica: che cosa direbbe il
cosiddetto mondo libero? Ragionando pacatamente, scevri per quanto possibile da condizionamenti e opportunismi politici e men che
meno ideologici, proviamo a chiederci: se noi – il nostro paese – fossimo andati a liberare militarmente un popolo da un regime sanguinario e dispotico e una volta compiuta la nostra missione fossimo
rimasti con le nostre forze armate sul luogo per un tempo che ormai
si avvicina al secolo, non sarebbe perlomeno imbarazzante definirci
ancora liberatori anziché, più opportunamente, occupanti, tanto più
se in quel paese il processo democratico fosse ormai da molto tempo
consolidato? Non ho dubbi che se i semplici cittadini italiani, o anche
germanici, ponessero questo quesito ai semplici cittadini degli Stati
Uniti d’America le risposte nella stragrande maggioranza sarebbero
che le loro forze armate dislocate sul nostro suolo dovrebbero essere
ritirate dato che anch’essi, è supposto, debbano ritenere non certo
normale una situazione del genere; ragione per cui stando così le
cose, i governanti italiani e della Germania in loro piena autonomia,
accantonando remore e timori che non hanno più ragione di esistere,
devono farsi carico del problema ormai diventato endemico e com-
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piere passi in questo senso: chiedere cioè il ritiro dai nostri rispettivi
paesi delle forze armate U.S.A., sicuri di trovare sull’altra sponda
dell’Atlantico interlocutori sensibili. Chiaro quindi che la concessione del raddoppio della base Dal Molin di Vicenza diventerebbe un
passo che oltre che a squalificare i nostri governanti andrebbe in
senso opposto alle giuste esigenze di autonomia dello Stato italiano.
Proposte in tal senso, con pacifiche raccolte di firme per una legge di
iniziativa popolare per lo smantellamento, anche progressivo, delle
basi militari americane e la loro riconversione in strutture civili, sono
da tempo già state presentate e i governi, di qualunque tendenza essi
siano, hanno il dovere di tenerne in conto legiferando in tale senso.
Non va inoltre dimenticata la ragionevole aspirazione del continente europeo a diventare una grande confederazione di stati liberi che si
pone quale alleata alla pari delle grandi democrazie, come gli Stati
Uniti d’America. Per questa ragione l’unione dei 27, pure osservata
oggi da angolature diverse va, almeno da una di queste, intesa innanzitutto come un grandioso risultato storico-politico, perché per la
prima volta nella loro storia le nazioni europee, spontaneamente,
hanno voluto unirsi ripudiando il ricorso alla forza. Osservata da
un’altra angolatura l’Unione Europea va analizzata invece come un
lavoro compiuto a metà, il cui impianto pertanto, così permanendo le
cose, non potrà reggere a lungo perchè si è tenuto conto quasi esclusivamente degli aspetti mercantili e monetari dell’Unione, guardando
cioè più ai bilanci, e in avvio poteva anche essere sensato, e lasciando insolute questioni politiche che avrebbero dovuto affrontare nel
concreto i problemi della democrazia, delle politiche sociali, nonché
di quelle ambientali. Fino dall’elaborazione della bozza costituente
europea sono prevalse le mediazioni al ribasso sui temi del tipo del
modello sociale, privilegiando politiche più vicine ai sistemi d’oltreatlantico ultraliberisti, inaugurati con i due governi Reagan in America, imitati da quelli tacheriani in Gran Bretagna, anche altrove imitati, per esempio da noi in Italia, tendenti allo smantellamento progressivo dello Stato Sociale, vale a dire quel sistema di politiche
sociali che avevano garantito in maniera sufficientemente equa i
diritti sia collettivi che individuali dei cittadini, in particolare quelli
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delle categorie sociali più deboli attraverso quelle conquiste maturate
e consolidate fino alla fine degli anni ’70 del secolo scorso. Non erano certo un “vangelo” e quindi potevano essere modificate adeguandole ai tempi, non però smantellate. Con l’attacco e la progressiva
demolizione neoconservatrice del Welfare State è andata prevalendo
una concezione, fatta passare per moderna, in realtà ottocentesca, e
quindi addirittura dimenticata anche dai cittadini più anziani perché
vissuta solo dai loro avi, che è stato possibile veicolare come azione
riformista grazie alla capacità e all’abilità persuasiva mediatica dei
gruppi di potere dominanti, anche verso quella parte di ceto sociale
più debole che gli ha dato credito e che solo ora, rendendosi conto
della sua posizione fortemente indebolita e del suo stato fortemente
precario, si ritrova frastornato in balia di sé stesso, giacché anche i
suoi tradizionali vecchi referenti politici e una parte consistente di
quelli sindacali, o sono stati troppo timidi nel sostenere le loro posizioni o si sono fatti abbagliare dagli specchietti per le allodole agitati
da uno pseudo liberalismo straccione e ideologico che, agitando gli
slogan: “non ci sono più le classi” e ancora “ meno Stato, più mercato” e promettendo ricchezza per tutti, ha perseguito solo gli interessi
di pochi pescecani che hanno messo in crisi l’economia mondiale.
Non tutto il mondo economico quindi, ad esempio non mi riferisco
certo alla miriade di aziende piccole e medie che lavorano, non piangono miseria, ma rivendicano solo di poter essere messe nelle condizioni di operare al meglio, ad esempio snellendo la burocrazia o di
poter accedere più agevolmente ai crediti.
E vediamo come questi campioni politici del liberismo duro e puro,
che in vita loro non sono nemmeno mai stati in grado di privatizzare
nulla, né una centrale del latte, né un macello comunale, oggi ci
hanno dato un esempio pessimo di cosa non si dovrebbe fare quando
si privatizza un’azienda statale: mi riferisco a ciò che rimaneva della
compagnia di volo di bandiera Alitalia, ora CAI, dove sono state
socializzate le perdite, scaricandole sui cittadini italiani, e svenduta a
un gruppo di amici, “la cordata” la polpa che potrebbe dare profitti;
ma la vicenda non è ancora conclusa e sono certo che ne sentiremo
ancora parlare e, dopo quanto successo, dubitiamo positivamente.
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È quindi sempre più evidente che il consolidamento della democrazia europea dovrà passare attraverso il varo di nuove politiche
sociali che individuino tanto nel singolo individuo quanto nella collettività i soggetti meritevoli di difesa: privilegiare solo uno dei due
aspetti in antitesi all’altro non potrà portare che verso fallimenti i cui
esiti rovinosi, che guardando alla storia qualcosa dovrebbero pure
avere insegnato, non sono purtroppo mancati in anni non tanto lontani che ci stanno alle spalle.
Anche per questi motivi i cittadini di alcuni paesi, chiamati a dare
un parere sulla neonata e stiracchiata Carta Costituzionale Europea,
fatta di troppi compromessi e esposta su troppe questioni ai veti di
singoli stati, che di fatto paralizzandola non la rendono operativa,
l’hanno in maggioranza respinta: non si trattava di euroscetticismo,
anche se in Europa in certa componente è pure presente, ma perché
nella Carta non sono state date risposte chiare e concrete inerenti sia
ai diritti che ai doveri dei cittadini, al loro bisogno di democrazia,
alle richieste di voler essere considerati cittadini che contano a ogni
effetto e non semplici soggetti quali consumatori buoni per le statistiche legate a mere logiche monetarie e di mercato. Una nazione o una
unità di nazioni senza concreti, comuni e condivisi solidaristici valori di base, non avrebbe ragione di esistere perché risulterebbe priva
delle fondamenta sulle quali poggiare.
Ma siccome per la prima volta nella sua storia l’Europa ha trovato
l’unità in maniera pacifica, per spontanea volontà dei suoi popoli,
senza ricorso alla forza, sarebbe deleterio e stupido non fare della
pace il valore primario del continente, pace, che dovrà essere l’articolo costitutivo più importante e basilare della sua Costituzione,
mentre del tutto errato sarebbe inseguire soluzioni tendenti a farla
diventare un’altra potenza militare che finirebbe per contrapporsi
inevitabilmente ad altre potenze, impegnando in ciò risorse utili ad
altri fini. A proposito di risorse sottratte al sociale, è stato dei primi
di ottobre del 2007 il veto del presidente degli U.S.A. George W.
Bush al testo di legge, approvato dal congresso a larga maggioranza,
che prevedeva la copertura della previdenza sanitaria a 10 milioni di
bambini invece dei (al tempo) 6,6 milioni, che avrebbe potuto trovare
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la copertura finanziaria solo se si fosse stornato un po’ di denaro
dagli ingenti finanziamenti impiegati per la guerra in Iraq e in Afganistan: come si vede le guerre non costano solo ai bambini dei paesi
dove sono combattute.
Non sto affermando che l’Europa non debba avere una sua propria
forza militare di difesa, dato che è evidente che proprio il fatto di non
averla è un altro dei suoi punti di debolezza, anche politica, dovuto in
particolare all’atteggiamento fino a ora contrario degli Stati Uniti
d’America e ciò, messi nei loro panni, è comprensibile; ma questo
accade anche per il permanere in alcuni paesi, ad esempio il mio, di
atteggiamenti subalterni, quando non servili, verso la superpotenza
atlantica. Vi sono inoltre palesi comportamenti contrari di membri
dell’Unione, come la Gran Bretagna, che invece di privilegiare politiche comunitarie maggiormente unitarie, ritiene di potere sfruttare a
suo vantaggio gli aspetti economici positivi, rivendicando nel contempo mani libere su questioni che la vedono contraria agli interessi
delle politiche U.E., ad esempio sulle politiche estere, o monetarie, o
della difesa.
Da questi fatti si evince che sarebbe non tanto auspicabile quanto
d’obbligo per l’Unione del prevalere di una visione politica lungimirante che privilegiasse valori e risorse indirizzate su direttrici che
agevolassero e valorizzassero la ricchezza del suo cosmopolitismo,
rafforzando la democrazia, la libertà e i diritti dei suoi cittadini,
compresi quei migranti non originari del continente, che l’hanno
scelto come nuova patria, ai quali dovrà essere estesa, superate le
modalità stabilite da un percorso operativo di legge non ostacolante,
la cittadinanza e il diritto di voto e questo in quanto vivendo e operando anch’essi nella comunità dei 27 contribuiscono al pari degli
altri cittadini alla sua crescita e sviluppo.
Ma questi obbiettivi non vanno solo perseguiti dentro la Comunità
ma in tutto il pianeta, perché non è possibile affermare di vivere in
maniera libera se da qualche altra parte del mondo la libertà dei singoli e, o dei popoli è ogni giorno violata. Per questa ragione diventa
indispensabile l’apertura del dialogo verso l’esterno, il che significa
avere anche il coraggio di fare il primo passo nei confronti di paesi
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con altre culture, fedi, filosofie, modi di operare e vivere diversi, spogliandosi di remore e diffidenze spesso create ad arte; naturalmente
senza ingenuità, ma anche senza preconcetti , promuovendo nel concreto l’aiuto ai paesi in via di sviluppo. Questa sarebbe anche una
maniera intelligente – l’Italia che aveva promesso di stanziare in aiuti
lo 0,7% del pil, lo ha poi ridotto progressivamente al misero 0,1%,
ma alla fine del 2008 è stato ancora calato, per cui poi è inutile
pretendere di limitare i flussi migratori irregolari o di eccedenza fisiologica, in quanto è del tutto logico e umano che popolazioni
poverissime e disperate cerchino di uscire dalle loro miserrime
condizioni di vita migrando nei paesi più ricchi, anche in maniera
clandestina. A tale proposito vanno pensate politiche che promuovano il sostegno a quei paesi che saranno poi aiutati a sviluppare una
loro economia locale che gli permetta di assorbire in loco la loro
manodopera; dico questo perché deve essere valutato come certi aiuti
vengono erogati. Ad esempio il governo del Senegal ha concesso alle
flotte pescherecce europee di pescare lungo le sue coste in cambio di
un contributo concordato, che pare anche piuttosto modesto. Tale
contributo, o una larga parte di esso, dovrebbe essere elargito, girato,
alle popolazioni di pescatori rivierasche senegalesi che vivevano di
quella risorsa che ora, con i loro scarsi mezzi, non riescono più ad
avere non potendo competere con la concorrenza dei moderni pescherecci europei, per cui ora sono alla fame e il loro governo che li
dovrebbe rimborsare non lo fa. Cos’altro potrebbe fare ora questa
gente privata del solo guadagno che aveva, se non migrare? Ecco per
quale motivo parlavo di aiuti intelligenti, senza preventivi intenti
predatori o di sfruttamento e senza nemmeno inviare peregrini oboli
lava-coscienza solo in momenti di esigenze drammatiche: davanti a
una improvvisa catastrofe è doveroso intervenire con degli aiuti, ma
non ci si può limitare a questo. Una vera politica intelligente sarebbe
quella che si fa obbligo di avviare scambi paritari di esperienze,
conoscenze, culture e risorse tecniche e umane in grado non solo di
avviare autonomi percorsi e processi di sviluppo economico e sociale, comprendendo che per questa via l’aiuto diventerebbe reciproco.
E più che auspicabile diventa vitale che l’Europa non sia percepita
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come il continente avido che arroccandosi dietro lo steccato delle
proprie fobie e del benessere non si faccia carico non solo di salvaguardare in maniera accorta la propria economia, ma si ponga anche
l’obbiettivo e l’obbligo – dato che il non farlo sarebbe stupido e
miope – di offrire rappresentanza politica ai popoli di quelle nazioni
del mondo che sono privati degli elementari diritti e dignità; ne
consegue che nei confronti di governi di paesi in cui viene negata la
libertà ai cittadini e dove la dissidenza è brutalmente repressa, è non
solo giusto ma obbligatorio usare ogni pressione politica possibile;
questa per l’Europa sarebbe una vera battaglia di civiltà.
Analoghe pressioni diplomatiche, accompagnate da una caparbia e
incalzante battaglia del Consiglio d’Europa e di tutti i cittadini sensibili al problema, vanno intraprese con iniziative, nelle sedi e con i
mezzi appropriati, per indurre quei paesi dove ancora è praticata, ad
abolire quella forma indegna di “giustizia”, o assassinio legalizzato,
che è la pena di morte.
A volte sembra che l’Europa sia affetta dall’inconsapevolezza, forse a causa di un velato euroscetticismo, ma di più per mancanza di
una visione chiara e ampia delle sue potenzialità, o ancora a cagione
di personalismi provinciali di alcuni suoi membri, del suo immenso e
storico bagaglio umano e sociale, della sua grande capacità economica e produttiva, e ancora dell’enorme potenzialità del suo mercato,
tutte cose delle quali, purtroppo, sembra non essere ancora pienamente consapevole. È del resto un fatto che le troppe visioni personalistiche nazionali e le troppe facoltà di veto paralizzanti, che costringono il Consiglio a continue rincorse verso soluzioni compromissorie, sono motivo del suo nanismo politico esplicitato nella
carente unitarietà e omogeneità della sua politica estera, che non può
non rendere evidenti gli sbandamenti o i colpi bassi di alcuni dei suoi
membri: la Gran Bretagna per una sorta di affinità elettiva con l’alleato americano, spesso privilegiato rispetto all’Europa in diverse
scelte di politica estera tanto militari quanto economiche; l’Italia, non
solo quella berlusconiana, per una manifesta forma di sudditanza culturale e ideologica tendente ad avallare aprioristicamente e in modo
acritico qualsiasi scelta e qualsiasi richiesta fatta dal grosso alleato
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d’oltreoceano. Qualche esempio? Quando l’amministrazione Bush
sparava minacce ad alzo zero contro l’Iran, l’Italia, per bocca di Frattini, ex ministro della difesa e ora degli esteri, pedissequamente piegato, sparava pure ad alzo zero contro l’Iran. Poi Obama adottò una
politica più conciliante e con l’Iran cercò il dialogo, per cui l’Italia,
quindi Frattini fu conciliante cercando il dialogo. Quando durante il
governo Prodi alcuni suoi ministri ipotizzarono un dialogo con alcuni
settori più “sensibili” della resistenza talebana in Afganistan, l’opposizione, Berlusconi, Frattini e company, insorse indignata tacciando
il governo di disfattismo antiatlantico e antiamericanismo. Oggi
Obama propone un dialogo con i settori più moderati della resistenza
talebana, (terrorismo?), e l’Italia, Frattini e company, non mi pare
stiano tacciando il presidente americano di disfattismo antiatlantico e
di antiamericanismo. Domanda: il ruolo dell’Italia nell’Alleanza
Atlantica è quello di alleato o di cortigiano servile? E tutto ciò corrisponde al comune sentimento degli italiani? Se si hanno opinioni diverse si deve anche avere il coraggio di esporle e difenderle; ovviamente si possono anche cambiare, ma è chiaro non essere questo il
caso, dato che qui anche l’opportunismo diventerebbe una virtù.
Ma ci sono anche dei paesi, tra gli ultimi entrati nell’Unione, in
particolare alcuni degli ex “satelliti” del defunto blocco sovietico,
che probabilmente – non lo so e sto cercando una spiegazione – forse
non hanno ancora superato il trauma del periodo di mancata libertà
imposta dal vecchio alleato-padrone, verso il quale mantengono sentimenti non proprio benevoli, i quali dopo aver chiesto con insistenza
l’adesione all’Europa Unita e averla ottenuta, di fatto ne hanno messo a seria prova le strutture e la stabilità privilegiando scelte che nei
fatti finivano per rafforzare l’egemonia politica, militare e economica
americana la quale, pure alleata, non ha grandissimo interesse a uno
sviluppo concorrenziale forte, autonomo e paritario della economia e
della politica europea, preferendo una Unione politicamente debole,
subalterna e litigiosa. Resta il fatto che con il cambio dell’amministrazione americana, ora il governo Obama pare non sia più intenzionato a proporre ai governi degli ex satelliti russi l’istallazione dei
sistemi cosiddetti scudo spaziale. E l’Italia? Prima era d’accordo con
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lo scudo di Bush e ora, naturalmente, con il non scudo di Obama. Per
inciso: sono d’accordo anch’io con Obama.
Anche per queste ragioni sarebbe da scriteriati avere come obbiettivo quello di diventare una forte potenza militare, ma ha invece
senso privilegiare proposte e soluzioni di maggiore respiro democratico all’interno e sviluppare iniziative di confronto alla pari con gli
altri grandi paesi al fine di poter influire nelle scelte strategiche del
pianeta, a partire dalle priorità energetiche e ambientali.
La ritrovata unità europea, pure considerando i suoi momenti di
stallo, o se vogliamo di crisi, sempre fallita fino dall’indomani della
caduta dell’Impero romano d’Occidente, si è mostrata finalmente
possibile perché il criterio adottato per raggiungerla è stato di segno
diametralmente opposto a quelli usati in tutti i tentativi precedenti,
abbandonando finalmente il ricorso alla forza che ogni volta brutalmente e rozzamente aveva offeso sul vivo oltre ai corpi anche i sentimenti, pure in certi casi non così saldi e profondi, tuttavia ricettivi
agli impulsi e al bisogno di identificazione e appartenenza nazionale
dei popoli violati i quali, sentendosi parte integrante di comunità o
nazioni definite, non accettavano di essere ridotti a servi, sudditi o
cittadini di serie inferiore di una potenza o un signore straniero, pure
se magari fino ad allora lo erano stati di uno locale. A tale proposito,
e semplificando, possiamo enumerare esempi di tentativi che partendo dall’effimera restaurazione dell’Impero Carolingio, si ripeterono
con gli Ottoni, con gli Hoenstaufen, con Carlo 5°, con Luigi 14°, con
Napoleone Bonaparte, per finire con Hitler. Tutti tentativi di costruire una Europa con la spada o il cannone e tenerla unita con il pugno
di ferro, senza il consenso dei popoli. Tutti tentativi che nel migliore
dei casi non andarono oltre la vita stessa dei singoli tiranni che li
avevano progettati e realizzati.
Oggi l’Europa è una realtà, anche se non è un edificio politicamente compiuto, ed è a causa di ciò che sta vivendo un difficile momento
di empasse dato dal persistere di resistenze personalistiche: in realtà
alcuni con più remore di altri continuano a resistere all’abbandono di
troppe prerogative nazionali sulle quali esercitano il diritto di veto,
mostrandosi restii a accettare quelle comunitarie più unificanti, più
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coinvolgenti e responsabilizzanti, che dovranno passare attraverso il
conferimento di maggiori poteri del Parlamento di Strasburgo e minori facoltà di veto dei singoli stati: non si tratta di indebolire le sovranità nazionali, ma di riconoscerne una più autorevole e unificante.
Ciononostante l’Europa sembra avere compreso, pure se non tutti i
paesi al loro interno hanno fatto fino in fondo i conti con il proprio
passato e la propria storia, che la guerra, qualsiasi giustificazione gli
si voglia concedere, non conduce mai a nulla positivo. E quindi,
risultando che oggi nel vecchio continente non ci sono nazioni smaniose di armarsi e con propositi guerreschi – anche se in ognuna alberga ancora una certa quota di adoratori di Marte – si fa sempre più
marcata la distanza tra i comuni cittadini che ripudiano la guerra e la
maggioranza dei parlamentari – questo avviene nel mio paese – i
quali tradendo il mandato della nostra Carta Costituzionale, pure dichiarandosi dispiaciuti, (sic!), si dichiarano però anche realisti e la
guerra la fanno, vedi Balcani, Iraq, Afganistan. Sono dei fuorilegge!
Sentimenti di ripudio che non riguardano solo la maggioranza dei
comuni cittadini europei, che respingono la guerra come strumento
per la soluzione delle questioni politiche, ma che coinvolgono anche
molte cariche dell’apparato militare che, (stranamente?), sono del
medesimo parere della maggioranza dei cittadini e pensano e dicono
questo con cognizione di causa visto che essendo coloro che vivendola “sul campo” ne hanno una visione più precisa e limpida. Resta
una sola categoria di sciocchi, (i cosiddetti “realisti”), che sono i
nostri rappresentanti politici i quali continuano a propinarci la favola
che vanno a combattere il terrorismo, ma le ragioni vere restano nascoste. L’Afganistan viene ad essere per l’Occidente, in particolare
per gli U.S.A. una regione strategica per il controllo di quella parte
di Asia che di quello stato ne è confinante. Esistevano inoltre piani e
accordi segreti fra talebani e l’amministrazione Bush Senior di
rifornimenti di armi ai guerriglieri per la cacciata dei russi, (prima
degli americani c’erano loro), in cambio i talebani, liberatisi dai
russi, avrebbero concesso agli U.S.A. il permesso di passare per il
loro territorio con oleodotti e gasdotti che attraverso il Pakistan sarebbero arrivati a sud del golfo Persico, fino al golfo di Oman. Come
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poi si vide, le cose presero un’altra piega: l’attentato alle torri gemelle, e ora i talebani, un tempo amici, sono diventati nemici e anche
terroristi, e il fargli la guerra ha ottenuto finora il consenso dell’opinione pubblica, alla quale naturalmente non è stata raccontata tutta la
storia da parte dei politici e del resto nemmeno il grosso dei media
l’ha raccontata – la democrazia, ovviamente, è un’altra cosa – e le
pochissime voci che, ad esempio qua da noi, tentano con difficoltà di
far sapere le realtà nascoste hanno buone probabilità di essere messe
a tacere con ogni mezzo: vedi la legge che ha tolto l’aiuto finanziario
alle piccole testate autogestite in cooperazione, le quali sono anche
quasi senza introiti pubblicitari.
Tornando alle guerre, è noto come all’opinione pubblica si tenti di
non far arrivare l’opinione di decine e decine i militari di alto grado,
ufficiali superiori, anche generali, che non sono mai stati invitati ai
dibattiti pubblici televisivi, i quali ripetutamente hanno espresso il
loro parere contrario alle soluzioni di tipo militare nelle controversie
anche molto aspre, tra stati o dentro agli stessi in questi ultimi anni.
Mi riferisco, ad esempio, alla guerra “umanitaria” della Nato in
Kosovo del 1999, dove un quantitativo impressionante di bombe fu
scaricato per 78 giorni consecutivi sopra la Serbia e sopra il Kosovo
e questo bombardamento “umanitario” fece per lo più morti fra i
civili, dato che molto più spesso furono colpiti degli obbiettivi non
militari, come gli edifici della televisione, senza preavviso, gli stabilimenti industriali, o il famoso treno, le cui immagini della sua distruzione ci furono più volte propinate come esempio di efficienza e
precisione della guerra aerea. Lo stesso discorso vale per la guerra in
Iraq e quella in Afganistan. Perché tanti alti ufficiali contrari? Innanzitutto perché chi sta “sul terreno operativo” vede e comprende se
quel conflitto è o meno “legittimo” rispetto al Diritto Internazionale e
se la scelta di compierlo, fatta passare all’opinione pubblica come
unica praticabile, è stata davvero l’unica praticabile o non poteva
avere delle alternative. Molti sono stati i generali rimossi dal loro
incarico – che benché in sordina, perché osteggiati, hanno tuttavia
fatto scalpore incrinando il primitivo fronte interventista dell’amministrazione Bush perché sostenevano l’impossibilità della vittoria.
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Ma anche rispetto alla guerra in Afganistan molti di coloro che stanno “sul campo” affermano da tempo la stessa cosa e non solo perché
nessuno negli ultimi duemila anni è mai riuscito a vincere quel popolo, e questo dovrebbe già suggerire qualcosa: il fatto è che ci si
trova in un territorio sconosciuto e impervio con frontiere aperte
sugli altri paesi vicini e questo permette ai guerriglieri di passarle e
trovare appoggi. Naturalmente i politici queste cose le sanno benissimo, ma la loro reazione è di finto stupore e quindi invece di trarre
le logiche conseguenze propongono un aumento del contingente e
degli armamenti, propongono cioè, come si disse nel Vietnam, una
“escalation”: dal che si comprende che la storia a questi signori non
ha insegnato nulla. Riguardo al Kosovo c’è un libro, fra i vari di questo genere da portare a esempio per le testimonianze di militari che
erano contrari all’intervento armato, che sono moltissime e vedono
concordi italiani, americani, tedeschi, britannici, francesi, ecc..; nel
caso specifico, del generale tedesco Heinz Loquai “Der Kosovo
konflict. Wege in einen vermeidbaren Krieg” – “Il conflitto in Kosovo. Percorsi di guerra evitabile”, nel quale il generale spiega come il
Vertice di Rambouillet non sia stato altro che fumo negli occhi sulla
opinione pubblica, dal momento che non c’era nessuna intenzione di
risolvere la faccenda per vie diplomatiche dal momento che il conflitto era già stato deciso.
Ad ogni modo anche in tempi recentissimi qualche nazione europea è stata tacciata dall’amministrazione Bush junior di mollezza o
addirittura di codardia per non essere voluta intervenire nella guerra
in Iraq e queste accuse hanno trovato anche nel mio paese più di
qualche orecchio interessato e sensibile. Orecchio la cui testa dove
sta attaccato sembra avere davvero seri problemi di capacità mnemonica. In Europa non siamo mai stati molli in questo senso, in quanto
ci siamo bellamente scannati fra di noi per secoli, o meglio millenni e
finalmente riteniamo, anche se non tutti purtroppo, di avere imparato
la lezione.- la nostra Costituzione, su questo tema, è frutto di questo
apprendimento –una lezione che ci ha insegnato che la guerra non è
mai un buon affare, non solo per gli sconfitti, per ovvie ragioni, ma
nemmeno per i vincitori che tali sono solo nominalmente, in quanto
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anche a loro ha presentato conti salati di vite e di risorse, per non dire
degli strascichi morali, o dei mezzi materiali sottratti all’economia e
alla cultura della pace. Il concetto di vittoria e ormai anacronistico.
Se poi una nazione, per quanto grande ricca o potente possa essere,
avrà le velleità di mantenere il suo controllo sopra un’altra o più nazioni, o addirittura sopra il mondo intero, dissanguerà sé stessa e i
suoi cittadini, creando non solo all’esterno ma anche al suo interno
minori spazi di democrazia e uno stato di tensione e allerta permanenti che la condurrà a una sorta di psicosi dell’assediante a sua volta
assediato e tutto questo pare non faccia tanto bene alla salute.
A tale riguardo qualche anno fa c’è stato uno scrittore inglese che
si chiama Niall Ferguson, nostalgico della vecchia cara Inghilterra
colonialista ex padrona del mondo, che siccome quella esaltante stagione per il suo paese è definitivamente tramontata e non potrà più
essere ripetibile, martellava, (probabilmente lo starà ancora facendo),
gli Stati Uniti d’America affinché raccogliessero il testimone lascito
dal suo paese e si autoproclamassero nuovo Impero del mondo. In
uno dei suoi ultimi libri intitolato “Colossus”, edito in Italia nel 2006,
ma già negli U.S.A. dal 2003, si rivolgeva agli americani rammentandogli che essendo la loro la nazione oggi dominante doveva anche
accollarsi l’onere o, con l’espressione cara a Kipling:<<il fardello
dell’uomo bianco>> - non sospettava ancora, il nostro, che alla guida
degli U.S.A. sarebbe stato eletto un nero – e compiere il proprio dovere di guida del mondo così come toccò a suo tempo alla sua nazione e molto prima a Roma. Ma sembra che praticamente nessuno
dentro il partito Democratico e solo uno sparuto gruppo in quello
Repubblicano si sia reso disponibile a raccogliere l’appello dello
scrittore, pure essendo, gli uni e gli altri, ben consci della posizione
di privilegio goduta oggi dal loro paese nel mondo, tuttavia nessuno,
pure sapendo di essere la più grande economia e la maggiore forza
militare del pianeta, le cui basi disseminate in tutte le zone strategiche, coprono un numero di nazioni intorno all’ottantina, è disposto a uscire allo scoperto facendo una aperta dichiarazione per un
impero mondiale americano. Tutto ciò comporta indubbi benefici e
privilegi, obbiettivamente difficili da rifiutare, se solo si pensa che il
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mondo più o meno docilmente si piega ai tuoi voleri perché ti teme e
ti fa pure credito – l’enorme debito estero che sarebbe un grosso
problema per altre nazioni non preoccupa più di tanto gli U.S.A..- .
Tutti questi onori comporterebbero, naturalmente, anche i relativi
oneri, sia economici, ma in particolare morali, che dovrebbero essere
accettati e imporrebbero anche di non usare assolutamente pesi e
misure diverse nell’affrontare e dirimere questioni internazionali. Si
capisce quindi bene che anche se in cuor loro una fetta di americani è
allettata dall’idea di sentirsi nazione guida del mondo, questa
suggestione trova un freno in quelli che dovrebbero essere gli oneri
ai quali non sarebbe possibile sottrarsi; è quindi più comodo esserlo
senza dichiararlo e senza che alcuno te lo riconosca ufficialmente.
Ritengo del resto che se in una situazione analoga venisse a trovarsi
qualsiasi altra nazione non agirebbe in maniera molto diversa dato
che in buona sostanza i sentimenti di base di tutti i popoli si
assomigliano. Ed è questo realistico opportunismo americano, che
Ferguson chiama “timidezza”, a irritare lo scrittore, il quale blandisce
la politica U.S.A. e i suoi governanti per la loro ritrosia e la tendenza
a disertare le azioni militari che si protraggono troppo oltre i tempi
programmati, o per il fatto che queste prendono pieghe diverse da
quelle previste. Pertanto la critica di Ferguson è rivolta alla scarsa
coerenza politica e al carattere debole delle gerarchie militari
americane, alle quali egli fa notare l’abisso qualitativo di queste se
paragonate a quelle britanniche del buon tempo antico, ma anche
attuale. Poi, chiuso il capitolo delle critiche, apre quello delle
esortazioni ed egli si prodiga a spronare l’America, pena il suo
inevitabile declino di potenza egemone, a prendere nelle sue mani il
governo e il destino del mondo. Ma la storia, come sappiamo, non si
ripete mai uguale e anche se gli scritti di Ferguson hanno fatto un
certo numero di proseliti, le sue teorie non paiono essere nulla di più
che una nostalgica riproposizione di un passato che non può più
tornare. Tra l’altro il mesto scrittore non si è nemmeno accorto che
nel frattempo, tra le nebbie provocate dalla crisi mondiale, altre
potenze economiche si intravedono e si affacciano al mondo rivendicando un ruolo più importante spostando il peso specifico dell’eco-
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nomia e politica mondiale da Occidente verso Oriente e ciò mostra
ormai chiaramente che gli U.S.A. anche volendolo, non sarebbero
più in grado di rappresentare il solo paese guida planetario. Questo il
presidente Barack Obama lo ha bene compreso ma non significa che
egli pensi a un ruolo americano più ridotto sulla scena mondiale,
tutt’altro! Egli piuttosto pensa a un ruolo in cui l’America sappia mostrare meno muscoli e maggiore diplomazia, un po’ come fece a suo
tempo l’imperatore Adriano: Roma era ancora la potenza maggiore
ed era ancora solida, ma aveva bisogno di stabilità. Avranno compreso ciò anche i suoi alleati?
Saltando un attimo al mio paese pare che in una certa misura,
all’”Italiana” , un buon numero di epigoni di Ferguson siano presenti
nel governo e la politica “riformista” che ci propone e propina come
innovativa è tutta pescata nelle ricette paleoliberiste dell’ottocento,
quella tipica del “padrone delle ferriere”
Ma concludiamo il discorso sull’America che, come abbiamo detto,
potrebbe forse anche proporsi come nazione guida mondiale avendo
sia la forza militare che economica, non altrettanto potrebbe invece
fare sul piano politico e ancora meno su quello culturale, in particolare dopo i comportamenti di Bush, del suo vice e del suo, sua, segretario di Stato: 600.000 morti in Iraq, le torture dentro le prigioni
irachene, i bombardamenti sui villaggi civili in Afganistan, la prigione lager di Guantanamo. Sono gli atti politici e culturali di un paese
che suscitano o meno, da parte degli altri paesi, il consenso, giacché
non si governa se si genera timore e ostilità: non bastano i muscoli
per imporre le proprie scelte, si finirebbe per essere obbediti, ma
anche temuti o detestati. È capitato spesso ultimamente che una parte
crescente di persone del popolo americano si sono domandate con
stupore perché siano da alcuni paesi odiate e non hanno saputo darsi
una risposta: sembra non le sfiori il pensiero che se vanno in giro per
il mondo a fare le guerre, i popoli sui quali sganciano le bombe non
possono proprio essergli grati. Del resto gli stessi americani, ovviamente non tutti, sono stati di volta in volta e senza eccessivi sforzi,
indotti a odiare: i comunisti che durante la seconda guerra mondiale
erano alleati; i talebani, ora “terroristi”, che poco prima erano amici e
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“combattenti per la libertà” contro la contrastata occupazione russa,
“grande impero del male”; la piccola nazione cubana boicottata con
ogni mezzo e sottoposta a un lunghissimo embargo, ancora operante,
oggetto da parte di certuni di un odio quasi isterico; alcuni paesi
dell’America latina che non appena hanno espresso amministrazioni
liberamente elette appena un poco più liberal di quanto Washington
avrebbe voluto, al posto di governi golpisti o fascistoidi e sanguinari,
spesso fantocci U.S.A. e C.I.A. Anche l’Iraq una volta era un paese
amico e lo era anche il suo feroce dittatore Saddam Hussein , che
veniva foraggiato di armi quando faceva la guerra all’Iran, poi le
cose cambiarono e Saddam fu odiato e di lui si disse che era anche
peggio di Hitler. E siccome i francesi non vollero andare a combattere contro di lui nella seconda guerra del Golfo, allora gli americani
furono indotti , se non proprio a odiare, a detestare pure i francesi e a
boicottare i loro prodotti d’esportazione. Oggi è l’Afganistan a
pagare la vendetta e la frustrazione americana per la mancata cattura
di Bin Laden, l’ideatore della distruzione delle torri gemelle, ma
vediamo bene che anche questo sceicco petroliere era un tempo
amico e socio della famiglia Bush. Belle amicizie, da noi si dice:
<<dimmi con chi vai e ti dirò chi sei!>> E non ce la farei a elencare
tutti i dittatori latino-americani alleati dell’Amministrazione e usati
fino a quando servivano per i lavori meno confessabili. Basta solo
dire Pinochet, D’Abisson, Noriega, prima amico e poi odiato nemico
e duramente combattuto.
Come si vede è piuttosto facile essere trascinati a odiare, meno facile è essere indotti a pensare e a ragionare, dato che è più faticoso e
anche perché se si pensa con la propria testa si può magari finire col
non essere d’accordo anche con le politiche dei propri governanti
quando questi vogliono farci digerire il loro punto di vista, sbagliato,
della assoluta inevitabilità e giustezza della guerra.
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Libro 5°
LA GUERRA E LA FILOSOFIA
Esiste un pensiero numericamente non bene quantificabile, comunque piuttosto diffuso, secondo il quale la guerra pure essendo un
avvenimento terribile non è evitabile perché sta piantata nel profondo
dell’animo umano.
Certamente è impossibile negare che la violenza non stia dentro a
ognuno di noi e che questa portata agli eccessi spinga talora persone
a uccidere altre persone: singoli che ammazzano singoli, popoli che
ammazzano popoli. Ed è pure incontestabile il fatto che tanto un singolo quanto un popolo aggrediti abbiano il diritto di difendersi anche
fino alle estreme conseguenze.
Spesso risultano sterili, su questo argomento, le contrapposizioni
fra posizioni estreme, vale a dire fra le tesi del pacifismo assoluto,
sempre e comunque e quelle non solo favorevoli all’aggressione preventiva, sempre possibile da camuffare come risposta a una provocazione, ma anche quelle sostenute e giustificate per mero interesse
economico oppure di chi, per dirottare il malcontento interno su un
obbiettivo indicato come la fonte dei problemi, prima crea il nemico,
interno o esterno, gli esempi si potrebbero sprecare, poi lo demonizza, infine lo aggredisce, facendo passare il tutto come la cosa più
giusta e naturale. Esistono poi anche le posizioni dei possibilisti del
se e del ma, o in caso di.., ecc.. Tesi e contrapposizioni che quasi
sempre, salvo svolte clamorose nell’evoluzione dei fatti – all’inizio
della seconda guerra del Golfo gli americani erano tutti o quasi
favorevoli, ma dopo alcuni anni e una soluzione del conflitto che non
mostrava sbocchi, dopo 5000 e più morti e dopo la conoscenza vera
dei fatti e delle motivazioni, sono diventati quasi tutti contrari – lasciano ognuno sulle proprie posizioni iniziali.
Su queste tematiche dovrebbero essere spese tutte le migliori energie e risorse mentali disponibili, coinvolgendo la sfera dei sentimenti,
per così dire, del cuore, ma soprattutto quella della ragione, della
mente, nello sforzo che consenta di trovare le risposte più adeguate,
sapendo quindi che né il freddo calcolo né i puri sentimenti da soli
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potranno essere buoni consiglieri.
Sul tema della guerra, del resto, le filosofie, dalle più antiche alle
moderne, si sono spaccate la “testa” proponendo teorie, le più varie e
contrapposte e di seguito ne accennerò alcune sperando, per l’esposizione necessariamente sintetica, di non rischiarne la banalizzazione.
Per quanto mi concerne non ne arrischierò certo una di personale,
solo cercherò di fare fra mé e mé qualche semplice considerazione.
Io sono capace di odiare e perciò, in teoria, sono anche capace di
uccidere; tuttavia è mio interesse non farlo perché il costo di una
simile azione, per tanti motivi, sarebbe troppo elevato. Mi chiedo:
perchè un uomo che ammazza un uomo è punito secondo la legge,
che varia da paese a paese, ma comunque sempre severamente,
mentre una nazione, specie se militarmente molto potente, che ne
aggredisce un’altra, la devasta, la annichilisce e umilia, non viene
punita? Mi si risponderà che non si può mettere in prigione una
nazione e infatti non si può, se non altro per un impedimento pratico
e nemmeno i suoi soli soldati perché, si dice, hanno obbedito agli
ordini: come dire che si dovrebbe distinguere fra mandanti e killers.
Sembrerebbe possibile punire i mandanti allora? Dipende: il processo
di Norinberga venne istituito contro i capi nazisti per i loro crimini,
ma si potè tenere perché avevano perso la guerra e loro si difesero
rigettando la colpa su un mandante unico, infatti dissero che avevano
solo eseguito degli ordini.
Mi si dirà anche che se un forte in guerra aggredisce un debole non
è vero che non viene mai punito: ad esempio quando l’Iraq invase
arbitrariamente il Kuwait, le forze dell’O.N.U. con in testa Bush
padre, lo punirono facendo pagare a Saddam Hussein e al suo popolo
il conto del misfatto. Giustizia in guerra quindi può essere fatta?
Dipende, perché, al di là di chi sarà o meno considerato colpevole, a
pagare saranno comunque tantissimi innocenti, inoltre, a provare che
in guerra non può essere fatta giustizia, basta fare un esempio di un
caso che non si scosta dallo stesso teatro operativo di cui sopra, cioè
la seconda guerra in Iraq condotta da Bush figlio: non si è trattato
forse di una aggressione ingiustificata e illegale? Ma chi ha fatto
pagare agli aggressori il loro crimine?
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Se ne deduce che tutte le guerre, per quanto criminose, che una nazione militarmente potentissima conduce e vince, o “pareggia”, sono
“giuste” perché sarà questa poi a scrivere la storia. E del consesso
mondiale che, nel caso concreto, è stato a guardare senza reagire? In
realtà delle proteste ci furono, anche se timide, non perché fosse
difficile discernere fra i delitti di un dittatore sanguinario e la cricca
dei suoi complici contro le opposizioni interne, che certo ci furono, e
quindi la stragrande maggioranza del popolo iracheno che di questi
fu vittima e lo fu poi anche degli invasori, perché i bombardamenti
sulle città non furono “chirurgici” e le bombe non erano “intelligenti”, furono i governi aggressori e la stampa embedded a volere, in
modo becero, far credere che chi protestava contro la guerra era un
supporter del dittatore, lo stesso dittatore coccolato dall’Occidente
quando fece la guerra all’Iran. Altri furono decisamente per il “guerriero” americano, lo stesso che da giovane aveva fatto l’imboscato
per non andare in Vietnam. E di questo potente condottiero membri
autorevoli del mio governo hanno pure tessuto le lodi più sperticate –
Alessandro Manzoni quando parlava di <<servi di vil encomio>> a
proposito dei leccapiedi napoleonici, quando l’imperatore stava sugli
altari, sapeva bene quel che diceva - . Cos’altro aggiungere?
Vediamo dunque che c’è qualcosa che non funziona giacché esiste
una sperequazione fra i crimini dei privati cittadini che sono giustamente puniti e quelli delle nazioni che, eventualmente, sono punite
solo se militarmente deboli, altrimenti non solo non lo sono ma le
loro azioni possono pure passare alla storia come eventi mitici e eroici. Risulta quindi evidente, salvo per chi non vuole intendere, che la
guerra è fondamento di errori e va semplicemente ripudiata perché
non si può che partire dal presupposto che tutti gli uomini venendo al
mondo acquisiscono il diritto a una vita dignitosa, che nessuno può
arrogarsi la facoltà di sconvolgere e cancellare. È anche bene ricordare che guerra non significa solo annichilire e uccidere persone e
popoli, vuole anche dire provocare ferite e patimenti fisici e psicologici permanenti, vuol dire lasciare le popolazioni senza abitazioni,
senza nutrimento, senza cure, senza istruzione, senza risorse, senza
diritti, senza speranze, significa privarle delle più elementari libertà;
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altro che portare la democrazia con la guerra! Ed essendo che gli
strumenti bellici sono diventati sempre più sofisticati, micidiali e devastanti, va intrapresa una lotta che ponga come obbiettivo alle persone di tutte la nazioni la messa al bando della guerra nel mondo.
Passi in questo senso andrebbero compiuti per privare i governi,
pure regolarmente eletti, della facoltà di decidere l’entrata in guerra
dei propri paesi, anche come alleati di altri. Tale potere decisionale
dovrebbe essere delegato alle nazioni tramite consultazioni popolari
e eventuali disposizioni confermative dovrebbero essere avvallate da
maggioranze qualificate: oltre il 50% + 1. E’chiaro che anche in questo caso non è scontato che si possano evitare i conflitti, ma su queste
tematiche i comuni cittadini sono sempre più saggi dei loro governanti, anche perché sanno che i loro figli che saranno poi mandati a
combattere e a morire. Le giustificazioni e le spiegazioni filosofiche
politiche e sociolgiche rese sulla guerra nei millenni sono state le più
varie nonché bizzarre. Per Platone le cause delle guerre dipendevano
dalle passioni umane, vale a dire dall’orgoglio, dall’odio, nonché dal
bisogno di autoaffermazione e sopraffazione e simili ordini di idee
hanno trovato poi accoglimento fra pensatori e moralisti di varie
epoche, fino a reperire spazio e consenso fra le argomentazioni di
psicologi e sociologi contemporanei; tutto ciò perché pure mutando i
tempi, le motivazioni che muovono l’uomo alla guerra non sono
mutate, non essendo sostanzialmente mutato il soggetto pensante né
gli oggetti delle sue smanie.
Anticamente guardando alla guerra come a una <<legge divina>>
che coinvolgeva gli uomini, responsabili di colpe verso gli dei, questa veniva sacralizzata e il dio greco Ares, diventato il Marte dei romani o il Teutatis dei galli o l’Odino dei germani, diventava per la
sua gente quel dio degli eserciti, infallibile e eterno cui rivolgersi,
prostrarsi, votare sacrifici per placarne l’ira e averlo dalla propria
parte allo scopo di vincere i nemici in guerra. Gli uomini si sono
sempre rivolti agli dei per vincere le guerre e anche oggi questo avviene più o meno palesemente sia tramite i propri capi politici sia
attraverso i rappresentanti del divino in terra. Ad esempio, per fare
un caso recente, abbiamo visto come il presidente Bush junior abbia
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più volte pubblicamente affermato di avere l’appoggio divino nella
guerra in Iraq e pare che fosse in buona misura creduto; del resto
nessuno dei capi religiosi mondiali, delle varie religioni, sembra si
sia levato a contraddire questa sorta di pretesa linea diretta fra il capo
del più potente esercito mondiale e il suo dio, in questo caso anche
suo alleato: i mussulmani perché, in antitesi, saranno stati convinti di
avercelo avuto loro dio dalla loro parte, i cristiani perché in fondo ci
speravano. Poi le cose hanno preso una piega diversa da come il presidente aveva ipotizzato, niente paura, noi che abbiamo letto l’Iliade
sappiamo che talora gli dei sono distratti o preda di passioni umane.
Dagli esami o concezioni, per così dire ineluttabili e naturalistiche,
o ritenute tali, si passa poi ad altre per le quali la guerra diventa una
sorta di riequilibratore demografico e quindi, come molte altre necessità umane, anch’essa una mera necessità biologica. Quando gli uomini diventano troppo numerosi, diventa sempre più problematico
dividersi le risorse, per cui è inevitabile che intervenga una sorta di
“selezione naturale” che consenta agli individui maggiormente dotati
di prevalere, eliminando i più deboli: le cosiddette “bocche inutili”,
come ebbe a chiamarle il generale bizantino Belisario quando, asseragliato a Roma cacciò dall’Urbe assediata durante la Guerra Gotica,
poco prima della metà del sesto secolo, la maggioranza della popolazione della città eterna, perché non servendo alla sua difesa diventava
un “fardello”, che venne a trovarsi alla mercè degli assedianti Goti, i
quali peraltro non infierirono più che tanto su questa gente inerme
che vagava disperata, in quanto la fame e la successiva pestilenza fu
in quel caso assai più terribile con loro che non la guerra stessa.
Questo pensiero “filosofico” rispecchia la concezione razzista e classista di Malthus, il quale individuava nel sovrapopolamento la causa
delle miserie umane e pertanto come rimedi proponeva drastici metodi di controllo delle nascite. Una tale concezione fu ripresa pure da
altri teorici del pensiero filosofico e politico, magari anche se in
forme diverse, ma nella sostanza similari. Uno di questi pensatori,
Renan, della guerra diede questa definizione: <<…una delle condizioni del progresso, la frustata che impedisce alle nazioni di addormentarsi>>. Teorie fatte proprie dai nazismi e dai fascismi, col loro
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corollario di misfatti, che scegliendo di fare la guerra ai popoli non
ariani, intesero sia soggiogarli che ridurne il numero. Ma non bastava: all’interno degli stessi Stati nazionali razzisti si combatterono
altre guerre tendenti alla non “contaminazione” della razza. Allora si
teorizzò e praticò l’eliminazione delle minoranze religiose, etniche
e,o anche politiche; la medesima falsariga seguita per l’eliminazione
dei nativi americani: indios, pellerossa, inuit, ecc.. Teorie e pratiche
aberranti ma esercitate senza remore fino all’altro secolo e probabilmente ancora in corso da qualche parte nel pianeta.
Anche per Benedetto Croce, del resto, la guerra restava <<una legge eterna nel mondo>> e questa idea, che egli espresse prima della
seconda guerra mondiale, continuò a mantenerla anche dopo: quando
si dice la coerenza; del resto quelle delle guerre furono per lui esperienze vissute che non fecero che rafforzarlo nelle sue idee.
Invece per il filosofo francese dei “Ragionamenti” Alain, nella sua
esposizione dei “Ragionamenti su Marte o la guerra giudicata”, il suo
pensiero ridotto in stringatissima sintesi era: <<Ogni potere ama la
guerra, la cerca, la annunzia, la prolunga>>, servendogli questa a
prolungare il potere; per questo, come premessa, il filosofo la vedeva
come la logica conseguenza del potere dispotico dei tiranni. Ne conseguiva che essendo la guerra uno dei derivati della tirannide, forse il
maggiore, diventava un obbligo per i popoli l’abolizione delle tirannidi per garantire la pace e essere governati da sistemi democratici.
Alain, 1868 – 1951, contemporaneo e quasi coetaneo di Croce,
1866 – 1952, rispetto al problema della guerra aveva maturato delle
riflessioni meno pessimistiche e fatalistiche del filosofo italiano, tentando di individuare le cause e proponendo soluzioni. Se avesse potuto vivere un altro mezzo secolo ancora o anche meno, si sarebbe
accorto che le sue teorie avrebbero avuto bisogno di qualche non
marginale correzione, giacché si è potuto poi constatare non essere
solamente le tirannidi, le dittature e i governi assolutisti a perseguire
la propria perpetuazione facendo ricorso alle guerre, ma questo resta
un obbiettivo per coloro che, avendone le opportunità politiche e le
risorse militari, si prefiggono anche le attuali democrazie. Le motivazioni restano quelle classiche: la supremazia, il dominio, la rapina.
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Una domanda: sono più biasimevoli le incursioni dei pirati, oggi
compiute per lo più nella zona al largo del Corno d’Africa, contro le
petroliere, i mercantili o le navi da crociera, i quali, pirati, non potranno accampare nessuna giustificazione plausibile, o le incursioni
di quelle nazioni che ne invadono altre per sottrargli le risorse o per
motivi politici o strategici di altra natura, le quali con camuffamenti
patetci chiamano le loro guerre umanitarie, (di questo passo finiremo per chiamare le paci criminali o scellerate), giuste, preventive,
per la libertà durevole, dei volonterosi, ecc..? Pure i nuovi adoratori
di Marte usano le medesime metodologie di quelli vecchi, descritte
da Alain: individuare il bersaglio, (il paese che dovrà diventare nemico, che non sarà mai un paese senza risorse), criminalizzarlo, provocarlo. Alla sua prima reazione o errore gli si dichiarerà la guerra e per
le motivazioni basterà fare ricorso alla fantasia.
A differenza dei tempi in cui non esistevano le democrazie, che
sono quasi tutte recenti, c’è il problema in più di convincere il popolo
della giustezza della scelta bellica, ma abbiamo potuto constatare come l’operazione non sia poi tanto complicata: basterà far suonare le
campane pro e far tacere tacere quelle contro.
Tornando ad Alain, a suo merito v’è da rimarcare come egli, non
piegandosi al pessimismo, allo scetticismo e al fatalismo, proponeva
soluzioni e sappiamo che risposte ai quesiti antropologici e sociologici, essendo risposte date in un mondo in continuo cammino, non
sono mai né semplici né definitive.
E ora quel gigante della filosofia che fu Immanuel Kant, 1724 –
1804, nelle cui opere è stato unanimemente riconosciuto essere rappresentato uno dei maggiori sforzi di sintesi mai compiuti da mente
umana, non essendovi praticamente campo del pensiero che egli non
abbia saputo indagare. Proprio per questi motivi gli storici della
filosofia si sono sentiti in dovere di parlare di pensiero pre e post
kantiano, trovando nel suo “criticismo” la linea di demarcazione o
spartiacque per dividere nettamente due epoche filosofiche.
Se in generale il pensiero filosofico prima di Kant era inteso come
“philosophia perennis” – strettamente connessa all’empirismo –
questa si contrappose poi, anche ferocemente, al nuovo pensiero che
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stava emergendo in armonia con la ragione e le scienze sperimentali,
che mise in crisi i vecchi fondamenti filosofici perché ammettendo la
critica ammetteva, di conseguenza, la possibilità di errare. Tuttavia
non per questo, pure trovandosi sostanzialmente d’accordo, Kant
accolse il nuovo pensiero senza sottoporlo in ogni suo aspetto a una
puntuale e serrata critica.
Prima di Kant il pensiero filosofico trovava il sostanziale perno
nella metafisica, intesa come conoscenza di fondamenti e principi
immutabili e eterni, nei quali la “scienza” si identificava, anche se in
verità già molto prima della sua epoca queste certezze avevano cominciato a vacillare, (ma poi sono le forze che vincono e dominano,
non importa come, che, non solo come si dice fanno la storia, ma
dettano anche le regole), e vacillarono non tanto per merito o a causa
della filosofia, quanto per l’apporto poi datole dai risultati dei lavori
delle grandi menti quali Roger Bacon, Galileo, Newton Cartesio,
anch’egli filosofo ma prima grandissimo matematico, ecc.., che rifiutando l’empirismo come metodo per acquisire le “verità”, fecero proprio il termine di scienze in quanto scienze sperimentali, le quali
entrarono in rotta di collisione, non poteva essere che così, con il
vecchio concetto di “scienza filosofica”.
Kant intuì il rischio di scomparsa che stava correndo la filosofia se
essa si fosse intestardita sulla vecchia strada delle verità rivelate e
dell’empirismo. La sua genialità non consistette però solo o tanto
nell’avere compreso ciò, ma anche e soprattutto per il fatto che egli
partendo da questa constatazione aprì lo spazio “costruendo” una
nuova filosofia, partendo dalla <<decostruzione>> della metafisica
che con lui perse la pretesa di definirsi scienza pura e universale, che
abbracciava il tutto, per rivolgersi più modestamente ai vari aspetti
della natura umana, ad esempio ai modi di vita, con le dimensioni più
consone alla valutazione che questo nuovo assetto avrebbe di conseguenza comportato.
Quindi, dall’antica dimensione metà tà phisikà – dopo le cose della
natura – che interpretava la scienza rifacentesi all’essere perfetto e
assoluto perché indagava al di là, oltre la dimensione fisica su quelli
che erano i principi del conoscere e dell’esistere, a una dimensione
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più terrena e umana.
Gli antichi dogmi erano stati esplicitati al mondo in particolare da
Aristotele - che a loro aveva dedicato gran parte del suo pensiero tradotto in quattordici libri – e dalla sua scuola “peripatetica”, in un ordinamento che affrontava tutte quelle tematiche che andavano a
indagare <<oltre>> le questioni del mondo fisico proiettandosi e
coinvolgendo quello teologico, come ad esempio quelle relative ai
temi dalla “verità” riguardante la fissità delle specie, tema anche
proprio della tradizione teologica cristiana la quale lo elevò a dogma
ovvero a verità rivelata e che nel sommo pensatore aveva trovato un
insperato alleato, fino a quando questa “verità” non fu confutata da
Charles Darwin nella sua opera L’origine delle specie, frutto delle
sue osservazioni, ricerche e verifiche, dove formulando la teoria evoluzionista ribaltava i credi dogmatici e i vecchi concetti filosofici.
Quindi si noti bene: se a suo tempo, (tra la fine del medioevo e il
primo rinascimento), la chiesa romana attraverso alcuni suoi pontefici e teologi, forse poco mistici ma certamente aperti al nuovo, acuti
e con lo sguardo volto in avanti, ebbe l’intelligenza di accogliere,
pure non senza ragionamenti utilitaristici, le pagane teorie filosofiche
aristoteliche, naturalmente elaborandole e adattandole ai propri ordinamenti, ora a distanza di secoli e considerando anche lo straordinario apporto ereditario lasciatole dal messaggio giovanneo, pare che di
tale eredità in questi ultimi anni l’attuale chiesa non abbia saputo fare
tesoro essendo completamente uscita dal fascio di luce fornitole dai
suoi illuminanti e illuminati, anche recenti esponenti seduti al trono
di Pietro e sia ripiombata nel cono d’ombra dei tempi pre-kantiani,
rispolverando le sue ostinate e fobiche animosità nei confronti della
ragione illuministica; visione che la risospinge verso una concezione
medioevalista del mondo: scontro fra religioni, fra civiltà, lotta alla
modernità, alla scienza, al relativismo, ecc…
Per queste ragioni la chiesa romana, guidata oggi da questo pastore
che probabilmente si autocompiacerà delle sue dotte ponderazioni e
disquisizioni filosofiche, chiesa che però, per dirla con le parole dello
scrittore e teologo Vito Mancuso nel suo L’anima e il suo destino,
del quale parlerò più ampiamente verso la fine, non è più capace di
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fare <<con Darwin e Einstein quello che a suo tempo era stato fatto
con Aristotele>>.
In questo senso il Darwin naturalista non si era solo limitato alla
mera classificazione ma non potè non porsi domande di fronte a specie uguali con caratteristiche e abitudini diverse in ambienti diversi;
per questo fu anche filosofo. D'altronde così lo chiamava anche il
comandante del brigantino Beagle, Fitz Roy, e da allora numerosi
altri. Anche recentemente Franco Voltaggio in un bel articolo sul
quotidiano Il Manifesto del 12 maggio del 2006 dal titolo <<Il brigantino filosofico del giovane Charles>>, ci diceva che Darwin era
un filosofo se il termine intendeva non colui che formulava idee sul
reale senza provarle con i fatti, ma colui che questi fatti li indagava e
li trasformava in domande che aspettavano risposte se non attendibili
quanto meno ragionevoli.
Ad ogni modo il termine che stava a indicare il significato della
suprema scienza filosofica, che comunemente si associa a Aristotele,
non fu quest’ultimo a coniarlo ma Andronico di Rodi, primo sec. a.
C., egli stesso filosofo e 11° scolarca del Liceo dopo Aristotele. Andronico, che visse a Roma ai tempi di Cicerone, ebbe il merito di
aver curato l’edizione degli scritti di Teofrasto, del quale data l’importanza seppure in breve dirò più avanti, e soprattutto di Aristotele,
che giacevano nella biblioteca di Apellicone (Apellikòn di Teo), bibliografo e studioso di Aristotele, il quale aveva ritrovato le opere
dette acromatiche di questo ultimo e di Teofrasto scomparse da più
di un secolo e tali opere furono poi fatte portare a Roma da Silla
nell’84 a.C. Andronico mise a punto la frettolosa edizione fatta in
precedenza da Tirannione il Vecchio, (il grammatico) e nel sistemare
i libri contenenti le problematiche filosofiche universali “dopo quelli
sulla natura” coniò l’espressione <<metà tà phisikà>>, la quale da
allora finì per indicare il contenuto di quei temi specifici largamente
trattati da Aristotele e poi da numerosissimi altri.
Non ho dimenticato Teofrasto, il filosofo, scienziato e politico nato
a Lesbo intorno al 371 a.C. e morto a Atene nel 288 a.C. circa. Il suo
vero nome in realtà era Tytamos e fu Aristotele che lo ribattezzò
Theophrasto, che significava <<il divino parlatore>>. Già allievo di
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Platone, entrò nel liceo nel 322 per assumerne, poco dopo, la direzione. Produsse una enorme quantità di opere, delle quali ci sono rimasti almeno 240 titoli, la maggiore parte sono però andate perdute,
mentre alcune ci sono giunte in maniera parziale. Tra i frammenti più
significativi, quello sulle sensazioni e quello sulla metafisica verso la
quale si pose in posizione critica tanto che egli risultò poi essere la
figura di maggiore rilievo identificabile per il suo netto atteggiamento anti-metafisico palesato dal metodo, “scientifico”, che egli già
usava per la raccolta dei dati e il suo rivoluzionario orientamento di
indagine e ricerca concreto verso i quesiti di ogni natura che di volta
in volta gli si presentavano e, o indagava. È davvero un peccato che
siano andate perdute quasi tutte le opere di un tale protagonista del
pensiero greco antico: assai probabilmente il numero dei grandi filosofi sarebbe aumentato di una unità e i dibattiti fra i posteri sarebbero
stati di certo più intensi, più ricchi e più caldi.
Ma tornando a Kant va detto che egli peraltro non esaltò nemmeno
la ragione scientifica, anzi la umiliò, ma solo per il suo bene, affinché
non si facesse trascinare dalle proprie illusioni e tenesse sempre
presente la sua finalità etica: <<perché nell’uomo>>, Donatella di
Cesare, Il Manifesto, 12 febbraio 2004, (si sarà compreso che per il
sottoscritto le tematiche sollevate da questo giornale rappresentano
una fonte di ispirazione e più avanti si capirà il perchè), nell’articolo
“I limiti della ragione duecento anni dopo la morte di Kant”, <<la
razionalità è in funzione della finitezza. Più l’uomo si riconosce
finito, più ammette i suoi limiti, più è ragionevole>>. Da qui la contrapposizione filosofica fra la concezione metafisica e quella razionale anche riguardo al tema della guerra, tra l’idea che la guerra è un
elemento umano-divino eterno, immutabile, incontestabile, e l’idea
secondo la quale la guerra può essere “ragionata”, contestata, razionalmente ripudiata; non sradicata dall’animo umano o dalla mente,
ma rifiutata dalla ragione; e anche in questo caso attraverso un conflitto interiore ogni volta destinato a riproporsi.
Se Kant è colui che rende comprensibile il prima e il dopo, non significa che ciò che egli ha potuto liberamente esplicitare non sia stata
materia di pensiero anche prima di lui; il problema era che a esporre
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certe idee diventava estremamente pericoloso: da Socrate, condannato perché negatore degli dei e corruttore di giovani che, confutando
i pigri affezionati e adagiati sulle antiche opinioni correnti, volle
mettere a nudo le presunte pretese certezze attraverso il ragionamento, oltrepassando l’opinione e sottoponendo a verifica le verità ereditate; a Giordano Bruno, “empio e eretico”, il quale ponendo assieme
superstizioni e religioni rivelate – non rifiutando comunque la presenza del divino che egli ritrovava nel mondo reale e naturale – (se
fosse vissuto nel mondo buddista o taoista non sarebbe stato condannato), voleva andare a fondo delle questioni, per questo i filosofi che
lo seguirono videro in lui il precursore del pensiero critico moderno.
Alla sua condanna contribuirono, oltre a ciò, le sue “cattive” amicizie
veneziane con Galileo e Paolo Sarpi, questo ultimo particolarmente
inviso alla chiesa romana.
In definitiva Kant nella sua <<Critica della ragione>>, nel mentre
smonta la metafisica dei suoi valori più “alti”, mette in guardia
sull’uso mero e pratico della ragione, la quale contiene un pericolo o
un limite che è quello di influenzare, determinare il fine della volontà. E qui una vecchia tendenza torna a riproporsi: ogni qualvolta si
trovano nuove vie, nuove teorie, nuove idee, c’è sempre chi, per apparire moderno, ci si butta usando assai poco, in questi casi, la ragione e rigettando e facendo strame di ciò che era stato in precedenza
butta, come si dice, assieme all’acqua sporca anche il bambino. Ma
per non rischiare di essere frainteso dico subito che non si tratta di
mettersi contro la scienza, che sarebbe una enorme stupidità; si tratta
invece di porsi delle domande del tipo se tutte le nuove scoperte
scientifiche giovino davvero all’umanità, alla terra, alla natura, senza
rappresentare talora una minaccia, o non giovino in molti casi solo a
chi le ha ideate.
Così si chiede anche Mario Alcaro, nel suo “Filosofie della natura”,
che non intende assolutamente contestare le scienze moderne ma
quelle “scienze” nel mirino e nelle sempre maggiori prese di posizioni e distanza critica di un’altra scienza, o sapere, che è quella ecologica – che non è una tendenza pseudo-scientifica per stravaganti,
snob o utopisti – quando si pone la domanda <<a chi giovino>> se
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non direttamente solo ai loro scopritori: alcune scoperte come certi
spray che hanno finito per provocare danni gravi allo strato di ozono,
o il vecchio d.d.t., che ha finito per creare più guasti di quanti problemi, (in buona fede?), intendeva risolvere: d’accordo che all’inizio
sembrava una soluzione, ma poi, accertata la nocività, si continuò a
usarlo per lungo tempo dove non era vietato ; e così via per altre sostanze inquinanti l’atmosfera, le piante, le acque, le specie animali e
tutta la catena alimentare fino al soggetto che queste sostanze ha
prodotto. Un esempio fra tutti è quello rappresentato dall’amianto,
ma c’è stata una infinità incontrollabile di ritrovati che col pretesto di
facilitare alcuni processi industriali o problemi civili specifici hanno
finito, e ancora continuano, per danneggiare in maniera esponenziale
e talora irreversibile, (specie animali o vegetali scomparse), l’ecosistema mondiale.
Il fenomeno che ha portato a queste conseguenze è stato chiamato
“riduzionismo”,(non è il solo) ed è diventato nella seconda metà del
20° secolo quasi una religione, che ha visto il contrapporsi, anche
aspro, di singole scienze in unità sempre più frazionate e specialistiche da una parte, e la natura dall’altra. Anche qui va premesso,
sempre per non ingenerare equivoci, che non è in discussione la
specializzazione del sapere, perché in un mondo sempre più tecnologico non poteva avvenire che questo; il problema è che spesso accade
che ognuno nel suo ristretto ambito, nel suo piccolo isolato mondo,
dove spesso vengono perse di vista le dimensioni dell’insieme, si arrabatta con le sue scoperte, di qualunque tipo, che poi i brevetti
porteranno il premio, senza magari chiedersi quali potranno essere le
infinite connessioni e conseguenze al di la e al di fuori del risultato
immediato che si vuole ottenere. Per questo Alcaro, che non si sogna
certo di denunciare Galileo perché ricerca fondamenti nuovi della
fisica, invita il ricercatore moderno a non rigettare in toto il pensiero
antico e a riscoprire Eraclito e Talete fino a scendere ai nostri <<filosofi della natura>> come Giordano Bruno, Campanella, o anche Bernardino Telesio, (del quale dirò poi qualcosa notando alcune contraddizioni rispetto al suo pieno innesto in questo perimetro filosofico),
ma anche Hobbes e Bacone, che innestandosi nell’antica tradizione
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ellenica la sviluppano ulteriormente arrivando a vedere nella natura
tutta la forza generatrice di processi sia materiali che spirituali, senza
per questo ridurla a mero soggetto quantificabile e manipolabile a
piacimento e impunemente. È la cosiddetta visione panteistica, cioè
né filosofica né religiosa, o meglio che si oppone tanto al teismo quanto all’ateismo; ma a questo proposito gli storici della filosofia e
delle religioni parlano di forme diverse di panteismo, pertanto è
necessario fermarci altrimenti il discorso porterebbe lontano e comunque fuori dalle mie presenti competenze cognitive.
Telesio nel suo “De rerum nature iuxta propria principia” – Della
natura secondo i propri principi – delineava un programma volto a liberarsi dalla metafisica classica, rompendo con le dottrine del passato per esplorare nuove vie alla conoscenza delle cose, le quali
avrebbero condotto all’instaurazione del <<regnum hominis>>, che
avrebbe raggiunto il vero sapere attraverso il dominio e lo sfruttamento delle forze naturali. Tuttavia anche Telesio, come altri del suo
tempo, non fu sfiorato dal dubbio, né forse possedeva l’acume
kantiano della “critica” e a ben vedere la sua filosofia, pure sostenuta
da un forte afflato idealistico, pare piuttosto semplicistica e schematica; comunque invita all’approfondimento e inoltre ce lo rende
simpatico per il coraggio delle sue esposizioni. Ma ora anch’io, pure
sapendo di non rendergli in questo modo giustizia, non posso non
essere con lui che ulteriormente schematico: La natura è costituita da
una massa inerte e indistruttibile. Due sono le forze che l’animano: il
caldo (il sole) e il freddo (la terra). L’anima, ovvero lo spirito, in definitiva non è che il calore interno ai corpi organici. Tutti i materiali
esistenti in natura sono in qualche modo animati e rispetto a tutti
questi l’uomo possiede un privilegio che però è essenzialmente di
valore quantitativo. I sensi sono gli organi di tutte le conoscenze e di
questi il tatto è fondamentale. L’intelligenza non è altro che memoria
di ciò che si è, che si apprende e che si è già sentito e inoltre è combinazione e comparazione di tutto questo.
Anche Bernardino Telesio tuttavia parla di Dio ordinatore del mondo, sapientissimo e trascendente. Però dal modo per come si pone nei
riguardi della natura non lo porrei, non comunque a pieno titolo in
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compagnia dei filosofi che Mario Alcaro nel saggio <<Filosofi della
natura>> indica fra gli spiriti che vedono in questa qualcosa di più e
di meglio che semplice materia da sfruttare.
Ho citato anche Eraclito e Talete e di questo genio va ricordato il
suo “panta rhei”, tutto scorre, o come comunemente diciamo: nulla si
crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, tutto si trasforma in un
continuo divenire secondo la frase che sintetizza il suo pensiero.
Torniamo a Kant e diciamo che anche lui affrontò il tema della
guerra nella sua opera “Per la pace perpetua” del 1795 dove formulò
la previsione, che potrebbe essere intesa come profetica, ma che fu
invece quella dell’acuto e razionale osservatore delle faccende del
mondo, secondo la quale i danni crescenti dei conflitti armati avrebbero obbligato gli stati belligeranti a rimettersi a soluzioni vincolanti
imposte da organismi internazionali superparte, come poi si verificò
iniziando con la creazione della prima Convenzione di Ginevra del
1864, che istituì la Croce Rossa per l’assistenza dei feriti in guerra,
conferendole la neutralità. Questa convenzione venne poi perfezionata e aggiornata in tappe e tempi successivi. Altro organismo fu la
Conferenza di Ginevra, voluta dalle superpotenze nel 1954, indetta
per trovare la soluzione dei problemi creatisi in Indocina e nella
guerra in Corea. Anche questa conferenza si riunì varie volte in tempi successivi, con risultati altalenanti; ma restò fondamentale il fatto
che gli stati avessero riconosciuto l’autorità di organismi ai quali
rimettersi per ricercare soluzioni incruente alle loro controversie.
Ancora, riguardo alle norme giuridiche di diritto internazionale, nei
casi di aggressioni di nazioni nei confronti di altre, fu costituito il
patto della Società delle Nazioni, nella Conferenza della Pace, approvato a Parigi nel 1919 e ancora il Trattato di Versailles dell’anno
dopo. A questo ne seguirono altri, fino alla creazione, nel dopoguerra, delle Nazioni Unite – che ebbe sede a New York, ma fu sottoscritto nella Conferenza di San Francisco nell’ottobre del 1945 –
dove i membri, le nazioni che volontariamente aderirono, si impegnarono, condizione essenziale all’ammissione, al non uso arbitrario
della forza nelle controversie internazionali, ma alla ricerca di soluzioni pacifiche sotto l’egida del neonato organismo. Nondimeno e
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nonostante l’esistenza di norme giuridiche e regole non fraintendibili,
non ci si nascose che sarebbe stato difficoltoso trovare sempre soluzioni eque e soddisfacenti per tutte le parti in causa. Per tale motivo
l’ONU previde e provvide anche all’uso di reparti armati di peace
keeping, costituiti da soldati di tutti i paesi membri, da fare intervenire sotto il suo diretto comando là dove fossero sorti problemi non
risolvibili per vie diplomatiche. Tuttavia tale contingente, chiamato
dei “Caschi Blu”, dimostratosi efficiente in taluni casi, si è rivelato di
scarsa efficacia o addirittura irrilevante o impotente in altri.
Naturalmente il cittadino del mondo che guarda il meccanismo da
lontano vede solo che questo talora non funziona, ma non ha gli elementi per comprendere il perché. Chi sta più dentro alle cose invece
conosce le cause e sa che anche un buon meccanismo se gestito male,
male alimentato o addirittura ostacolato, non passa molto tempo che
si guasta. Oggi l’ONU sta vivendo dentro una fase ormai abbastanza
lunga di crisi, per responsabilità di alcuni suoi membri più autorevoli, in particolare gli Stati Uniti dell’amministrazione Bush junior,
che ha tentato in vari modi di minarne l’autorità e la credibilità, fino
a fare ventilare l’ipotesi che l’organismo delle Nazioni Unite fosse
diventato superfluo; tutto questo perché l’ONU si dimostrò da subito
restio al secondo conflitto iracheno. Il fatto che poi abbia ceduto
dimostra solo che l’opera demolitrice verso la sua immagine aveva
dato i suoi frutti. I sistemi per arrivare a tali risultati sono diversi ,
sono classici e possono anche essere adottati in contemporanea: il
non versamento delle quote dovute, la denigrazione dei suoi membri
direttivi più autorevoli attraverso la pressione dei media amici, la disobbedienza palese e plateale ad alcune disposizioni vincolanti, la
paralisi del suo funzionamento con l’uso sistematico del diritto di
veto, che non si vede perché debba essere solo prerogativa di pochi,
la sfida di chi vuole fare intendere di ritenersi nel diritto di non
sottostare a quelle regole che assieme a tutti gli altri paesi membri ha
firmato e questo lo può fare in base alla “legge del più forte”. Fu
assolutamente palese che sia George W. Bush che i falchi della sua
amministrazione ritenevano che le proprie controversie avrebbero
potuto risolverle arbitrariamente, in modo muscolare se le risoluzioni
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ONU fossero state più un impedimento che un aiuto: potevano e
dovevano continuare a essere vincolanti per il resto del mondo, ma
non per gli U.S.A.. Per par condicio c’è pure da dire che le risoluzioni ONU non si sono dimostrate efficaci nemmeno con la Russia in
merito alla oscura e sporca guerra condotta da questa in Cecenia.
Ad ogni modo fare una critica agli Stati Uniti per il loro intervento
militare in Iraq non significa avere sentimenti antiamericani, come
un certo numero di miei concittadini affetti da U.S.A. cortigianeria,
tentano di attribuirci. Ma noi che siamo coloro che li hanno ringraziati perché assieme ai nostri partigiani ci hanno liberati dal fascismo,
noi che siamo cresciuti a pane e film Western, che abbiamo suonato
la musica jazz, country e rock, che abbiamo letto J. Dos Passos, F.
Scott Fitzgerald, Ernest Heminguay, John Stainbek , ma che li abbiamo anche criticati per il loro intervento militare in Vietnam, non
siamo antiamericani: essere sempre d’accordo non significa essere
amici, significa essere lecchini. Ora deprechiamo anche la guerra che
conducono in Afganistan, dove ci sono anche nostri soldati, giacché
se l’obbiettivo era quello di catturare Bin Laden, reo della distruzione
delle torri gemelle di New York, questo obbiettivo è ormai fallito, ma
se non lo fosse, il troppo tempo trascorso ha tolto lo smalto al titolo
dell’operazione, mettendo in evidenza la motivazione vera, che alla
gente, come al solito mentendo, subito non si è detta. Quello che
diventa ogni giorno più evidente, ma che in realtà si poteva capire da
subito, se gli altoparlanti a pieno volume della guerra al terrorismo
non avessero impedito ad altre voci di farsi sentire, è che della liberazione delle donne dal burka e del loro diritto all’istruzione- le adultere vengono ancora lapidate o sepolte vive – alle forze armate della
coalizione americana-Onu non importa nulla. Della distruzione delle
piantagioni di papavero da oppio, (circa l80% della produzione mondiale), alle forze occupanti non importa nulla. Mi fa ridere ma anche
rabbia se penso alla campagna anti spinello della destra di governo
alcuni anni fa: si sarebbero dovuti mettere in galera tutti quelli trovati
a fumare uno spinello di canapa indiana. Le statistiche ci dicono ora
che lo spaccio di sostanze oppiacee, cocaina e morfina, ha subito una
impennata spaventosa, che i loro prezzi, data la grande quantità sul
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mercato, sono crollati e sono quindi alla portata di ogni tasca e non
c’è strato o categoria sociale che ne sia fuori. Dove sono ora questi
moralizzatori della tolleranza zero, questi venditori di fumo a manovella? Se dovessero finire in galera tutti coloro che fanno uso droghe
l’attività dell’edilizia carceraria dovrebbe essere prevalente per i futuri tre o quattro lustri, per non dire della sfoltita fra i parlamentari.
Torniamo ora in Afganistan e visto che Bin Laden non si trova, che
si fa? Naturalmente si resta. Ma era l’obbiettivo primario quello di
occupare il paese e poi rimanerci? Certamente! Ma al popolo non lo
si poteva dire subito, forse non avrebbe capito; allora noi che non siamo antiamericani, ma nemmeno loro cortigiani, ci permettiamo di
ricordare allo strapotente alleato, così come dovrebbe fare un amico
davvero sincero, che non sarà certamente occupando militarmente
mezzo mondo il sistema migliore per guadagnarne il rispetto.
Ma continuiamo il discorso sul pensiero filosofico e sociologico
rispetto al problema della guerra e osserviamo che fra i tanti concetti
elaborati nel passato si arrivò a incrociare considerazioni che con il
tempo si affinarono indirizzandosi verso una corrente di pensiero già
in fieri nella prima metà dell’ottocento, ma che trovò più ampio
seguito e consenso nella seconda metà. Si trattava dell’internazionalismo, una dottrina o concezione teorica che ipotizzava una migliore
soluzione dei problemi sociali e economici dei singoli stati se ognuno
di questi si fosse autoconvinto a passare attraverso la collaborazione
sempre più stretta con quelli più vicini, giacché diventava ormai
sempre più evidente che i progressi della tecnica rendevano ormai
necessaria la collaborazione fra le nazioni, un esempio: il trasporto
ferroviario rendeva necessaria una uguale linea ferroviaria europea:
la Spagna, con la sua linea diversa, rimase praticamente isolata e
esclusa anche economicamente; solo con l’adeguamento allo standard europeo, avvenuto nel dopo Franco, è avvenuto anche il suo recupero economico eccezionale.
Rispetto alla guerra e coerentemente alle considerazioni di carattere
economico e sociale, l’internazionalismo ne individuava il pericolo
nell’esistenza stessa delle singole nazioni, nelle frontiere, nei differenti blocchi ideologici spesso contrapposti – oggi si parla di scontro
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di civiltà -. Se queste erano le cause, queste andavano rimosse al fine
di eliminarne gli effetti, perciò i primi ostacoli da rimuovere vennero
individuati nelle frontiere, che dovevano essere abbattute.
Quando queste idee presero a circolare sembravano utopistiche fantasie di poveri sognatori: ci volle la guerra franco-prussiana del 1870
e altre due guerre mondiali nel ventesimo secolo, poi l’Europa finalmente comprese, per forza di cose dovette comprendere. A tale proposito la Costituzione europea, peraltro carente e in “sospensione”,
ha nei fatti, per la prima volta nella storia, dato rappresentanza a una
coalizione di paesi che con l’abolizione delle frontiere ha permesso a
ogni cittadino di una qualsiasi nazione che si reca in un’altra, di
sentirsi “in una certa misura” anche cittadino di questa. Altre barriere
dovranno essere ancora abbattute, per esempio quelle linguistiche,
che forse vengono sottovalutate o esorcizzate, sulle quali più avanti ,
in un apposito “capitolo”, proverò a dare un ,forse, ingenuo contributo; ma la strada è ormai tracciata. Resta il fatto che una Europa le cui
nazioni nei secoli passati si erano costantemente dilaniate senza riserve, sta sperimentando il più lungo periodo di pace della sua storia, esclusa la guerra dei Balcani durante la quale si è consumato il
dissolvimento della vecchia Jugoslavia, paese che peraltro ancora
non stava nella nuova Unione, la quale nondimeno è stata decisamente carente e colpevole nel trattare e risolvere tutta la vicenda perché non ha fatto tutto il possibile per evitate la tragedia della guerra.
Anche se l’idea o concezione internazionalista può sembrare piuttosto semplicistica e anche se parrebbe prematuro affermare con sicurezza essere questa la via sicura per la pace, perché si potrebbe
correre il rischio di essere prima o poi smentiti, resta il fatto che se si
vogliono ottenere risultati bisogna avere il coraggio di sapersi esporre ai rischi del caso e in ogni modo l’alternativa sarebbe la paralisi,
che non significa immobilismo ma scivolare indietro verso posizioni
che portano sicuramente alla crisi. Al contrario, scommettere sulla
unità europea è stata la migliore scelta che gli abitanti del vecchio
continente hanno fatto da quando hanno avuto la facoltà di scelta.
Tornando a Kant è interessante notare come il filosofo della critica
ci rammenti: << Poiché infatti non c’è popolo che voglia la guerra,
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tocca ai popoli…>> e rivolgendosi ai popoli egli li investe dell’obbligo morale <<di vegliare allo scopo di non essere trascinati in guerra
dai loro capi>>; e afferma inoltre: <<Solo la repubblica può edificare
la pace perpetua>>. Oggi noi constatiamo che anche le repubbliche e
le democrazie, o meglio i loro governanti, le guerre continuano a
farle, anche se con maggiori difficoltà per via del rapporto più complesso con i loro governati. Se ne deduce che vivendo nel meno
peggio dei sistemi politici finora sperimentati, molta strada verso una
effettiva democrazia dovrà essere ancora compiuta, dal momento che
le repubbliche democratiche, che per definizione sono il governo dei
popoli, non sono a tutt’oggi cosa compiuta, proprio perché i popoli
un effettivo potere ancora non lo esercitano, a meno che non si intenda sostenere che un voto dato ogni tot di anni significa questo. Chi
governa è (dovrebbe essere) solamente il funzionario designato dal
popolo a gestire la rex publica e in base a ciò dovrebbe poter essere
rimosso dal suo incarico in qualsiasi momento, nell’arco del suo
mandato, dal suo effettivo titolare. In quale maniera? Ad esempio
tramite un referendum e a tale proposito bisognerà far diventare
l’istituto anche propositivo e non solo abrogativo di norme legislative; andrebbe inoltre abolito il limitante vincolo del quorum dei
votanti, 50% + 1, giacché l’affermazione va concessa alla maggioranza dei votanti risultati vincitori, qualunque sia il loro numero rispetto agli aventi diritto. Altro avvicinamento verso una democrazia
più compiuta potrebbe essere la verifica popolare di metà mandato. E
un ulteriore passo da compiere, in questo mio già sollevato, dovrebbe
essere l’obbligo di sottoporre a giudizio del popolo le decisioni e le
risoluzioni di carattere bellico: nessun governo può decidere l’entrata
in guerra, anche come alleato di una coalizione, senza avere ricevuto
un ampio consenso popolare. Da ricordare che l’Italia nella sua
Costituzione vieta espressamente la partecipazione delle sue forze
armate a operazioni di aggressioni armate contro qualsiasi stato
estero e un governo che viola e elude questa precisa norma, peraltro
disinvoltamente, non è più un governo legittimato a governare il
paese se questo intende definirsi una democrazia reale. Questi fatti
non fanno che dimostrare quanto gli spazi di democrazia, tanto nel
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mio paese, ma anche in Europa, devono essere allargati, mentre sta
invece avvenendo la cosa inversa sotto lo sguardo di un popolo che
sembra essere stranito e non riesce a cogliere la gravità della situazione. Non paghi, nel frattempo questi “signori” vanno discettando di
presidenzialismo sì, presidenzialismo no, presidenzialismo forse…,
ma di cosa stanno blaterando? Non sarebbe il caso di darsi una scrollata , rispedendo al mittente le allucinate seducenti armonie di pifferai megalomani? Mi si potrà dire: “tranquillo, pazienza, che il tempo
matura le nespole”. Non sono d’accordo perché, a parte il fatto che il
tempo di sicuro ci scava la fossa, se è pure vero che le matura, qualche volta capita che le faccia anche marcire.
Per questi motivi la questione del conflitto fra governanti e governati resta ancora drammaticamente aperta e quegli amministratori del
pubblico che propongono e attuano misure che restringono gli spazi
della democrazia, come sta avvenendo nel mio paese, accampando il
pretesto che così ci si contrapporrebbe con maggiore efficacia a fenomeni quali ad esempio dell’immigrazione clandestina, che peraltro
possono essere normalmente governati con le normali procedure delle forze di polizia e intelligence, se a queste venissero concessi mezzi
e risorse più adeguate, invece che legiferare di ronde private, campi
di accoglienza lager, denuncie di ammalati da parte dei medici,
denuncie di scolari da parte degli operatori scolastici, criminalizzare i
lavavetri o coloro che chiedono l’elemosina, mentre l’enorme,vero,
abominevole crimine prospera fatturando somme spaventose.
Tutto questo per quale motivo? Quello antico come il mondo: il
potere, il controllo dei pochi privilegiati sui molti. Troppo banale?
Per niente! Una democrazia più o meno compiuta non si acquisisce
una volta per sempre e questa può diventare più formale che sostanziale potendo essere svuotata dall’interno dei suoi valori: non basta
che in un paese si vada a votare, specialmente su liste bloccate, ci
vuole ben altro! Anche nei paesi totalitari si vota: c’e un solo candidato proposto dal vertice; da noi, che siamo democratici, i candidati
sono molti ma sono già stati scelti, come se il popolo fosse minorato.
È forse questo un paese che si può definire democratico?
Ma l’elemento determinante che mette in risalto il fatto che nella
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sostanza la strada per la democrazia è ancora lontana dall’essere
compiuta sta nel constatare l’impotenza dei popoli a sapersi e potersi
opporre con efficacia e con mezzi legali alla guerra: contro di essa
sono permesse le manifestazioni popolari, che dovranno essere intensificate, ma al popolo manca lo strumento giuridico.
Oggi una guerra che dovesse impiegare anche il solo armamento
“convenzionale” sarebbe comunque devastante essendo questo sempre più sofisticato e micidiale; inoltre non vedrebbe alla fine nessun
vincitore – l’Iraq avrebbe dovuto insegnare, ma si sta ripetendo l’errore in Afganistan -. La sconfitta sarebbe invece generale: il giorno 3
maggio del 2009, i soldati della coalizione italiana hanno ammazzato “per errore” una bambina di tredici anni. Dice il nostro ministro
degli esteri Frattini che la bimba “è stata una vittima del terrorismo”.
Allucinante! Avrebbe fatto molto meglio se fosse stato zitto. Pochi
giorni dopo, 6 maggio, praticamente mentre stavo scrivendo questo
capitolo, appresi che i caccia bombardieri americani, nella provincia
di Farah, avevano compiuto una strage di oltre 100 civili: cosa avrà
pensato il nostro ministro, vittime anch’esse del terrorismo?
Ma, a parte e nonostante queste non commentabili prese di posizione, anche se con fatica sembra si stia facendo strada nell’opinione
pubblica la consapevolezza della necessità di un disarmo generalizzato che dovrà andare a rovesciare il detto latino, che purtroppo pare
non abbia ancora fatto il suo tempo: <<si vis pacem para bellum>>,
se vuoi la pace prepara la guerra.
Quelli dell’internazionalismo, del disarmo, del pacifismo ragionato non sono concetti nuovi e si aggiungono ad altri del nostro tempo,
come quello della “Coesistenza pacifica”, che in tempo di globalizzazione dovrebbe trovare naturalmente la via facilitata dal fatto che
l’accostarsi delle economie, l’intrecciarsi dei mercati e anche dei popoli, con buona pace di ogni resistenza xenofoba, dovrà finire per
facilitare l’avvicinamento delle culture e delle civiltà. Volersi mettere
in discussione correndo i rischi di “contaminazione” potrà anche
comportare, non possiamo nascondercelo, inevitabili incontri-scontri
di nature e culture, ma alla fine non se ne potrà uscire che arricchiti
senza per questo dover rinunciare alle proprie identità. Al contrario,
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la chiusura in una ostinata e sterile difesa delle proprie posizioni,
nella ottusa convinzione che siano le sole assolutamente vere e giuste, alimenterà le diffidenze e con esse i motivi di conflitto. Anche
per questo è giusto ricordare tutti quelli che si spendono per la pace e
quindi le associazioni nazionali e internazionali come i Movimenti
per la Pace, ne va scordata l’enciclica di papa Giovanni 23°, Pacem
in Terris, peraltro non più ripresa con il medesimo slancio dai suoi
successori: in realtà Giovanni Paolo 2°, accolto dal parlamento italiano da una larga e trasversale maggioranza di parlamentari prostrati
e ossequiosi, chiedendo il non intervento armato in Iraq, dopo le
reverenti genuflessioni, i servili baciamani, e le assicurazioni di rito,
fu bellamente ignorato; ma siccome la coscienza sporca andava in
qualche misura lavata, ecco lo spuntare una bella targa commemorativa dell’evento, condita da una retorica cerimonia per celebrare a
postuma memoria la visita papale, ma al contempo anche la manifesta incoerenza degli ospiti.
Tuttavia pur essendo in presenza di sempre maggiori prese di posizioni mondiali favorevoli al disarmo, peraltro talora altalenanti, che
vedono in questo obbiettivo e nella non belligeranza la maggiore via
di salvezza della nostra specie, continuano a non mancare i cultori di
un pensiero ancora largamente seguito e praticato, non celebrato da
un imprimatur filosofico in senso stretto, se come tale non si voglia
identificare il fondatore dello Studio scientifico della guerra, il generale Karl von Clausewitz, 1780 – 1831, acerrimo nemico di Napoleone Bonaparte, ma non per questo meno bellicista, secondo il quale
<<la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi>>. Pare
che i falchi dell’amministrazione Bush junior siano riusciti a convincere il capo, ma non ci volle molto, della bontà della formula. Del
resto il fatto di far lavorare a pieno regime l’industria bellica americana è servito a mascherare i segnali della crisi economica che si
stava approssimando. Ma per quanto potrà durare ancora un simile
inganno e quante guerre dovranno ancora essere alimentate? Il presidente Obama, fra le sue promesse aveva assicurato la soluzione militare del problema afgano: oggi, che forse si rende conto di trovarsi in
un pantano di tipo vietnamita, dovrà pensare a soluzioni diverse.
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Secondo invece il pensiero del filosofo di Treviri Karl Marx, 1818
– 1883, la guerra, frutto di ideologie di rapina, era provocata da
fattori economici che spingevano stati forti a assoggettare e rapinare
gli stati più deboli, e di questo ne ebbe una visione limpida, essendo
stato il suo il secolo degli imperialismi e dei colonialismi, i quali
spesso non si peritarono nemmeno di fabbricare motivazioni, pure
artificiose, per motivare le loro azioni di aggressione.
Parlavo poco sopra del fatto che dovrebbero essere direttamente
demandate ai cittadini le decisioni sul fare o non fare le guerre: oggi
ai popoli questa facoltà è negata, tuttavia il cittadino ha la possibilità
di dare un voto a una coalizione o a un partito che la guerra, al di là
delle vuote chiacchiere, la vuole, o la giustifica, o la pratica, oppure
la respinge. Se oggi nel mondo ci sono ancora tante vittime causate
dai conflitti nei quali sono coinvolti i nostri paesi con le nostre forze
armate, sta ai cittadini decidere se fermarli o esserne complici: le
famiglie afgane massacrate stanno anche sulle nostre coscienze e del
loro sangue sono sporche anche le nostre mani: troppo comodo tirarsene fuori e scaricare tutto sui governi e sui militari.
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Libro 6°
UNA QUESTIONE TEOLOGICA e una politica
Premesso che è sacrosanto il diritto di chiunque di esprimere le
proprie opinioni su qualsiasi argomento e di qualsiasi natura, sempre
che non siano volutamente false, ingiuriose, offensive o lesive della
altrui dignità o integrità fisica e morale, va quindi difesa senza esitazioni, sul piano del diritto e del buon senso, la ormai famosa, anche
se un po’ datata – in questi tempi frenetici le cose incalzano e invecchiano con una velocità impressionante – lectio magistralis del papa
Benedetto 16°, tenuta a Ratisbona nel 2006; anzitutto difesa per sottolineare la giustezza della libertà delle opinioni, ricordando come
questa sia stata una conquista fondamentale delle democrazie occidentali. Conquista laica, si badi bene, pagata a caro prezzo, spesso
ostacolata anche o proprio da quel potere religioso che è bene e giusto, e ne gioiamo, che questa conquista abbia fatta propria e pratichi
così proficuamente verso l’esterno – non altrettanto invece al suo
interno a causa della gabbia arcaica ma essenziale alla sopravvivenza
e conservazione del suo ordinamento gerarchico tutt’altro che democratico – ma attribuzione che diventa anche discutibile quando oggi
l’apparato religioso senza nemmeno un po’ di pudore, ne rivendica,
all’urbe e al mondo, la paternità, magari bontà sua, chiamando a correo la parte laica della società.
È utile infatti ricordare che nel passato, ma anche nel presente, il
cristianesimo, come del resto altre fedi religiose, non si è quasi mai
distinto come elemento costitutivo, né molla feconda del pensiero
democratico e tanto meno scientifico, anzi! Da poco dopo la sua legittimazione costantiniana cominciò a rappresentare il freno del suo
sviluppo a partire dal soffocamento del più liberale e vitale sincretismo religioso, cui sarebbero seguite la mortificazione delle scienze
e di tutte quelle forme espressive, giudicate contrarie alla nuova
imperante ortodossia, operate dai suoi zelanti e intolleranti guardiani.
Questi diedero quasi immediatamente adito a una metamorfosi che
vide la trasformazione di quelli che fino a non molto tempo prima
erano stati i perseguitati in intransigenti oppressori e anche carnefici.
103
Infatti già nel 385 il vescovo spagnolo Priscilliano e sei suoi seguaci
divennero vittime, non le prime e nemmeno le ultime in quel tempo,
condannate a morte a Treviri per eresia dalla intransigente ortodossia
imperante. Unica motivazione, (non certo giustificatoria, a questa
ottusa, rigida e cannibalesca ferocia), il fatto, che è il contrassegno
comune a tutti i fondamentalismi religiosi mai sfiorati da dubbi, che,
forse, i suoi carnefici non si rendevano nemmeno conto dello scempio che stavano compiendo.
Ora, Gesù sulla croce chiese al Padre di perdonare coloro che lo
avevano crocifisso sapendo della sua ingiusta condanna fondata sulle
fallaci leggi umane: ma le vittime che poi fece il cristianesimo e non
solo i morti ammazzati, a chi avrebbero dovuto rivolgersi per ottenere il perdono per i propri carnefici se questi li condannavano nel
nome di Dio?
La critica alla lectio magistralis andava piuttosto condotta, ed è
così che da più parti accadde, sulla sua opportunità, sul momento,
nonché sui contenuti e avendo essa toccato più argomenti – anche se
poi la stampa in maggioranza si soffermò di più su alcuni aspetti che
parevano più clamorosi o di maggiore impatto mediatico, ma che
nella sostanza erano di importanza minore – questi andavano esaminati con pacatezza uno alla volta. Quindi, nonostante sia da Radio
Vaticana, come da schiere di giornali e televisioni ossequiosi e compiacenti, o anche semplicemente consenzienti per naturale e legittima
affinità ideologica e dottrinale, il viaggio in Baviera di Benedetto 16°
fosse stato salutato come un grande successo religioso, politico e mediatico, nella realtà le cose non andarono esattamente così e non
tanto per le reazioni o le forti proteste che arrivarono da quella
minoranza del mondo mussulmano più fondamentalista, che sicuramente erano state messe in preventivo, non però fino a immaginare
che dalle fila dell’onda protestatoria sarebbe stata armata la mano
omicida che causò la morte della suora cattolica Leonella Sgarbati in
Somalia, quanto dalla maggioranza dei mussulmani moderati che si
sentirono bersagli di un attacco ingiustificato e gratuito, nonché dalle
critiche di un’altra non piccola parte della stampa occidentale. Viene
da chiedersi se dal Vaticano il tutto fosse stato in precedenza bene
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meditato e ponderato, perché se a questa “eventuale” domanda fosse
stata data una risposta negativa, anche se ciò pare inverosimile, si sarebbe trattato di un grossolano errore di valutazione; se invece fosse
stata affermativa, allora si sarebbe trattato di un palese e deliberato
atto provocatorio, teso forse a sondare e valutare il grado di reazione
che avrebbe suscitato; ma anche fuorviante , volto forse a attirare
l’attenzione su un argomento di importanza minore per farne passare
sommessamente uno maggiore. Ma a uno spirito candido come il mio
tale ipotesi sembrò, almeno nell’immediato, del tutto irragionevole e,
ancorché legittima, inopportuna, tanto più che si stava preparando il
futuro vicino viaggio del pontefice in Turchia. Non sarebbe stata
nemmeno da scartare l’ipotesi – rischio calcolato incluso – che il
tutto fosse stato parte coerente e continuativa di un precedente disegno o schema, essendo arcinoto che il cardinale Ratzinger nel 2004,
prima quindi di salire al trono di Pietro, si era chiaramente espresso
contro l’ingresso della Turchia in Europa e questo suo ultimo discorso non faceva che, dando ulteriore impulso al suo pensiero, aggiungere benzina sul fuoco.
Sappiamo, vista la grande reazione di ostilità proveniente da quello
Stato a seguito delle parole papali pronunciate a Ratisbona, che poi
nel corso del suo viaggio in Turchia la sua posizione si ribaltò di 180
gradi, quando egli chiese all’Europa di farsi carico dell’entrata della
Turchia fra i suoi paesi membri. Sincero cambiamento delle precedenti posizioni? Realpolitik? Opportunismo? Astutissima sottigliezza del piromane che si propone poi quale pompiere? Vorrei credere
alla prima ipotesi ma corposi dubbi mi rimangono, né si fuggono.
Oggi il mondo islamico, che per la parte maggiore non è rigidamente dogmatico – forse di più lo sono alcuni suoi capi – e lo era ancora di meno qualche decennio fa quando l’occidente cristiano lo
molestava e tormentava in misura certo minore, si sente, e in certi e
evidenti casi lo è di fatto, attaccato, aggredito e vilipeso, ed è offeso
e impaurito, forse più di noi occidentali che temiamo il terrorismo, e
reagisce in maniera talora violenta. Ma se l’Occidente super armato
si ritirasse dai suoi paesi illegalmente occupati, offrendogli concrete
possibilità di pace e prospettive di risarcimento per le devastazioni
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subite dai bombardamenti e sincera collaborazione, la risposta non
potrebbe essere che dello stesso segno, perché il desiderio di vivere
pacificamente è un sentimento umano universale.
Questo non significa che sia vietato criticare i paesi islamici e talune loro intransigenze pseudo religiose, (giacché con il Libro sacro
non hanno alcuuna attinenza), che più che tali sono vere ingiustizie
sociali e politiche, in particolare ai danni della parte fisicamente
debole della società, le donne, le quali, (ingiustizie), mostrano e
questo vale pure in misura diversa anche per l’occidente cristiano, la
debolezza cerebrale di certa mentalità maschile. Del resto, se e quando è il caso, siamo critici anche verso i nostri religiosi, in particolare
verso le loro pretese di invadente ingerenza orientando con le loro
leggi e ordinamenti quelli dello Stato, che per essere libero deve essere innanzitutto laico.
Pure i dogmi religiosi, nella loro valenza e opportunità nei tempi e
nei luoghi, possono essere oggetto di riflessione e di critica da parte
di tutti, quindi messi in discussione e ciò assolutamente senza alcun
proposito o pretesa di voler sostituire delle “verità” con altre “verità”,
solo che oggi talune di queste appaiono talmente anacronistiche da
costituire motivo di imbarazzo per le stesse gerarchie religiose, o una
parte di esse, che tuttavia stolidamente e maldestramente continuano
a difendere scambiando, spesso in malafede, le critiche per aggressioni, mentre per lo più sono semplici richieste alla discussione; discussione aperta a tutti e a tutto, perchè non è più tempo delle cittadelle del sapere blindate, esclusive e escludenti. È dal discutere fra
posizioni diverse e proprio fra le più diverse che si squarciano le
coltri della diffidenza e dell’ignoranza. Se sinceramente si vuole il
dialogo non si può pretendere né di salire in cattedra, né di scegliere
gli interlocutori, né di imporre la scaletta degli argomenti.
Tornando alla famosa lectio rimane il fatto, cosa certamente rara,
che a seguito del polverone sollevato, il neo segretario di Stato vaticano, cardinale Tarcisio Bertone, dovette frettolosamente intervenire
“consigliando” al papa di dare ulteriori spiegazioni di chiarimento
circa la sua lezione di Ratisbona, la qual cosa il papa poi fece la domenica successiva, 25 settembre 2006, non scusandosi comunque ma
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dicendo di essere stato male interpretato. Non poteva non venirmi in
mente il parallelo con un “noto” primo ministro del mio governo, di
cui non faccio il nome, il quale a seguito di sue reiterate, malaccorte
e poco meditate uscite estemporanee, che regolarmente suscitavano
critiche o ilarità in Italia o anche all’estero, ogni volta ribatteva, e
continua a farlo, di essere stato malamente frainteso. Inutile dire che
in casi come questi bisognerebbe affermare di non essersi bene
spiegati, volendo con ciò ammettere che la colpa non è di chi non ha
capito, ma a questo punto la questione investe lo stile della persona.
Non un vero e proprio scusarsi quindi, ma un chiarimento del suo
pensiero che in sostanza restava fermo nel dire che aveva solo citato
un discorso, peraltro marginale, dell’imperatore d’Oriente Manuele
2° Paleologo, quando questi nel 1391 colloquiando con un importante teologo persiano lo apostrofò bruscamente accusando Maometto e
la sua religione di essere solo portatori di violenza. Nella sua precisazione domenicale il papa affermò che quello non era però ciò che
lui pensava, ma se così era, perché citarlo allora?
Il tutto sembrò un arzigogolo contorto, un tentativo di arrampicata
sugli specchi e se non fossimo per natura molto indulgenti potremmo
dire che egli fece torto alla nostra e forse più alla sua intelligenza.
Ma siccome siamo persuasi della sua acutezza mentale azzardiamo
l’ipotesi che se quello era il discorso che aveva scelto, significava
che quello era proprio quanto pensava essendo in ciò una precisa e
conseguente logica e proverò nel prosieguo a darne una interpretazione. Questo il mio parere, ma appunto il mio o al massimo di una
minoranza, perché vidi dallo schermo televisivo che a questa sua
“spiegazione”, dalla folla assiepata a piazza San Pietro si levò un
boato di approvazione, seguito da un lungo applauso. Non poterono
non venirmi alla mente altri paralleli di altre folle oceaniche, questa
volta di islamici, i quali, specie nelle grandi piazze di quei paesi dove
maggiormente era ed è percepita, o fatta percepire, la pressione occidentale, arringati da autorevoli capi politico-religiosi, reagiscono in
maniera tumultuosa gridando slogan contro un Occidente infedele,
corrotto e guerrafondaio, il che, pure con i debiti distinguo, non è
neanche infondato. Colsi, forse per la prima volta, pure con le dovute
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proporzioni, la similitudine dei due casi, come se ognuno dei due
universi credenti, quello cristiano e quello mussulmano, sentisse gravargli addosso il peso dell’altro come una minaccia.
Se anche da parte cristiana si comincerà a reagire in questa maniera
– e quello sopra citato non è stato il solo segnale registrato – temo
che una qualche responsabilità vada attribuita anche a una parte
sempre più ampia o comunque più visibile di quel “partito” ostile e
chiuso al dialogo, (il papa ha poi invitato al dialogo, ma su questo
punto torneremo), che più segnali sembrano indicare incline allo
scontro di civiltà.
Ho rilevato inoltre, io che non sono religioso, ma rispetto chi lo è,
dato che vorrei fosse riservato lo stesso rispetto verso quanti non
professano o non aderiscono a alcuna fede religiosa, che in questo
contesto e di questi tempi se le gerarchie cattoliche si stanno interrogando, con qualche apprensione, sulla crisi del senso religioso che
investe larghi strati di popolazione del mondo occidentale, non colgono il segnale, (non colgono?), di tutte quelle persone che ragionanti autonomamente prendono vieppiù le distanze da forme manifeste
di speculare integralismo intollerante, il quale criticando l’altro non
se ne distanzia ma finisce per somigliargli facendo da mantice a chi
da fiato alle trombe di chiamata a raccolta dei popoli europei sotto
un’unica bandiera, un’unica identità occidentale, un’unica civiltà,
un’unica religione, quella cristiana, minacciate. Sembra inoltre che a
questo partito politico-religioso, piuttosto trasversale, a vedere da
vicino non importi poi molto in fondo che l’uomo occidentale sia o
meno cristiano, l’importante è che si proclami tale, e pare che questo
possa bastare.
Talora mi sono chiesto come mai in questo tempo che ha visto il
dissolversi o il ridursi al lumicino dei partiti comunisti e socialisti,
per definizione atei e materialisti, dove ora quasi tutti, a domanda, si
dichiarano credenti – io sospetto molti per convenzione o opportunismo – assistiamo al fenomeno di chiese sempre più vuote, di senso
solidale sempre più fievole, di razzismo montante, di minore rispetto
per l’integrità e la vita altrui, di venerazione dell’idea del possedere e
dell’apparire. Non sarebbe dovuto, caso mai succedere il contrario?
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Sette maggio 2009, due barconi con 227 immigrati vengono intercettati nel Canale di Sicilia. Povere persone, trattate come rifiuti, riaccompagate in Libia, dove saranno rinchiuse, probabilmente a morire
in qualche campo di concentramento pagato dal nostro governo,
secondo gli accordi fra i due stati siglati l’anno prima: il ministro
degli interni Maroni parla trionfante di volta storica.
Talora mi domando ancora come mai nonostante il predecessore di
Benedetto 16°, Giovanni Paolo 2°, che ha più volte fatto il giro del
mondo, radunando in ogni sua tappa, specialmente nei paesi più poveri, immense folle osannanti, non ha poi visto fruttificare il suo
messaggio. Ma entriamo nel merito della lectio magistralis.
Benedetto 16°, proprio da una regione fortemente cristiana come la
sua Baviera, situata al centro dell’Europa, ha voluto, dal luogo più
congeniale e amico, rivendicare con il suo messaggio un’origine greca e cristiana del continente Europa, facendo intendere tutto il suo
rammarico per il mancato inserimento di ciò nella nuova Costituzione Europea. Pure non potendo e neanche volendo disconoscere che i
moderni stati europei e i loro abitanti sono nei fatti fortemente pregni
dell’eredità cristiana, va anche rammentato che comunque non tutta
l’Europa è cristiana, o nello stesso modo cristiana, perché al di là
delle varie espressioni di cristianesimo esistenti, che hanno prodotto
nel passato divisioni e lotte sanguinose senza esclusione di colpi,
esiste la presenza anche di altre fedi, sia pure numericamente minori,
che potrebbero anch’esse rivendicare un apporto, pure proporzionale
alla loro consistenza, alla formazione dell’apparato radicale del continente e, dato che l’integrazione dell’Europa pare non essere ancora
conclusa, ve ne potrebbero essere delle altre: in particolare mi riferisco all’ebraismo e all’islamismo.
Né, parlando ancora di radici europee si può scordare la tradizione
storica e culturale di un’antica Europa romana e pagana. A tale proposito papa Benedetto saprà bene ricordarsi di un altro Benedetto,
quello da Norcia, che si propose il compito di fare propria e diffondere idealmente la cultura dell’antica tradizione romana amalgamandola con le esperienze del messaggio cristiano. Quindi tradizione
greca ma anche romana, (come ebbe a intendere Benedetto da Norcia
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fatto patrono d’Europa nel 1958), la quale pure avendo, col suo nuovo credo, teoricamente, rigettato nell’oblio il sincretismo pagano, nei
fatti con la chiesa di Roma fortemente intrisa di elementi sincretici ne
mantenne alcuni manifesti aspetti sia rituali che periodici: è un fatto
innegabile che alcune ricorrenze e festività cristiane derivano direttamente dalle antiche festività pagane romane.
Se dovessimo poi discutere di evangelizzazione sarebbe impossibile dimenticare che in Europa, tralasciando per adesso le crociate,
l’America latina e l’Africa, questa è stata attuata in buona sostanza
con la spada e l’imposizione a partire proprio da Costantino, che poi
con l’Editto di Tolleranza del 313 rese legale il culto cristiano, assieme agli altri però, poi subito negati e combattuti dagli esponenti
del primo, vedi Girolamo, Ambrogio; Teodosio, fino a giungere al
cattolicissimo Carlo Magno, poi beatificato, che cancellò intere popolazioni dalla faccia dell’Europa centrale solo perché non intesero
abbracciare la religione cristiana, avendone già una propria.
Dicevamo di Costantino: fino a lui i cristiani furono spesso e volentieri, specialmente immediatamente prima del suo tempo, con
Diocleziano, oppressi e perseguitati; immediatamente dopo di lui cominciarono a diventare anche persecutori. La svolta che segnò la fine
dell’era pagana fu compiuta con un atto di sangue databile ufficialmente al 27 ottobre del 312, allorquando due pretendenti al trono
imperiale: l’uno Massenzio sotto le vecchie insegne pagane, l’altro
Costantino sotto quelle nuove cristiane - il segno della croce che gli
apparve in sogno diventava spada e simbolo di vittoria – si scontrarono a circa venti chilometri a nord di Roma, sul Tevere, al ponte
Milvio. Un massacro di romani contro altri romani, il cui esito fu annunciato al popolo dell’Urbe dal cadavere dello sconfitto Massenzio
trascinato a valle dalla corrente del fiume.
A tale proposito sarebbe consigliabile maggiore cautela a chi
lanciando accuse, quando pure fondate, alle altre religioni di essersi
imposte con la spada, sa benissimo quanto la stessa cosa sia stata largamente praticata dalla parte di chi queste accuse muove. Si potrebbe
parlare di travi e pagliuzze evangeliche, ma pagliuzze sinceramente
non se ne scorgono in nessun occhio.
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Fatti questi distinguo, non esistono remore ad ammettere che la
pianta della moderna cultura europea ha tratto linfa da radici cristiane; ne siamo intrisi tutti: credenti fervidi o tiepidi, laici, agnostici e
anche atei, certo! Anche atei. Però queste non sono le uniche radici e
per questo diventa poi inappropriato parlare di ragione perché il
termine andrebbe usato al plurale. Per questi motivi i legislatori
europei, e fra costoro numerosi credenti assennati, pure riconoscendo
nello sviluppo culturale del continente l’importante apporto della
dottrina cristiana, hanno voluto giustamente e saggiamente privilegiare l’aspetto laico della, peraltro, tormentata e incompleta Costituzione, sicuramente più inclusivo sia ora e forse anche maggiormente
nel futuro, eliminando sul nascere, o meglio ancora prima che sorgesse, ogni elemento di possibile disputa, divisione e contrasto. Le
fedi sono state ampiamente salvaguardate, tuttavia restano pure
sempre (anche questo è lo spirito maturato in una Europa troppo
spesso dilaniata nel passato da conflitti religiosi) fatti che pure investendo i molti attengono alla fine alla sfera dei singoli.
Sarebbe invece opportuno che altrettante sensibilità fossero dovute
al riconoscimento e all’esplicito rispetto di coloro che non si riconoscono in alcuna fede religiosa, cosa che sembra scontata ma che poi
nei fatti molto spesso non avviene.
Ovviamente tutto ciò non esula dal fatto che la lezione di Benedetto 16° non andasse presa e esaminata con la sensibilità e l’attenzione
dovute, ma nemmeno che in omaggio e in ossequio all’autorità che la
esplicitava fosse accettata passivamente e acriticamente se non ci si
fosse trovati d’accordo; naturalmente difendendo il diritto di chi, ad
esempio l’ex presidente del senato Pera, intervistato dal quotidiano
La Repubblica, con spirito da crociato blandì la classe politica italiana perché secondo lui non si era accorta per lunghissimo tempo,
palesando il suo ritardo culturale, che era in gioco la “nostra” identità; rivolto poi al capo del governo, Prodi, lo rimproverò di non aver
detto a chi protestava: “tacete e rispettate”. Strano concetto della democrazia in un uomo che ha ricoperto un ruolo così importante in un
paese dove il rispetto per le idee altrui non solo è sacrosanto, ma è
pure sancito e tutelato, come pure lo è il diritto di critica e anche di
111
dissenso se civilmente esercitati; diritti fondamentali in uno stato che
non sia teocratico o totalitario, i quali, ovunque venissero fatti venire
meno farebbero venire meno anche i principi della democrazia.
Tornando alla lectio di Ratisbona, diventa palese come questa sia
stata il manifesto di presentazione del pontificato di Benedetto 16°, il
quale, pure affermando la continuità con la linea del suo predecessore, il mistico, il mariano, il carismatico, inevitabilmente se ne differenziava assumendo l’impronta del nuovo erede di Pietro, il teologo, il pensatore, il politico, il nostalgico. Anche per questo motivo la
sua lezione andava presa con attenzione, per la sua valenza politica e
anche per quella filosofica da lui usata come pilastro di sostegno alla
sua argomentazione teologica: politica, per rammentarci le nostre
radici greche e cristiane; filosofica, per esplicitare il suo pensiero
riguardo alla ragione ossia al logos, termine greco significante parola
ma anche ragione o ancora discorso: oggetto nei secoli di dispute e
intendimenti diversi, ma che il papa ha naturalmente inteso nella
formula evangelica di San Giovanni: <<In principio era il logos>>,
seguito da <<il logos si è fatto carne ed ha abitato fra noi>>, vale a
dire che il logos facendosi uomo in mezzo agli uomini ha consumato
il mistero della redenzione.
Ora, anche stando alle altre affermazioni della lectio, pare di comprendere che il dio del Vecchio Testamento, diventando il dio dei cristiani ha avuto bisogno di compiere una “evoluzione” diventando un
dio razionale e tanto più è rafforzata questa razionalità in quanto più
questo cristianesimo è contaminato dalla presenza del pensiero filosofico greco. Quindi la prima frase di Giovanni <<In principio era il
logos>>, non poteva essere lasciata sola a sé stessa in quanto mostrando all’uomo la sola parola arbitraria si presentava un dio irrazionale che violava a suo piacimento non solo ogni legge umana, ma
anche le sue proprie riservandosi ogni diritto e ogni arbitrio perché il
logos stesso era legge.
In questo senso la Bibbia è zeppa di contraddizioni e interrogativi
irrisolti che solo la fede può appianare e d'altronde se la religione non
è supportata da un atto di fede si riduce a solo ordinamento morale.
Faccio ora solo un paio di esempi e significativo è il libro di Giobbe
112
quando questi, seduto sopra a un mucchio di letame e ridotto a grattarsi con un coccio le piaghe purulente, pure accettando le disgrazie
che dio gli ha mandato: <<Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia
benedetto il nome del Signore>>, poi però, reputandosi uomo retto e
innocente, si lamenta perché dio gli ha tolto tutto: gli averi, i figli, e
ancora lo ha reso lebbroso, inviso e criticato dagli amici. Alla fine
dio comparirà e parlerà a Giobbe; gli darà ragione contro le accuse
degli amici, ma prima lo prostrarà con la descrizione della sua infinita potenza e della sua sapienza per rimproverarlo di essersi mostrato
presuntuoso per avergli voluto chiedere ragione del suo agire; dopo
di che lo guarirà, gli ridarà gli armenti, anzi di più e nuovi figli, anzi
di più di quanti ne aveva prima, e ancora 140 anni di vita. Giobbe
aveva ragione ma dio si riservava il diritto di trattarlo, anche sadicamente, a suo piacimento.
Altro esempio: Mosè sta sul monte Sinai da quaranta giorni e il
Signore lo avvisa che giù il popolo <<… ha prevaricato>>, ha fatto il
vitello d’oro e lo sta adorando. E ancora gli dice il Signore: <<Io vedo bene che questa moltitudine è un popolo di dura cervice. Ora dunque lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li consumi;
poi…>>. Allora Mosè supplica il Signore affinché non metta in atto
il suo proposito e calmi la sua collera… E il Signore rinuncia a colpire il suo popolo. Poi Mosè scende dal Sinai, vede il vitello d’oro e
vede anche che il popolo si è abbandonato a sfrenati eccessi – del resto Dio l’aveva avvisato -. Ora s’accende lui d’ira e dalla porta del
campo grida: <<Chi è per il Signore?... A me!>>. E si raccolgono attorno a lui tutti i figli di Levi ; Mosè ordina: <<Ha detto il Signore
Iddio d’Israele: ciascuno di voi si metta la spada al fianco: andate in
giro pel campo, da una porta all’altra e ognuno uccida il fratello,
l’amico, il parente>>. Allora i figli di Levi fecero secondo le parole
di Mosè, (che aveva parlato in nome di Dio) e in quel giorno perirono fra il popolo circa tremila uomini. Non serve che stia a spiegare il
comportamento irrazionale di Mosè che aveva implorato clemenza, e
di Dio che l’aveva concessa. Poi Mosè torna sul Sinai. Si intrecciano
dialoghi tra lui e il Signore e in uno di questi Mosè chiede: << Deh!
Fammi vedere la tua gloria>>. E il Signore: <<Io farò passare dinanti
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a te tutto il mio splendore e pronunzierò innanzi a te il nome del Signore; farò grazia a chi vorrò fare, e avrò pietà di chi vorrò avere
pietà>>.
Mi si dirà: “non vorrai mica mettere limiti alla volontà divina”? Sicuro che no! E d'altronde si potrebbe? Però per quello che mi pare di
capire, da un dio così, indipendentemente dalle colpe che hai, ti puoi
aspettare o meno grazia o pietà a seconda di come in quel momento
gli sta girando.
Ora si badi bene, mentre papa Wojtyla era un prete che profondamente credeva e basta, senza tanti fronzoli, papa Ratzinger è un prete
che si pone domande e alcune risposte pare non lo convincano. Il dio
del Vecchio Testamento non lo convince. Sembra che senta il bisogno, l’esigenza, dato che il pensiero umano è stato nei millenni un
pensiero in evoluzione grazie alla filosofia, alla scienza, ma anche
alla teologia, di un dio che assieme ad esso, (al pensiero umano), si
sia evoluto, altrimenti alla fine i conti non tornerebbero più. Così
come Kant aveva intuito il pericolo della fine della filosofia se questa
non si fosse evoluta abbandonando il concetto unitario teologico –
metafisico, come strumento unico di misurazione dei processi fisici,
chimici, biologici e teologici, per staccarsi da questi ultimi e
proseguire il cammino assieme alla ragione intesa come scienza sperimentale, così papa Ratzinger, mi pare di intuire, vede la sopravvivenza della religione solo se questa potrà essere accompagnata da
una “evoluzione” divina che è lo specchio di quella umana.
La rivendicazione di superiorità della religione cristiana (l’imperatore bizantino e il persiano) rivolta verso la fede mussulmana, pure
se non espressamente, è rivolta anche verso l’ebraismo e il Vecchio
Testamento. Prendiamo ad esempio una “svista” vaticana, questa
volta nei confronti degli ebrei: faccio allusione in questo caso al testo
liturgico del venerdì Santo che fa riferimento anche agli ebrei, il quale è stato modificato all’inizio del 2008, in quanto ritenuto offensivo
nei loro confronti. La versione precedente, si noti bene, a sua volta
corretta da Giovanni Paolo 2° così recitava: <<Dio onnipotente ed
eterno, che non rigetti dalla tua misericordia neppure i Giudei, esaudisci le preghiere che ti rivolgiamo per questo popolo accecato>>.
114
Oggi, dopo l’ultimo emendamento recita così: <<Preghiamo anche
per gli ebrei affinché Iddio Signore Nostro illumini i loro cuori e
riconoscano Gesù Cristo come salvatore di tutti gli uomini>>. I toni
appaiono ammorbiditi, ma l’essenza rimane identica. Si comprenderà
che parlare di dialogo partendo da simili posizioni e convinzioni è
quanto meno mistificante, giacché non ci si perita nemmeno di mascherare tutta la crudezza della sostanza ed è veramente difficile
comprendere come tanta presunzione possa essere esibita senza
turbamento. Appare chiaro che da parte della chiesa di Roma non si
guarda all’altro come a un uguale.
Dicevamo della sensazione più che palpabile di un pontefice che si
è posto il problema che lo sviluppo del pensiero umano sia riflesso
nello sviluppo di quello divino e viceversa, ma se così è, non può essere disconosciuta l’ipotesi che porta a un rapporto interpersonale e
soggettivo fra l’umano e il divino, un concetto di un dio sempre uno
ma anche sempre diverso e personale per ogni uomo.
Torniamo alla Bibbia. Esodo 33-11: “Il Signore parlava a Mosè
faccia a faccia, come uno che parla al suo amico”. A quei tempi, dunque, stando al Libro, Dio parlava solo con i profeti e questi divulgavano al popolo la Sua parola, verbo, logos. Ora pare che Benedetto
16° faccia intendere che ogni uomo può avere una visione personale
di Dio, proprio perché con lui può avere un rapporto diretto, non più
mediato. Eugenio Scalfari, nell’articolo sul suo giornale, nei giorni
immediatamente successivi alla lectio magistralis, rilevava la portata
enorme dell’affermazione papale, sicuramente afferrata, anche se
prudentemente messa in sordina da teologi attenti e sensibili, i quali
non hanno mancato di interrogarsi sul perché il papa si sia spinto fino
ai limiti dell’eresia, dato che in effetti tali affermazioni in tempi
passati lo sarebbero probabilmente state in quanto nella sostanza il
papa ha esplicitato un concetto secondo cui non vi è un solo dio
uguale per tutti e questo: <<non come teoria da appurare ma come
fatto assodato>>, perché viene enunciato che ogni credente ha del
suo dio un’immagine unica, particolare, cioè personale, differente
quindi di quella di ogni altro, il quale fatto ha valore tanto per i tempi
passati, presenti e futuri, quanto per i luoghi che sono sempre diversi.
115
Non è quindi, continua Scalfari, che l’ovvio constatare che tanto per
le cose profane quanto per quelle sacre gli uomini si fanno un’immagine soggettiva, personale, che travalica anche i dogmi che si vorrebbero uguali per tutti coloro che li professano.
Perché il papa si sarà spinto col suo ragionare oltre un limite che
pareva invalicabile? – Si chiede Scalfari – e prova a dare una risposta
che anch’io avevo grossolanamente congetturato, ma che lo stesso
argomentare del direttore mi aveva ulteriormente incentivata e precisata e che parte dall’assunto razionalista ratzingeriano secondo il
quale il Dio razionale è il riflesso dell’uomo e questo è il modo,
probabilmente l’unico, cui è dato all’uomo di conoscere Dio. Da ciò
a concludere che Dio è una proiezione del pensiero umano il confine
è sottilissimo o addirittura scompare e anche Scalfari rileva come
proprio nell’affermazione che l’immagine è soggettiva e non oggettiva, il Dio razionale è rispecchiato nell’uomo e l’uomo in lui: << ancora una volta nello stesso testo il papa lambisce il limite della miscredenza>>.
Non è ancora l’affermazione di Feurbach secondo il quale la divinità sarebbe stata una invenzione umana per dare un senso alla vita e al
contempo rassicurarsi dall’incubo della morte, ma odorose tracce di
contaminazione paiono essere evidenti. Per la precisione Ludwik
Feurbach, autore tra le altre de “L’essenza del cristianesimo”, che la
Bibbia l’aveva analizzata a fondo e quindi ragionava con cognizione
di causa, nella critica della filosofia hegeliana – Hegel era stato il suo
maggiore maestro – partendo dal suo confronto col dio del Genesi,
ipotizza che uno degli errori maggiori del libro, che condusse alle
conseguenti tragedie che avrebbero investito, per la sua parte, l’umanità, fosse stato quello di avere operato una inversione tra soggetto e
oggetto a proposito del versetto: <<Dio creò l’uomo a sua immagine
e somiglianza>>, mentre più corretto sarebbe stato dire. << l’uomo
creò Dio a sua immagine e somiglianza>>. Se solo si pensasse di
leggere la Bibbia, spogliandosi per quanto possibile da preventivi
preconcetti pro o contro, forse un sensibile numero di persone finirebbe per comprendere quanto il filosofo tedesco, che fu per quasi
tutta la vita osteggiato e isolato, (gli venne anche negato il diritto
116
all’insegnamento), intendesse esprimere, perché è indubbio che il dio
che vi troviamo è talmente umano da fare spavento.
In definitiva, il pensiero papale, come del resto quello di qualsiasi
altro essere razionale, spaziando in assoluta libertà e senza autoimposizioni di barriere dogmatiche o ideologiche, potrebbe essere
giunto a concepire l’idea, non necessariamente poi sposata, di un
uomo del tempo passato o anche presente il quale una volta fattosi
un’idea, un concetto e una immagine di dio, questo dio, per questo
stesso principio concettuale e in forza del fatto che di ciò se ne convince, esiste. Sono meccanismi della mente umana affatto inusuali e
in questo ci potrebbe venire in soccorso la psicanalisi.
E fino a questo punto niente da eccepire. Il problema sorge allorquando questo uomo, persuaso di avere ricevuto dal suo dio l’untura
profetica, si proclama pastore di altri uomini, elabora leggi “divine”
che impone agli altri, con le tragiche e devastanti conseguenze che
inevitabilmente ne seguiranno.
E ora veniamo alla famosa citazione del papa che tanto clamore ha
suscitato con le proteste dentro ma anche fuori del mondo islamico,
dove egli riflettendo sul rapporto tra religione e violenza ha voluto
rendere manifesto il suo pensiero e, dato che su questo punto sembra
avere scartato senza indugi l’ipotesi che esista un rapporto tra la sua
religione e la violenza, ha preso ad esempio l’islamismo per insegnare all’Occidente europeo ciò che non deve essere un cristiano.
Per fare ciò si è servito di un remoto frammento estrapolato da uno
scritto della fine del Duecento, riguardante la “confutazione della
legge dei Saraceni”, del domenicano Ricoldo di Montecroce, giunta
poi anche in Oriente, (Silvia Ronchey sulla Stampa del 13 settembre
del 2006, ne dava una spiegazione dettagliata), dove polemicamente
e con lo scopo di legittimare le crociate, si accusava l’islam di essere
una religione <<irragionevole>> e <<violenta>>.
Il dialogo, che in realtà si è rivelato essere un monologo, avvenne a
Bisanzio nel 1391 tra l’imperatore d’Oriente Manuele 2° Paleologo e
“un colto interlocutore persiano”. Dice Manuele Paleologo al persiano: <<Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di
117
diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava>>. Ciò
che l’imperatore allora e il papa ora volevano rendere manifesto era e
ancora è, che il nuovo che aveva portato l’islam era e ancora è solo
violenza, mentre tutto il resto non era che una approssimativa variante della religione cristiana. Liquidazione spiccia e irriverente, che
non concede al “persiano” nemmeno degnato di un nome, alcuno
spazio di replica.
Perché la scelta del papa sia caduta su questo antico frammento polemico, da lui stesso riconosciuto – mettendo le mani avanti – piuttosto marginale nella struttura dell’intero discorso è di difficile interpretazione e poco credibile, anche se non del tutto improbabile, parrebbe un fugace cedimento di immodesto sfoggio culturale. Piuttosto
una malcelata ammissione che la ricerca di punti deboli nell’impianto
della religione concorrente – che di certo esistono considerando che
anche in quella vi sono interpretazioni teologiche differenti, talora in
lotta serrata tra loro, ma non possibili da percorrere e usare contro la
concorrenza per gli ovvi motivi che se dai torto a una corrente corri il
rischio di dover dare ragione all’altra – non aveva evidenziato che
questo modesto esito di cui egli stesso ne riconosceva la debolezza,
senza spiegare però il perché di questa scelta, il che dal suo punto di
vista è comprensibile.
Sennonché Samuela Pagani e Caterina Boari, la prima ricercatrice
di lingua e letteratura araba all’università di Lecce, la seconda teaching fellow di storia dell’islam alla school of Oriental and African
studies all’università di Londra, (in un articolo pubblicato sul Manifesto nei giorni successivi la famosa lectio, dal titolo “”Il pontefice
europeo nello specchio dello straniero”), volendo indagare più a fondo hanno scoperto che questo brano non era stato ricavato dalla
critica del pensiero dell’ortodossia islamica prevalente , ma andando
a pescare tra le affermazioni di un califfo-pensatore <<molto originale>>, Ibn Hazm di Cordoba, appartenente a una corrente religiosa
marginale, quasi in odore di eresia. Questa “astuzia” non era una bugia, ma mostrava lo stesso, a chi avesse voluto vederci più chiaro, le
gambe corte del proponente per il quale doveva servire a rendere più
plausibile l’esclusione dal logos greco dell’islam e questo nonostante
118
le somiglianze fra le due religioni risultassero talmente evidenti da
far provare imbarazzanti sentimenti di malcelato fastidio da parte
dell’establishment della chiesa romana: nel medioevo la fusione di
elementi greco - biblici era stata fondamento culturale di entrambe le
religioni: origini comuni, antichi profeti comuni – non solo Abramo , Maometto reso edotto dall’arcangelo Gabriele di ciò che avrebbe
dovuto essere il suo compito profetico; cultura politico-religiosa comune, accettazione nell’islam di Gesù come profeta e venerazione di
sua madre Maria, comune affinità di collegamento e approccio alle
filosofie aristoteliche, (Averroe).
Talmente numerose le cose comuni che la chiesa di Roma, in verità
anche per suoi problemi interni, si differenziò dall’islam abolendo,
ad esempio, un comandamento, anche questo un tempo comune e tuttora osservato nella religione mussulmana, da quella ebraica e da alcune chiese cristiane protestanti come i calvinisti e gli anglicani, non
invece da luterani e ortodossi. Mi riferisco al secondo comandamento
così come lo aveva portato Mosè dal monte Sinai, che recita: <<Non
ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di
quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto terra>>.
In pratica Dio ordina che non sia riprodotta la sua immagine. Nei primi secoli il comandamento fu sostanzialmente rispettato, infatti si
faceva uso di simboli e non di immagini, ma già nel sesto secolo la
potente spinta verso le superstizioni pagane, mai scomparse, neanche
oggi, (ecco perché parlando di origini greche e cristiane si vuole far
dimenticare quelle romane e pagane che richiamano in modo prepotente agli dei), fece sì che cominciarono a diffondersi le immagini
sacre con sempre maggiore insistenza. Nel 730 scoppiò la “questione
iconoclasta” che coinvolse principalmente la chiesa d’Oriente, la
quale rischiò una clamorosa rottura scismatica. Oggi i cristiani portano addosso croci, medaglie, bracciali, anelli e quant’altro, con le
immagini di Gesù, di Maria, dei santi di preferenza, come altrettanti
talismani o amuleti pagani. Nel secondo Concilio di Nicea del 787, il
secondo comandamento venne rimosso e per fare sì che il numero
dieci rimanesse immutato si provvide a sdoppiare il nono che fino ad
allora era unico e così come finiscono le migliori favole , tutti vissero
119
felici e si potè riprodurre dio, la madonna,i santi e i beati usando ogni
espressione artistica, ogni stile, ogni dimensione e colore con cui
riempire chiese, basiliche e altari, adorando tutti alla stessa maniera,
anzi alcuni anche di più di quanto non fosse spettato al più importante, che sarebbe dovuto essere l’unico. Essenziale è non usare mai
le espressioni idolatria e politeismo.
Tornando al tema, non possiamo quindi che constatare come sia
stato piuttosto evidente il disegno di Benedetto 16° di <<inchiodare
la teologia mussulmana alla sua corrente più radicalmente deellenizzante per mostrarne la malvagità culturale>>. Peccato che l’esempio
proposto risultasse alla fine ancora più debole di quanto il pontefice
in premessa avesse ammesso. Tuttavia la scelta di questo brano, più
adatto forse ai tempi un cui fu scritto, non poteva certo servire a
rasserenare gli animi in una polemica impostata tutta sul piano teologico, per cui anche Amos Luzzato che, come ebreo, avrebbe avuto
motivi per recriminare, in quanto la “lezione” implicitamente non
prendeva di mira solo l’islam, ebbe a dichiarare: << quando si
accentuano queste barriere tra cristianesimo e islam, prima o poi si
cominciano a innalzare quelle contro l’ebraismo>>, aggiungendo poi
che se sinceramente si volesse fare appello al dialogo o se si volesse
che questo non si trasformi in scontro, o in colloquio tra sordi, andrebbe sgomberato il campo dal confronto teologico-dogmatico per
privilegiare quello politico, ma <<per intraprendere un vero dialogo è
necessario che ogni parte sia disposta a ascoltare e a imparare dalla
controparte>>, dimenticando che <<la verità assoluta alberga nella
propria fede>>.
Ma suppongo che questo il papa lo sappia molto bene e allora la
sua scelta, certamente ponderata, deve essergli apparsa necessaria,
anzi vitale e nonostante la scarsa consistenza dell’argomento agitato
ha ritenuto comunque di sferrare un’offensiva che provocasse fragore
e sorpresa e nel contempo facesse appello ai tiepidi cristiani europei
esortandoli a serrare le fila contro il pericolo di una invasiva concorrenza religiosa più dinamica, più convinta e più vitale. Molti avrebbero risposto all’appello in maniera fideista e così è stato, altri, che
non si sono fatti irretire, hanno fatto notare che era stata fatta una
120
pentola alla quale mancava il coperchio. Samuela Pagani e Cristina
Boari hanno voluto esaminare quella critica della Ragione Moderna,
definita dal papa <<un tentativo>> fatto dall’interno a grandi linee
secondo il quale l’Ethos, ovvero la morale nelle diverse manifestazioni della vita, e la religione assieme, hanno visto scemare la loro
forza di costruzione della società, riducendosi nel tempo alla sola discrezionalità personale, innanzitutto, per colpa della modernità e
della scienza, che hanno fatto sì che la Ragione escludesse sempre
più Dio dal dominio umano. Si ha l’impressione che ciò che maggiormente il papa teme sia il fatto che l’uomo moderno, o meglio
odierno, facendosi dominare dai sensi di onnipotenza, si senta nel
diritto di indagare ovunque e comunque senza tenere conto dei limiti
che l’Ethos dovrebbe imporgli. Quale sarebbe dunque la soluzione
che secondo le due studiose il papa sembra proporre, e del resto è
questo il messaggio che arriva a una persona comune quale il sottoscritto: un ritorno all’antica “razionalità” filosofica scolastica greca
(metafisica), che sposandosi con il cristianesimo ha originato quella
Ragione “unica” la quale sola sa darti risposte <<ex cathedra>> su
<<chi siamo>>, <<da dove>> veniamo e <<verso dove>> andiamo.
Ritengo di comprendere le preoccupazioni di Benedetto 16°, ma ritengo anche non siano le scienze sperimentali a causare quelle limitazioni della Ragione tendenti a escludere il divino che il papa paventa, altrimenti non si spiegherebbe perché tra i pensatori, gli uomini di
scienza e i grandi ricercatori ci siano tanto dei credenti quanto dei
non credenti, anche se in verità i primi sembrano essere per numero
sensibilmente minoritari.
In realtà ciò che il papa sembra rifiutarsi di accettare è il fatto che
esista più di una ragione: più di una ragione teologica, più di una ragione filosofica, mentre il concetto di ragione scientifica, risultante
dalle scienze sperimentali, (relativismo), che il papa ritiene deleterio,
non perché un nemico ma addirittura il nemico, di fatto non potrà
mai entrare in conflitto con la sua Ragione essendo di tutta un’altra
natura: la sua la Ragione del Logos, assoluta, l’altra una Ragione relativa, che non significa non valida, ma solo mai assolutamente certa,
sempre pronta a mettersi in discussione, tuttavia dinamica, vitale e
121
soprattutto aperta.
Si tranquillizzi dunque il papa, se può, perché non sussistono problemi di concorrenza: contare sulle scienze sperimentali non vuole
dire farne dei dogmi di fede, come erroneamente, prendendo un terribile abbaglio poi pagato salatamene, fecero taluni allucinati positivisti di metà Ottocento – inizio Novecento, ma semplicemente prendere atto che l’uomo non potendo esimersi dal porsi domande cerca
di darsi risposte e trova soluzioni anche sapendo che non saranno
definitive. Del resto immagino che anche il più autentico dei credenti
non possa non giungere che alla logica conclusione secondo cui se il
dio in cui crede non avesse voluto un uomo curioso, indagatore, scopritore di segreti, solutore di quesiti, per i quali troppo spesso nel
passato, ma anche al presente sia pure con minore brutalità grazie
alle leggi laiche, sono stati condannati uomini rei di avere voluto
sfidare i “divini” arcani, non l’avrebbe fatto di tale natura e, viene da
concludere, non l’avrebbe pensato come specie in evoluzione.
Allora domando: chi si pone in contrapposizione al divino? Chi
non sapendo vuole conoscere e perciò indaga o chi credendo di sapere già tutto e quindi certo di possedere l’alfa e l’omega non ammette
e non permette che altri si ponga domande e cerchi risposte? È inutile
dire sei dotato del libero arbitrio ma poi nella sostanza te lo nego
perché la via che devi percorrere te l’ho già tracciata io; e chi mi dice
questo non è certo un qualche dio, che non conosco, ma qualcuno
che si è arrogato il diritto di parlare in suo nome.
Diventa un non senso quindi l’accusa ratzingeriana secondo cui il
mondo sarebbe prigioniero della <<dittatura del relativismo>>, proprio perché il relativismo, per definizione, non ha mai voluto, né potuto imporre alcuna verità assoluta a chicchessia; piuttosto nelle sue
insistenti parole si coglie l’angoscia del re scoperto nelle sue nudità.
Ma forse sta proprio qui il problema: il papa alla sua verità assoluta
vorrebbe contrapposta un’altra verità che si proclami assoluta, pensando che nel confronto-scontro avrebbe buon gioco. Ma non stanno
così le cose e si sente spiazzato e ciò lo irrita perché una parte del
mondo gioca la partita con altre carte e altre regole. Ad ogni modo
egli dice bene quando afferma che la religione arriva dove la scienza
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si ferma, ma non può affermare che questa ultima sia di ostacolo alla
prima in quanto scienza e religione possono benissimo convivere
senza ostacolarsi dal momento che procedono su vie differenti.
Il problema nasce caso mai quando la religione vuole invadere il
campo della scienza tracciando vie, imponendo steccati e concezioni
dogmatiche che sono avulse dai concetti delle scienze sperimentali.
Tuttavia queste ultime, pure sapendo di non avere ancora esaurientemente risolti i problemi relativi all’origine dell’universo e della vita,
avendone date risposte solo parziali e quindi suscettibili di ripensamenti o di modifiche, non possono nemmeno accettare per buona una
spiegazione acclamata attraverso la tesi, indimostrabile, secondo la
quale la risposta è Dio, anche se ciò può bastare a accontentare molte
anime credenti, perché sarebbe solo un’altra maniera per dire che non
si sa qual è la risposta.
D'altronde se ad ogni domanda senza ancora una risposta (mistero),
l’uomo avesse rinunciato a cercare perchè si sarebbe infranto un segreto divino, quale e quanto cammino avrebbe potuto compiere la
scienza, l’uomo?
Il caso ha voluto che proprio nei giorni seguenti la lectio magistralis di Ratisbona, nelle città italiane di Modena, Carpi e Sassuolo si tenesse il Festival della filosofia, che aveva per tema <<Umanità>>.
Sul Manifesto del 19 settembre uscì un servizio comprendente un
ampio resoconto dei lavori corredato da articoli e interviste ad alcuni
dei più qualificati partecipanti. Il tema ancora caldo della “lezione”
di Benedetto 16° non poteva mancare. Ora, qui, per motivi di spazio
non posso che fare una sintesi di alcuni interventi che mi sono
sembrati più attinenti alle tematiche sopra affrontate.
Roberto Ciccarelli, nel suo articolo sui << Frutti avvelenati della
parola umanità>>, rilevava come la filosofia, pure avendo a cuore il
dialogo con la teologia che fa propria la verità razionale desunta
dall’esistenza di un Dio certo e assoluto, si sia però distinta da questa
concezione prendendone le distanze per le scelte di autonomia del
pensiero critico che relativizzando le pretese teologiche della Ragione, entra in rotta di collisione con quelle teologie che propongono di
credere nelle verità rivelate assolute: conseguente è quindi la critica
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al relativismo fatta da Benedetto 16°.
Luisa Muraro, altra partecipante al festival, sosteneva che prima di
volersi avventurare sulle allucinate vie di un conflitto nel quale si oppongono fedi e culture, sia necessario innanzitutto considerare che il
Logos non ha la sua residenza in una ideale città extraterrena o città
celeste, ma nella quotidiana famigliarità dei pensieri e delle esperienze della vita di tutti i giorni e aggiungeva: <<una Ragione nella quale
non risiedono le emozioni della condizione umana è orba e il suo
valore è minato>>. In definitiva ciò che ci rende umani è <<la pratica
relazione che si da al contatto con le esigenze della vita, nella consapevolezza della dipendenza e della gratitudine che ci lega agli altri>>. Quindi chi vuole dire e fare del bene non può soltanto tendere
l’orecchio e lo sguardo al cielo da dove proviene il Logos divino, il
rischio sarebbe di cadere nel pozzo, come accadde a quel filosofo,
deriso dalla sua servetta tracia, che tutto preso dalle sue idee alte, non
vedeva ciò che di autentico e buono gli stava intorno. E non serve
dire, a sua giustificazione, che nel pozzo ci era voluto finire di proposito perché dal suo fondo buio, usando il manufatto come un provvidenziale osservatorio, avrebbe potuto comprendere meglio i segreti
di quella parte di cielo e dei suoi astri. Ma non voglio fare un torto
proprio a quel filosofo protagonista paradigmatico della disavventura
la cui morale doveva servire a ammonire i sapienti a guardare di più
alle cose terrene, perché costui era, per paradosso, quel tale Talete,
uno dei sette sapienti dell’antichità, elaboratore di teoremi geometrici
e astronomo; colui che Aristotele chiamava filosofo, ma anche fisiologo proprio per il suo spirito indagatore delle cose della natura e
quindi anche delle cose terrene. Il suo quindi, se l’aneddoto fosse vero, fu un semplice incidente caricato a posteriori di valenze che in
realtà non esistevano.
Restando al tema “Umanità”, Tzvetan Todorov faceva notare come
le derive identitarie della politica e della religione, in atto in questi
tempi, facessero, (fanno), sì che i valori umani come Dio, la giustizia, il bene, diventando sempre più problematici a causa di azioni politiche sconsiderate, finiscono per avere conseguenze distruttive sugli
uomini, (le torture di Guantanamo giustificate con la difesa dei valori
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umanitari). Oggi, insisteva Todorov, per potersi definire umanitari è
necessario difendere <<l’autonomia individuale della persona e l’autonomia collettiva delle popolazioni>>.
Sulla stessa lunghezza d’onda Stefano Rodotà che avvertiva del
grande pericolo insito in certi richiami ai valori dell’Umanità, perché
nel suo nome e rifacendosi ai suoi principi c’è il concreto pericolo
che proprio chi li rivendica finisca poi per squalificarli: ad esempio
portare la democrazia con i bombardamenti e le torture. Chi invoca
l’Umanità proponendo il ricorso alla violenza, accampando il diritto,
o la morale, o la civiltà, o la religione, non agisce certo in loro nome
ma persegue altri scopi contrari al suo significato, avvilendola. Un
paradosso terribile nel quale è rispecchiato lo spirito del tempo e che
molti non sembrano avere moto bene inteso, o fingono di non avere
inteso. Posso spiegarmi meglio: primi di maggio 2009, un noto attore
televisivo da una rete, di cui è proprietario il premier Berlusconi,
esortava a fare un certo numero telefonico, così sarebbe pervenuto un
euro, o due, a una associazione umanitaria che avrebbe devoluto la
somma raccolta ai poveri e disperati del mondo, che hanno ormai
toccato il miliardo. Negli stessi giorni dei barconi di disperati
intercettati in mare venivano respinti sulle coste della Libia, da dove
erano partiti. Naturalmente tale operazione ha avuto l’avvallo entusiasta del ministro degli interni, del governo tutto, unito come un sol
uomo, e del premier il quale, sempre in quei giorni diceva che lui non
voleva un’Italia multietnica, non vedendo forse, dal suo entourage di
puri di razza ariana che il paese multietnico lo era già.
Anche Filippo Gentiloni, non al festival della filosofia, ma sempre
in quei giorni faceva notare come la Ragione <<unica>> di papa Ratzinger non facesse che uccidere quel dialogo, che poi egli steso invocava, e portava all’attenzione il fatto di come fossero stati ignorati i
secoli della cultura moderna che ci hanno insegnato a parlare delle
ragioni al plurale. Nella ristrettezza del vecchio mondo occidentale
c’era stato un tempo, peraltro breve, in cui si poteva anche parlare di
ragione al singolare, contaminata dalla cultura greca; poi sono
arrivate le scoperte geografiche che ci hanno fatto comprendere come
alla pluralità dei mondi si accompagnasse la pluralità delle ragioni e
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nell’universo cristiano i primi a rendersene conto furono i protestanti,
che il pastore romano sembra sdegnosamente ignorare, i quali, cristiani fra i cristiani, dopo la “riforma” non parlarono più di ragione
universale. E questa pluralità di ragioni intacca anche un altro
caposaldo del discorso papale: il dialogo, strumento invocato per favorire il rapporto tra le religioni. Ma come intendere il dialogo, si domanda Gentiloni: <<all’interno di una ragione universale o a un livello uguale per tutti?>>. Solo se inteso fra uguali può servire a favorire la pace. Ma l’attacco papale non era rivolto solo contro l’islam;
la sua personale jihad lo trova ormai da tempo coinvolto nel caparbio
ossessionato impegno contro la scienza e la modernità, termine questo ultimo che nella realtà è un non senso.
Anche Camillo Ruini il 19 settembre 2006, di fronte ai membri
della cei, l’organo episcopale che presiedeva, dichiarava come rischiosi per l’Italia – chissà perché poi solo per l’Italia – la <<deriva
etica, il laicismo, il soggettivismo, il razionalismo..>>. Io mi sarei
aspettato su queste tematiche, (lotta alle teorie evoluzioniste, al relativismo…), il ricorso a una alleanza di ferro di questo papa con il
mondo islamico ancora intriso di una concezione metafisica della
ragione, ma forse questo equivaleva a ammettere la stretta similitudine delle due fedi; meglio quindi chiedere più che un’alleanza una
convergenza di intenti su temi di volta in volta di condivisione comune inerenti, ad esempio, all’etica o alla morale.
Infatti sette giorni dopo Ratisbona e l’attacco alla religione islamica, il papa fu costretto in qualche modo a “scusarsi”, proponendo, in
quel contesto, in aggiunta, all’islam un’alleanza contro il relativismo
frutto del pensiero illuminista e indicando il nemico delle religioni
monoteiste nella <<modernità>>, prospettando e nelle intenzioni
promuovendo in questa anacronistica crociata, frutto della sua fissata
ossessione, un ritorno puro e semplice al medioevo. Poi oltre due
anni e mezzo di silenzio su quel fronte, punteggiati su quello interno
da scontri anche assai aspri con una società laica, anch’essa in palese
difficoltà a causa di una classe politica a parole aconfessionale, nei
fatti servile, bigotta, o falsamente bigotta interessata alla mera soprevvivenza di sè. Ma se lo scontro con una religione vitale non
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aveva portato dei frutti, bisognava mutare l’approccio.
Con quasi tre anni di ritardo, nel maggio del 2009, Benedetto 16° si
è recato in Giordania, un paese mussulmano moderato e con la visita
alla moschea di Hussein ad Amman ha inteso chiudere la polemica,
da lui stesso provocata nel 2006 e pronunciando un discorso di riconciliazione ha detto che cristiani e mussulmani: <<hanno una storia
comune, spesso segnata da incomprensioni>>, le quali possono essere superate se gli uni e gli atri tengono in mente di avere in comune
sia l’origine che la dignità della persona umana e se incomprensioni
sorgono è perché spesso le religioni sono manipolate ad arte per scopi politici: viva la sincerità! Circa poi il groviglio che a suo tempo
scatenò la polemica, l’affermazione cioè sulla irragionevolezza della
fede mussulmana, il papa, facendo questa volta sul serio un passo
indietro, ha riconosciuto che tanto i cristiani quanto i mussulmani,
credenti in un Dio unico, hanno la consapevolezza del fatto che <<la
ragione umana è in sé stessa un dono di Dio>>.
Bene quindi, anche se con ritardo il riconoscimento dell’utilità di
un dialogo interreligioso per una migliore conoscenza reciproca. Non
è la prima volta che su queste tematiche questo papa ha effettuato dei
significativi cambi di rotta – vedi il viaggio in Turchia - cambi si spera non dettati da mere strategie politiche, considerando che lo scontro
frontale non ha pagato, e se così non è non può essere che positivo.
Staremo a vedere ma, come poco sopra ebbi a dire, dato che sui temi
cosiddetti “etici” le posizioni vaticane restano pervicacemente immutate, è legittima la preoccupazione che il papa intenda chiamare altre
religioni a combattere con lui battaglie di retroguardia: per questo
vale restare sul tema.
Il 19 settembre 2006 Rossana Rossanda, sempre sul Manifesto,
faceva alcune considerazioni sulla lezione di papa Ratzinger osservando come la rozza battuta su Maometto dell’imperatore greco non
fosse stata necessaria e nemmeno funzionale alla sua tesi dato che tra
fede e ragione non esiste contrasto in quanto la fede arriva dove la ragione e la scienza si fermano, mentre queste sono una conquista
umana prevista dal creatore dell’universo che ha concesso all’uomo,
fatto a sua immagine e somiglianza, la chiave per disvelare i segreti.
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Questo sintetizzando, per Benedetto 16°, il fine teologico della lectio;
il fine politico era incentrato invece sul teorema ratzingeriano delle
radici europee legate all’ellenismo, non solo come sentimento simpatetico verso le antiche filosofie, ma anche o soprattutto come traduzione biblica fattasi greca grazie ai <<settanta>>, che nella sostanza
segna il passaggio dall’ebraico al greco del racconto biblico: settanta
è l’appellativo della più antica versione greca della Bibbia composta
a Alessandria d’Egitto per volere di Tolomeo 2°, 285 – 246 A. C., di
72 traduttori ebrei in 72 giorni, (arrotondato in 70). Fu questa versione a essere il testo in uso nella Chiesa per i primi secoli e ancora oggi
lo è per le chiese orientali, e rafforzerebbe il trinomio inscindibile
Cristianesimo – Europa – Grecia.
Ritornando al tema teologico, non può essere da tutti accettata la
pretesa secondo la quale il connubio dell’antica razionalista filosofia
greca con il cristianesimo ha originato quella Ragione che da sola sa
darti le risposte sul “chi siamo”,”da dove veniamo” e “verso dove andiamo”, in quanto anche la ragione critica e la scienza moderna non
evitano queste domande, ma solo danno risposte differenti, vale a
dire che la vita è il prodotto di processi chimico-fisici iniziati più di
tre miliardi di anni fa e l’articolarsi di questi processi ha dato origine,
tra le altre, alla specie umana e che questa, sempre in virtù di questi
processi, consumerà la sua parabola finendo, assai probabilmente,
come sono finite altre specie ormai estinte. <<E’ più consolante>>,
conclude Rossanda, <<pensare che un’intelligenza fuori del tempo e
dello spazio ci abbia creato con atto di volontà e ci raccoglierà nel
suo grembo, ma il pensiero freddo e l’accettazione della finitudine è
appunto quel che distingue i credenti e i non credenti. E sarebbe utile
ascoltarsi senza tentare reciprocamente di convertirsi>>.
Nella lectio benedetto 16° critica anche il darwinismo cui oppone
il, per lui fondamentale, credo creazionista del disegno intelligente.
Naturalmente nessuno vuole togliere legittimità al pensiero del disegno creazionista sul quale il papa continua a insistere, anche se è parso di capire che egli stesso non rigetti del tutto quello evoluzionista,
facendo una qualche apertura a una ipotesi tendente a lasciare spazio
a un ragionamento che contempli una domanda di questo genere:
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“perché mai Dio non avrebbe potuto creare un intero universo in evoluzione, materia, vita e coscienza: prima la materia, poi da questa la
vita derivata dai mutanti processi graduali chimico-fisici della materia e infine, sempre in modi analoghi, la coscienza, e il tutto non possa essere ancora oggi in fase evolutiva?” Non sarebbe una dottrina
rispondente al Genesi biblico, ma quante volte il Libro del Vecchio,
come del Nuovo testamento non è stato modificato (interpretato) per
rispondere alle esigenze contingenti della chiesa, come a ammettere
nei fatti, anche se si continua a negare nelle parole, che siccome l’uomo si evolve anche il Libro si evolve con lui e di conseguenza evolve
anche Dio.
Se qualcuno oggi volesse riproporre ancora per buoni (validi) i vecchi dei dell’antica Babilonia, o quelli dell’Olimpo greco, verrebbe
preso per matto. Orbene, leggendo la Bibbia e in particolare il Vecchio testamento, si scopre che il dio o gli dei del Libro non ragionano
mica in maniera tanto dissimile dalle divinità del Pantheon greco o
romano. Perché ho detto gli dei della Bibbia?
Piergiorgio Odifreddi, il famoso matematico, nel suo libro “Perché
non possiamo essere cristiani”, Longanesi 2007, faceva notare come
la mitologia ebraica della creazione fosse stata narrata in due versioni, più tardi confluite, abbastanza maldestramente, in una unica. Resta il fatto che in una si parlava di “un creatore” dal nome Elohim,
che in ebraico non è singolare ma plurale, i quali dopo avere ultimata
la creazione, il settimo giorno si riposarono. Il Genesi viene poi ripreso da capo in una nuova versione; gli dei Elohim rapidamente
scompaiono e si comincia a parlare di Jahvé, questa volta singolo. Si
ammetterà che la faccenda è per lo meno curiosa!
Ma al di là della pluralità o meno del Dio della Bibbia, che il nostro
“matematico impertinente” esamina con attenzione formulando le
sue ipotesi nel libro succitato, sono invece i comportamenti di Jahvé,
in particolare i suoi ripetuti errori umani a suscitare perplessità, o
meglio a sconcertare molte persone del nostro tempo, che se proprio
decidessero di affidarsi a un dio ne sceglierebbero uno decisamente
migliore, più affidabile, più divino per intenderci.
Quando il papa invita l’islam al dialogo sa bene che sulle questioni
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teologiche non sarà possibile alcun dialogo finché ognuna delle due
parti resterà inchiodata alle proprie Ragioni. Allora il suo invito non
può essere inteso che come un richiamo a collaborare alla difesa di
valori etici e morali, insiti in entrambe le confessioni, derivanti dal
tipo di società in cui si vive e che si è costruita, dalle abitudini, dai
costumi, ecc.., e tali valori potrebbero essere rappresentati, ad esempio, dalla difesa della castità, al non utilizzo del condom, senza fermarsi a riflettere, in questo caso, sui costi che ciò comporterebbe per
la salute e le vite di milioni di persone: strano concetto di difesa della
vita. Si badi bene, anche parlando di problemi di etica e morale, così
come di ragione, solamente uno sciocco o chi troverà utile fingersi
tale negherà che ci sono infiniti modi e sensibilità di intenderli, affrontarli e risolverli e in democrazia la maniera per fare ciò è il confronto e la ricerca di mediazioni fra le parti sostenenti tesi differenti,
al fine di giungere a soluzioni che soddisfino più e meglio possibile
le differenti posizioni; tutto ciò sapendo che rispetto alle tematiche
inerenti le singole sensibilità morali uno specifico comportamento
morale di uno non può essere imposto a un altro che non lo ritenga
tale e viceversa e di seguito proverò a chiarire.
Naturalmente in un sistema teocratico il problema non si porrebbe
dato che le regole, dettate dall’alto, non offrirebbero spazi di discussione essendo che la democrazia verrebbe negata.
130
Libro 7°
PROBLEMI ETICI E SOCIALI
Quando nel novembre del 2006 papa Ratzinger, parendo impressionato dai dati forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sulla
diffusione dell’Hiv nel mondo e in particolare sulla drammatica situazione africana, incaricò il Pontificio Consiglio per la Pastorale di
elaborare un documento sull’Aids e sull’uso del preservativo come
modo di limitarne il contagio, molti furono i laici, credenti e non, che
si chiesero con speranza se non si stessero operando delle fauste
aperture e non si stessero un poco ammorbidendo le granitiche certezze che albergavano nelle menti delle autorità, dalle mani morbide,
dimoranti fra le mura dei sicuri e confortevoli palazzi vaticani. Ma
quanto grande fu la speranza, tanto grande fu la delusione, perché
questa volta la montagna non partorì nemmeno il misero topolino: i
rimedi proposti furono i medesimi di sempre, cioè castità e fedeltà.
Se la fredda disumanità dei princìpi delle “leggi divine”, di fronte
alla cruda drammaticità della situazione africana non poteva dare che
queste risposte, c’è da chiedersi attoniti a quale scopo sia stata fatta
la ricerca e quali mai avrebbero dovuto essere le novità che questa si
attendeva.
Nel frattempo sono trascorsi alcuni anni, il problema è stato rimosso: un modo ipocrita per ritenerlo risolto, ma le vite spezzate anche a
causa di questa caparbia inflessibile posizione continuano a moltiplicarsi e a scorrere ignorate come corrente di fiume dal flusso fatto dai
corpi di vittime che non scalfiscono minimamente i cuori di pietra di
questi difensori di insensate ragioni.
In realtà le responsabilità vanno ampliate e estese al ricco Occidente che, salvo alcune coraggiose e mirabili organizzazioni che si battono inascoltate proponendo soluzioni semplici, accampa giustificazioni di costi venali, per esempio di certe grandi case farmaceutiche che
non intendono fornire medicinali a costi ridotti o a prezzi politici, le
quali però potrebbero essere rimborsate in parte dagli stati . Ma al di
là di tutto ciò, una sia pure piccola apertura da parte di questi “signori” che sproloquiano di etica e di morale sarebbe stata apprezzabile.
131
Un’altra battaglia in difesa dei cosiddetti valori morali si rileva
nella netta condanna e nello scontro senza quartiere che la chiesa ha
aperto allo scopo di osteggiare con ogni mezzo il varo di una legge
che permetta attraverso l’attuazione di talune pratiche terapeutiche,
da noi vietate a causa di suoi oscurantisti dictatus supinamente subiti
da un potere politico che ha pure il coraggio di asserire la propria
laica indipendenza, il concepimento di figli, continuando a rimanere
sorda dinanzi alle pressanti richieste di coppie non “naturalmente”
fertili e cieca davanti al fatto che queste per risolvere i propri problemi di vedere esaudito il naturale desiderio di essere genitori, siano
costrette a sottoporsi a terapie da noi vietate andando, qualora le loro
finanze glielo permettano, a migrare oltre i confini nazionali, fin’anche in paesi come la Turchia, che taluni difensori della cosiddetta
laicità nostrana ritengono arretrato e integralista. Ma su queste tematiche ritorneremo in modo più appropriato in seguito.
Un’altra questione che a mio avviso non comporta o coinvolge problemi di etica né di morale, ma caso mai di bassa politica e volgare
grasso potere, vede ancora la chiesa romana impegnata a drizzare con
foga palizzate in difesa dell’esistente come se questo “suo oggetto”
fosse dogma immutabile e valido per tutti, che peraltro nessuno ha in
animo di cancellare. Il riferimento è all’impeto inusitato con cui si è
scagliata condannando senza appello il riconoscimento giuridico di
unioni di fatto al di fuori del matrimonio religioso o anche civile. Il
solo matrimonio civile, come pure il divorzio, (un tempo non tanto
remoto solo la chiesa aveva il potere di sciogliere un matrimonio),
sono stati giocoforza assunti anche se non digeriti e la chiesa, con
nostalgico rammarico, sa che oggi non può più lanciare strali, anatemi o scomuniche come poteva fare fino a non molto tempo fa: ad
esempio nel 1958, con al soglio di Pietro Pio 12°, pontefice molto
apprezzato dal papa attuale, accadde che i coniugi Bellandi, due giovani di Prato che avevano deciso di sposarsi solo con il rito civile,
furono scomunicati e informati che sarebbero morti senza la divina
benedizione. Ma non bastò, perché furono inoltre additati, dal vescovo della loro città, Fiordelli, come concubini e pubblici peccatori.
Nel domandarmi quanto lavoro costerebbe ai vescovi attuali stilare
132
reprimende, anatemi e scomuniche, suppongo che queste prenderebbero una buona parte del loro santo e prezioso tempo e se la pubblica
interdizione ebbe allora la tremenda valenza che gli si volle dare,
perché oggi, vista l’offensiva scatenata dagli agitatori vaticani, non
viene più riproposta?
Per non dire del riconoscimento legale per le coppie omosessuali
verso le quali la chiusura è totale, senza appello, fobica, ideologica.
Rispetto a tutto ciò non viene minimamente tenuto in conto il fatto
che se due persone, credenti o meno, decidono di vivere insieme sulla base del rispetto, dell’aiuto e dell’amore reciproci, non c’è timbro
di municipio né benedizione di prete che possa aggiungere nulla di
più a un’unione che è “sacra” anche senza l’imprimatur ufficiale. Ma
per poter comprendere ciò bisogna riuscire anche a comprendere cosa intendeva Gesù quando parlava di amore e di famiglia.
In ogni epoca, in ogni dove e in tutte le società del mondo, siano
state o siano formate da comunità di credenti delle più disparate fedi,
ovvero da popolazioni dove le fedi non sono praticate, le famiglie si
sono sempre formate, vincolando le loro unioni a formule religiose o
a norme giuridiche laiche o a promesse reciproche più o meno variabili, questo per dire che le famiglie non sono fatte con uno “stampo”
valido per tutte e quindi anche per dire che le famiglie in quanto tali
non sono prerogativa o pertinenza o monopolio esclusivo della chiesa
cattolica, né questa ha titoli per ergersi a suprema tutrice dell’istituzione famigliare e se lo pretende lo fa abusivamente e arbitrariamente; quanto prima se ne farà una ragione tanto prima il problema entrerà nei suoi giusti contorni.
E poi, sulle tematiche della crisi della famiglia la chiesa, come
molti suoi interessati, nonché colpevoli paladini, manifesta una visione al contempo di miopia e strabismo ideologico e politico, confondendo gli effetti - e concentrando su questi la sua battaglia - con le
cause che sono il prodotto risultante della strada percorsa da questa
società egoista e ultraliberista che vede nel profitto e nell’individualismo gli unici fini “nobili” e su questo altare sacrifica tutto il resto;
fini che ogni tanto la chiesa ipocritamente finge di contrastare,
perché il Vangelo glielo imporrebbe, ma che poi verso i quali e i suoi
133
promotori nei fatti risulta essere l’alleata più fida e gli esempi che la
vedono lanciata nella gara per emulare il modello si sprecano, ne vogliamo elencare qualcuno?
L’otto per mille sui contributi fiscali, che però non è sufficiente e
allora assistiamo alle reiterate richieste allo Stato di finanziamento
alle scuole private confessionali, (dove si promuovono con ottimi
voti anche i somari), mentre le scuole statali bisognose di fondi per il
materiale didattico o per la manutenzione possono anche cadere a
pezzi. E assistiamo, in questo periodo di crisi economica e di forzata
austerità – che sarà pagata dai soliti noti – al calo della mannaia sulla
scuola pubblica, mica sugli armamenti per esempio, gli unici incentivati e quindi oltre alle strutture viene drasticamente decurtato anche
il numero degli insegnanti, purché, naturalmente, non siano di religione. Infatti da parte della chiesa c’è la pretesa che tutti i sacerdoti,
che già percepiscono uno stipendio statale, pure modesto, qualora
siano insegnanti di religione vengano ulteriormente stipendiati e
allora ecco le schiere di prof. di religione, naturalmente non precari:
in pratica, in una valutazione per porobabile difetto, un prete su due
in Italia, e su costoro non è stato effettuato alcun taglio.
Tornando a questo tuonare sulle famiglie che non si uniscono più
sull’altare, perdonate se potete la malafede, (d’altronde è stato un notissimo cattolico d’origine controllata a dire che “a pensare male si fa
peccato però spesso ci si azzecca”), ma non posso non considerare il
rammarico del Vaticano sul mancato introito che ciò comporta ogni
qualvolta salta un matrimonio celebrato in una chiesa.
Dicevo che gli esempi potevano moltiplicarsi, ma mi limiterò a tagliare corto ricordando le innumerevoli proprietà immobiliari quali
condomini, case, scuole, teatri, impianti sportivi, palazzi per conferenze, mostre o altre funzioni, case di cura e ospedali convenzionati,
istituti di credito, alberghi, case soggiorno e istituti per anziani: tutti
immobili fatti pagare o affittati non proprio a prezzi politici o umanitari ma ai prezzi correnti di mercato, che se si calcolano le agevolazioni fiscali si traducono in profitti maggiori. Poi ci sono i grandi
santuari, trasformati in ipermercati della fede.
Fin dall’apparire del comunismo la chiesa lo condannò come mate-
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rialista e ateo e lo fa ancora; allo stesso modo condannò anche il liberismo per analoghe ragioni. Ora si è strettamente legata e si è fatta
convertire da quest’ultimo che simulandosi cristiano o essendosi convinto che il suo agire e la sua pratica lo siano, ha facilmente irretito
la cristianità, la quale appurate le sue affinità elettive con questo, si è
saldamente avvinghiata ad esso in un indissolubile abbraccio. Però,
allora, tornando alla famiglia, suona stonato e diventa ipocrita lo stupore e il dolore manifestato di fronte allo sfascio di questa, intesa
nella vecchia cara tradizione di quel mondo rurale o preindustriale da
un pezzo scomparso e le blande proposte a suo sostegno: due soldini
qua, qualche asilo nido là, forse anche in grado di frenarne un poco la
deriva, ma non a determinarne il salvamento; molto spesso invocate
ma altrettanto spesso disattese servono solo, nel migliore dei casi, a
tacitare le coscienze e a salvare l’anima, se Dio si lascia burlare, nel
peggiore, a costruirci sopra una campagna elettorale.
Ciò che pervicacemente si vuole ignorare è che la famiglia ha ora
più bisogno di assistenza sociale su molti livelli, ( Welfare State), e
che questo, da ormai oltre una ventina d’anni è stato sempre più ridotto, adottando politiche tacheriane che hanno lasciato la famiglia
in balia di sé stessa.
Altra cosa di cui non si vuole prendere atto è il fatto che essendo
cambiata la società, che da rurale si è trasformata in industriale e dei
consumi e che ancora, essendo in perenne movimento, si avvia verso
ulteriori metamorfosi assumendo le caratteristiche, anche, di società
post-industriale e dei servizi, congiuntamente, assieme a molte cose
del cielo e della terra, è cambiata anche la famiglia, che ha mutato
indirizzi, obbiettivi e anche modelli, specialmente a causa o per merito del ruolo giocato all’interno dalla donna che assumendosi nuovi
compiti e responsabilità – non che prima fossero pochi -, a differenza
di un tempo non cerca più, supina e ingabbiata in un ruolo, semplicemente un modo di accasarsi nel tradizionale compito di mogliemadre. Altre le problematiche, altre le complessità, mentre questa
chiesa miope e misogina continua a tenere la testa rivolta al passato
volendo ostinatamente continuare a difendere un archetipo di famiglia che ormai non esiste più e sul quale non può più vantare diritti:
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è come volere tenere inchiodato il cervello a una visione falsamente
idilliaca e ottocentesca della società e parafrasando il detto buono per
quel tempo è voler chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati.
Io vivo a Conegliano, una cittadina del Veneto orientale di poco
più di trentacinquemila abitanti, quel Veneto che dal dopoguerra e
fino quasi la metà degli anni ’90 era sempre stato governato, salvo
pochi comuni, dalla vecchia Balena Bianca, la D.C., e ora, eccetto le
più o meno solite poche realtà locali, da coalizioni di centrodestra,
che non sono altro che la vecchia Democrazia Cristiana riciclata, i
fedeli ex partitini satelliti, più lo sdoganato ex M.S.I., anche lui riciclato. Per la precisione e per par condicio, anche nel centro-sinistra
le formazioni politiche hanno cambiato i nomi, ma anche per loro le
provenienze sono quelle delle vecchie formazioni riciclate: verrebbe
da dire che tutto è cambiato nell’immagine ma tutto è rimasto immutato nella sostanza. Ma non è proprio così: oggi per alcuni versi la
situazione è ancora più nebulosa e stagnante di prima, in quanto non
assistiamo più solamente alle tradizionali contrapposizioni fra governanti e oppositori ma anche ai conflitti intestini fra le stesse forze
della maggioranza che equivalendosi all’incirca per forza tentano di
continuo di scavalcarsi; ciononostante queste non temono poi molto
l’opposizione perché cronicamente minoritaria e pure essa spesso
litigiosa al suo interno. Nel Veneto i rapporti fra Forza Italia, ora
P.d.l., e la Lega non sono mai stati idilliaci e se restano assieme è
perché,1) esiste una indiscutibile affinità ideologica, 2) sono al potere
e non lo vogliono mollare e questo è certamente un potente collante,
3) non hanno alternative perché non potrebbero governare da soli e
per questo motivo la situazione politica regionale appare fossilizzata.
La regione è rimasta quindi sostanzialmente “bianca” a riprova che
l’anima democristiana continua a aleggiarvi sopra, anche se molti di
questi nuovi “democristiani” si manifestano confessionali solamente
quando trovano utile farlo; in aggiunta sul tutto c’è una più marcata
spruzzata di razzismo, che però va detto, non investe tutti, forse nemmeno la maggioranza.
Ma torniamo alla mia città, che nel suo piccolo rispecchia grossomodo ciò che è riproposto in regione. Da una ricerca pubblicata sul
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periodico locale “Il Quindicinale” nel 2007, risultava che in presenza
di una popolazione leggermente in crescita, ( tra la metà degli anni
’80 e la fine dei ’90 c’era stato un significativo calo della popolazione a causa soprattutto dello spostamento fuori città, nei territori dei
comuni vicini, di quasi tutte le aziende manifatturiere), oggi si è
recuperata quasi tutta la popolazione perduta grazie soprattutto alla
immigrazione comunitaria e extracomunitaria che il dato di fine anno
2009 dava all’incirca intorno al 14% del totale degli abitanti.
I matrimoni dal 2000 al 2006 sono calati di oltre il 50% passando
dai 324 del primo anno in esame ai 152 dell’ultimo. I matrimoni religiosi (cattolici) nel 2006 sono stati 45, mentre quelli civili, solo in
municipio, 46; quindi per arrivare a quota 152 significa che i numeri
mancanti devono essere assegnati a famiglie che hanno avuto la residenza in città nell’anno e, o a matrimoni celebrati con altri riti: testimoni di Geova , islamici o altre fedi, oppure ancora da nuclei familiari formati da coppie di fatto, in qualche modo ufficiosamente riconosciute: coppie che avevano acquistato casa, o pagavano l’affitto, le
bollette della luce, acqua, gas, telefono, rifiuti urbani, ricevevano la
posta, avevano figli e li mandavano a scuola, esattamente come le
altre coppie. Ufficialmente queste famiglie per la legge dello Stato
italiano e per i preti non esistono, ma se mentre i secondi, in loro coscienza, possono anche disconoscerle, altrettanto non può fare lo
Stato che ha il dovere di trovare una figura giuridica che legalizzi
anche le coppie di fatto.
Nonostante il calo significativo dei matrimoni le famiglie sono aumentate passando dalle 14842 del 2000 alle 16377 del 2006 e pure se
fra queste c’è stato un aumento di quelle composte da un solo individuo, è indubbio che siano aumentate come non mai quelle che oggi
chiamiamo “famiglie di fatto” che sono al pari delle altre parti attive
e integranti della società e contribuiscono in tutto e per tutto alla sua
crescita pure non godendo gli stessi diritti delle famiglie cosiddette
legali. Questa contraddizione è talmente evidente, salvo per chi finge
di ignorarla, da prefigurare un vulnus costituzionale che deve essere
sanato Del resto, a riprova della malafede e dell’arroganza di certa
classe “politica dirigente” - che un cittadino avente un minimo di
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orgoglio e consapevolezza del suo ruolo di elettore datore di lavoro
di rappresentanti che andranno a gestire la cosa pubblica, quindi la
sua cosa, non dovrebbe accettare e quindi permettere che questa si
riservi privilegi a lui negati – sta il fatto che i componenti del Parlamento si sono approvati una norma legislativa specifica, valida esclusivamente per loro, che parifica le loro “unioni di fatto” alle unioni
valide per legge: disparità che un cittadino non può accettare.
Ora propongo altri dati ricavati da un’inchiesta condotta da Alberto
Statera sul quotidiano “La Repubblica” del 18 gennaio del 2007, riguardanti la città di Padova, 250.000 abitanti, cui va aggiunta la popolazione studentesca, (50.000 circa), dell’importante polo universitario cittadino.
L’inchiesta pure non fornendo dati numerici sulle famiglie, come
nel caso sopra esposto, tocca in alcuni punti i medesimi argomenti e
così è possibile constatare quanto profondo sia stato il cambiamento
avvenuto in questi ultimi decenni nelle nostre città e come questo si
sia ripercosso nei costumi della società.
La città del Santo pure contando ancora più di tre milioni di pellegrini annui, ha assistito nel contempo alla nascita di decine di locali
“alternativi” tanto da essere considerata la capitale gay del nord-est,
molti anzi l’hanno battezzata la piccola Barcellona sul Bacchiglone.
Anche il vescovo cittadino Antonio Mattiazzo, assieme a quello di
Vicenza, forse più compenetrati nello spirito di tolleranza verso i loro
diocesani, certamente molto di più di taluni pasdaran integralisti
d’oltre Tevere che oggi stanno dettando la linea, hanno assunto visioni che rispetto alle questioni morali e del peccato sono mutate con
il mutare della società: oggi, per esempio, tendono a considerare
l’aborto con maggiore indulgenza, cercando, con spirito cristiano, di
comprendere i drammi umani che stanno dietro a queste scelte sofferte, concedendo l’assoluzione alle donne che la chiedono, mentre le
loro condanne risultano essere più ferme e severe verso gli evasori
fiscali. Tuttavia sempre lo stesso vescovo di questa Padova, che negli
anni ’60 dello scorso secolo era stata considerata la città più bianca
d’Italia, è costretto a chiedersi, con il disagio del credente e del pastore, comprensibile, se oggi Padova sia ancora una città cattolica
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oppure pagana. Non so dargli una risposta, ma so essere egli uno dei
pochi prelati a porsi con sincera preoccupazione questa domanda.
Anche gli altri vedono e sanno, ma sanno anche essere più utile proclamarsi sordi dall’orecchio rivolto al deserto, per non udire la voce
del Battista, e tenere ben spalancato l’altro rivolto alle sirene che invitano all’adorazione degli idoli dorati. Sanno pure che se la nostra
società, pure proclamandosi cristiana, è diventata pagana, grande
parte della colpa, o del merito, (non è detto che sia un male assoluto),
è loro giacché – sono costretto a ripetermi – “ ad essi non importa se
le persone sono o meno credenti, l’importante è che si proclamino
tali e che perpetuino le usanze (folclore) esteriori; poi, quello che
conta è saper cavalcare la bestia. Difetto visivo sconcertante: da un
lato l’accettazione interessata dei benefici dell’ideologia del “pensiero unico”- oggi un po’ ammaccata ma non doma -, che dal pulpito
talora con insincero sdegno si rigetta, sapendo che tutti, fingendo,
partecipano alla commedia, dall’altro il rifiuto di vedere i mutamenti
societari avvenuti, a partire dai suoi nuclei primari, le famiglie, che
non sono più quelle di un tempo, e la chiesa invece che prenderne
atto continua a combattere la sua sfibrante anacronistica battaglia,
che alla fine la vedrà perdente, ma anche colpevole di tutte le vittime
nel frattempo lasciate sul campo.
Ora, allargando ulteriormente il campo visivo, propongo rapidamente i dati che l’Istat, rispetto alla questione familiare, ha fornito
nel febbraio del 2007, l’indagine però si fermava al 2005.
Da tali dati emergeva come in Italia dal 1972 il numero dei matrimoni si fosse quasi dimezzato, passando dai 420.000 ai circa 250.000
del 2005, ma la maggiore accelerazione della decelerazione, scusate
il bisticcio, è avvenuta negli ultimi dieci anni. Le coppie conviventi
nel 2005 risultavano essere circa 500.000, ma fra queste “coppie di
fatto” non erano state incluse le coppie gay-lesbiche per ovvie difficoltà di monitoraggio dovute all’ancora accentuato riserbo di molte a
dichiararsi pubblicamente tali; nel qual caso, se cioè fossero state aggiunte a quelle conteggiate, la cifra sarebbe salita di parecchio superando probabilmente, in data 2005, il milione.
C’è poi un altro rilevante dato rappresentato dal fatto che almeno il
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10% dei matrimoni che oggi si celebrano sono attribuibili a coppie di
cui almeno uno degli sposi è al secondo matrimonio e quindi, non tenendo conto del numero di coloro che si “riciclano”, il numero totale
dei matrimoni celebrati sarebbe ancora minore.
80.000 sono stati i bambini che nel 2005 sono nati fuori dal matrimonio e questo è un numero doppio rispetto a quello registrato dieci
anni prima, inoltre essendo questo trend in netta ascesa dovrebbe, per
chi avesse sensibilità e orecchie per intendere, fare riflettere sulla opportunità e urgenza di leggi che tutelino non solo le coppie di fatto,
ma soprattutto i figli nati da queste unioni.
Il calo maggiore fra i matrimoni si è verificato per quelli celebrati
in chiesa e anche dalla consapevolezza di ciò è presumibile derivi il
rabbioso attacco dei vertici della chiesa romana contro le coppie di
fatto e contro ogni tipo di disegno di legge tendente a dare a queste
unioni una legittimazione giuridica. Attacco miope, violento, scomposto, poco intelligente e anche offensivo, da attribuire a un atteggiamento insensato e nient’affatto cristiano di quasi tutti i vertici
ecclesiastici cattolici; il quasi sta nell’avere individuato alcuni religiosi più assennati e aperti, che tuttavia sono spesso emarginati e
costretti al silenzio. Un furore irrazionale, una perdita della bussola
che sembra non riesca più consentire a codesti “pastori” di mantenere
un equilibrato e sano contatto con buona parte del “gregge”, il quale
rimane ammutolito e disorientato, seppure ancora disposto all’osservanza, ma non più alla cieca obbedienza, non essendo passati invano
gli anni fecondi ereditati dal concilio giovanneo al quale anche oggi
pubblicamente (talora) ci si appella, ma che poi di fatto si vuole cancellare. Per questo è grande lo stupore di fronte a affermazioni come
quella di monsignor Bagnasco, di fine marzo 2007, che con toni da
crociata non più usuali al nostro tempo, rifiutando ogni forma di
apertura sui Dico, affermava: <<..perchè allora non legalizzare anche
la pedofilia e l’incesto?>>. Discorso che non ha bisogno di repliche
commentandosi ampiamente da solo.
Oggi le tendenze alle nuove forme di unione vanno interpretate nel
quadro delle naturali trasformazioni dei comportamenti che rispecchiano il cambiamento della società legata a fattori sia “classici” del
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passato, ma anche aggiunti da una brutalità involutiva neoliberista
millantata come riformista, legata a fattori come: la ricerca del lavoro, la tensione psicologica dovuta al precariato, i costi per uno studio
aperto a tutti, le difficoltà di trovare alloggi a prezzi accessibili (edilizia popolare quasi scomparsa), la mancanza di strutture per i
bambini e ancora, conseguente, la minore propensione al matrimonio
come scelta ideale, il desiderio, ma spesso scelta forzata, di restare di
più in famiglia per i giovani, e ancora una naturale e più accentuata
propensione sociale verso la convivenza; né va tralasciato il fatto che
attraverso questa formula si concretizza l’unione di coppie che non
hanno le risorse materiali per affrontare le onerose spese di un matrimonio tradizionale.
Sarebbe saggio, ma non ci facciamo illusioni, se la chiesa prendesse atto che le relazioni interpersonali hanno nei fatti e nella vita di
tutti i giorni ormai superato le categorie che essa stessa e lo Stato
hanno, in tempi già tramontati, dettato, per cui mitizzare la <<sacra
famiglia>> indicandola come modello primario unico della società è
diventato deviante e anche patetico, non tanto perché la famiglia non
sia ormai più così, ma perché in larga misura non è solo più così.
Oggi siamo immersi in una società dove le espressioni dell’amore
sono andate moltiplicandosi e di ciò è doveroso e vorrei dire cristiano, tenerne conto.
Ora una domanda: come mai l’Italia, che unica ormai in Europa a
non avere una legge che tutela e parifica le “coppie di fatto” alle altre
“normali”, ha il più basso tasso di natalità del continente?
Mentre dai pulpiti reali e mediatici la chiesa predica un Gesù che
spalanca le braccia al mondo, nella sua pratica quotidiana non fa che
sbattergli i portoni in faccia. Fobica rimane infatti la sua chiusura
verso le coppie omosessuali desiderose di formare una famiglia e
intenzionate a adottare dei bambini ai quali dare quell’amore che non
ha niente di diverso dell’amore donato da genitori cosiddetti “normali”. Duro da scalfire resta quindi il pregiudizio verso le unioni omosessuali e verso il loro ruolo familiare e genitoriale, sicché dalla chiesa non arriva altro che una condanna a bollare tali unioni come immorali e innaturali: bene farebbe a chiarirsi sul significato di naturale
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e innaturale. Ad ogni modo sembra preferire che dei bimbi restino
nei brefotrofi anziché essere accolti da una famiglia, che non sarà
quella che normalmente siamo usi concepire, ma che sarà certamente
in grado di dare amore quanto e forse più di una cosiddetta “normale”, ed è amore che chiedono i figli. Anche in questo caso l’amore e
la carità predicati, vanno a cozzare contro quelli praticati.
Continuando sulle tematiche etiche e morali ci imbattiamo in un
ulteriore portone sbattuto in faccia dalla chiesa riguardo la difesa di
questa verso le pratiche di accanimento terapeutico e la caparbia opposizione verso ogni tentativo di quegli ammalati, spesso affetti da
patologie gravissime, fortemente invalidanti e irreversibili, che fra
inimmaginabili sofferenze chiedono non tanto, anzi quasi mai l’eutanasia, (problema che dovrà comunque essere politicamente affrontato
per dovere sociale, oltre che etico e morale), ma semplicemente di
poter morire in maniera dignitosa, senza essere costretti a subire l’accanimento di pratiche terapeutiche inutili, lunghissime e dolorose. Da
parte delle gerarchie ecclesiastiche, che come è noto pretendono di
arrogarsi l’esclusiva della Ragione – quella che, come disse quel tale,
genera mostri -, si risponde con la consueta insensibilità, e non
s’adontino se c’è chi chiama tutto ciò sadismo puro e sordo a ogni
appello e richiesta, perché ancora una volta la risposta che viene data,
ritenendola sovrumana, è invece disumana, pari al sereno e serafico
disputare teologico davanti alle urla di dolore degli “eretici” sui
roghi, nella granitica convinzione che quella era la giusta via per
salvargli l’anima: quindi gli si faceva pure un sommo favore.
Anche Gesù di Nazateth al momento della sua cattura chiese che
ciò che doveva essere fatto fosse fatto al più presto e poi ancora,
nella passione, assalito dallo sconforto e dal dolore chiese al Padre
suo di toglierli l’amaro calice. Mi si risponderà che immediatamente
dopo mormorò: << si fatta la tua volontà>>, ma si dovrebbe anche
comprendere la naturale debolezza umana di fronte alle sofferenze e
infatti anche papa Wojthila , ancora in coscienza di sé, umanamente
chiese gli fosse risparmiato l’accanimento terapeutico e fu esaudito.
Analogo trattamento invece non si vuole concedere ai poveri cristi
cui, da un pugno di sadici insensibili che in modo arbitrario si sono
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arrogati il diritto di parlare in nome di un dio, viene detto di bere fino
in fondo il loro amaro calice, dato che la loro vita non gli appartiene.
E se non a loro, a chi allora? A questi esseri abominevoli senza
sentimenti che si fanno scudo di “leggi divine” da essi stessi inventate per tenere gli uomini semplici in loro potere cosa rispondere? Non
ci sono parole bastanti! E se i semplici non si piegheranno gli si potrà
negare, ove richiesta, la sepoltura religiosa, come è stato fatto nel
caso di Piergiorgio Welby.
Si obbietta da più parti, e si può anche concordare in linea di principio, che l’accanimento terapeutico spinto oltre certi limiti non è comunque una tortura anche perché i suoi fini sono altri, tuttavia il
confine che differenzia una cosa dall’altra è talora così labile che la
differenza non è percepibile laddove nella pratica la terapia medica si
riduce a mantenere le funzioni minime vitali di una persona, fino a
che questa, sempre che sia ancora in grado in qualche modo di poterlo fare, sopraffatta dalle sofferenze chieda disperatamente gli sia
tolto l’amaro calice. E sono molto più numerosi di quanto non si
pensi i casi di persone che conducono queste vite non vite, senza dire
dei loro familiari, quelli che riescono psicologicamente e fisicamente
a reggere l’urto di simili tragedie, che coinvolgono in pieno anche
loro, condannati, come i loro cari ammalati a gradi di pressioni tremende, nonché, specie se lasciati soli a combattere queste battaglie,
agli arresti domiciliari permanenti.
Noi sappiamo solo dei casi che hanno fatto cronaca, come quello di
Adolfo Baravaglio, immobile da più di venti anni in un letto, assistito
costantemente dalla moglie Agnese. Egli è lucido, non depresso, non
può muovere alcuna parte del suo corpo tranne due dita della mano
destra. Può parlare e fino dall’inizio del suo male, causato da un
incidente stradale nell’aprile del 1989, ha sempre chiesto, inascoltato,
di essere lasciato morire. La sua richiesta, ripetuta all’infinito, diventata anche un titolo di un libro sulla sua vita è la seguente: <<Perché
mi tormentate?>>. Potrebbe essere trasportato in Svizzera, dove una
legge permette una eutanasia assistita, ma chi lo dovesse accompagnare correrebbe il rischio, al ritorno in Italia, di vedersi infliggere
una pena dai 15 ai 18 anni di carcere.
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Altro caso finito sulle cronache è quello di Giovanni Nuvoli, malato di distrofia muscolare armiotrofica progressiva, immobilizzato da
oltre otto anni. Anche lui chiedeva, è morto poco dopo Welby, disperatamente di essere lasciato morire, denunciando al contempo l’accanimento terapeutico nei suoi confronti. Giovanni non si poteva muovere in alcun modo, salvo per gli occhi che usava per comunicare
battendo le palpebre ed era tenuto in vita da un respiratore artificiale.
Su queste problematiche si è pronunciata la chiesa cattolica a metà
settembre del 2007 con un discorso formulato dallo stesso Benedetto
16°, il quale ha ribadito, o meglio ha sentenziato che nutrimento e
idratazione per via artificiale devono essere somministrati anche
qualora i <<medici competenti giudicano con certezza morale che il
paziente non recupererà mai la coscienza>>. Figuriamoci allora per
coloro che ancora la coscienza ce l’hanno! Con ciò il papa è sembrato mettere una pietra “tombale” sull’argomento. Tutto questo suonò
come un preventivo ammonimento al parlamento italiano, chiaramente sotto scacco, nel caso avesse osato, (alla faccia della presunta
e pretesa indipendenza e laicità), anche solo varare una timida legge
relativa al testamento biologico; questo fino a quel momento.
A fine luglio del 2008 si ebbero due sentenze, una della Cassazione e una della Corte d’Appello di Milano che imposero di sospendere le cure a Eluana Englaro. Contro queste sentenze venne
presentato un ricorso della Procura di Milano, ma anche la Camera
dei deputati chiese, con decreto, di sollevare il caso davanti alla
Corte Costituzionale, adducendo un conflitto di attribuzioni tra i
poteri dello Stato.
Vediamo intanto chi è, o meglio chi era Eluana Englaro raccontando in breve la sua storia. Eluana era una giovane donna di Lecco che
in seguito a un incidente stradale accadutole nel 1993 finì in coma
vegetativo irreversibile e da allora si rese necessario alimentarla sempre per via artificiale. Il padre di Eluana, Beppino, chiedeva ormai da
anni di lasciare morire la figlia, sia perché convinto che questo modo
di tenerla organicamente in stato di sopravvivenza fosse un accanimento terapeutico, sia perché affermava, (e solo lui poteva affermarlo), che Eluana, ancora prima di subire l’incidente, si era a più
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riprese espressa contro l’accanimento terapeutico sulla sua persona
qualora le fosse capitato un inconveniente uguale o simile a quello
che poi, purtroppo, le accadde.
Il 16 dicembre del 2006 la Corte d’Appello di Milano si era pronunciata contro la possibilità di staccare le apparecchiature, (un sondino gastrico), che alimentava Eluana.
Nell’ottobre del 2007 la Corte di Cassazione riaprì il caso. Il contendere verteva sul fatto se il sondino fosse da considerarsi trattamento sanitario, prefigurato come lecito, oppure come accanimento.
Tuttavia, cosa non considerata prima, i giudici evidenziarono che
andava tenuto conto della volontà del o della paziente.
Intanto fuori fra i media e dentro l’opinione pubblica il dibattito sul
tema e sul caso particolare si accendeva, ma non sembra che fra gli
“oltranzisti” difensori della vita, qualunque ne fosse stata la condizione, venisse tenuto in grande conto il rispetto della dignità della
persona che soffre, occupati e interessati come erano a far prevalere,
come unica cosa essenziale, i propri convincimenti. Se in Italia, come
avviene in molti altri paesi civili, fosse stata operante una legge sul
testamento biologico che avesse tenuto conto della volontà delle persone coinvolte in casi analoghi a quelli che stiamo trattando, non ci
sarebbe stato bisogno che la magistratura fosse stata costretta a intervenire colmando un vuoto legislativo, (non è la prima volta che in
Italia, un paese che di leggi e leggine ne ha fin troppe, accadono cose
come questa), sostituendosi a un parlamento che su queste tematiche
si è sempre dimostrato sfuggente e imbelle, proprio per la sua carenza di autonomia verso qualche potere esterno. In realtà alcuni disegni
di legge sono stati, in varie occasioni, presentati, ma sono sempre
stati alla fine elusi per la palese volontà rinunciataria, in questo caso
e in altri, al proprio ruolo istituzionale, subendo in maniera subalterna i diktat della chiesa romana.
Il 10 dicembre del 2008 il procuratore generale della Cassazione
Domenico Iannelli, ha definito inammissibile il ricorso alla procura
di Milano nei confronti della Corte d’Appello che aveva concesso ai
richiedenti l’autorizzazione per mettere fine allo stato vegetativo di
Eluana.
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Dal Vaticano è immediatamente arrivata la condanna e il papa, per
bocca del cardinale Julian Herranz, dellOpus Dei, (da quali pulpiti
arrivano le prediche!). ha definito la sospensione dell’idratazione
alimentare di Eluana un assassinio.
Nel chiedersi quale idea della vita alberghi nelle menti e nei cuori
di questi cosiddetti “cristiani”, non resta che formulare loro gli auguri
affinché si liberino quanto prima dalla dura e spessa crosta di insensibilità e cinismo che ricopre i loro suddetti organi. Noi continuiamo a
pensare che nessuna persona fisica o giuridica possa decidere se effettuare o meno forme di accanimento terapeutico pregiudizievoli
della dignità umana, nei confronti di qualsiasi donna o uomo, senza il
consenso-autorizzazione degli stessi o di chi, per legge, ne assume la
tutela. Nel caso di Eluana Englaro poi, siamo stati, con sommo rammarico, costretti a assistere anche a un ulteriore accanimento, quello
meschino di certi media contro il padre di Eluana. Naturalmente tutto
questo continua a accadere perché siamo in assoluta assenza di una
legge specifica e questo la dice lunga su una classe dirigente che
invece di stare alla testa del paese resta al rimorchio di strati sociali
dai quali provengono umori tra i più grevi.
Staremo a vedere cosa sarà in grado di partorire la “montagna”, ma
i primi segnali che arrivano sono di segno negativo.
Tuttavia, contro ogni segnale avverso tendo a privilegiare l’ottimismo, ma non è facile giacché, come dice Enzo Mazzi: <<..ci occorrono occhi nuovi>> e aggiunge, pensando all’esperienza di Pierre
Teilard de Chardin, sulla evoluzione biologica, che << l’ordine etico
è nel futuro, non nel passato: cioè va costruito>>…e che quindi
<<Dio è lì, nella trasformazione, non nella fissità>>. Purtroppo questa nostra classe politica e questa chiesa non sanno camminare altro
che con la testa rivolta all’indietro. Dove mai potranno arrivare?
Dopo la sentenza della Corte di Cassazione Beppino Englaro ha
dichiarato: <<Questa è la dimostrazione che viviamo ancora in una
stato di diritto>>. Sarebbe stato meglio che tutti si fossero taciuti e
avessero lasciato morire in pace Eluana; così purtroppo invece non è
accaduto.
Ma passiamo a un altro tema, anche questo riguardante questioni
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sia etiche che morali ma anche fortemente sociali. Sto parlando
dell’aborto.
A questo riguardo, pure concordando con l’esortazione papale nella
difesa della vita, non posso però non sottolineare che su questo argomento da taluni settori più conservatori del mondo dei credenti e non
solo da quelli in verità, la carenza di buona fede come la insincerità
sembrano avere toccato lo zenit. Il messaggio che certo ambiente
antiabortista più zelante intende costantemente far passare è che in
Italia in un felice e buon tempo andato l’aborto non esisteva e siccome le altre nazioni democratiche e progredite avevano delle leggi che
ne regolamentavano la pratica, un governo “malaccorto”, temendo
che il paese si sentisse antiquato, ha introdotto l’aborto anche in
Italia. Proprio così, sentito con le mie orecchie: “l’aborto è stato introdotto anche in Italia”. Sennonché a forza di ingannevoli discorsi di
questa natura, anche “autorevoli” un segno viene lasciato e un certo
numero di persone finirà per credere che la cose stessero veramente
così. Sembrerebbe banale dirlo e ridirlo, ma banale purtroppo non è e
per quanto a quel tempo, (prima della legge), ci fosse stato anche chi
ipocritamente si ostinava a negare l’evidenza, non volendo vedere,
eccome se esisteva l’aborto! Solo che era illegale, clandestino e
sommerso, comune a tutti gli strati sociali e praticato per la maggiore
con metodi empirici, per non dire barbari, antigienici, nonché lucrativi, che portavano a esiti spesso drammatici per l’incolumità e la vita
delle donne che vi si sottoponevano, inaccettabili per un paese civile.
Fu pertanto logico e necessario, affinché la parola “civile” non
risultasse essere un termine dal significato farisaicamente vuoto, (le
resistenze furono numerose per forma e sostanza), che il paese sentisse l’esigenza e l’urgenza di darsi una legge che affrontando il problema nei suoi aspetti etici, morali, civili, sanitari e politici, regolamentasse la pratica abortiva togliendola dall’ombra della clandestinità e
della illegalità.
Il risultato ottenuto dalla legge, con buona pace dei suoi più accaniti oppositori e detrattori, fu che gli aborti diminuirono in maniera
costante anno dopo anno perché le donne, ora tutelate, che chiedevano di interrompere la gravidanza nel rispetto dei termini della legge,
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rivolgendosi alle strutture preposte, nell’affrontare il loro travagliato
drammatico momento, venivano assistite non solo dal punto di vista
strettamente sanitario e fisico, ma anche psicologico nonché informativo. I risultati furono che esse vennero aiutate a superare problemi
che, lasciate da sole, non sarebbero riuscite a risolvere e accadde,
come continua a accadere, che o talora si risolvevano a tornare sui
propri passi e portare a termine la gravidanza, tenere il figlio, o darlo
in adozione, oppure venivano assistite nell’aborto garantendo loro la
necessaria assistenza e eventuali cure, tutto questo nell’anonimato.
Se gli ambienti antiabortisti più oltranzisti provassero a considerare
queste premesse, considerando anche i risultati ottenuti, si renderebbero conto che non c’è assolutamente nessuno che voglia l’aborto per
l’aborto e potrebbero trovare ampia disponibilità al dialogo su queste
tematiche. Se invece il loro obbiettivo dovesse essere quello della
abolizione della legge, o dell’avvilimento della sua efficacia, in
modo da risospingere la pratica abortiva nella clandestinità e ricominciare nuovamente a fingere di credere in modo ipocrita che il
problema non esista, oppure si mirasse a criminalizzare le donne che
lo praticassero, allora è ovvio che non si potrà essere d’accordo,
perché non è certo evitando di affrontare i problemi, o addirittura
disconoscendoli, che come per magia questi scompaiono.
Ad ogni modo, essendo un uomo non posso parlare di aborto entrando nell’argomento che in punta di piedi, con grande rispetto e
davanti alle donne tenermi un passo indietro. Il guaio è che di questi
tempi si sta ridando fiato alle trombe alla rivalsa antiaborista, e chi
sbraita più forte di tutti è ancora una volta la chiesa cattolica e quindi
i preti che, mi pare, donne non siano, come nemmeno sono padri di
famiglia. E costoro, alle donne, che sono coloro che conoscono le
trepidazioni, le ansie, i dolori, come pure le gioie della gravidanza e
della maternità, vogliono nuovamente levare la parola e il diritto di
ultima scelta, che non può spettare che a loro, naturalmente dentro il
quadro tracciato dalla legge. Ma è chiaro il disegno, perché si sa bene
che il problema va ben oltre i contorni apparenti, in quanto questi
“signori” ritenendosi unici possessori della “verità”, non sono rassegnati a subire lo smacco di una legge di uno stato laico e sovrano, e
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non intendono rinunciare al “diritto” di dominio sulla sessualità e
volontà femminile, pretendendo di imporre alle donne la gestione del
loro utero dal momento che lo scontro si consuma sulla loro sessualità e quindi sulle loro scelte e sul loro diritto di distinguere e tenere
separato il desiderio di sessualità da quello di maternità.
Ma la novità di questo nostro tempo, che può suscitare apprensione fra gli uomini di potere, delle chiese e non, sta nel fatto che
viviamo in una società apparentemente sempre più immersa nella
cosiddetta ideologia del “pensiero unico”, che tutto appiana e tutto
uniforma. Ma le cose non sono poi così scontate come potrebbe
apparire, dato che c’è anche chi non si lascia uniformare e poi anche
perché le persone hanno, più che nel passato, le opportunità di acquisire da più fonti notizie e informazioni, talora anche contraddittorie.
Per questi motivi non è nemmeno strano che ciò possa confondere
dal momento che il mondo è infarcito di venditori di ricette salvifiche
e non pare facile saper discernere. Di conseguenza assistiamo al
fenomeno di strati importanti di opinione pubblica oscillanti e tendenti a seguire di volta in volta messaggi veicolati con reiterata
insistenza e interessata astuzia; ma ciò rappresenta un rischio più che
un male, perché c’è sempre la possibilità che alla fine, districandosi
fra questi viluppi, con le difficoltà che comporta nel riconoscerli,
metterli a fuoco, farne analisi e critica e portarli a sintesi, ognuno si
renda più consapevole del fatto che non esiste nessuno capace di
offrirti verità buone per ogni tempo e situazione, per perfette che
possano apparire, e queste poi si infrangono quando messe di fronte a
domande cruciali danno risposte che ti dicono che devi essere fiducioso e che devi credere perché questi sono misteri della fede e come
tali vanno accettati. Ma chi afferma ciò? Uomini uguali agli altri, o
meglio non proprio uguali, perché a differenza degli altri hanno la
pretesa di ritenersi ammantati del “sacro”. Che dire!?
È con non poco imbarazzo che uso le parole democrazia e libertà,
perché sono fra i termini, (giustizia è un altro), oggigiorno più abusati e male usati e ritengo che sia dal confronto delle idee di tutti che
ci è data la possibilità di trovare le strade, mai comunque le migliori
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in assoluto, da seguire per avvicinarci il più possibile alla democrazia, alla libertà, alla giustizia, alla verità.
Sono percorsi impegnativi e comprendo come possa essere più
facile, comodo, consolante, adeguarsi, adagiarsi, seguire la corrente,
altrimenti tutto può sembrare più spiazzante, tutto può confondere e
far sentire pesante l’incertezza dell’essere ma, e questo non ha da
spaventare, anche fare comprendere essere l’incertezza l’unica certezza, perché ogni sicurezza, anche la più ferma, ne contiene un margine che nemmeno si sa quanto grande.
Non va poi nemmeno scordato che esiste il buon senso, merce piuttosto rara e purtroppo non equamente distribuita, del quale sarebbe
utile fare buon uso contrapponendolo alle mille superstizioni e ai
mille pregiudizi, ai dogmatismi, ai fanatismi, agli integralismi,
nell’intento faticoso, (se non c’è impegno non c’è nemmeno gratificazione dei traguardi raggiunti), di affrancarsi, con on po’ di ironia e
intelligenza, dai tam tam mediatici e dogmatici del “pensiero unico”
dominante, uniformante, soffocante e falsamente protettivo, che tutto
vorrebbe sacralizzare – il politico in perfetta simbiosi col divino - ,
così la quadratura del cerchio si compirebbe.
Altre vie vanno visitate, che mettano al centro l’uomo non il profitto, vie autonome, personali ma di confronto, che sono tante, come altrettanti e personali possono essere gli dei.
Molti comunque già le praticano e sono chiamati a ragionare e
giocare in prima persona, senza deleghe o tutele, con l’obbiettivo di
rendere migliore il rapporto con sé stessi e con gli altri, in quel contesto socratico che non pretendendo di insegnare, sapendo di non
sapere, pone però ognuno di fronte a sé stesso e alle sue contraddizioni aiutandolo a crescere, ma anche a dubitare perché la propria
Ragione, che ognuno è pronto a difendere e sostenere, è tuttavia solo
una ragione, non la Ragione.
È l’inizio della fine della fede? Non lo so, né mi cruccio di saperlo,
ma oggi, così a occhio, si tranquillizzino i promotori di fedi, non mi
pare, perché sono dell’avviso che continui a esserci del vero in ciò
che essi sostengono quando affermano che gli uomini, dato che sono
soli e inermi davanti ai misteri dell’infinito e della ineluttabilità della
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loro morte, hanno bisogno, laddove non comprendono, di credere.
Perché si ha ben poco da dire che questa vita è solo un breve passaggio verso un’altra infinitamente migliore e eterna. Allora mi si
spieghi il terrore verso la morte e l’accanimento con cui ci si attacca
e, o si pretende di tenere pervicacemente attaccata a questo mondo la
vita degli altri. Alla vita? Il padre di Eluana Englaro ha pacatamente
affermato: <<Mia figlia aveva un senso del morire come parte del
vivere e non avrebbe accettato di essere una vittima sacrificale di una
concezione sacrale della vita come realtà separata e opposta alla
morte>>. Parole potenti che scivoleranno sui venditori di fedi come
acqua sulla pietra più dura.
Accade pure che laddove a alcuni credenti i messaggi delle loro
fedi arrivano in maniera più debole o distorta, il bisogno di credere di
questi non va scemando, viene semplicemente dirottato altrove, per
cui assistiamo al proliferare di sette o associazioni pseudo religiose e,
o al dilagare di superstizioni talvolta anche combinate alla fede
originale, magari col beneplacito delle gerarchie religiose ufficiali: le
mille rievocazioni di feste laiche o addirittura pagane, contornate da
immancabili benedizioni di religiosi compiacenti. E ancora troviamo
formazioni di sette supportate da santoni, guide illuminate, guru,
maghi, e ciarlatani che facendo leva sugli ancestrali bisogni umani di
sapere cose cui non sarà dato sapere, pervengono ai loro obbiettivi di
governo e controllo sopra le menti di persone confuse o deluse dei
vecchi messaggi, le quali accettano di percorrere suggestivi sentieri
che illudono e consolano.
È doloroso anche per noi “scettici” non credenti, che negli uomini e
nelle loro possibilità di riscatto poniamo le speranze, ed è per questo
che li invitiamo a dubitare delle verità acquisite e a scavare e meditare secondo la citazione propria dei “brillanti”, ovvero (coloro che
risplendono), che peraltro condivido in linea di principio ma non in
assoluto, : << chi pensa non crede, chi crede non pensa>>. Insomma,
pure non potendo avere ognuno il suo Socrate personale a disposizione che lo aiuti nell’arduo compito di vivere, sarebbe utile fare propria
la sua tecnica maieutica per provare a <<far partorire>>”gli spiriti”,
cercando innanzitutto in sé l’interlocutore che aiuta a trovare quelle
151
verità, pure relative, che si sarà poi disposti a difendere, ma anche a
mettere in discussione nel confronto con gli altri.
È probabile che derivi da ciò, cioè dalla coscienza che gli uomini,
pure a fatica, cercano naturalmente di sciogliere le corregge limitanti
le loro libertà, l’agitarsi scomposto dei promotori di fedi, depositari
di dogmi assoluti, che avvertono con apprensione il venire meno delle loro “sacre” autorità ed è per questo motivo che sentono impellente il bisogno di rimettere in scena, novelli Aristofane, una rinnovata
versione di “Le Nuvole” in cui paventano la morte di Zeus e con lui
le grandi leggi democratiche che hanno fatta potente e grande Atene.
La colpa di tutto ciò è di quel maledetto tarlo rompiballe di Socrate
che scava nelle menti degli ateniesi, le scompagina, le “corrompe”
allontanandole dalle loro comode e beate certezze.
Anche qui non c’è una ragione unica e entrambi amano Atene, solo
vedono i problemi sotto prospettive diverse: Aristofane assiste allo
sfacelo della città virtuosa e ne attribuisce, (il suo personaggio), la
colpa al turbatore delle leggi dei padri ora affidate alla gestione degli
attuali rappresentanti del popolo che non più in armonia con i mutati
contesti mostrano le crepe e i difetti che il “turbatore” denuncia.
Socrate, (il suo personaggio), prende realisticamente atto della situazione esistente che è già guastata e prova a indurre i suoi interlocutori, talora in maniera indisponente, a riconoscere i loro limiti, i loro errori e contraddizioni; li esorta a prenderne atto e a elevarsi e lui assieme a loro, non già per raggiungere chissà quali eccelsi e soprannaturali fini, ma semplicemente per far sì che ognuno “conoscendo sé
stesso” possa arrivare a svolgere al meglio il proprio compito.
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Libro 8°
LA PRIMA GUERRA MONDIALE
John Mc Crae
Tutti sanno che la causa, o meglio il pretesto occasionale che scatenò il primo conflitto mondiale fu l’assassinio dell’arciduca Francesco
Ferdinando erede al trono d’Austria-Ungheria e di sua moglie Sofia,
duchessa di Hoenberg, avvenuto a Sarajevo il 28 giugno del 1914.
L’Austria e la Germania attribuirono la responsabilità dell’eccidio al
governo serbo, al quale furono inviate richieste risarcitorie che non
potevano essere accettate.
In questo caso, poiché non fu possibile creare il casus belli, si sfruttò l’omicidio perpetrato dal fanatico, o patriota, nazionalista serbo
Gravilo Princip, la cui mano non fu certo armata dal governo di Belgrado, che rispose all’ultimatum nel modo più conciliante possibile,
non tale però da soddisfare l’Austria, che se non avesse voluto la
guerra avrebbe accettato i sinceri sentimenti di rincrescimento dello
stato serbo.
La prima importante operazione dell’esercito germanico-austriaco,
successiva all’invio di truppe a est a contenere l’offensiva dell’esercito russo, venne indirizzata contro la Francia. Il 16 luglio del 1914
fu presa Liegi, sicché i belgi dovettero ripiegare su Anversa, poi le
operazioni subirono un rallentamento, ma i francesi, tra la fine di
agosto e i primi di settembre dovettero arretrare a tal punto che l’armata tedesca, comandata dal generale Molke, credette ormai di avere
partita vinta. Accadde invece che l’armata fu bloccata sulla Marna e
poi risospinta indietro, salvando così Parigi dall’invasione che ormai
si era temuta imminente.
Poiché la neutralità del Belgio e del Lussemburgo erano state violate, questo fatto indusse la Gran Bretagna a intervenire con la dichiarazione di guerra alla Germania il 4 agosto, seguita il 23 dello stesso
mese anche dal Giappone il quale mirava alle posizioni germaniche
della colonia cinese di Chiao chou. La Germania ottenne però l’alleanza della Turchia, con il risultato che il conflitto andò espandendosi
a macchia d’olio.
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Dopo lo scacco sulla Marna l’esercito germanico intensificò lo
sforzo verso ovest, contrastato da quello avversario che premeva in
senso contrario: l’operazione dei due eserciti rimase famosa in questa
fase come la <<corsa al mare>>, volta a raggiungere, da parte germanica, lo stretto di Calais per avere il controllo sulla Manica.
Fu su questi luoghi che si consumarono le sanguinose battaglie
delle Fiandre, dove poi le operazioni tesero a stabilizzarsi e incancrenirsi con tentativi che videro prevalere ora l’una ora l’altra delle
forze sul fronte, fronte che si sviluppava ormai dalle coste francobelghe fino ai confini della Svizzera.
Fiandra dunque, o Fiandre, Flanders per i francesi, Vlaanderen per
i fiamminghi. Questi i luoghi che fecero da sfondo a vicende tra le
più drammatiche della guerra, dentro le quali troverò lo spazio per
raccontare la storia di un uomo che per motivi di varia natura, che in
seguito saranno palesi, mi ha colpito e attratto in maniera particolare.
Ma prima di procedere mi è parso utile conoscere, pure brevissimamente, questa regione che fu teatro di una contesa tanto feroce.
Era la sua posizione a baluardo del mare del Nord che la rendeva
“strategica” a fare sì che fosse disputata con tanto accanimento. Per il
resto non pareva suscitare particolari grandi appetiti essendo nella
sostanza una lunga fascia di arenili tutta piatta o leggermente
ondulata, protesa sul mare , che si estende dall’estremo nord-est della
Francia, (Artois), alla foce della Schelda, in pratica attraversando
tutto il Belgio rivierasco fino a lambire i Paesi Bassi. Una regione
con un “back ground” storico antico e assai ricco di vicende, sempre
strategicamente importante e per questo teatro di lotte. Occupata da
Caio Giulio Cesare, fu inserita nella provincia Belgica. Di grande
rilevanza fu l’impronta lasciata dal nobile casato di Fiandra che ebbe
origine con Lidericq Harlebecq, incaricato da Carlo Magno, nell’801,
del governo della regione. Ma lungi dal volere fare ora la storia, che
abbracciando un arco temporale assai ampio e altrettanto complesso,
necessiterebbe di conoscenze assai profonde e specifiche, che non
possiedo, spero di essere riuscito a rendere l’idea dei motivi per i
quali questa terra è stata spesso contesa, e assieme a ciò anche l’idea
del fatto che le radici delle sue genti affondano su un solido substrato
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generatore di civiltà salda e antica.; quindi ora ritorno al più ristretto,
seppure complesso, periodo inerente il periodo della prima guerra
mondiale, ma anche successive ad essa.
All’epoca dello scoppio della guerra l’Impero Britannico era vastissimo, comprendendo oltre alle isole britanniche, del quale faceva
parte l’intera Irlanda, l’India, una larga fascia dell’Africa centro
orientale e meridionale, l’Australia; il Canada, la Nuova Zelanda e la
Malesia: i cosiddetti paesi del Commonwealth. Fu per l’appunto, assieme al contingente di soldati canadesi arrivati nel 1915 in Belgio,
che giunse anche l’ufficiale medico, col grado di maggiore, John Mc
Crae, il personaggio della nostra storia.
A quella data il Canada era ancora in buona misura vincolato alla
corona britannica e la sua autonomia, quasi, completa fu raggiunta
dopo le conferenze imperiali del 1926 e del 1930, i cui risultati vennero fissati dallo Statuto di Westmister del 1931 nel quale al Canada
non furono più riconosciuti vincoli limitanti la sua sovranità, salvo,
qui sta il quasi, se fosse entrata in gioco la conservazione dell’integrità del Commonwealth. Poi, anche questo “quasi” venne tolto il 17
aprile del 1982 e il Canada diventò del tutto indipendente e sovrano.
Nella prima guerra mondiale furono circa 600.000 i canadesi, su
una popolazione che allora contava otto milioni di abitanti, la maggior parte volontari, che presero le armi rivelandosi ottimi soldati
d’assalto e in particolare si distinsero a Ypres, Vimy e Courcellette.
John Mc Crae fu spedito su quello che divenne poi uno dei fronti più
caldi della guerra, vale a dire le Fiandre e precisamente in un avamposto di primo soccorso a Ypres, in fiammingo Ieper, antica e storica
cittadina della Fiandra occidentale, sul fiume Yperlée, la quale ebbe
a patire – ma accadde un po’ a tutte le località vicine – gravissimi
danneggiamenti sia alle abitazioni civili, con quello che ne conseguì
alle popolazioni, sia ai suoi più importanti edifici e monumenti storici, poi restaurati o ricostruiti. Fra i maggiori la chiesa di Saint Martin
quasi totalmente distrutta e poi ricostruita esattamente secondo i
progetti originali; la chiesa di Saint Pierre, in parte rifatta, essendo
rimasta integra soltanto la grande torre gotica e il portale del 12°
secolo. Anche gli edifici dei grandi Mercati storici, ai lati della Grand
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Place furono poi quasi interamente ricostruiti: questo per dire della
furia e dell’intensità dei bombardamenti e dei danni provocati su quel
fronte e infatti le battaglie di Ypres combattute dal 1914 all’autunno
del 1918 restarono un ricordo vivo e indelebile nelle menti e nei cuori delle genti del nord-est della Francia e del Belgio.
Nell’ottobre del 1914 le truppe inglesi riuscirono a sloggiare quelle
germaniche da Ypres. Avevano attuato tale manovra con lo scopo di
creare un fronte a difesa del porto di Calais dal quale potevano
arrivare i rifornimenti. Il fronte fu sistematicamente preso d’assalto
fino a quando parendo ai germanici di averlo fiaccato, diventò oggetto, nell’aprile del 1915, di un massiccio contrattacco durante il
quale le forze dell’invasione usarono per la prima volta l’iprite, il tristemente famoso aggressivo chimico vescicante e fu proprio a causa
del suo impiego su Ypres che quella sostanza, che non era ancora
stata battezzata, prese il nome della città belga che ne era diventata la
prima vittima e ne aveva sperimentati gli effetti devastanti sopra la
sua gente.
Ma pure subendo ingenti perdite il fronte franco-belga resse. I
bombardamenti tuttavia si susseguirono intensi, pure con qualche tregua, fino a che, dal giugno al settembre del 1917, gli inglesi, comandati dal generale Haig, condussero a loro volta un’offensiva che sortì
l’esito di far arretrare le postazioni germaniche. Ma non era finita e
infatti nell’aprile del 1918 i germanici ritentarono una nuova controffensiva, che però non produsse l’esito sperato e l’accanimento su entrambi i fronti rimase intensissimo fino al 27 settembre quando la
regione di Ypres venne liberata definitivamente dagli alleati.
Nell’elencare i fatti in questo scarno sunto, dove ho accennato solo
per sommi capi agli episodi essenziali, tralasciando anche particolari
rilevanti, mi auguro con ciò di non avere sminuito o banalizzato in
qualche modo la l’intensità e la drammaticità degli eventi, che non
serviva enfatizzare, anche se nessuno di quanti come noi che li descrive, non avendoli vissuti, saprebbe o potrebbe raccontarli in tutta
la loro tragica crudezza.
Ma torniamo al nostro personaggio del quale, anticipo fin da subito, ho voluto raccontare in particolare a motivo di una sua famosa
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poesia che diventò il motore di un grande evento nazionale, ancora
oggi vivissimo; ma va anche detto, affinché non si pensi che con ciò
ne intenda limitare la figura, che costui non fu in modo precipuo
poeta, ma fu scrittore, illustratore, divulgatore scientifico, esploratore, soldato e eccellente medico chirurgo, anzi questa ultima fu la sua
vera professione.
Molto poco, per non dire quasi nulla, si sa invece dei suoi rapporti
con l’altro sesso, ma forse furono proprio i mille interessi di una vita
intensa e frenetica a rubargli il tempo dell’amore per una donna.
John Mc Crae nacque nel 1872 a Guelph , una attiva cittadina canadese sul fiume Speld, a circa una sessantina di chilometri a ovest di
Toronto, fondata nel 1827 da John Irvine Ayrshire Galt, scrittore e
viaggiatore scozzese, amico di Byron. A tutt’oggi, per la sua vita avventurosa, gli interessi poliedrici che lo fecero eccellere in varie discipline, lo spirito curioso e inquieto e la mente pronta e brillante,
John Mc Crae resta uno dei figli più cari e illustri non solo di questa
piccola città dell’Ontario, che oggi conta circa 75.000 abitanti, ma di
tutto il Canada.
I suoi nonni, che venivano dalla Scozia, arrivarono in Canada nel
1849 e si stabilirono nella città fondata ventidue anni prima dal loro
conterraneo Galt, il quale ebbe poi, sempre nell’Ontario, il privilegio di avere una città battezzata col suo nome.
John, secondo di due figli, frequentò le scuole elementari a Guelph
e successivamente entrò nell’istituto colleggiato della sua città. Quasi
contemporaneamente entrò anche nel corpo dei cadetti dove, a quindici anni, divenne trombettiere – apprese quindi anche nozioni musicali – del reggimento della milizia locale comandata da suo padre
David. Il nome di sua madre era invece Janet Eckford.
A sedici anni John ricevette un premio dall’università di Toronto,
una sorta di borsa di studio per il profitto con cui portava avanti gli
studi liceali superiori. Tra gli anni 1892 e il successivo frequentò
l’università di Toronto, ma dovette interrompere gli studi per un anno
a causa dell’insorgere di un problema di asma, che non gli impedì
tuttavia, durante quell’anno, di impartire lezioni di inglese e matematica alla scuola di Agricoltura dell’Ontario in Guelph. Si iscrisse poi
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alla facoltà di medicina di Toronto e poco dopo entrò come assistente
al Garret Hospital specializzato nelle cure dei bambini convalescenti.
Pure frequentando l’università, mantenne i legami con la seconda
batteria militare di Guelph dove fu inserito nel reggimento della milizia, nella quale ottenne delle rapide promozioni. Dalla milizia della
sua città passò poi a quella di Toronto, dove con il grado di capitano
ottenne il comando di una compagnia.
Fu in quegli anni, trascorsi fra reggimento e università, che John
Mc Crae pubblicò i suoi primi poemi ma, come in precedenza dicemmo, egli non fu solamente o tanto, poeta, ma anche autore di diversi
racconti in prosa.
Dopo la laurea in medicina e le prime esperienze professionali, si
fece notare come divulgatore di articoli scientifici e, con il maturare
dell’esperienza medica, pubblicò libri di testo di medicina. Si dilettava inoltre, con successo, nel disegno e sono diversi i quadretti di
paesaggi, schizzi, abbozzi, scenette, skeches di vita quotidiana che
ancora conservati restano di lui. Dopo la laurea in medicina, ottenuta
col massimo dei voti, nel 1899 ebbe un premio dalla facoltà di patologia dell’ospedale Mc Gill, dell’università di Montreal che gli offrì
immediatamente un posto, ma egli chiese un rinvio perché nel frattempo si era offerto volontario nella guerra Boera, 1899 – 1902, e
infatti nel 1900 partì per il Sudafrica con la Royal Canadian Artillery. L’anno successivo rientrò in Canada, per avvicendamento del
suo contingente il quale aveva partecipato a diverse delle maggiori
campagne africane. L’attendeva l’incarico al Mc Gill Hospital, dove
rimase fino al 1905 e dove nel frattempo era stato nominato professore speciale in patologia all’università del Vermont, stato confinante
degli Stati Uniti d’America, incarico che tenne fino al 1911. Nonostante i vari incarichi rimaneva associato anche al Royal Victoria
Hospital di Motreal e tenne lezioni di patologia e medicina alla Mc
Gill University; prestava inoltre la sua opera al General Hospital e al
Royal Alexandra Hospital, per malattie infettive, di Montreal.
Il Canada era uno stato giovane, enorme e in gran parte ancora sconosciuto e pieno di potenzialità, per questo nel 1910 il governatore
generale per il Canada lord Grey organizzò per conto della corona
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una spedizione su canoe, che partendo dal lago Winnipeg si era prefissata l’obbiettivo di raggiungere la baia di Hudson, seguendo, si
presume, il fiume Nelson, nella provincia del Manitoba, territori e
acque ancora poco conosciuti e esplorati data la vastità dell’enorme
paese. Mc Crae, dato il carattere smanioso di nuove esperienze, e che
quindi mal sopportava di restare a lungo nello stesso luogo, chiese e
ottenne l’incarico di accompagnatore medico della spedizione, che fu
coronata dal successo, perché le informazioni, la raccolta dei dati
geografici e relative cartografie, permisero al governo, canadese e
britannico, di acquisire nuove conoscenze relative alle potenzialità
del paese. A tale proposito aprirò ora un inciso per dire che
probabilmente Mc Crae non conosceva, a differenza dei capi della
spedizione, proprio tutti i motivi che avevano indotto il governo a
finanziarla; motivi che andavano ben al di là degli aspetti, pure
importanti, come quelli relativi a una maggiore e più precisa conoscienza geografica del paese, ai dati sulla flora e la fauna, nonché alle
notizie relative alle popolazioni di nativi che vivevano in quelle terre.
C’erano infatti degli altri motivi, di carattere politico, che preoccupavano il governo. A quella spedizione ne sarebbero seguite delle altre
che spingendosi oltre la baia di Hudson avrebbero raggiunto gli
estremi territori del nord, compreso il vasto arcipelago di isole situato
tra la terraferma e la Groenlandia, inclusa, ovviamente, la grande
isola di Baffin, la terra dove vivevano gli “uomini” nelle case di
ghiaccio, quegli inuit che in modo un po’ altero chiamavano gli
uomini bianchi “quallunaaq”, un modo per dire che erano gente da
poco, e ancora non immaginavano che da quelle loro terre, nelle
quali vivevano da tempi remoti, presto sarebbero stati scacciati proprio dai quallunaaq.
Trasferiti dicevano quelli del governo di Ottawa, in quanto al loro
posto si sarebbero dovuti insediare dei presidi militari canadesi perché il governo temeva, forse con qualche ragione, che sia la Russia
che gli Stati Uniti d’America volessero rivendicare zone del Canada
artico. Così gli inuit (uomini) furono “spostati” nei territori continentali, dove le zone di caccia e di pesca erano più povere e furono
costretti a vivere nelle case di legno e di lamiera. Per tutti loro fu un
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terribile shock e molti diventarono abulici, o alcolisti, o impazzirono.
In seguito, all’inizio degli anni ’20, arrivarono i cacciatori bianchi,
i trapper, con i fucili e fecero stragi di foche e caribù.
Poi, dopo decenni di alienazione e disorientamento mentale dovuto
alla perdita di identità e allo stato di quasi cattività in cui erano stati
costretti, gli inuit, lentamente, cominciarono a riappropriarsi del loro
antico orgoglio a lungo e forzatamente sopito; si organizzarono e rivendicarono la proprietà dei loro territori che indebitamente gli erano
stati sottratti. Fu una lotta intensa, tenace e lunga, tra manifestazioni
di protesta e cause di risarcimento; una lotta che alla fine pagò,
perché il governo di Ottawa dovette riconoscere le loro ragioni e pertanto ora, dal 1999, gli inuit hanno riottenuto il loro stato, il Nunavut,
che nella loro lingua vuole dire <<nostra terra>>.
Una volta tanto ci si può rallegrare per una storia vera a lieto fine
dove un governo, finalmente ravveduto, di un grande paese del continente americano ha riconosciuto, sia pure in ritardo e ponendo fine a
una serie di ingiustizie, gli ancestrali diritti di un popolo di nativi
prima che questi rischiassero la definitiva scomparsa.
Sorte decisamente peggiore toccò invece ai nativi “indiani pellerossa” del Canada.
La storia della tragedia subita da costoro si è consumata nel silenzio quasi totale. Solo recentissimamente è stata raccontata e riportata
anche in un film documentario a basso costo grazie al coraggio del
regista holliwoodiano Louie Lawless, residente a Vancouver Island,
la stessa isola del sud-ovest canadese in cui, guarda la combinazione,
vive (nel romanzo) uno dei protagonisti, Leon Anawak, di origine
esquimese, del libro - romanzo di fantasia legato comunque alle vicende di questi territori – di Frank Schlatzing dal titolo “Il quinto
giorno”, prima edizione italiana TEADUE, aprile 2007, che in un suo
capitolo riprende le stesse tematiche relative agli inuit esposte sopra.
Tornando a Loue Lawless, e al suo libro che egli racconta di averlo scritto in collaborazione con lo scrittore canadese Kevin Annett,
un ex reverendo protestante cacciato dalla United Churc per essersi
strenuamente battuto per la causa degli indiani nativi del Canada.
Il documentario il cui titolo è “Hidden from History: the Canadian
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Holocaust” – Nascosto dalla Storia: l’Olocausto Canadese, è uscito
nel 2006. Il film documentario racconta la serie di agghiaccianti abusi fatti subire ai nativi canadesi, episodi consumati nel silenzio assoluto dei media che hanno tenuto nascosto all’opinione pubblica nazionale e mondiale quanto stava avvenendo. Tutto ciò è accaduto
fino in epoca abbastanza recente, vale a dire anche dopo la seconda
metà del secolo passato.
I giovani in età scolare vennero forzatamente sottratti alle loro famiglie e rinchiusi in 132 scuole, dette <<scuole residenziali>>, gestite da suore e sacerdoti cattolici. Qui furono costretti a parlare solo in
inglese, a dimenticare la loro lingua, i loro costumi, la loro cultura, le
loro tradizioni, le loro credenze e a professare la religione cristiana
cattolica. Al fine di raggiungere tali obbiettivi ogni mezzo fu ritenuto
idoneo e non si contarono gli episodi di crudeltà fisica e mentale, che
andavano dalle percosse alle violenze sessuali; dalla sterilizzazione
forzata agli elettroshock, trattamenti talmente obbrobriosi da causare
sovente la morte di questi bambini e giovani.
Questo tipo di “scuole”, chiuse solamente nei primi anni ’90 del secolo scorso, rimarranno un abominevole marchio di vergogna per il
governo e per la chiesa cattolica, tanto più che entrambi non avevano
mai voluto ammettere i fatti.
Solamente nella West Coast canadese vivevano circa due milioni di
nativi, che vennero quasi completamente eliminati: si è calcolato che
se ne salvarono non più del 5%. Solamente nel maggio del 2007 il
primo ministro canadese Stephen Harper, promise che al successivo
11 giugno, giorno di chiusura parlamentare, avrebbe fatto un discorso
di scuse ufficiali ai sopravvissuti scampati alle barbarie, un numero
intorno ai 64.000, ai quali è stato promesso sarebbe stata corrisposta
una cifra risarcitoria. Il governo tuttavia (e si comprende benissimo il
perché) pare intenzionato ad alzare su tutta la vicenda il minor
clamore possibile; pare inoltre abbia operato affinché nessuna inchiesta ufficiale venga aperta ai fini di accertare le responsabilità dei
fatti: nulla infatti vieta di pensare che un certo numero di responsabili
siano ancore ben vivi e vegeti e occupino tuttora cariche di potere e
di prestigio pubbliche o private.
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Nel febbraio dell’anno 2008 Kevin Hannet spedì al papa Benedetto
16° una lettera chiedendo di essere aiutato a identificare i luoghi di
sepoltura di migliaia di bambini nativi canadesi morti durante la loro
permanenza nelle scuole cattoliche il cui nome <<scuole residenziali>>, davvero accattivante, sembra essere stato scelto apposta per non
ingenerare riserve ma fiducia. La sua lettera non ha avuto risposta.
Ora non mi resta che scusarmi con i lettori per questa divagazione,
che non sarà nemmeno l’ultima, ma non mi sentivo di ignorarla e
torno immediatamente al dottor John Mc Crae i cui ritratti fotografici
ci consegnano l’immagine di un bell’ uomo dalla fisionomia tipicamente anglosassone: capelli lisci castano chiaro, fronte spaziosa,
naso e bocca regolari, sguardo penetrante, volto ovale un poco allungato e marcato da una fossetta sul mento; fisico asciutto, slanciato e
atletico di persona usa alle attività vigorose e a esperienze dinamiche,
che avevano anche contribuito a formargli quel carattere ambizioso,
energico e smanioso di sempre rinnovate esperienze, poco incline
quindi sia alla vita sedentaria quanto all’idea di dover restare a lungo
nello stesso luogo. Peraltro questa irrequietezza si sarebbe potuta interpretare come un tarlo che lo spingeva a cercare un qualcosa di
inafferrabile, caratteristica tipica delle persone ipersensibili, o geniali, o che comunque si staccano dal comune, ma non mi addentrerò
ora più in fondo nella psicoanalisi, una materia per me oscura.
Quando iniziò la prima guerra mondiale Mc Crae fu uno dei primi
volontari a offrire il suo servizio. Gli venne offerta una posizione nel
contingente medico aggregato alla prima brigata di artiglieria da
campagna canadese, comandata dal generale di brigata, e suo amico,
E.W.B. Morrison. Nella primavera del 1915 John, col grado di maggiore ricevette l’incarico di responsabile di un ospedale da campo al
fronte dove venivano curati i feriti immediati e in particolare, proprio
in quel tempo, quelli della seconda battaglia di Ypres, ma occasionalmente, vista la cronica carenza di personale ausiliario, era chiamato
anche a svolgere qualche servizio di sepoltura. Fu in seguito a una di
queste tristi incombenze, dove dovette dare l’addio all’amico Alexis
Halmer, che Mc Crae ebbe l’ispirazione di scrivere “In Flanders
Fields”, brano poetico che resta ancora oggi uno dei più intensi brevi
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poemi di guerra scritti da un uomo che visse quegli eventi in prima
persona, brano scaturito di getto in seguito alla pena e al dolore provato alla vista di tantissimi giovani uomini mandati assurdamente a
morire in quella follia che era la guerra.
Nonostante che nella sua vita di medico civile in Canada e poi militare nella guerra Boera in Sudafrica fosse sempre vissuto fra le
sofferenze della gente, non avrebbe mai lontanamente immaginato
fino a dove queste sarebbero potute arrivare prima della sua esperienza dei diciassette terribili giorni della seconda battaglia di Ypres,
dove vide passare per il suo ospedale feriti britannici, canadesi,
indiani, francesi e anche germanici, non solo mutilati e dilaniati dalle
cosiddette “armi convenzionali”, ma anche devastati dall’azione
dell’iprite. Giorni che per lui furono un travaglio impossibile da dimenticare e quando, più tardi, ebbe modo di ricordare i fatti, scrisse
di non essere stato capace di dare forma sulla carta alle dolorose
sensazioni provate in quei giorni, aggiungendo poi che se qualcuno,
alla fine del primo giorno della battaglia, gli avesse prospettato che
quell’orrore sarebbe continuato per diciassette giorni, gli avrebbe
risposto che ciò non sarebbe stato assolutamente possibile.
Per quanto un medico debba, nel limite del possibile, non farsi
coinvolgere emotivamente dalle sofferenze dei singoli pazienti, una
morte lo toccò con maggiore e particolare intensità: quella, come
dicemmo, del tenente Alxis Halmer, un giovane amico di Ottawa, ex
universitario che aveva lasciato gli studi per arruolarsi volontario,
colpito e dilaniato dallo scoppio di una granata il 2 maggio del 1915.
Lo stesso giorno della sua morte il tenente Halmer fu seppellito nel
piccolo cimitero poco lontano dall’ospedale da campo e Mc Crae
ebbe l’incombenza della cerimonia funebre perché quel giorno mancava il cappellano militare, forse impegnato in altre cerimonie uguali.
Il giorno seguente John Mc Crae stava seduto meditabondo al di
fuori, sul retro nel parcheggio delle ambulanze, dove sorgeva l’ospedale presso il canale dell’Yser, alla periferia nord della martoriata cittadina di Ypres. Era visibilmente affranto e diede sfogo a tutta la sua
dolorosa angustia componendo di getto un breve poema, o una poesia
come diremmo noi. Dal punto dove si trovava John poteva vedere il
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cimitero e i papaveri selvatici che irriverenti e incuranti della follia
umana stavano schiudendosi nei campi, ai bordi dei canali e nel cimitero stesso, perché quella era la loro stagione e il loro momento di allargare i petali al sole e sbocciare in quella parte d’Europa e niente,
nemmeno la guerra avrebbe potuto interrompere il loro ciclo vitale.
Mc Crae spese meno di una mezzora del suo tempo prezioso scarabocchiando su un taccuino una quindicina di righe in versi. Il sergente maggiore Cyril Allison, di 22 anni, che in quel momento stava
distribuendo la posta ai soldati al fronte si avvicinò al maggiore per
consegnargli la sua. Il maggiore volse lo sguardo distratto alla volta
di Allison che si avvicinava, poi riabbassò il viso sul suo libriccino e
continuò lentamente a scrivere, mentre il sergente maggiore gli stette
vicino, in silenzio, tranquillo. Tempo dopo, ritornando a quei momenti, Allison ricordò come dal volto del maggiore trasparissero una
angoscia e una stanchezza infinite mentre assorto stava scrivendo, e
aggiunse: “egli si guardava intorno di tanto in tanto e i suoi occhi
finivano sempre per posarsi sulla tomba dell’amico Helmer”. Poi, alcuni minuti più tardi, Mc Crae prese la posta che il sergente gli porgeva e senza dire una parola allungò il suo blocco notes al giovane
sott’ufficiale, il quale, dopo aver letto quelle righe fu preso da una
immensa commozione che serrandogli la gola gli impedì ogni parola.
La poesia, disse, era l’esatta descrizione della scena che stava loro
dinanzi: Mc Crae aveva usato le parole scaturite dalla visione dei
papaveri che stavano sbocciando in quella mattinata primaverile accarezzata da un gentile e frizzante vento che veniva dall’est a rammentare, in contrasto a quell’orrore, una stagione che si apriva alla
vita. “Pensai, ricordò il sergente maggiore, che quel poema avrebbe
meritato di essere pubblicato, non per la fedele descrizione dello
scenario, ma perché con parole semplici toccava nel profondo sentimenti che in quel luogo e in quei momenti parevano andati perduti”.
Il breve poema fu quasi sul punto di essere pubblicato ma poi, per
qualche oscura ragione, non se ne fece nulla. Il maggiore, che in cuor
suo ci aveva sperato, ne rimase deluso e preso il foglio ne fece un
grumo e lo gettò via, ma un amico ufficiale lo raccolse e lo spedì al
giornale The Spectator di Londra, che lo respinse; allora provò con il
164
Punch, che lo pubblicò il giorno otto dicembre del 1915.
Già dall’estate dello stesso anno, intanto, Mc Crae era stato trasferito dal fronte belga a quello francese, secondo in comando degli
ufficiali medici al numero tre dei Canadian General Hospital e accadde che durante il periodo della sua permanenza l’ospedale ricevette la
visita della regina Mary, (Vittoria Maria). Ma John, che forse nel
frattempo si era incupito e fatto più scontroso, disse chiaramente e
senza preamboli che non amava quel tipo di visite ufficiali e propagandistiche che rubavano tempo e lavoro all’ospedale.
Passò del tempo e Mc Crae ricevette la promozione a colonnello.
Passò ancora del tempo durante il quale il compito di tutto il personale medico non conobbe che rari periodi di sosta. Un giorno, uno di
quelli in cui al fronte più forte infuriava lo scontro che avrebbe deciso i momenti topici per la sorte dell’intero conflitto, John, che come
al solito era impegnato a svolgere con solerzia il suo consueto compito all’ospedale, venne colpito da una forma fulminante di polmonite. La patologia presentò subito una serie di gravi complicazioni e,
nonostante gli sforzi profusi dai colleghi per salvargli la vita, quattro
giorni dopo egli morì.
Era il 28 gennaio del 1918 e il colonnello John Mc Crae fu sepolto
con tutti gli onori militari in Francia, nel cimitero di Wimeraux.
Fu poi, proprio ispirandosi alla figura di questo ufficiale medico, il
colonnello Jhon Mc Crae e alla poesia da lui scritta, che cominciò a
essere celebrato nel Regno Unito il “Poppy Day”, il Giorno dei Papaveri, in ricordo dei caduti e a sostegno degli ex combattenti mutilati e invalidi della prima guerra mondiale. Il primo Poppy Day si
tenne in Gran Bretagna l’11 novembre del 1921 e da allora questo
giorno è sempre stato uno degli eventi più importanti dell’anno sul
calendario nazionale.
Alcune delle più sanguinose battaglie della prima guerra mondiale
ebbero come teatro le Fiandre, la regione della Picardia del Belgio e
del settentrione della Francia e in quelle zone così tormentate i papaveri erano la sola cosa che riusciva a crescere rigogliosa in quel tempo di totale devastazione. Ora tornava la pace ma purtroppo, lo si sarebbe visto poco dopo, non ancora la saggezza, e nell’undicesima
165
ora, dell’undicesimo giorno, dell’undicesimo mese dell’anno 1918 la
prima guerra mondiale finiva. In realtà l’Armistizio era stato firmato
alle sei del mattino, ma poi visto che il giorno e il mese facevano11,
si volle adeguare anche l’ora allo stesso numero.
Una signora americana, Moina Michael, che era stata segretaria di
guerra, un giorno leggendo il breve poema The Flanders Poppy,
rimase impressionata e ispirata dalla forza che emanava il testo e
pensò che sarebbe stato importante non cancellare il ricordo, o come
diceva la poesia, not to “break faith”, non rompere il patto di fede
con coloro che erano morti per difendere il loro paese da un nemico
invasore. Moina cominciò così a spedire papaveri agli amici e ai
conoscenti per raccogliere fondi per aiutare gli ex combattenti e così
la tradizione ebbe avvio.
Nel 1922 il maggiore George Howson, giovane ufficiale di fanteria, diede vita alla Società dei disabili per cause di guerra e allo scopo di aiutare concretamente coloro che avevano subito dei danni e
mutilazioni nella guerra del 1914 – 1918, avviò la Poppy Factory, la
quale impiegando ex combattenti disabili, cominciò la produzione di
papaveri di carta e corone, che poi venivano vendute in occasione del
Poppy Day, che cade l’undici novembre, anniversario della fine della
guerra. Ogni anno la Poppy Factory di Richmond upon Thames, nel
Surry, contea giusto a sud ovest di Londra, di fatto già da molto
inglobata nella grande città, ha prodotto, abbiamo il dato del 2005,
32 milioni di papaveri di carta e 80.000 corone, pure di carta.
Anche in Scozia esiste una Poppy Factory, di dimensioni più modeste, ma sempre sorretta dallo stesso spirito della prima. Sorta nel
1926 in Edimburgh’s Cannongate, per merito di lady Haig, moglie di
un fild marshal dell’esercito britannico. Questa factory ha prodotto,
sempre nel 2005, 4 milioni di papaveri e 7.000 corone, tutti usciti
dalle mani di ex combattenti.
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John Mc Crae: In Flanders Fields
In Flanders fields the poppy blow
Between the crosses, row on row
That mark our place; and in the sky
The larks, still bravely singing, fly
Scarce heard amid the guns below.
We are the Dead. Short days ago
We lived, felt, dawn, saw sunset glow,
Loved and were loved, and now we lie
In flanders fields.
Take up our quarrel with the foe:
To you from failing hands we throw
The torch; be yours to old it high.
If ye break faith with us who die
We shall not sleep, though poppis grow
In Flander fields.
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John Mc Crae: Nei Campi delle Fiandre
Nei campi delle Fiandre i papaveri sbocciano
Fra le croci, fila a fila
Per segnare il nostro posto; e nel cielo
Le allodole, coraggiosamente cantano, volano
Quasi non udite in mezzo agli spari dei fucili disotto.
Noi siamo i Morti. Da pochi giorni
Eravamo vivi, sentivamo l’alba, vedevamo tramonti ardenti,
Amavamo e eravamo amati, e ora giacciamo
Nei campi delle Fiandre.
Riprendete la nostra lotta con il nemico:
A voi, dalle cadenti nostre mani gettiamo
La fiaccola; sia vostra da tenere alta.
Se romperete il patto di fede con noi che siamo morti
Non potremo dormire, anche se i papaveri fioriscono
Nei campi delle Fiandre.
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Nel poema suona chiara la richiesta dei soldati che sono morti, fatta ai commilitoni rimasti in vita, di…”proseguire la nostra lotta” , e
… prendere la torcia…da”tenere alta”, e ancora…”non rompere il
patto di fede con noi che siamo morti”.
Si comprende come in quei momenti, in cui il conflitto mostrava in
modo più crudo tutta la sua ferocia, tanto i combattenti quanto molte
delle persone che avevano i loro cari , gli amici e i compaesani al
fronte avessero potuto leggere il brano come favorevole alla guerra;
ma questo non lo era affatto e infatti dopo, a guerra finita, fu letto
esattamente in modo contrario.
Mc Crae, che al culmine della tragedia aveva visto i suoi compagni e amici morire in difesa delle città e dei territori che erano stati
invasi, nello stato d’animo che questi fatti avevano indotto non poteva non immaginare la “richiesta” di quanti avevano perso la vita che
come una esortazione a quelli che restavano a prendere dai primi il
testimone e portare avanti la lotta affinché il loro sacrificio non fosse
stato vano.
Non, quindi, una richiesta di vendetta, tanto meno una esaltazione
della guerra.
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Libro 9°
SULLA BIBLIOTECA E LE SCIENZE - IPAZIA.
Siccome i secoli con il trascorrere annebbiano i ricordi, possono
anche non sembrare inquietanti né fuori luogo certe rivendicazioni di
credito fatte da coloro che, invece, sono stati per lungo tempo
debitori e intendiamoci, ognuno per le proprie origini o provenienze
in varia misura lo è stato. E proprio volendo ricordare le radici sia
greche che cristiane dell’Europa, non dovremmo nemmeno scordare i
reiterati tentativi compiuti a suo tempo per reciderle queste radici e
non è un caso che fra i maggiori responsabili di ciò si trovino molti
dei predecessori di coloro che oggi, impuniti e in veste virginea, le
rivendicano e le esaltano, assolutamente dimentichi del passato, ma a
tale proposito possiamo benissimo fare qualche esempio rivangatore.
Siamo nell’anno 391, mille anni esatti prima del “dialogo” di Manuele 2° Paleologo con il persiano, la più grande e ricca biblioteca
del mondo antico, quella di Alessandria d’Egitto, contenente 700.000
volumi o rotoli di pergamena e di papiro, viene distrutta e incendiata
per ordine del vescovo patriarca della città Teofilo, (lo zio di quel
Cirillo, santo, che fra poco rincontreremo a causa di un altro “nobile
e santo” gesto), in ottemperanza all’editto dell’imperatore Teodosio,
ispirato, fra gli altri, da Ambrogio da Milano o da Treviri, che impose la distruzione di tutti i templi pagani dell’Impero.
Nell’editto non erano contemplate le biblioteche, ma allo zelante
vescovo alessandrino quel ricettacolo di scritture pagane non poteva
rappresentare che una naturale interpretazione ampia di intendere
l’editto; e questa non fu certo la sola biblioteca a bruciare, assieme ai
templi pagani e ai molti sacerdoti di questi ivi forzatamente rinchiusi
durante i roghi. Martiri della fede anche costoro, oppure cosa?
Inutile dire del patrimonio inestimabile che con la distruzione della
biblioteca, per colpa del fanatismo religioso, l’umanità perdette a
partire da tutto il bagaglio delle conoscenze delle civiltà degli antichi
imperi quali, ad esempio, quello egiziano di cui conosciamo le scritture scolpite o dipinte sui suoi monumenti rimasti, ma ignoriamo
praticamente tutte le trascrizioni dei papiri e delle pergamene che
170
certamente erano custodite in quel raccoglitore del sapere che era la
biblioteca. Lo stesso dicasi delle conoscenze delle antiche civiltà che
nacquero e si svilupparono lontano dalle rive del Mediterraneo, delle
quali ci è stata sottratta una più completa conoscenza, ma anche, può
sembrare retorico, di quelle civiltà più note come la greca e la romana, benché di queste le copie di trascrizioni delle opere letterarie e
scientifiche siano state talmente numerose da superare, se fortunate,
ora integre, ora mutile tutti gli ostacoli frapposti dallo scorrere problematico della storia.
Nell’anno 323 A. C., nel corso della sua grandiosa spedizione asiatica, moriva Alessandro il Grande senza lasciare eredi. I suoi generali
di rango più elevato si divisero l’impero: a uno di questi, Tolomeo 1°
Sotere, 366/67 – 283 A. C., toccò la nomina di satrapo dell’Egitto.
Presto però egli si sbarazzò del legittimo sovrano, Cleomene, prendendo il potere non solo in Egitto, ma anche in Libia e a Cirene. Fu
un importante energico sovrano, capostipite di quella dinastia dei Tolomei che si protrasse fino a Cleopatra. Fondò la città di Tolemaide,
che diventò il centro dell’ellenismo dell’alto Egitto. Istituì il culto di
Serapide e di Alessandro, le cui spoglie Tolomeo aveva trasportate,
forse illegalmente sottratte, da Babilonia e fatte seppellire in un mausoleo a Menfi e non, come alcuni ipotizzarono, nella biblioteca di
Alessandria, anche se poi ad Alessandria da Tolomeo furono traslate.
Certo è che nella città fondata da Alessandro, nel 331 a. C., Tolomeo
eresse la grande biblioteca e anche il museo, anch’esso poi distrutto
dal patriarca Teofilo perché le opere che conteneva furono giudicate
pagane (non si comprende cos’altro potessero essere).
Tolomeo, benché usurpatore, fu quindi un sovrano dinamico e avveduto cui andò il merito di rilanciare il prestigio perduto dell’antico
Egitto, sia allargando i confini del regno con una serie di spedizioni
militari quasi sempre vittoriose, sia promuovendo le scienze e proteggendo le arti. Egli stesso, attingendo dai suoi ricordi personali, ma
anche dai documenti della cancelleria reale, scrisse poi la storia delle
spedizioni di Alessandro
L’inventario della biblioteca e del museo, fondati da Tolomeo e alimentati oltre che da lui e dai suoi discendenti, nella prima fase, an-
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che dai romani dopo che questi conquistarono l’Egitto, divenne monumentale se si pensa che fu continuamente arricchito per quasi sette
secoli da manoscritti e trascrizioni scientifiche e letterarie e dai più
svariati tipi di opere d’arte provenienti da tutto il mondo allora conosciuto, sicché il museo diventò uno dei maggiori centri dell’arte e la
biblioteca il più grande centro del sapere umanistico, letterario e
scientifico mai prima esistito al mondo.
Tutto durò fino al 391d.C., anno in cui l’imperatore d’Oriente
Teodosio, su sollecitazione dei celebrati padri, maestri e dottori della
chiesa, ossessionati dal livore antipagano e ottenebrati dalla cieca
faziosità religiosa, decise che tutto ciò che non era da riferirsi al
cristianesimo era da considerarsi pagano e quindi meritevole di essere distrutto. La biblioteca e il museo, chiamati “sedi delle muse” erano diventati gli autentici scrigni del sapere, dove gli eruditi, i “ricercatori” e anche i semplici cittadini erano liberi di consultare, tradurre,
esaminare, confrontare e naturalmente aggiungere il contributo delle
proprie opere.
Nel primo secolo dalla nostra era Plinio il Vecchio vi fece pervenire la sua “Storia Naturale”, considerata la prima enciclopedia mondiale. Tra le prime opere, che arricchirono la biblioteca, direttamente
fornite dall’autore ci furono quelle di Callimaco, 310 circa A. C. –
235 circa, grande poeta, famoso per i suoi carmi giambici e per gli
inni religiosi, che trascorse quasi l’intera vita a Alessandria lavorando nella biblioteca che era in pratica diventata la sua casa. Fu autore
fecondissimo con i suoi circa ottocento libri di critica, poesia, erudizione e cultura come quelli detti Pinakes, (quadri), che sono stati
considerati la prima enciclopedia della cultura greca. Se una parte
delle sue opere ci sono giunte lo dobbiamo al fatto che furono spesso
copiate e tradotte da letterati latini, uno dei maggiori, Catullo.
Nemmeno sugli etruschi oggi sappiamo poi molto e le nostre conoscenze si basano principalmente sulle scoperte, anche recenti, delle
loro tombe. L’imperatore Claudio aveva scritto una importante opera
su di loro, essendosi dedicato per tutta la vita, oltre che allo studio
del greco, alle ricerche sulla civiltà etrusca, che lo affascinava: su
questa materia era diventato una vera autorità, ma conosceva a fondo
172
anche la civiltà fenicia ; ciò grazie alla sua passione di raccoglitore,
catalogatore, studioso e quindi divulgatore della vita, delle usanze,
delle religioni, dell’arte e della cultura di questi popoli, in particolare,
come ho detto, degli etruschi. La sua opera di certo figurava nella
biblioteca di Alessandria, perché fu sempre compito degli imperatori,
specie se amanti delle scienze e delle arti, come lo era Claudio,
alimentarla. È probabile che della sua opera siano state fatte delle
copie, tuttavia è andata dispersa e con essa un patrimonio unico di
conoscenze di questo popolo così vicino geograficamente, ma ancora
così misterioso. I tempi remoti e le vicende storiche, molteplici e a
volte traumatiche, come le invasioni barbariche col loro corollario di
distruzioni e saccheggi, marchiarono con sfregi indelebili la cultura
romana, ma si deve pure sapere che questi eventi tragici, che di certo
concorsero a cancellare gran parte dell’eredità culturale e artistica
della romanità pagana, non vennero da soli, ma a questi si accompagnarono e talora furono anticipati dalla furia antipagana intestina che
in modo “scientifico” si accanì su tutto l’impero occidentale e orientale, furia che si protrasse per secoli, con momenti di stasi e di rinnovato vigore; dopo Teodosio, sotto il regno di Giustiniano, e finanche sotto il papato di Gregorio Magno, 590 – 604, dato che anche lui,
pure essendo stato un grande papa, non si sottrasse dall’ordinare
l’abbattimento dei templi pagani , che in verità non dovevano essere
rimasti tanto numerosi. Poi comprese; gli fu suggerito, che forse era
meglio trasformarli in chiese cristiane e per fortuna fece fermare lo
scempio, ma danni irreparabili ed enormi erano già stati compiuti.
Nella biblioteca di Alessandria erano conservate anche opere musicali di grande <<indicibile>> bellezza, ma di queste non resta che la
sola testimonianza della loro esistenza, dato che sono andate del tutto
disperse, sicché della musica antica, a parte la conoscenza degli strumenti che venivano usati, la nostra ignoranza è pressoché totale. In
questo caso ciò che si commise fu il delitto perfetto, forse nemmeno
scientemente premeditato e programmato; resta il fatto che noi oggi
non sappiamo com’era la musica greca, o romana, o egizia o ebraica,
o di qualsiasi altra regione, popolo o cultura dell’antichità. È verosimile, per non dire certo, che buona parte delle musiche e dei canti di
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quei tempi fossero, come oggi, di carattere popolare, ma anche patriottico o religioso e sacro, ovviamente pagano, anche se in verità
nei primi secoli della nostra era aveva già cominciato a fare la sua
comparsa la musica sacra cristiana. A tale proposito lo stesso vescovo Ambrogio di Milano, città che intorno a quel periodo era anche
stata insignita del titolo di capitale dell’impero d’Occidente, subentrando a Roma, pare sia stato l’autore o co-autore del Te Deum Laudamus cantato nella cattedrale milanese il Natale del 390, dopo che
l’imperatore Teodosio capitolò davanti all’arcigno prelato, chiedendo
perdono per i suoi peccati e ottenendo l’assoluzione per il crimine
perpetrato quando nel sedare una rivolta a Tessalonica, (Salonicco),
compì una indiscriminata strage, dove morirono colpevoli e anche innocenti: Ambrogio in fondo, a parte l’aver ribadito una sua supremazia ideologica, non l’incolpava di essere stato violento, ma solo poco
selettivo, cioè esagerato.
Di altro avviso rispetto alla musica, avendone remore che lo assillavano, era invece Agostino, anche verso la musica sacra intendo
dire; lo si ricava dal fatto che egli, arrovellandosi, nelle Confessioni,
si chiedeva se i canti in chiesa non distogliessero i fedeli dalla
preghiera e quindi dall’intenso rapporto di mistica unione che veniva
a crearsi tra l’orante e il Signore: il canto, pertanto, spezzando l’affiatamento e l’intesa diventava peccato. Questo per dire delle estreme
intransigenti rigidità che egli e non solo egli ma anche altri mistici
della chiesa di quel tempo, ponevano nell’osservanza dell’ortodossia
anche dal punto di vista rituale: poi però un poco si rilassava dicendo
che nonostante ciò era pure piacevole sentire qualche canto in chiesa,
purché fosse breve.
Nella grande biblioteca erano conservati i libri di Moco, lo scienziato fenicio vissuto mille anni prima di quel tempo, l’antesignano
degli atomisti greci.
C’erano libri di fisica, di matematica, progetti di meccanica applicata come quelli di Erone di Alessandria che dato il suo genio merita
più che una semplice citazione per cui diremo che a questo matematico e fisico di origine greca, del primo secolo, sono state attribuite le
invenzioni di numerosi dispositivi meccanici fra i quali la famosa
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fontana, che porta il suo nome, il cui zampillare del getto oltre il
livello dell’acqua sulla vasca fu ottenuto sfruttando i principi fisici
dei suoi studi sulla pressione atmosferica. Tra i frammenti degli
scritti che di lui ci sono pervenuti sono da ricordare “Gli Automi”,
che descrivono la costruzione di apparati meccanici semoventi; la
“Pneumatica”, dove con precisione si descrive una pompa idraulica,
il suo funzionamento e i modi d’impiego. Scrisse pure di sistemi di
trasmissione del moto rotatorio tramite sistemi di ingranaggi. Fu
l’inventore della “diottra”, in greco dioptra, da dia – attraverso, e optesthai – vedere, in cui combinando principi di fisica e di geometria
ideò lo strumento atto a individuare, mediante due punti dati, oppure
altri riferimenti precisati, una linea o un piano di collimazione. Altro
strumento da lui ideato fu l’”odometro”, sorta di rudimentale apparecchiatura a tempo indicante il numero di passi e la distanza percorsa da un pedone in un dato lasso di tempo; una specie di primitivo
contapassi o anche contachilometri se applicato alla ruota di un veicolo. Un altro strumento che inventò fu l’”eolipila”, un’apparecchiatura molto interessante, possibile da ricostruire ancora oggi nei laboratori di fisica, atta a evidenziare la forza motrice del vapore acqueo.
Interessandosi anche di ottica scrisse una “Catottrica”, dove espose i
suoi studi relativi ai fenomeni di riflessione della luce su specchi
piani, concavi e convessi, da cui enunciò le leggi fondamentali della
riflessione. Quando si interessò di geometria mise a punto una
formula, in verità più elaborata delle attuali, ma altrettanto esatta, per
il calcolo dell’area dei triangoli; e sempre dagli studi geometrici finì
per ideare il “teodolite”, uno strumento topografico per misurare gli
angoli di direzione giacenti su piani orizzontali e gli zenitali, giacenti su piani verticali. Genio universale quindi, una sorta di anticipatore di Leonardo da Vinci, pochissimo conosciuto perché gran
parte dei suoi lavori, studi, scoperte e scritti andarono perduti con la
distruzione della biblioteca e ciò che potè essere salvato fu rivelato al
mondo occidentale solo molti secoli più tardi: è comunque risaputo
essere stato oggetto delle materie di studio dei grandi geni del rinascimento quali Leonardo, Newton, Cartesio, Galileo.
C’erano ancora i risultati dei lavori di Erastostene, astronomo, geo-
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grafo e matematico, (Cirene 284 circa, Alessandria192 circa a.C.),
che fra l’altro calcolò la misura esatta della circonferenza della Terra.
Ora noi possiamo solo con grande fatica immaginare quali sviluppi
avrebbe potuto raggiungere la scienza se la maggior parte del materiale custodito nella grande biblioteca alessandrina fosse stato messo
a disposizione degli uomini di scienza futuri. Molto del sapere di
Archimede andò disperso, così come quello dell’alchimista Maria
l’Ebrea, che venne riconosciuta dai posteri come la madre della chimica moderna per essere riuscita non tanto a fare proprie le conoscenze e le tecniche delle trasformazioni chimiche già note anche
molto prima del suo tempo, quanto perché, partendo da queste,
sviluppò ulteriormente le ricerche, tramandando poi le sue scoperte.
Alcune conoscenze alchemiche erano già note nell’antica civiltà
cinese, altre venivano da quella assiro - babilonese, e anche da quella
egiziana antica, come ad esempio i metodi per la purificazione dei
metalli preziosi e non, la composizione e l’utilizzo delle leghe metalliche, la preparazione delle tinture, la preparazione delle sostanze da
usare nella imbalsamazione, la distillazione dei profumi.
Nel bacino del Mediterraneo, nel periodo cosiddetto “classico” della Grecia, la chimica teorica non era conosciuta come materia
specifica, dato che il pensiero filosofico non contemplava la distinzione fra scienza e religione, compresi anche i concetti atomistici di
Leucippo e Democrito che si inserivano nelle dottrine filosofiche non
sperimentali.
Della vita di Maria l’Ebrea - che visse nel primo secolo della nostra era in quella sua feconda città di Alessandria, considerata allora,
assieme a Roma e Atene, uno dei principali poli culturali dell’impero
-, non esistono molte notizie biografiche, mentre invece sono i suoi
studi, le sue ricerche e le sue scoperte a parlarci assai di più di lei. Al
tempo in cui lei visse l’alchimia si presentava come una scienza ancora misteriosa e segreta i cui frutti erano gelosamente protetti da chi
la praticava e il sapere acquisito era tramandato a pochi fidati allievi
o discepoli, perciò gli alchimisti, pure scrivendo i loro testi, lo facevano in maniera misteriosa, criptata, solo ad essi comprensibile, utilizzando simboli allora ritenuti magici, o rifacendosi alla filosofia o
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all’astrologia; tuttavia in questi testi, a saperli interpretare, erano svelati i segreti, ad esempio, non solo per preparare cosmetici o profumi,
ma anche di numerose qualità di farmaci.
Maria dette una scossa a tutto questo mondo enigmatico e geloso
dei suoi segreti facendo fare all’alchimia un decisivo passo in avanti
verso quella scienza che molto più tardi avrebbe assunto il nome più
appropriato di chimica.
Il suo formidabile contributo si concretizzò con l’invenzione di
nuove apparecchiature per la distillazione usando tecniche da “laboratorio” che anche oggi, ovviamente con strumentazioni del nostro
tempo, sono ancora praticate. Suo fu il sistema del bagnomaria, che
da lei prese il nome: “balneum Marie”, e sempre sua fu la prima apparecchiatura, di sapore quasi moderno, per la distillazione, che si
chiamava “tribikos”,(tre becchi), uno strumento formato da un recipiente in terracotta, un alambicco atto alla condensa del vapore, tre
beccucci erogatori in rame e una serie di ampolle di ricezione in vetro fra loro comunicanti e saldate o collegate da un collante forse di
sua invenzione, o forse era il bitume di cui erano note le proprietà,
anche terapeutiche: la parte atta alla condensa era raffreddata da spugne imbevute e mantenute a bassa temperatura.
Una ulteriore sua invenzione fu il “Kerotakis”, un congegno di
riflusso usato per la sublimazione di varie sostanze.
È risaputo che fino da tempi molto remoti si era cercato il modo di
ricavare l’oro o l’argento partendo da metalli non preziosi, da vari
minerali o da sostanze di altra natura che venivano fra loro combinate, riscaldate, fuse, distillate, ecc…Anche Maria si cimentò in questi esperimenti, esponendo vari metalli ai vapori di arsenico, o zolfo
o mercurio, fino a che alcuni di questi liberavano il solfuro nero,
detto poi “nero di Maria”. È ovvio che la <<pietra filosofale>>, che
aveva le proprietà di trasformare in metalli preziosi quelli comuni,
non fu mai trovata, ma gli esperimenti di Maria l’Ebrea servirono
comunque a comprendere le specifiche proprietà di alcuni di questi
metalli. Infine va detto che Maria fu una delle pochissime persone di
scienza del suo tempo a dare corpo e gambe a nozioni maturate
partendo dalle sperimentazioni pratiche e fu grazie alle sue ricerche
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se l’alchimia toccò vertici fino a quel tempo mai raggiunti.
Poi accadde che sotto il regno di Diocleziano, non un cristiano
quindi, ma anzi un persecutore di cristiani, forse il più spietato, anche
gli alchimisti dell’impero, e quindi anche quelli alessandrini, furono
perseguitati e molti dei loro scritti vennero dati alle fiamme; ma
molti si salvarono o perché nascosti al sicuro, o magari perché affidati alle biblioteche, come quella di Alessandria, che però più avanti fu
anch’essa bruciata.
Ma tutto non andò perduto e la tradizione non fu interrotta; l’antica
arte degli alchimisti non andò del tutto dispersa ma scomparve solo
temporaneamente, inabissandosi come fiume carsico, per ricomparire
nel medioevo quando fu nuovamente possibile praticarla, pure, in
taluni momenti, con enormi rischi a causa dell’iquisitoria caccia alle
streghe. Da quel nuovo livello ricominciò comunque il cammino e lo
sviluppo fino all’epoca in cui fu possibile disfarsi dell’arcaico nome
per assumere quello nuovo e scientifico di chimica, nel diciassettesimo secolo.
Dello scempio del rogo della biblioteca si tentò poi addirittura di
gettare la colpa sugli arabi dicendo che furono loro a distruggerla
quando nell’anno 641 occuparono l’Egitto e la cosa fu creduta per
secoli, anzi, ancora al nostro tempo a volte rispunta in questa versione e allora bisognerebbe osservare chi lo dice e perché. Fra le ipotesi
che più si vorrebbero accreditare ne esiste una secondo la quale gli
arabi dopo il 646 si sarebbero serviti dei materiali ancora rimasti
integri della vecchia biblioteca, come pure dei materiali dell’altro
grande monumento alessandrino, il famoso faro, una delle sette meraviglie dell’antichità, che era crollato in seguito a un terremoto. È
infatti vero che tali materiali furono in parte impiegati per la costruzione di palazzi, moschee e sicuramente per la più tarda erezione
della grande monumentale e possente fortezza di epoca tardo-medievale, tuttora perfettamente integra, nella quale sono inglobati e
ben visibili alcuni grossi blocchi di pietra appartenenti al faro: del
resto Roma imperiale fu spogliata dei suoi marmi, mosaici, colonne,
metalli preziosi e quanto di bello di buono tornava utile per edificare
le basiliche cristiane, i sontuosi palazzi dei papi, dei cardinali e delle
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potenti famiglie della nuova Roma rinascimentale.
Al di là quindi di qualche interessato tentativo di far cadere la responsabilità sugli arabi, la storia ha ampiamente individuato vittime e
carnefici, dopo di che sappiamo che talora non mancherà mai di farsi vivo qualche negazionista che tenterà di intorbidare le acque.
Il fatto è che furono proprio gli arabi mussulmani a far giungere al
mondo occidentale, salvandoli dalle macerie e dalle tenebre dove
erano stati precipitati i saperi degli antichi ingegni, quali i matematici, i filosofi, i grammatici, e tutti quegli uomini e donne di scienza
che erano stati precipitati nell’oblio.
È pertanto stupefacente, mistificante e per niente onesto, sapendo
tutto ciò, volere caparbiamente escludere l’islam dal logos greco.
Con sorprendente celerità gli arabi erano riusciti a conquistare tutte
le regioni che si affacciavano sulle sponde settentrionali africane del
Mediterraneo, anzi, andarono oltre, coprendo una estensione territoriale che si sviluppava dalla Persia fino ai Pirenei.
Le ragioni di questa rapidissima espansione in parte sono note e
sono dipese dal fatto che: 1), molte delle tribù arabe erano costituite
da predoni avvezzi alla battaglia, 2), acquisirono la convinzione, per
loro inedita, che chiunque fosse morto combattendo per l’islam
avrebbe ottenuto il paradiso. Esistevano poi anche ragioni meno evidenti o confessabili che proveremo ora a esaminare. Almeno una di
queste andava individuata nel rapporto tra la precedente religione, i
suoi intransigenti, rigidissimi, zelanti e fanatici guardiani e le popolazioni di quella fascia mediterranea verso le quali non erano riusciti a
creare quel minimo di consenso a causa delle punizioni e delle repressioni insensate verso ogni espressione di pensiero ritenuto eretico, in paesi ricchissimi di fermenti, di idee, di appassionati dibattiti,
quand’anche impetuosi e veementi, ma certo vitalissimi e aperti alle
più svariate interpretazioni. Accadde quindi che invece di un clima di
serenità e tolleranza, si finì con il respirare un’atmosfera di timore e,
o di rassegnata sottomissione, ma anche di ostilità, sentimenti non
certo adatti a uno spirito ideale a fronteggiare una invasione esterna.
È quindi probabile che, se non ovunque, in molti casi i nuovi arrivati
siano stati accolti con sollievo e da liberatori e non è nemmeno da
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ritenersi erroneo il fatto che i vertici della cristianità non si siano
nemmeno resi conto, accecati come erano dal loro fanatico zelo in difesa della più stretta ortodossia, che poi non era quella “vera” ma
quella uscita vincente dagli scontri nei sinodi, che con questo loro
agire regalavano di fatto tutta l’Africa settentrionale e non solo quella, (l’intera sponda sud del Mediterraneo), all’islam e assieme alla
sua fede, o alle sue fedi, perdettero anche tutte le sue scienze e la sua
romanità.
Sull’impero d’Oriente del resto l’Africa non poteva contare. Il settimo secolo si apriva trovandolo disperatamente debole: per le guerre
contro i persiani e altri popoli; per le lotte religiose intestine; per la
mancanza di fondi con cui pagare l’esercito; per le congiure di palazzo: l’assassinio dell’imperatore Maurizio e poi, dopo alcuni anni, del
suo uccisore e usurpatore Foca. Con Eraclio le cose migliorarono, ma
i nemici esterni rimasero numerosi e potenti e a quelli tradizionali si
aggiunsero gli arabi. Anche con Costante 2° la situazione esterna rimase pesante, poi anch’egli, nell’anno 668, venne assassinato.
In Italia governavano i Longobardi ormai da un secolo, ma la penisola non era tutta sotto il loro controllo dato che le estreme regioni
meridionali, assieme a Ravenna , capitale della provincia italiana, la
“pentapoli”, ovvero i cinque centri che grossomodo facevano da corona a questa città, e poco altro, restavano ancora unite all’impero
d’Oriente. Poi c’era il ducato romano, in teoria anch’esso dipendente
dall’Impero, di fatto ormai autonomo e governato dal papa: tre unità
territoriali guardinghe le une con le altre. Essendo questa la situazione, ciò che accadeva in Africa se non era un affare dell’impero,
tanto meno era un affare italiano; non poteva esserlo.
Nel 642 gli arabi occuparono Alessandria, la città che oltre alla famosa biblioteca aveva ospitato, fino a quando venne forzatamente
chiusa, una importantissima scuola neoplatonica. Naturalmente al
tempo dell’impero, quando in seguito alle leggi teodosiane la scuola
fu soppressa, molti dei maestri e degli allievi furono costretti a fuggire perché accusati di paganesimo e si rifugiarono in paesi non cristiani, arrivando fino in Persia e anche oltre.
Anche i capi e i fedeli delle religioni cristiane non nell’ortodossia,
180
le cosiddette sètte tacciate di eresia, che erano riusciti a eludere i
rigori delle repressioni, dovettero fuggire da Alessandria e dalle altre
città della costa e i gruppi più consistenti come, ad esempio, i nestoriani, si spostarono in territorio asiatico raggiungendo l’India e anche
la Cina. La loro fede riuscì a sopravvivere in quei paesi per secoli, ed
è così vero che le prime spedizioni europee in Cina, della seconda
metà del 13° secolo, si imbatterono con stupore in queste comunità
cristiane non ortodosse, le quali avevano fatto proseliti anche fra
quelle popolazioni native.
Nell’anno 762 Al Mansūr, il secondo califfo della dinastia abbaside, fece di Bagdad, allora piccolo centro, (alcuni testi storici riportano che ne fu il fondatore e può anche essere vero, ma la sostanza non
cambia), la sua residenza avendo l’intenzione di trasformare la città
in una grande capitale scientifica e negli anni che lo divisero dalla
morte, avvenuta nel 775, il suo sforzo fu in buona sostanza premiato
essendo egli riuscito a raccogliere nella città tutto ciò che fu possibile
recuperare di quanto restava della scienza alessandrina e, ovviamente, non solo di questa.
La sua opera fu continuata dai suoi illuminati successori, in particolare dal califfo Al-Ma’mūn, 786 – 833, che prese il califfato di
Bagdad nell’813, il quale fu protettore degli uomini di scienza e nell’
832, avendo avuto l’idea di raccogliere, razionalizzando, i vari focolai di scienza in un unico centro, ( forse anche di controllarli dato che
il potere politico assolutista è per sua natura accentratore), fondò nella capitale la <<Casa della Sapienza>>, la quale volle rifarsi ai modelli delle antiche accademie delle scienze greche.
Quello di Bagbad non fu però l’unico centro del sapere del mondo
arabo, ma fu certamente il primo e il più importante, dentro al quale
venne acquisito, depositato, studiato e tradotto tutto quanto potè essere salvato dell’opera scientifica e letteraria dei greci e dei siriaci:
dai lavori filosofici a quelli letterari, scientifici e matematici.
Gli arabi, partendo poi dalle conoscenze acquisite, svilupparono e
allargarono gli studi scientifici, sia nella Casa della Sapienza di Bagdad, sia delle altre dello stesso genere sorte anche nelle città europee
della Spagna, come quelle di Siviglia, Cordova e Granata. Da queste
181
città, le scienze astronomiche, matematiche, filosofiche e mediche,
sarebbero poi rientrate, arricchite, in quel mondo occidentale che in
un tempo ormai remoto le aveva conosciute, ma che ora le aveva
completamente dimenticate.
Non è dunque un caso , contrariamente a quanto cercò di far intendere Benedetto 16° nella ormai famosa lectio di Ratisbona non essere essi meritevoli, se anche gli arabi a buon diritto si sono reputati gli
eredi spirituali dei greci.
I risultati dei loro studi raggiunsero per quei tempi vertici insuperati: ad esempio il califfo Al-Ma’mūn diede l’incarico al matematico e
astronomo Al Khārezmī di calcolare la misurazione di un grado di
arco terrestre: questo scienziato, va rammentato, è stato considerato
l’inventore dell’algebra.
Altro matematico arabo del decimo secolo, Abū al Wafā, studioso e
commentatore delle opere di Euclide e di Diofanto, fu uno dei promotori della trigonometria.
Nel mondo occidentale cristiano prima di vedere rinascere un interesse per le scienze matematiche bisognò arrivare, stranamente, a un
uomo che divenne papa, ma fu una particolare figura di papa,
certamente il migliore del suo secolo, il 10° e del resto non ci sarebbe
voluto un grande sforzo perché in quel secolo la chiesa di Roma raggiunse un tale livello di bassezza e di degrado morale che anche
coloro che non credono ai miracoli dovrebbero almeno accettare una
eccezione, dal momento che non è altrimenti comprensibile come
essa abbia potuto salvarsi.
Questo uomo che in realtà, con il suo papato, chiuse il millennio e
inaugurò quello nuovo, 999 – 1003, tentò con enorme fatica di riorganizzare la curia romana, eliminando la trascuratezza, la corruzione,
il malcostume e l’influenza nefasta delle grandi famiglie romane
sempre invischiate in trame, complotti e lotte per il potere; ma il suo
successo fu solamente momentaneo e parziale ed egli dovette anche
temporaneamente fuggire da Roma per salvarsi la vita nel febbraio
del 1001: un maggiorente romano di nome Gregorio di Tuscolo aveva capeggiato una rivolta per rovesciare il papa dal trono e ucciderlo.
Ma vediamo ora chi era questo papa.
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Si trattava di Gerberto d’Aurillac, che salì al soglio di Pietro con il
nome di Silvestro 2°, un papa del quale sono state scritte diverse
biografie un paio delle quali, molto intriganti, ebbi modo di leggere
alcuni anni or sono.
Gerberto nacque in Alvernia a Belliac in una data compresa fra il
940 e il 945 da una umilissima famiglia e già questo fatto è bastante
a collocarlo in una posizione assai differente da coloro che furono
papi a quei tempi, praticamente già predestinati al soglio pontificio
perché provenienti da famiglie di alta nobiltà o potenti o comunque
benestanti e ben introdotte nella società “che conta”.
Giovanissimo, 952, aiutato da un parente, che aveva intuito le grandi doti di prontezza mentale e le sorprendenti capacità di apprendimento del ragazzo, venne accolto nella importante abbazia e scuola
di Aurillac, della quale poi egli prese il nome, ma non vi rimase per
lungo tempo perché si era stancato della ripetitiva monotonia della
vita monastica, pertanto lasciò il convento e si recò in Spagna, nella
grande contea di Catalogna, il territorio libero e cosmopolita, probabilmente il più prospero e liberale dell’Europa di quel tempo, che faceva da cuscinetto fra il mondo mussulmano e quello cristiano: una
condizione temporale, che non ebbe lunga durata, la quale per una
serie di strane e arcane coincidenze anticipava una situazione politica
e culturale che si sarebbe concretizzata nel mondo democratico solamente un migliaio di anni più tardi, La curiosità del giovane Gerberto
era stata solleticata dalle notizie che giungevano a proposito della
superiorità della cultura scientifica araba e appena giunse in Catalogna divenne allievo del monaco Attone di Vich, dal quale apprese i
primi rudimenti dell’islamismo, peraltro filtrati attraverso il sapiente
insegnamento del saggio maestro.
Ma Gerberto ambiva a sapere di più e iniziò a frequentare i circoli
mussulmani, anche oltre confine, dove si radunavano i sapienti. Ma
trovò la via bloccata da un insuperabile ostacolo rappresentato dal
fatto che era possibile la loro frequentazione oltre certi livelli solo
appartenendo alla fede mussulmana.
A questo punto la fame di sapere ebbe il sopravvento e fu la molla
che fece compiere a Gerberto il grande salto: abiurò alla sua fede
183
cristiana diventando apostata, ma di questa sua tormentata scelta
mantenne sempre il segreto, ( che tale evidentemente non rimase se
in qualche modo poi finì per trapelare), dato che nessuno nel suo
mondo avrebbe compreso il suo gesto in quel secolo, ma del resto
nemmeno nei secoli successivi, dove anzi sarebbe stato processato,
condannato e arrostito.
Dai sapienti mussulmani venne iniziato alle “scienze ermetiche”,
nonché alla conoscenza di incantesimi e formule magiche, recitative,
dove, fra queste, non mancarono quasi certamente l’astrologia e l’alchimia, un’insieme di verità e superstizioni che nel mondo medioevale si compenetravano fortemente, difficilmente distinguendosi le
une dalle altre.
Per la verità di questo suo periodo non si è mai potuto sapere nulla
di preciso ed egli stesso non disse che l’essenziale, salvo il fatto di
essersi recato in territorio mussulmano, fuori dalla Catalogna, e esservi rimasto per un certo tempo, dove di certo apprese cose che nel
mondo occidentale erano del tutto sconosciute. Per questi motivi sarebbe poi stato chiamato dai suoi contemporanei il “papa mago” e in
base a ciò, in seguito, una certa letteratura “fantasiosa” si sarebbe
sbizzarrita su questo straordinario e enigmatico personaggio, le cui
vicende umane, che lo condussero a spostarsi continuamente per
mezza Europa, lo trovarono a essere ora arbitro, ora protagonista di
lotte di potere sia tra le alte cariche ecclesiastiche dove, nonostante
alcuni vuoti del suo passato, che i nemici gli imputarono, emerse
quasi sempre limpidamente, sia tra quelle civili dei grandi signori
europei: i Capetingi che stavano per affermarsi nella nazione francese e gli Ottoni che stavano tentando di ripristinare il prestigio
dell’impero, dove tanto Ottone 2° che Ottone 3° gli furono vicini.
Non mancarono nemmeno le contese fra il potere temporale e quello
ecclesiastico. È quindi chiaro che tutte queste vicende, che lo videro
o protagonista o fra gli attori maggiori, contribuirono a fare della sua
vita un romanzo carico di enorme interesse.
Certo è che tra i suoi contemporanei la sua sapienza impressionava,
suscitava anche invidie e ci fu anche chi disse che avesse fatto un
patto con il diavolo.
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Egli, per dirla con le parole di uno dei suoi ultimi biografi, Mario
Bacchiega, si tuffò in quelle esperienze in piena coscienza per avere
<<lucida prova di libertà morale e religiosa>> e <<attingere alla libera gnosi>>.
Un’altra delle scienze che attirarono il suo vivo interesse fu la matematica che fra gli uomini di scienza mussulmani aveva compiuto
passi da gigante, anche grazie al loro sistema numerico che in Europa non era ancora stato diffuso in quanto si usavano ancora i numeri romani che non avevano lo zero: i numeri arabi, in realtà indiani,
più semplici di quelli romani, permettevano di eseguire operazioni e
calcoli pure complicati in maniera più facile. Gerberto fu uno dei primi, se non il primo in assoluto, a portare i numeri arabi in Occidente
e sicuramente fu il primo a operare affinché venissero insegnati nelle
scuole, che al suo tempo erano quasi tutte in mano ai religiosi.
Se volessimo fare un paragone tra questo papa dell’inizio del secondo millennio, aperto all’ingegno umano, il quale per amore delle
scienze abbandonò, temporaneamente, la propria fede e quello attuale dell’inizio del terzo millennio, pessimista e nemico delle scienze,
vi troveremmo due concezioni della vita assolutamente opposte. Chi
dei due il più credente e fiducioso nell’uomo?
Altra biblioteca a subire una sorte analoga a quella alessandrina fu
quella di Efeso, città sede di vari concili e anche luogo di sepoltura di
Giovanni l’evangelista, l’apostolo cioè a cui è stato attribuito il vangelo omonimo.
A Efeso fu sepolto anche il senatore e magistrato romano Giulio
Celso Polemeano, vissuto al tempo di Traiano, 53 – 117. Nel luogo
della sua tomba il figlio Giulio Aquila fece costruire in sua memoria
una grande biblioteca che conteneva 12.000 volumi o rotoli; ben
inferiore quindi a quella alessandrina, ma pur sempre importante,
tanto da rappresentare motivo di orgoglio per la città, una delle maggiori dell’impero, che arrivò a toccare i 250.000 abitanti.
Intorno all’anno 400 il monumentale e imponente edificio esisteva
ancora – e tuttora esiste e, nonostante la parte maggiore del retro sia
ora scomparsa e la splendida facciata abbia subito trasformazioni, e
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anche se l’azione demolitrice del tempo e dei fenomeni atmosferici ci
abbiano messo tutta la loro forza erosiva, questo continua a mostrare
in buona misura la primitiva bellezza - , ma già alla data succitata i
volumi che la biblioteca avrebbe dovuto contenere erano tutti scomparsi, né fu dato sapere la fine che fecero. Sappiamo però che quelli
erano gli anni dell’accanimento distruttivo verso la vecchia religione
e cultura pagana. L’editto di Teodosio del 390 fu integrato negli anni
successivi da altri che mano a mano vietarono di professare una
religione che non fosse stata quella cristiana, ma cristiana dell’ortodossia uscita dai concili e approvata da Roma e Costantinopoli,
anche se fra i due centri della fede qualche crepa, qualche distinguo e
qualche screzio era già affiorato. Furono abolite perfino le olimpiadi,
in quanto simbolo di un passato pagano che si voleva fosse cancellato e dimenticato.
Ma ora, dopo questo ampio giro, torniamo a Alessandria d’Egitto
24 anni dopo la distruzione della biblioteca, i segni della cui esistenza ancora si mostravano al di sotto dello spiazzo di base dello svuotato tempio pagano di Serapide.
In questo lasso di tempo era stata messa a tacere, ufficialmente,
ogni forma di esplicita espressione pagana in tutto il bacino del Mediterraneo e per fare ciò le misure repressive contro gli oppositori
furono spesso drastiche anche in maniera assoluta, per cui se non da
molto tempo venivano giustamente alla luce del sole, ricordati e esaltati, i martiri caduti per la fede cristiana, come anche oggi si continua
a fare, ora cadevano altri martiri, naturalmente misconosciuti come
tali dai poteri imperanti, i quali (poteri) si sarebbero anche peritati,
per quanto fosse stato loro possibile, di farli scomparire dalla storia.
Siamo nell’anno 415 e al patriarca Teofilo era subentrato il nipote
Cirillo. Sebbene quasi ammutoliti dal terrore c’erano ancora degli
scienziati, dei matematici, e dei filosofi, non ancora fuggiti in luoghi
più sicuri, o non ancora colpiti dal rigore delle leggi teodosiane, a
loro tempo cresciuti all’ombra della grande biblioteca e della scuola
alessandrina, che pure fra mille rischi, insidie e difficoltà, semiclandestini continuavano con coraggio a prestare la loro opera di diffusori di cultura in città.
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Fra costoro c’era una donna di nome Ipazia o Ipatia, gr. Hypatia.
Era nata intorno al 370, per cui al tempo in cui questi fatti arrivarono
al loro epilogo aveva 45 anni. Era costei una autentica gigantessa del
pensiero, ma era celebre anche per la sciolta eloquenza e la sua avvenenza, doti che catturavano chiunque fosse stato suo interlocutore.
Una donna che oggi definiremmo “figlia d’arte”, dato che il padre
era Teone d’Alessandria, mente geniale, astronomo e matematico,
autore di studi e trattati, molti dei quali giacendo nella Biblioteca
scomparvero con essa. Fra le sue opere va ricordato un commento
all’Almagesto di Claudio Tolomeo, (epoca di Antonino Pio), il grande trattato, compendio di tutte le nozioni astronomiche e matematiche dell’antichità; Teone aveva inoltre sviluppato un rifacimento
degli “Elementi” e dell’”Ottica” di Euclide e aveva anche composto
un’opera, la “Catottrica”, ispirata sia agli studi e ai lavori di Archimede che di Erone.
La figlia Ipazia, che dal padre aveva succhiato il latte del sapere,
dopo aver completati gli studi ad Atene, tornò a Alessandria dove
aprì una scuola che fu da subito molto frequentata e fra i suoi allievi
ci furono studenti poi diventati famosi, come ad esempio il vescovo
Ginesio o Ginesia di Cirene.
Nonostante l’impegno che profondeva nell’insegnamento, continuava i suoi studi dai quali trasse un commento alle opere di Diofanto,
il matematico della scuola alessandrina del 3° secolo, autore di tredici libri, dei quali sei ci sono pervenuti, i quali furono oggetto di vivo
interesse dei suoi contemporanei: furono poi gli arabi a riscoprirlo e a
tradurne le opere che giunsero così ai geometrici del Rinascimento.
Altro matematico ad avere attirato gli interessi di Ipazia fu il greco
Apollonio di Perge, 260 circa a.C. – 180 circa, che fu discepolo di
Archimede, e poi uno dei grandi creatori delle scienze matematiche e
geometriche.
Ma la prima matematica della storia non fu solo maestra, studiosa e
ricercatrice, giacché mettendo a frutto i suoi studi e le sue indagini
divenne l’inventrice, altri dicono la perfezionatrice e pare più probabile, dell’astrolabio, da altri, appunto, attribuito a Ipparco, (2° sec.
a:C.), strumento che Tolomeo, nel suo Almagesto; aveva chiamato
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“armillare”. Sempre a Ipazia è stata attribuita l’invenzione del “planisfero”, che oggi chiamiamo mappamondo.
Ma come maestra Ipazia non si limitava a dare solo lezioni ai suoi
numerosi allievi, né le bastavano i dibattiti fra i dotti e gli studiosi,
perché con insospettabili energie trovava ritagli di tempo per mescolarsi fra la gente comune del popolo della sua città, dove instancabile
si aggirava, consapevole che così facendo i semi della conoscenza e
della libertà che spargeva avrebbero dato germogli e frutti, pertanto a
quanta più gente possibile parlava della necessità di ragionare senza
preconcetti o chiusure aprioristiche delle cose del mondo e discuteva
di astronomia, di aritmetica, di musica e divulgava il pensiero di
Socrate, di Platone e di Aristotele.
Una persona siffatta, che irriverente e incurante delle leggi diffondeva il pensiero pagano, e per di più una donna. Per Cirillo era diventata una intollerabile provocazione e un’onta da lavare quanto prima.
Già alcuni mesi addietro, coadiuvato dai suoi 500 monaci parabollani, egli aveva dato prova della sua intransigente fermezza massacrando e cacciando dalla città la comunità ebraica, come del resto
aveva già fatto con gli eretici nestoriani e novaziani; possibile non
fosse stata intesa la lezione? Incaricò il suo braccio destro, Pietro il
lettore, di uccidere Ipazia, ma di farlo in modo tale da rendere bene
esplicito il sentimento misogino diffuso fra e dai “padri dottori della
chiesa” che permeava greve all’interno del grosso delle gerarchie ecclesiastiche, e da rappresentare inoltre un monito per tutti i nemici
della vera fede.
Accadde pertanto che mentre Ipazia, ignara del pericolo, si avviava
alla propria abitazione venne circondata, presa e trascinata nella cattedrale cittadina, detta anche il cesareo o cesarium, (il tempio che
Cleopatra aveva fatto costruire in onore di Cesare), e colà denudata.
Il lettore Pietro, indossate delle unghie artificiali metalliche le strappò gli occhi e li gettò sull’altare, poi la fece finire dalla folla invasata
e inferocita dei suoi monaci i quali armati di conchiglie affilate la
straziarono fino a ridurla in brandelli, dopo di che buttati i suoi poveri resti sanguinanti in un sacco, trascinarono questo fino al luogo dove si bruciava la spazzatura e esultanti ve la gettarono, inneggiando
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con le frasi agostiniane che ritenevano essere la donna solo <<immondizia>>.
Con ciò ad Alessandria il paganesimo era sconfitto; i libri di Ipazia,
al pari di come era accaduto alla sua persona, furono bruciati, come
lo furono quelli di quella comunità scientifica, che non osò più esprimere il suo pensiero. Cirillo tuttavia non fu in grado di portare del
tutto a compimento il suo piano, perché non riuscì a intercettare le
156 lettere, più altri scritti, che erano finiti in possesso di Genesio di
Cirene, l’allievo prediletto di Ipazia, che già qualche anno prima che
si compissero questi fatti si era allontanato da Alessandria. Egli poi,
dalle sue conoscenze dirette, da altre testimonianze e dal materiale
salvato in suo possesso, fu in grado di raccontare della vita, delle
opere e del pensiero della scienziata, sua straordinaria maestra e
amica, che la chiesa alessandrina con il suo odioso e vile crimine
aveva tentato di cancellare dalla storia.
Noi invece vogliamo ancora ricordare l’uccisione della grande protomartire laica riproponendo le parole che nel 1788 Edward Gibbon,
nel suo “Declino e caduta Dell’Impero Romano” a proposito di
questo episodio ebbe a scrivere: <<…impresse una macchia indelebile>> sul cristianesimo.
Tuttavia questo lungi dal provare rimorso, (quale poi se i fatti vengono cancellati?), e pentirsi per un gesto così perverso, premiò per
ben due volte l’autore del delitto: la prima facendolo santo, la seconda, dopo secoli, esaltando i metodi di Cirillo e la sua opera di strenuo
difensore dell’ortodossia, rafforzata dalle sue opere letterarie contro
le eresie ariane e nestoriane, sicché fu talmente apprezzato da porlo
nel novero dei sommi meritevoli della chiesa, proclamandolo dottore
della stessa nel 1882 da quel Leone 13°, continuatore fedele, (da cardinale s’era detto contrario), della linea del suo predecessore, il Pio
9° del <<Non expedit>>, cioè dell’imposizione papale ai cattolici a
rifiutare il loro impegno politico nello Stato: tutto ciò per protestare
contro la perdita del potere temporale della chiesa.
Liberi comunque i papi di fare santi tutti coloro che desiderano, resta il fatto che talora, anche recentemente, perfettamente scienti,
hanno beatificato o santificato personaggi discutibilissimi, per non
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dire autentici criminali o complici di dittatori criminali. Così agendo
non so immaginare il messaggio che avranno inteso trasmettere al
mondo; in realtà una idea me la sono fatta, ma non la paleso e trattengo lo sdegno.
Saltiamo ora al secolo successivo all’assassinio di Ipazia e andiamo
a trovare l’imperatore greco d’Oriente Giustiniano, che peraltro ebbe
il merito di ispirare e contribuire, assieme alla moglie Teodora, alla
stesura del grande Codice Legislativo che da lui prese il nome, codice ancora oggi consultato dagli studenti di legge quando affrontano
la materia del Diritto Romano.
Oltre che padre dell’impero della seconda Roma, fu anche il padrepadrone della chiesa d’Oriente, della quale era pure sincero fervente,
anzi, credente bigotto fino al limite del fanatismo. Fortuna che c’era
la moglie a frenarlo, avendo su di lui un forte ascendente, anche lei
credente (forse) molto più tiepida e comunque simpatizzante dei monofisiti. Comunque se in famiglia si battibeccava per questioni di fede cristiana, pare invece si andasse d’amore e d’accordo sul fatto che
il vecchio culto pagano, peraltro moribondo, non dovesse fare da
terzo incomodo; almeno Giustiniano ne era convinto, pertanto non
mancò di dare il suo personale contributo nel soffocare ogni voce
dissidente che cantava fuori dal coro dell’ortodossia attraverso le
conversioni forzate, (pratica usata più volte nella storia della chiesa
di Roma), confische di chiese e di comunità pagane, donate poi alle
comunità e alle chiese cristiane e altre simili amenità.
I contrasti e poi la guerra con il regno d’Italia di Teodorico sorsero
anche dalla repressione giustinianea, già iniziata dal predecessore
Anastasio, contro i goti di fede cristiano-ariana della Grecia, che
costrinse il sovrano dell’Italia, dopo trent’anni di pace religiosa nel
paese, a rispondere in maniera analoga e a mio avviso errata, anche
se quasi obbligata, contro i cristiani d’Italia. Egli, replicando alle
provocazioni, diede modo ai bizantini di scatenare la Guerra Gotica
in Italia, in realtà il pretesto fu l’assassinio di sua figlia Amalasunta,
il cui mandante fu il di lei marito e successore di Teodorico. Resta il
fatto che il conflitto, di riconquista dell’Italia all’impero, ridusse tutto
il paese a un campo di macerie fumanti, dove i bizantini si comporta-
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rono peggio di qualsiasi popolo “barbaro” prima arrivato: mi chiedo
perché spesso i libri di storia sorvolino su questo quarto di secolo e
più, saltando tutta la fase della Guerra Gotica. A questo stato di cose
seguì una carestia di portata mai vista, dove i fenomeni di cannibalismo non furono infrequenti, poi, a completare l’opera, giunse la
peste. Si dice che in modo convenzionale il medioevo sia iniziato nel
476, con la caduta dell’impero d’Occidente, in realtà i due regni
successivi, quello di Odoacre e quello di Teodorico furono quasi prosperi; l’ultimo di fatto lo fu: il medioevo, quello che si dipinse con i
colori tetri, fu quello inaugurato dalla Guerra Gotica e del primo
decennio dopo l’arrivo dei Longobardi, 568 / 578.
Ma torniamo a Giustiniano. Nell’anno 529 egli fece chiudere la
Scuola di Atene, quella famosa degli accademici, che era stata fondata da Platone nel 378 a.C. e che era riuscita attraverso i secoli ad arrivare più o meno indenne fino ad allora. Probabilmente era rimasto
l’ultimo centro intellettuale sopravvissuto del paganesimo, ma potremmo anche dire, della concezione laica della vita. La scuola, che
fin dall’antichità era stata e ancora continuava a essere la fucina del
libero pensiero, la culla delle rivelazioni scientifiche, ancorché non
assolute, il luogo delle grandi dispute, e dei dibattiti filosofici e
scientifici, veniva ora soppressa per sempre.
Fu un errore enorme e tragico, ma non poteva essere visto come
tale da chi nutriva la convinzione di possedere la Ragione unica. Ma
la storia delle certezze assolute è sempre stata retaggio e bagaglio di
ogni assoluto potere e di ogni arbitraria violenza perpetrata da chi,
arrogandosi il diritto di incarnare le “verità assolute” ha poi preteso
di imporle agli altri, con l’esito che queste pratiche applicazioni, ciò
vale naturalmente anche per le ideologie non teocratiche, sono
sempre state deleterie e tragiche per l’umanità.
191
Libro 10° SECONDO PROBLEMA TEOLOGICO – POLITICO
Il cardinale Bagasco talora si indigna perché il papa viene criticato
in modo poco rispettoso, vedi la bagarre sorta per la faccenda dei
preservativi in Africa.
Noi il papa lo vediamo praticamente tutti i giorni, anche più volte
al giorno, su diverse reti televisive; vediamo lui o i suoi “colonnelli”e
tutti insieme questi signori sono diventati dei personaggi pubblici, né
più né meno degli uomini politici, dei divi dello spettacolo, o della
musica, o dello sport. È quindi piuttosto normale che al pari di questi
ultimi siano commentati, approvati o meno, osannati o criticati, a seconda di quello che dicono o di quello che fanno. Verrebbe da dire:
“ve la siete cercata e ve la siete voluta, non potete pretendere di essere trattati in maniera poi molto differente”. Poi c’è il rispetto e quello, ovviamente, è dovuto a tutti.
Sia perché ormai un poco datato, (del 2007 e le notizie di questi
tempi invecchiano con una rapidità impressionante), sia perchè
correva l’inevitabile rischio di assumere i connotati della polemica
sterile, non avrei voluto ritornare sull’argomento, ma stuzzicato dalle quasi quotidiane sortite vaticane, puntualmente e pedissequamente,
nonché acriticamente riportate da quasi tutti i mezzi mediatici, mi
sono sentito stimolato, o meglio trascinato a commentare ribattendo
ancora una volta su argomentazioni che, pure del tutto legittime,
paiono proprio volere ignorare l’esistenza di concezioni e vedute differenti. Ad esempio: avete mai provato a ragionare con un testimone
di Geova o Iehovah, o meglio con due dato che viaggiano quasi sempre in coppia? Dopo un po’ che discutete comprenderete di non avere
che le seguenti due alternative: 1), date loro ragione su tutta la linea
dopo che alle vostre eventuali timide osservazioni avranno puntualmente, e bonariamente, con aria sicura e paziente di fratelli maggiori
che tolgono dall’insipienza questo povero ignorante vissuto fino ad
allora nella tenebra, risposto adeguatamente sciorinandovi il versetto
192
biblico atto alla bisogna dell’argomento del momento, che avavano
scelto loro, quindi, dopo avervi mollato un pacco di riviste, che voi
accetterete pur di sottrarvi dalla loro assillante presenza, se ne andranno soddisfatti perché la loro “testimonianza” è stata fruttuosa;
oppure, 2), esasperati interrompete il “dialogo”, non tanto perché non
siete riusciti a far prevalere le vostre argomentazioni, che non era
quanto pretendevate, ma semplicemente perché i vostri interlocutori
non volevano o non riuscivano a comprendere e quindi a ammettere
la legittima esistenza di altri punti di vista parimenti rispettabili.
Fino a alcuni anni addietro con moltissimi credenti cattolici, direi
quasi con tutti, più o meno praticanti, era possibile argomentare,
<<dialogare>>, sulle questioni di fede nel rispetto delle reciproche
opinioni o posizioni. Oggi invece siamo giunti al punto in cui chi
continua a ritenere che in una democrazia sia fondamentale una autentica laicità dello Stato, proprio perché questa è garanzia delle diversità e pluralità di pensiero ovvero di libertà di scienza e coscienza,
trova a contrapporglisi un numero crescente e vociante di cattolici, o
più propriamente di vertici cattolici, non più rispettosi delle regole e
dei patti sottoscritti, i quali intendono riproporre un ritorno a visioni
e tempi della vita precedenti il secolo dei lumi ed è evidente che tutto
ciò oltre che anacronistico diventa oggi inaccettabile.
Colui che si è proposto il compito di combattere quella che potremmo battezzare la novella crociata del “salto nel passato remoto” è il
capo della chiesa romana in persona, il quale si pone un obbiettivo da
raggiungere attraverso: 1), il passante politico volto a dare una risposta energica a quel mondo concorrente fatto di credenti europei in rapida espansione e appartenenti alla medesima famiglia dei cristiani,
che oltre ai tradizionali gruppi di protestanti possono essere: i testimoni di Geova, i pentecostali del settimo giorno, ecc.., o a altre famiglie religiose: mussulmani, buddisti, ecc.., utilizzando metodi di
persuasione maggiormente incisiva, più analoghi a quelli della concorrenza; 2), restringendo, anzi chiudendo , al di là di quanto come
cappello a ogni discorso che da quei pulpiti si va sostenendo, gli
spazi al dialogo, proprio perché quanto viene detto, <<sostanza>> e
il tono in cui viene detto, <<forma>>, è carico di aspetti e essenze
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preconciliari, seguiti da aut - aut che non ammettono repliche, il che
ricorda un poco il vecchio monito di regime, uno dei tanti elargiti al
popolo “beota”: <<obbedire e combattere !>> e zitti e mosche, che,
pure considerando il forte contributo del berlusconismo, alleato in
questa deriva di arretramento culturale e democratico del paese, mi
sembra quantomeno azzardato supporre che tali metodi possano
trovare spazi e avere successo, anche se marcatissimi segni regressivi
di certo li lasciano. Ma forse sta proprio in questo il segreto: più la
società regredisce, più tende a accettare che vengano chiusi gli spazi
della democrazia.
Quindi chiusura a quel variegato e vitale mondo laico di credenti e
non credenti più disponibile, aperto e indulgente, nonché a quello
scientifico sperimentale, verso i quali si afferma, in loro antitesi, essere la loro la sola, unica, indiscutibile ragione.
Atteggiamenti che parevano ormai superati e che per questo sconcertano, confondono e inclinano a far sembrare la chiesa di Roma,
ma è più probabile sia proprio questo che essa vuole far sembrare per
legittimare il suo agire, come un fortino da più parti assediato, quasi
alla disperazione, che giustamente si difende con tutti i mezzi
possibili e disponibili: in realtà la sua è una massiccia aggressione
alla libertà, alla laicità, alla scienza, alla democrazia, e in questo suo
assalto ha trovato fidi e simbiotici alleati.
Ma le cose non sono tutte così come appaiono giacché è vero anche
che il cattolicesimo, come del resto tutti i soggetti collettivi, siano
essi politici, economici, sociali e, o culturali della società civile, sono
oggi chiamati a nuove sfide concorrenziali che la globalizzazione
pone rimescolando le carte in tutti gli aspetti e verso tutti i soggetti e
quindi coinvolgendo anche le fedi, che non possono pretendere di
chiamarsi fuori, né possono pretendere di uscirne volgendosi al
passato e al vecchio, (tentazione allettante e nostalgica ma deleteria),
spacciandolo per nuovo.
Altra accusa che la chiesa romana intenderebbe scansare è quella di
sentirsi dire essere sempre più la rappresentante della parte opulenta
del mondo, contrapposta a quella più povera rappresentata dal credo
mussulmano, buddista o induista, anche se, naturalmente, non tutti i
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mussulmani, gli induisti o i buddisti sono poveri. Ma a proposito di
buddismo abbiamo visto come nei giorni di settembre del 2007 sia
accaduto che nel regime dittatoriale dei militari che strangola la libertà del popolo della Birmania, uno degli stati più arretrati del continente asiatico, decine di migliaia di monaci abbiano manifestato assieme agli studenti e alla popolazione civile sfidando una repressione
brutale, criminale e sanguinaria, chiedendo al regime il ripristino
delle regole democratiche e maggiore giustizia sociale. Quando mai
nei paesi cristiani, nel tempo sottoposti a tirannie e a dittature, è accaduto che i preti manifestassero assieme al popolo per la democrazia e la giustizia sociale? Spesso invece è avvenuto che le gerarchie
cattoliche siano state le alleate più fedeli delle peggiori dittature: non
serve arretrare di molto e guardare sia ad alcune nazioni dell’Europa,
come pure dell’America Latina e laddove in qualche paese alcuni
preti coraggiosi si sono schierati con il popolo, vedi mons. Romero,
sono stati immediatamente biasimati e anche condannati dai vertici
vaticani, e infine lasciati soli in balia degli scherani delle tirannidi,
che si sono con ciò sentiti autorizzati a farli tacere per sempre.
Anche la chiesa dovrebbe imparare ad accettare delle critiche e invece la sua reazione non è spesso meditata: è istintiva, piccata, veemente, respinge con sdegnoso fastidio gli appunti e la sua irritazione
è indirizzata in particolare verso quella società pensante che potrebbe
eventualmente esserle più vicina proprio perché convinta nel difendere le pluralità di pensiero e per questo realmente aperta alla discussione solo che si volesse ammettere la molteplicità delle verità, ma
soprattutto non le si volessero confondere, intendendo comparare e
mettere a confronto le verità di fede “assolute”, che appartengono alla sfera celeste, con le verità scientifiche, relative, che ovviamente
assumono tali connotati non per rivelazioni di ordine dogmatico, ma
in base a verifiche e riscontri concreti e dimostrabili, che appartengono alla sfera “terricola”.
Se alla fine l’ariete Ratzinger dovesse dare l’impressione di avere
sfondato il muro della città profana, secolare, sarà perché, coadiuvato
da quell’universo mediatico prono e cortigiano, che egli poi ogni tanto condanna, ma di cui poi largamente si serve, avrà spossato i suoi
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“antagonisti” ormai disinteressati alle polemiche sterili e in altre faccende affaccendati, i quali stufi di un martello assordante e monocorde finiranno, come si fa talora con i testimoni di Geova per toglierseli
di torno, per dargli ragione, per poi continuare a pensare: << eppur si
muove >>. Ma se l’eppur si muove sarà possibile solo pensarlo e non
proclamarlo, al grande “martello” germanico (Thor?) sarà stata conferita una concreta vittoria, (una sconfitta per il mondo laico e libero)
e allora vedremo riapparire i roghi, anche solo metaforici, contro tutti
i miscredenti, gli eretici, i dissidenti e i pensatori liberi che oseranno
contestare la verità unica.
Ecumenismo, termine accessibile agli iniziati e probabilmente a
non molti di più, per cui lo tradurremo nel più comprensibile universalismo.
Nei giorni dal quatto al nove settembre del 2007, in Romania e precisamente nella città di Sibiu, ai piedi delle Alpi Transilvaniche , si
tenne la terza Assemblea Ecumenica Europea, alla quale parteciparono circa 2.000 persone in rappresentanza del variegato mondo delle
chiese del continente. Il tema principale da dibattere era imperniato
sul titolo: <<La luce di Cristo illumina tutti. Speranze di rinnovamento e unità in Europa>>.
Tutti sanno, compresi quelli come me poco addentro nelle faccende
della fede, come l’ecumenismo europeo stia oggi attraversando una
profonda crisi e le responsabilità maggiori degli ultimi colpi infertigli
vanno attribuite in buona misura a questo pontefice e alla cerchia di
suoi fedelissimi, che verso le altre chiese, specialmente quelle della
riforma, hanno assunto un atteggiamento di sdegnosa supponenza e
apparente disinteresse, forse frutto di strascichi di un plurisecolare
conflitto, mai del tutto elaborato e digerito da un vecchio prelato di
un paese, la Germania, diviso fra cattolici e protestanti, che combatteva una guerra, (probabilmente oggi riservata a pochi dirigenziali residuati nostalgici, ancora ancorati ai vecchi conflitti di religione appartenenti a tempi finalmente ormai passati e ampiamente superati
dalla maggioranza dei fedeli di base), il quale prelato, fatto papa ha
inteso allargare il suo ossessivo scontro tentando di trascinare tutto il
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cattolicesimo in un conflitto che i più dei fedeli non comprendono e
tanto meno ne sentono il bisogno, conflitto che non potrà lasciare che
strascichi mortiferi e macerie.
Ad altro non sembrava alludere l’ennesimo documento vaticano
settembrino che ancora una volta intendeva mostrare l’esclusività
della chiesa cattolica, indicata quale unica vera chiesa di Cristo, dando un ulteriore schiaffo a quell’ecumenismo, che non veniva esplicitamente condannato, ma certamente fortemente ridimensionato e
messo all’indice assieme a tutti quei credenti, anch’essi cristiani, ai
quali non rimase che dire: <<ma noi non siamo chiesa?>>.
Prova di questo intenzionale disinteresse vaticano fu la quasi totale
assenza cattolica all’Assemblea: presente soltanto qualche personaggio minore, di rincalzo, assenti le grosse associazioni, salvo alcune
comunità di base, oltre a Pax Christi.
Di questa assemblea ecumenica i media italiani, esclusi pochissimi,
non diedero grande notizia, difficile dire se per disinteresse o, al contrario, in ossequio a un papa padrone, che nel mentre condanna
questa società soggiogata dal denaro e dal potere ne è al contempo
uno dei comprimari di peso maggiore.
Da dove lanciò questa volta il proprio messaggio? Da un paese
europeo di lingua tedesca, l’Austria, nazione di religione a maggioranza cattolica, (circa il 73%, anche se i praticanti nella realtà sono
molti di meno), e precisamente da Mariazell, il santuario che compiva 850 anni , dal quale ancora una volta scagliò i suoi strali contro il
relativismo di una scienza le cui conquiste diventerebbero ambigue,
se non addirittura terribili minacce, se l’uomo non dovesse tenere
conto di quella verità che, secondo il suo angoscioso pessimismo,
oggi non è più capace di fare propria.
L’altra affermazione arrivata dall’Austria fu un avvertimento inteso
a richiamare l’attenzione sul fatto che essendo l’uomo incapace di arrivare alla verità, non sarebbe quindi nemmeno capace di distinguere
fra il bene e il male; ma dicendo questo non so se realizzò di affermare e vivere una contraddizione dato che quanto disse era “vero”,
ma relativamente vero; ma su queste tematiche avrò modo di tornare
in uno degli ultimi “capitoli” di questo libro.
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Per questo motivo la chiesa cattolica, sempre secondo il pensiero
del pontefice, diventa lo strumento che, opponendosi a questo destino, indica all’uomo la via per la verità. In pratica, se non ho compreso male: l’uomo come un bimbo nella tenebra, dal momento che è
naturalmente limitato, ha bisogno di essere condotto per mano verso
la verità dalla chiesa, ma solo da quella cattolica, che è l’unica a possedere la formula giusta.
Ma torniamo al primo tema, sviluppando il quale sarà possibile
dare risposte anche al successivo.
Sappiamo bene che la scienza è neutrale solo in via ipotetica e che
quindi molte sue scoperte possono essere pensate e usate sia a fin di
bene che per fare il male, anche se in alcuni casi ( do ragione al papa, ma è un dato di fatto incontrovertibile, e quindi ho ragione pure
io, solo che io tiro in ballo il relativismo mentre lui non ne vuol sentir
parlare) non è praticamente mai così semplice determinare con
assoluta sicurezza quale sia l’uno e quale l’altro dal momento che ciò
che può essere ritenuto bene oggi non potrebbe esserlo domani e
viceversa. Inoltre sappiamo benissimo che può accadere che alcuni
scienziati talora non rispettino le regole deontologiche che impongono loro una rettitudine intellettuale, venendo meno la quale non
possono che ritenersi banditi dal consesso scientifico; il che non
significa che una volta rispettate queste regole auliche agli uomini di
scienza non venga chiesto altro. E infatti nelle società democratiche e
laiche esistono regole e limiti condivisi che queste si danno e che
valgono per tutti e quindi anche per la scienza, la quale anche
potenzialmente potendo travalicarle o eluderle, non lo può fare nei
fatti pena l’infrangere le leggi civili ma anche, come si è detto,
dell’etica, della morale e del senso comune, che potranno variare con
il mutare e l’evolversi della società, ma che saranno comunque
stabilite di volta in volta dal legislatore rappresentante la società
civile del suo tempo. Dopo di che si possono accettare consigli o
suggerimenti; non si possono invece accettare <<dictatus papae>>,
che si configurano come indebiti e gravi attacchi ai principi di laicità
degli stati, costati battaglie secolari e sangue.
Ma siccome pare sia assai difficile per un ostinato, intransigente e
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miope dogmatismo rendersi conto della piena e irrinunciabile legittimità di questa conquista democratica – forse perché la democrazia
nell’ordinamento interno della chiesa non è contemplata – diventa un
diritto dovere del mondo laico, che ha ben compreso quale è il valore
della posta, difendersi da questi attacchi con fermezza e senza remore
perché è proprio grazie alla democrazia, figlia dell’età dei lumi, che è
stato possibile, (lo ripeto ancora una volta), svincolare la filosofia dal
giogo vizioso di quelle verità rivelate ( che pretendevano e pretendono di persuaderci della razionalità della fede, scavalcando a piè pari
l’assioma secondo cui una verità è accettabile come tale se dimostrabile attraverso regole matematiche, geometriche, fisiche, scientifiche, umane insomma) per proporle l’incontro e il meraviglioso
cimento, armata delle sue esperienze e potenzialità, con le scienze
sperimentali. Una svolta che ha portato ad abbandonare l’assoluto
per il relativo e l’antropologico, che non significa che l’uomo debba
ripudiare il divino, (chi teme questo non ha ben compreso
l’essenza umana), ma semplicemente che l’uomo prende maggiore
coscienza di sé, altrimenti saremmo costretti a parlare di involuzione
umana, pur sempre movimento, anche se all’indietro, il che mi
sembra paradossale. Opporsi a questo significa temere di essere scorto nelle proprie nudità finora artificiosamente celate. Non si comprenderebbe altrimenti questa fobica resistenza e avversione: sembra
quasi ci sia il timore che l’uomo possa scoprire Dio per le vie che gli
attuali possessori di verità vogliono sbarrare. Ma, perbacco! Non
sono forse infinite le vie del Signore?
A Galileo, sottoposto al processo dell’inquisizione, fu chiesto di
dimostrare le sue teorie ed egli lo fece su basi scientifiche. Non fu
creduto in quanto queste esulavano dall’impianto filosofico – metafisico fatto proprio dalla chiesa e dalle verità bibliche rivelate.
Venne condannato e gli fu imposto di abiurare pubblicamente ad
esse. E pensare che già l’astronomo e matematico Aristarco di Samo,
vissuto dal 310 al 230 A. C., era stato il primo a sostenere che il Sole
era al centro dell’universo (allora conosciuto) e la Terra , con agli
altri pianeti; ruotava attorno ad esso. Riuscì anche a spiegare il ciclo
delle stagioni con l’inclinazione dell’asse terrestre. Naturalmente fu
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accusato di empietà, ma quelli erano altri tempi, infatti questo accadeva circa 1800 anni prima di Copernico.
Comunque il polacco Copernico riuscì a evitare le strette maglie
della rete inquisitoria forse perché vivendo lontano da Roma, nella
Prussia orientale, o perché essendo stato in precedenza nominato
canonico di Frauenburg, o ancora perché svolgendo per anni l’attività
di consigliere del potente vescovo dell’Ermeland, suo zio, ebbe in
qualche modo le spalle coperte.
Non le ebbe altrettanto coperte l’inglese Ruggero Bacone o Roger
Bacon , (da non confondere con il suo più tardo e omonimo connazionale Francis Bacon, pure egli finito in disgrazia, ma per motivi,
per vari versi, di altra natura).
Roger, 1214 – 1294, filosofo e scienziato multidisciplinare, chiamato poi Doctor mirabilis, era entrato nell’ordine dei francescani e
ebbe in un primo tempo la protezione del papa Clemente 4°, ovvero
quel tale Guy Foulques, che era stato sposato e aveva avuto due figli;
avvocato di fama e consigliere segreto del re di Francia, poi, dopo la
morte della moglie si era fatto monaco e aveva avuto una rapidissima
carriera ecclesiastica, scalando tutti i gradi della gerarchia, fino a
quello massimo. Aveva conosciuto e apprezzato lo scienziato inglese
prima di diventare papa, probabilmente quando questi aveva soggiornato a Parigi tra gli anni 1236 e 1251, periodo nel quale, dopo gli
studi a Oxford Bacone, prima di passare alle materie scientifiche, si
era dedicato allo studio e al commento dell’opera aristotelica.
Ma assieme alla passione per lo studio Roger coltivava anche il
“deprecabile vizio” per quei tempi, di cercare risposte e riscontri concreti e pertanto indagava e verificava “scientificamente” di persona
se quanto andava apprendendo corrispondeva al vero.
Scrisse trattati sulle scienze naturali, sulla chimica (alchimia), sulla
meccanica, sulla matematica, sull’astronomia. Tra le sue ricerche
rientrano le osservazioni, seguite da puntuali segnalazioni, sugli errori che egli per primo aveva riscontrato sul calendario Giuliano e sui
punti vulnerabili del sistema tolemaico. Non poteva dunque che essere ragionevolmente logica la sua liberazione dalla sudditanza del
pensiero teologico e filosofico del medioevo, (scolastica) e il suo
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conseguente e fervente abbraccio alla scientia experimentalis, precedendo, ad esempio, nella chimica, tutti coloro che nel 16° secolo:
Paracelso, Agricola, Palissy, iniziarono a liberarsi dalle credenze
empiriche degli alchimisti per utilizzare il metodo sperimentale di cui
egli fu artefice antesignano e sostenitore: <<La scienza sperimentale
non riceve la verità dalle mani delle scienze superiori; essa è sovrana
e le altre scienze sono alle sue dipendenze>>.
Sostanzialmente per questi motivi nel 1257 gli fu interdetto l’insegnamento a Oxford e dovette rifugiarsi ancora a Parigi.
Nel 1266 Clemente 4° gli chiese di inviargli copia delle sue opere
che egli, dopo averle completate nei due anni successivi, trasmise a
Roma all’esame degli esperti del Santo Uffizio: proprio così; gli
scienziati dovevano sottoporre le loro scoperte al giudizio ecclesiastico il quale avrebbe sentenziato se queste fossero state valide o infondate a seconda se reggevano o meno il confronto con l’impianto
teologico e dogmatico della chiesa di Roma. Ora, per fortuna le cose
non stanno più cosi, ma corposi segnali stanno a indicarci che la
chiesa romana, cose come laicità, libertà di pensiero e democrazia,
più che averle fatte proprie sembra purtroppo averle solo subite.
Nel 1277 (Clemente 4° era morto e al soglio di Pietro si erano alternati in pochi anni ben quattro papi, fino a Niccolò 3°, anche lui
però in carica per meno di tre anni) gli scritti di Roger Bacon vennero giudicati sospetti dal generale dei francescani Gerolamo d’Ascoli,
ma ciò che più lo mise in difficoltà furono le confutazioni e gli attacchi che egli aveva diretto contro alcuni illustrissimi domenicani, in
particolare due “mostri sacri” del suo tempo: Alberto Magno, peraltro anch’egli studioso di chimica e famoso per avere introdotto la
nozione di affinità, (termine però inserito ufficialmente più tardi nelle scienze chimiche dall’olandese Boerhaave, 1668 – 1738, maggiormente precisato intendendo i rapporti tra le varie sostanze), e colui
che fu probabilmente il maggiore filosofo e teologo della Chiesa, già
allievo di Alberto Magno, Tommaso d’Aquino. Lo stesso anno venne
precisata la sentenza che lo condannava alla prigione, dove rimase
fino al 1292, per avere espresso idee contrastanti con i dogmi canonici. Dopo la liberazione scisse il Compendiarum studii theologiae, ma
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morì prima di completarlo.
Ora una osservazione partorita da un disorientamento al quale non
ho saputo dare una spiegazione, se non poco benevola, che intendo
solo sfumare, originata dal fatto che alla corte papale romana si prese
subito a fare uso del calendario copernicano, (eliocentrismo), riformato, più preciso del precedente, senza che ciò creasse imbarazzo fra
gli alti membri del clero che ben sapevano come l’astronomo Copernico, e poi Clavius, avessero raggiunto tali risultati scardinando la
“fissità” dei loro dogmi. Date queste premesse diventa difficilmente
spiegabile l’insensato accanimento contro Galileo, se non con la constatazione di una irragionevole e arrogante (“sappiamo che hai ragione, ma ti condanniamo lo stesso perché è in nostro potere farlo”) difesa posta a baluardo di un impianto biblico-teologico che non veniva a cadere semplicemente perché nei fatti non era mai stato in piedi.
Di fronte a menti così eccelse l’umanità dovrebbe, meravigliata e
riconoscente, inchinare la testa e ringraziare. Invece continua a accadere che in un mondo popolato da persone per la maggiore semplici e
pacifiche, fra le quali operano donne e uomini dalle menti acute, che
non ambiscono al potere perché la loro ampiezza e libertà mentale le
pone al di sopra delle piccole meschine velleità, queste finiscono per
diventare vittime e bersagli del livore invidioso di uomini minuscoli,
gretti, bramosi del potere e dell’apparire, vittime anch’essi della loro
pochezza morale e intellettuale, che li rende però estremamente pericolosi, specialmente nei confronti dei vari Socrate, Aristarco, Gesù,
Ipazia, Bacone, Bruno, Galileo, persone che hanno saputo svelare
arcani ritenuti sacri e inviolabili e hanno saputo dire al mondo cose
che hanno rivoluzionato e ribaltato gli status-quo cristallizzati difesi
da poteri ottusamente arroccati su principi ritenuti eterni e inviolabili.
Ora si pretenderebbe di imporre a tutti una verità stabilita sulla
base di convinzioni personali, diffuse nel passato, ma anche al presente, con metodi spesso assai opinabili, pretendendo a parole di argomentarla razionalmente, ma non facendolo nei fatti. Non sarebbe
forse più saggio abbandonare questi arzigogoli filosofici dicendo
semplicemente: <<Il mio credo è un atto di fede!>>. Pare troppo
semplice? Troppo banale? Niente affatto! La fede non è né stupida né
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intelligente, è semplicemente la fede e non serve quindi, a meno che
il dubbio non attanagli con forza anche lo stesso proclamante, costruirgli all’intorno una grossa cornice dorata barocca, senza rendersi poi
conto che anche il fedele più schietto si fermerà a rimirare quel contorno dorato e fatuo, disinteressandosi del dipinto, il “fatto” in essa
contenuto.
Sembra che il papa nel misurarsi, o confrontarsi con la laicità, paventi che questa consideri le religioni irrazionali, come del resto egli
stesso volle fare intendere, nella famosa lectio di Ratisbona, essere la
religione mussulmana. Da ciò il nervoso arrabattarsi nel volere dimostrare essere la sua differente, collocata su un piano più alto rispetto
alle altre; per questo egli insiste avere la sua ricevuto non solo l’imprimatur divino, che la colloca però sullo stesso piano delle altre
concorrenti, ma anche quello umano, antico, greco e filosofico, che
sembrerebbe rassicurarlo e fornirgli quel di più che gli altri, secondo
lui, non hanno e in mancanza del quale sembrerebbe crollare l’impianto, o al meglio questo ne resterebbe indebolito, con buona pace
per lo sconcerto e lo stupore di eminenti teologi che non sanno più
cosa pensare.
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Libro 11°, Cap. 1
PRIMA GUERRA MONDIALE, FRONTE
ITALIANO
Tornerò ora agli anni della prima guerra mondiale, trasferendomi
però sul teatro operativo del fronte italiano e semplificando per quanto possibile farò un riepilogo dei più rilevanti avvenimenti maturati
su questo specifico settore.
Il 23 maggio, con effetto dal 24, dell’anno 1915, l’Italia, nonostante che nel paese si fosse registrato un ampio e, in buona sostanza,
trasversale, schieramento neutralista non interventista, dichiarò guerra all’Austria-Ungheria a seguito del sostanziale fallimento, probabilmente cercato o sperato, dato che in realtà si era trattato di uno sterile
trascinamento inconcludente delle trattative, avviate dal gennaio dello stesso anno, che vedevano l’Austria visibilmente e comprensibilmente irritata e risentita verso l’Italia, fino ad allora membro a tutti
gli effetti della Triplice Alleanza, (Germania, Austria, Italia), la quale
rivendicava, in cambio della sua neutralità, i territori che secondo le
sue ragioni ancora mancavano al completamento della sua unità, vale
a dire Trento e Trieste.
Il capo di stato maggiore dell’esercito italiano, generale Luigi
Cadorna, impostò una strategia offensiva al momento limitata al settore alpino orientale o delle Alpi Giulie, avente per obbiettivi Trieste
e Lubiana, mentre invece, oltre alla prima offensiva condotta sulla
Carnia e Dobbiaco, in Trentino era prevista solo una strategia puramente difensiva.
I primi contatti fra i due eserciti avvennero fra il maggio e il giugno
e entrarono nel vivo con le prime quattro battaglie sul fiume Isonzo
che si svolsero dal 23 di giugno al 2 di dicembre. Gli obbiettivi prefissati dall’esercito italiano non furono raggiunti, ma lo spostamento
di una parte dell’esercito austro-ungarico su questo fronte servì indubbiamente a alleggerire la pressione sull’esercito russo che stava
ritirandosi dalla Polonia, dandogli il modo di difendersi e riorganizzarsi. Favorì inoltre, sempre per lo steso motivo, la Francia nella sua
azione difensiva.
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L’inizio del 1916 vide il comando supremo austriaco, sostenuto da
contingenti germanici convinti di avere inferto ai russi un colpo decisivo, concentrato nello sforzo sul fronte italiano, realizzare una strategia che mirava a invadere il Veneto scendendo dal Trentino, ma ci
furono contrasti fra il generale Conrad, austriaco e Falkenhayn, il generale Germanico contrario all’operazione.
Contrasti fra germanici e austriaci avvenivano anche nella pratica
vita di tutti i giorni e pure non potendo quantificarne il peso di certo
contribuirono e pesarono anche questi in una certa misura sulla sconfitta finale. A tale proposito ho trovato alcuni interessanti riscontri
nel libro “La Grande Guerra nella Val Mareno”, zona della pedemontana trevigiana, chiamata anche localmente “quartier del Piave”. Il
libro a cura di Domenico Cesca, Dario De Bastiani editore, 2004,
nella parte prima, stilata dal reverendo Gioacchino M. Rossetto, frate
mariano ricordato, oltre che per i resoconti di quel travagliato periodo raccolti in un suo diario, anche per la sua grande generosità e
umanità che profuse nell’aiutare le disgraziate popolazioni del luogo:
Cison di Valmarino, Valmareno, Follina, Miane Pieve di Soligo,
ecc.., che furono sistematicamente spogliate di tutto, a partire dalle
case, requisite dalle truppe di invasione, fino al bestiame, alle derrate
alimentari, alle attrezzature, alla biancheria, al mobilio, al legname e
quanto altro poteva servire: rubarono addirittura le campane della
torre campanaria dell’abbazia di Follina e di altre chiese vicine. Tutto
questo a partire dal 14 novembre del 1917 e questo spietato comportamento dell’esercito invasore fece sì che fino dalla primavera del
’18 cominciarono a verificarsi fra quelle povere comunità le prime
morti per fame.
Ma veniamo ad alcuni brani, inerenti al tema suddetto, del resoconto del reverendo Rossetto: <<14 novembre…In tutte le case si mettono i soldati, però dove ci sono austriaci non vogliono prendere alloggio i germanici e viceversa…>>. E ancora: <<4 dicembre… Gli
austriaci non possono vedere i germanici e viceversa…>>. E di seguito: <<1 Gennaio 1918. Gli austriaci vanno dicendo che hanno riconquistato il monte Tomba. Ma i germanici dicono apertamente che
è stato perduto dai bosniaci vinti dai francesi…I germanici dicono
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che i loro alleati hanno perduto vergognosamente la loro posizione… I germanici disprezzano e odiano gli austriaci più degli italiani
stessi. Affermano che quando essi si ritireranno da questo settore, per
andare a combattere in Francia, gli italiani riconquisteranno la loro
terra>>. Se in questo settore le cose fra alleati andavano così è probabile che altrove non andassero meglio. A tale proposito, tornando
al generale Conrad, vediamo come poi egli decise autonomamente di
agire da solo e attaccò, dando il via a quella che restò famosa come
“la battaglia degli Altipiani”, la quale si protrasse dal 15 maggio al
24 luglio e si aprì su un fronte che andava dalla val Lagarina fino
alla Valsugana.
Le truppe di Cadorna, dopo un primo ripiegamento strategico, riuscirono a bloccare gli austriaci, poi contrattaccando li respinsero su
posizioni più arretrate.
Intanto sul fronte orientale, con la sesta battaglia dell’Isonzo, del 9
agosto, l’esercito italiano conquistava Gorizia e nell’autunno l’offensiva si spostò sul Carso triestino dove si combatterono altre tre sanguinosissime battaglie di logoramento: la settima, l’ottava e la nona
dell’Isonzo, che costarono ingenti perdite da entrambe le parti.
Anche senza dire degli accadimenti degli altri fronti, quali quello
russo, galiziano, balcanico, armeno, turco, ecc.., alcuni fatti vanno
rammentati, perché risultano essere fondamentali per la svolta che
presero gli avvenimenti nel 1917. Il primo fatto fu caratterizzato dall’
entrata in guerra degli Stati Uniti d’America; il secondo dalla rivoluzione bolscevica russa.
Gli americani rompendo le relazioni diplomatiche con la Germania,
intervennero nel conflitto in seguito al fatto che quest’ultima, dando
il via alla guerra dei sottomarini, colpì anche del naviglio americano
mettendo in allarme la potenza d’oltreoceano preoccupata per gli sviluppi e gli effetti che si sarebbero potuti produrre dall’espansione
della potenza militare marittima tedesca. L’entrata in guerra degli
Stati Uniti fu un colpo per la Germania e l’alleato austro-ungherese,
ma questo fatto negativo parve essere controbilanciato in qualche
misura dal fatto che la Russia, in seguito alla rivoluzione e alla presa
del potere del partito comunista bolscevico, nel dicembre del 1917
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intavolò le trattative per un armistizio con la Germania, che portarono alla pace del 3 marzo del 1918.
Sul fronte italiano il 1917 ebbe inizio con la proposta del generale
Cadorna agli alleati francesi e inglesi di condurre una azione incisiva
contro l’Austria, ma mentre la Gran Bretagna, con Lloyd George, era
sostanzialmente d’accordo, la Francia, con il generale Nivelle, poi
sostituito da Petain, tentennava a causa dei suoi problemi sul suo
fronte: in pratica fece naufragare l’iniziativa dando all’Austria il
tempo di rafforzarsi. Nel maggio tuttavia l’Italia riprese le operazioni
sul fronte orientale, dove furono combattute la decima e l’undicesima
battaglia dell’Isonzo, quest’ultima detta della Bainsizza, l’altopiano
del Carso a nord di Gorizia, che fu presa, ma al prezzo di 40.000 uomini morti, 108.000 feriti e 18.000 prigionieri; anche gli austriaci
ebbero peraltro perdite ingenti.
Intanto sull’altopiano veneto dei sette comuni, o di Asiago, a ridosso del trentino, fra il 10 e il 29 giugno fu combattuta la battaglia
dell’Ortigara, monte dell’altopiano, prima perduto e poi ripreso, ma
con un costo che causò la morte di 23.000 soldati italiani e 10.000
austriaci, (quindi molto più pesante per gli italiani), senza che questo
tremendo sacrificio avesse portato significativi risultati concreti.
La situazione critica in cui si venne a trovare l’Austria dopo la
perdita della Bainsizza, convinse la Germania a dare manforte all’alleato su quel fronte, ora che l’esercito russo stava smobilitando. E avvenne che le due potenze attaccarono sul punto dove l’Italia era strategicamente più debole e sguarnita – anche per la colpevole responsabilità dei comandi militari che avrebbero dovuto prevederlo – vale
a dire sull’alto Isonzo e sulla zona di Plezzo e Tolmino.
La massiccia offensiva a sorpresa sortì per gli austro-germanici gli
effetti sperati, perché fra il 24 e il 26 ottobre sfondò il fronte riuscendo a penetrare in profondità fra le fila italiane a Caporetto.
Il 27 il generale Cadorna ordinava il ripiegamento sul Tagliamento,
ma anche sulla linea di questo fiume la difesa fu talmente debole che
si dovette ulteriormente arretrare su una linea che dall’altipiano di
Asiago andava al massiccio del Grappa e quindi al Piave. Il 9 novembre il ripiegamento oltre il Piave era completato. L’Austria occupava
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ora non solo il Friuli Venezia Giulia e il Trentino, ma anche una parte consistente del Veneto nord-orientale.
Il generale Cadorna venne esonerato dal comando e sostituito con il
generale Armando Diaz.
A questo punto gli austro-germanici ritennero, ma poi si vide a torto, di trovarsi ormai di fronte a un esercito nemico fiaccato e con il
morale a terra e immediatamente iniziarono gli attacchi sul nuovo
fronte che si era costituito più a sud. Anche loro però avevano speso
parecchie energie, anzi stavano per finire la riserva e sulla resistenza
del nemico si sarebbero dovuti ricredere perché sulla destra del Piave
l’esercito italiano, sarà stata la caparbietà o la disperazione, era riuscito a riorganizzarsi; tuttavia il precedente cedimento di Caporetto
aveva messo in luce, al di là degli errori tattici colà commessi, la necessità di una maggiore intesa e collaborazione fra alleati e a tale motivo fu convocato, nel novembre, un incontro a Rapallo fra Francia,
Gran Bretagna e Italia al fine di coordinare gli sforzi sotto un unico
comando.
L’inizio del 1918 mostrava una Germania, dopo il positivo accordo
di pace con la Russia che ritirandosi dal fronte aveva abbandonato
l’Ucraina lasciandola sotto il controllo germanico, decisa a concentrare i suoi sforzi sulla Francia con massicci e reiterati assalti. Questi,
iniziati il 21 marzo e protratti fino al 15 luglio, avevano l’obbiettivo
di separare i francesi dai britannici, sia sulle Fiandre che in Piccardia
e fino a Chateau Thierry. Tale offensiva, producendo il suo massimo
sforzo permise alla Germania di raggiungere l’obbiettivo di arrivare
per la seconda volta nei pressi di Parigi, nonché a Reims, ma poi non
ebbe ulteriori energie, o non seppe andare alla conclusione, questo
anche perché le truppe franco-britanniche, dopo un iniziale ripiegamento, seppero riprendere l’iniziativa resistendo con altrettanta grinta di quanta aveva impiegata il nemico.
Anche sul fronte italiano si poteva constatare come questo fosse
oggetto di furiosi e continui tentativi nemici, contrastati con uguale
accanimento, sia sugli altopiani che sul Grappa e questi scontri culminarono con la famosa battaglia del 15 giugno, detta anche del Solstizio, dove si ebbero perdite ingenti in entrambi gli schieramenti.
208
Poi l’offensiva austriaca si concentrò sulla linea del Piave e in particolare sulla zona del Montello, la lunga massiccia altura che segue
per buon tratto il fiume, sulla sua destra, laddove questo lascia i monti per avviarsi più placido sulla pianura veneta. L’offensiva austriaca
sortì qualche risultato vantaggioso permettendo a alcuni reparti di
attraversare il fiume e costituire sull’altra sponda delle “teste di ponte”, ovvero delle basi fortificate, che però presto dovettero smobilitare perché in breve furono respinte sull’altra sponda.
Poi, il 25 settembre, il generale Diaz dalla zona del Montello effettuò una manovra di forzatura a cuneo tendente a spaccare il fronte
nemico in due tronconi: quello del monte e quello del piano. Poi
puntando sull’ampia ansa che fa piegare il fiume da est verso sud, e a
partire dalla pedemontana al piano, si diede inizio al bombardamento massiccio delle postazioni nemiche sull’altra sponda, le quali
causarono purtroppo anche vittime italiane e rovine, nei paesi rivieraschi, di abitazioni civili e di monumenti storici, come l’antica abbazia di Vidor e i due grandi castelli di Collalto e San Salvatore, dove
alloggiava un comando austriaco. La manovra ebbe successo e il 24
ottobre fu sferrata l’offensiva della quarta armata comandata dal
generale Giardino. Il 29 ottobre l’esercito austriaco, ormai esausto,
cominciò a ripiegare verso nord-nord-est, in particolare sulla direttiva
della statale Pontebbana, verso Susegana e Conegliano, le ultime città prima del Piave che erano state occupate dopo Caporetto, poi
piegò a nord sulla statale Allemagna, verso il Cadore. Il 31 il troncone montano aveva abbandonato il Grappa. Gli ultimi deboli scontri
del troncone che aveva preso la via del Cadore avvennero, come tutti
sanno, a Vittorio Veneto, ricordata come la città della vittoria. Il 4
novembre l’Austria – Ungheria chiese la resa e dovette firmare l’armistizio, precedendo di una settimana, (11 novembre), la resa della
Germania e la fine della prima guerra mondiale.
Intendo dare ora solo un paio di dati, uno parziale e uno complessivo, senza fare sostanziali commenti, dato che questi parlano da soli, a
parte la considerazione che questa tragedia purtroppo non fu di aiuto
a fornire quel minimo di saggezza bastante a evitare quella ancora
più immane che si sarebbe abbattuta sul mondo solo una ventina di
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anni più tardi.
Ma si badi bene, tragedie come queste, (il discorso vale anche per i
disastri economici), non sono eventi naturali non prevedibili, privi di
colpevoli materiali; qui i colpevoli e i responsabili sono facilmente
individuabili per nomi e cognomi e lo sono anche i loro epigoni, che
buon senso vorrebbe, specialmente nei paesi democratici, dovrebbero
essere tenuti a distanza dalle leve di potere; ma questo non avviene e
accade che milioni di persone, che nei loro paesi possono diventare
maggioranze, cadono preda di una affezione patologica che sommando un mix di perdita di memoria storica, masochismo e poca
stima personale, rinunciando alle proprie potenzialità intellettive,
sono attirati e si affidano, come i topi del pifferaio di Hamelin, in
mani le meno adatte al loro bene: e ricomincia quel ciclo fatale che
talora si risolve in farsa, ma talora in tragedia.
Il totale complessivo dei morti, fra civili e militari causati dalla
guerra fu di 8.700.000. In Italia le cifre ufficiali indicarano il numero
in 600.000, ma alcune fonti diedero un numero ancora più alto, senza
naturalmente contare i feriti, i mutilati e gli invalidi permanenti e poi
le distruzioni e le spogliazioni subite dalle popolazioni civili che vivevano nei territori attraversati dalla guerra.
Lo stato di prostrazione e miseria in cui venne a trovarsi non solo il
territorio che materialmente subì la guerra, ma anche il resto del paese, fu enorme e, come s’è detto, ancora maggiore in quelle zone che
furono il teatro degli avvenimenti, zone dove si viveva sostanzialmente di agricoltura e che videro questa risorsa depauperata, vale a
dire il patrimonio zootecnico quasi cancellato e le culture razziate e
devastate. In particolare l’ultimo anno di guerra, ma anche i primi
anni successivi a questa furono nel vero senso anni di miseria, dove a
patire maggiormente e a morire d’inedia spesso i bambini furono le
vittime principali. Tempi di stenti, di fame e di emigrazione massiccia. Anche per questo è d’obbligo mantenere la memoria e comprendere i drammi di coloro che al nostro tempo fuggono dalla miseria e
dalle guerre per cercare nei paesi più ricchi una vita anche solo un
poco più dignitosa.
Ora la guerra era finita e bisognava pensare a vivere e a ricostruire,
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cancellare lo scenario desolante che si parava davanti agli occhi, anche se ancora non poteva svanire e non si spegneva il dolore per le
perdite dei giovanissimi soldati, in particolare i ragazzi del ’99, reclutati nel 1917 e mandati a morire appena diciottenni, dopo un sommario addestramento.
Ma non bisognava dimenticare e fu anche o soprattutto per tenere
desta la memoria di questo orrore, la memoria diventò in Europa
peraltro rapidissimamente labile, che a un musicista friulano, testimone con i suoi paesani di questi dolorosi eventi, venne spontaneo di
scrivere un canto nella lingua della sua terra dedicato ai soldati che
avevano perso la vita in quell’insulso macello di popoli.
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Cap. 2
ARTURO ZARDINI.
Gli emigranti.
Sono molti i canti, le ballate, le poesie e i poemi di guerra che furono scritti e fra questi alcuni inneggianti la esaltarono, ma i più nel
ricordarla intesero condannarla e farne comprendere tutta la brutalità,
la follia, l’inutilità.
Gli artisti e i poeti forse non possono fare molto di più che richiamare l’attenzione degli uomini, in particolare di coloro che hanno
nelle loro mani la terribile responsabilità del potere, i quali spesso
abusando del quale, immagino che le tentazioni possano anche essere
forti, per i loro ruoli e posizioni, ( questo dimostra quanto le democrazie attuali siano ancora lontane dall’essere perfette), protetti fra le
mura delle loro sicure e ricche dimore, si arrogano il diritto di strappare dalle loro case i figli delle classi più umili per mandarli a morire
o a dare la morte ad altri figli di classi umili; poi, non paghi, riempendosi la bocca di melensa retorica patriottica, evocando la difesa
degli ideali, della civiltà, della patria, ecc..e distribuendo medaglie si
nettano le coscienze.
Cosa dire a noi stessi e agli uomini di potere, in questi casi decisamente abusivo, se non ogni tanto fermarsi ad ascoltare i poeti?
In questo mio lavoro ho voluto, di proposito, ricordare qualche
verso semplice e bello scritto da uomini e donne che sono riusciti a
farmi meditare sulla stupidità e volgarità della guerra e a ammonirmi
da non mancare dal guardarmi da questo mostro che tutti portiamo
dentro, dal momento che tutti siamo almeno un po’ stupidi e ferini.
Dell’autore e del suo specifico brano che in seguito esporrò, mi ha
colpito non solo la sua dolce semplice bellezza, ma anche la singolare analogia con l’altro brano che ho in precedenza presentato:
The Flanders Poppy di John Mc Crae, seppure le località e gli scenari
siano diversi: in uno i nudi paesaggi marini del nord dell’Europa con
le dune sabbiose delle Fiandre, nell’altro l’asprezza delle montagne
alpine del Friuli, con i boschi di abeti, le vallate, le radure, i pascoli.
Ma è nonostante queste estreme diversità che le scene finiscono per
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diventare uguali, quando da una parte le distese dei papaveri e
dall’altra quelle delle stelle alpine, fiori diversi che crescono per forza in zone diverse, si uniformano e diventano uguali perché sia gli
uni che le altre si sono assunti il medesimo compito di sbocciare
sulle sepolture di giovani uomini, per rammentare ai vivi, a coloro
che sono rimasti, di non far scendere l’oblio sul loro sacrificio, ma
soprattutto per ammonire un’altra volta di più che l’inutile orrore di
vite così precocemente spezzate non debba ancora ripetersi.
Accadde dunque che anche in Friuli, all’indomani della Grande
Guerra, un uomo, musicista e poeta, sentisse il bisogno di scrivere un
canto che negli intendimenti suoi e quindi della creatura del suo brano, riportando fra la gente lo spirito di un ignoto soldato morto e
sepolto fra le rocce dei monti della sua terra, gli ridonasse, ogni volta
che questo fosse stato cantato, la facoltà di parlare rivolgendosi anzitutto alla persona in vita a lui più cara, la sua sposa, per consolarla e
dirle che lui e le stelle alpine che gli facevano da coperta le sarebbero
sempre stati vicini, ma così anche a tutti quelli che passando presso
la sua sepoltura avessero voluto rivolgergli un pensiero.
Questo poeta e musicista si chiamava Arturo Zardini ed era nato
nel 1869 a Pontebba, paese radicato a 570 metri di altezza sulle falde
delle Alpi Carniche. Paese di origine antichissima della Val Canale,
ora a meno di dieci chilometri dal confine austriaco: prima della
guerra del ’14 – ’18, il paese, diviso dal torrente omonimo, apparteneva per la parte settentrionale all’Austria col nome di Pontafel e per
la parte meridionale all’Italia. Dal paese prese poi il nome la strada
statale numero13 Pontebbana, che partendo da Venezia – Mestre prosegue per Treviso, attraversa il Piave, Conegliano, Pordenone, attraversa il Tagliamento, Udine, Pontebba e Tarvisio, poi, oltre il confine, prosegue con la strada statale numero 17 che ricalca grossomodo
l’antica via romana Iulia Augusta per Villach, Klagenfurt e Vienna.
Sempre sopra un tracciato grossomodo parallelo alla strada venne
completata, perché in parte già esisteva, nell’anno 1879, la ferrovia
Pontebbana per collegare Venezia a Vienna.
La famiglia Zardini era però originaria della pianura, vale a dire di
Pozzo di Codroipo, paese sulla sponda sinistra del Tagliamento e si
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era poi spostata a Cormons, altro antico paese della zona del Collio
Goriziano, quasi al confine con lo stato sloveno, famoso per i suoi
meravigliosi vini; infine la famiglia si trasferì a Pontebba. La madre
di Arturo era invece originaria di Malborghetto, paese montano fra
Pontebba e Tarvisio, che assunse questo nome nel 1354 dopo che un
furioso incendio aveva devastato quasi interamente il vecchio paese
che a quel tempo si chiamava Buonborghetto.
Arturo già da giovanissimo, fino dalle elementari, aveva palesato
una prepotente inclinazione musicale, sicché i genitori, che non
risulta fossero benestanti, ma forse nemmeno poveri: il padre aveva il
soprannome di “mulinar”, mugnaio, che probabilmente non si dava al
dipendente, ma al proprietario del mulino, lo inviarono a studiare
musica dal maestro di cappella Rodolfo Tessitori. Però a quei tempi e
in quei paesi un giovane non poteva vivere facendo solo il musicista,
(e per la verità questo è difficile che avvenga anche oggi), per cui
Arturo dovette, come a quel tempo fecero molti suoi compaesani,
cercare lavoro all’estero e precisamente in Austria, nella vicina regione della Carinzia, dove fu assunto come apprendista muratore.
A diciotto anni, nel 1887, era nuovamente in Friuli e l’anno successivo fu arruolato nell’esercito, nel 36° reggimento di fanteria dove,
grazie alle sue conoscenze musicali, fu impiegato come trombettiere,
( e qui si nota un’altra analogia con l’autore di The Flanders Poppy,
Mc Crae, anche lui trombettiere, a quindici anni, nel reggimento
della milizia della sua Guelph. Durante i quattro anni del servizio militare Arturo approfittò per studiare, ad Alessandria, armonia e contrappunto, fino a ottenere il diploma di direttore di banda, grazie al
quale, finita la “naia”, ottenne un impiego presso il liceo musicale di
Pesaro. Poi la nostalgia lo riportò al suo paese, dove nel 1903 ottenne
l’incarico di direttore della banda di Pontebba, incarico che mantenne
fino al 1915, anno dell’entrata italiana nella prima guerra mondiale.
Essendo il suo paese e tutta quella zona sulla linea di confine gli
scontri fra i due eserciti nemici erano particolarmente intensi e il pericolo era sempre in agguato, tanto che numerosi abitanti, sia perché
avevano perso le abitazioni, sia per non rischiare di perdere anche la
vita, dovettero abbandonare quei luoghi e così fece anche Arturo che
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fu dapprima profugo a Moggio Udinese, poco al di sotto del suo paese, ma poiché anche questo entrò in breve nel raggio d’azione dei
combattimenti, egli e molti degli abitanti inseguiti dalle cannonate,
dovette rifugiarsi dapprima a Udine e poi, si presume dopo lo sfondamento nemico a Caporetto, si spostò a Firenze.
Fu in questa città, da sempre madre e musa ispiratrice di grandi artisti, che egli compose “Stelutis Alpinis”, il suo canto più famoso, di
sicuro il più intimamente intenso: un brano pensato inizialmente per
solo coro maschile, ma che poi è stato egregiamente adattato anche
per coro misto, il quale nella forma si richiama un poco alle villotte
friulane, con le due parti superiori dei tenori, primi e secondi, che
procedono paralleli e le parti inferiori, dei baritoni e bassi, che fanno
il contrappunto.
Sono molti i brani di musica classica, lirica o anche leggera, pop,
jazz, ecc.., che sono stati adattati e interpretati, direi con buoni risultati, dal canto corale popolare, mentre sono stati decisamente in numero minore, forse per scarsa tradizione, quei brani di origine popolare, d’autore o meno, nati per la musica corale che sono poi stati
fatti propri anche da altre forme espressive musicali: Stelutis Alpinis
è uno di questi, uno di quelli a cui diversi artisti si sono ispirati; ad
esempio Francesco De Gregori lo ha inserito in un suo album.
Arturo Zardini non “sciacquò i panni in Arno”, ma volle scrivere il
canto nella lingua del suo Friuli per esprimere con maggiore intensità
i sentimenti di un figlio di quella terra aspra e tenace e insieme dolcissima, (terra spessissimo nella storia martoriata), affinché arrivassero nei cuori e nelle menti dei suoi fratelli friulani; ma toccarono poi
con altrettanta intensità anche le corde sensibili di tutti coloro che
questo canto hanno conosciuto, dato che diventa immediata e spontanea la sintonia con lo spirito del giovane soldato morto, che non parla
di nemici, non parla di vendette, non muove accuse né moniti, chiede
solamente alla sua donna che intensamente aveva amata, ma in definitiva a tutti quelli che passeranno vicino a dove lui ora riposa, di
non essere dimenticato, così che anche lui e il suo spirito, a sua volta
non dimenticando, dormirà sereno.
Arturo Zardini fu autore di numerose composizioni per banda – il
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tipo di formazione musicale a lui più congegnale -, ma dal momento
in cui rientrò in Friuli iniziò a dedicarsi anche, o prevalentemente,
alla composizione per coro con brani sia in italiano, ma soprattutto in
friulano e sono certamente questi, scritti nella sua lingua d’origine, di
cui se ne conservano circa una trentina, quelli che hanno riscosso i
consensi maggiori, e ci sono canti allegri e briosi, o tristi e malinconici, racconti di vita della gente del Friuli, quadretti che descrivono i
paesaggi della sua terra, della natura, delle stagioni, dell’amore. Tutti
di grande fascino e spontaneo e immediato impatto, certamente dovuto alla semplicità e naturalezza dei testi. Fra questi da ricordare
“La gnot d’Avril”, (La notte d’aprile); “La Rosane”; “L’emigrant”;
“Primevere”; “Il cjant de filologiche”; “Serenade”; “La Staiare”; “Un
Salut’ e Furlane”; ecc… Compose inoltre canti religiosi, tre canti per
voce solista, una messa cantata e una sinfonia.
Nell’ultimo periodo della sua vita il maestro Zardini era andato a
abitare nel capoluogo della sua regione, Udine e qui venne a mancare
a questo mondo nell’anno 1923, compianto dai suoi corregionali e da
tutti i suoi estimatori.
Io che per hobby canto in un coro misto nel cui repertorio non
manca il brano più famoso di Arturo Zardini, come anche altri canti
di autori di quella regione, so per esperienza diretta che non è per
niente facile la pronuncia corretta della lingua friulana, come so pure
che ancora oggi, a quasi novant’anni dalla morte del maestro Arturo,
tutta la regione friulana e giuliana, a partire dalla sua piccola città
Pontebba, mantiene ancora vivissimo il ricordo e la gratitudine per
questo suo figlio che in maniera significativa ha contribuito con la
sua opera a mantenere saldi e vivi gli aspetti culturali di questa terra
dove le tradizioni popolari sono ancora oggi una componente di fondamentale importanza, autenticamente sentita e viva, fortemente
compenetrata nel suo tessuto sociale collettivo, dove il canto popolare e corale, le bande musicali cittadine, le antiche danze e musiche
ristudiate, come le villotte e le furlane, le loro rivisitazioni teatrali e i
suoi costumi della tradizione, sono oggetto di attenta e saggia azione
protettiva, di salvaguardia e di trasmissione e insegnamento alle giovani generazioni. Un grande patrimonio culturale diffuso anche oltre
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i confini regionali e nazionali con l’intento di far conoscere di più e
meglio i vari aspetti dell’ antica cultura e del ricco folclore di questa
piccola grande regione..
Stelutis alpinis
(friulano)
<<Se tu vens cassù ta cretis,
là che lôr mi àn soterât,
al è un splàz plen di stelutis:
dal gnò sanc ‘l è stat bagnât.
Par segnal, une crosute
Jé scolpide lì tal cret:
fra chês stelis nàs l’erbute,
sot di lôr jò duâr cuièt.
Ciòl, su, ciòl une stelute:
je a’ ricuarde il nestri ben.
Tu i darâs n’e bussadute,
e po plàtile tal sen.
Quant che a cjase tu sês sole
E di cûr tu préis par me,
il gnò spirt atôr ti svole:
jò e la stele sìn cun te>>.
(italiano)
<<Se vieni quassù fra le rocce,
là dove mi hanno sepolto,
c’è uno spiazzo pieno di stelle alpine:
che è stato bagnato dal mio sangue.
Come segnale una piccola croce
È scolpita lì nella roccia:
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Fra quelle stelle nasce l’erbetta,
e sotto di loro io dormo sereno.
Cogli, su cogli una piccola stella:
sarà il ricordo del nostro amore.
Dalle un bacio,
e poi nascondila nel seno.
Quando a casa sarai sola
e di cuore pregherai per me
il mio spirito ti aleggerà attorno
io e la stella siamo con te>>.
Come accadde sul finire dell’ottocento o nel decennio successivo
alla prima guerra mondiale, ma anche in tempi successivi, furono
molti gli italiani a “scegliere” la via dell’emigrazione. Spinti dal naturale bisogno di sopravvivere lasciarono i loro paesi e si dispersero
in ogni angolo di mondo che avesse offerto loro di vivere in maniera
decorosa. L’unica ricchezza che possedevano erano le loro braccia,
che non barattarono con la dignità che non vollero perdere e che nel
loro paese gli era stata negata, ma che sarebbe stata pienamente gratificata se fosse stata rappresentata da un lavoro, da un salario, dalla
prospettiva di una vita dignitosa per sé e per la propria famiglia.
Anche Arturo Zardini oltre che profugo di guerra fu anche emigrante, e fu tra i fortunati perché trovò subito un lavoro nella confinante Austria. Tra i suoi canti ce n’è uno dal titolo “L’emigrant”, che
egli scrisse con cognizione di causa, anche se la sua esperienza
all’estero fu di breve durata, ma sicuramente bastante a fargli provare
quei sentimenti che accompagnano e accomunano tutti gli emigranti
del mondo, incluso fra questi il senso di opprimente sopportazione
conseguenza del disagio causato da taluni sguardi storti, da qualche
parola o gesto ostile da parte di persone che intendendo, intenzionalmente e stupidamente, sminuire o ferire, non fanno che sminuire e
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ferire sé stesse.
Se nello scrivere storie di uomini non è infrequente che queste, per
combinazione, coincidenza, assonanza, accidente o fatalità, ne richiamino altre, corrispondenti magari per certi tratti o aspetti, non allarmatevi se nel raccontarne una dovessi, momentaneamente, saltare a
un’altra, dato che non lo farei certo con quella determinazione di
spirito e di conoscenza larga che mosse Plutarco a raccontare le “Vite parallele”, ma molto più semplicemente, mancandomi tra l’altro il
bagaglio cognitivo del biografo e filosofo di Cheronea, lo farei per il
richiamo a quelle coincidenze che dicevo sopra, che sono anche più
frequenti di quanto generalmente si creda, perché ritengo sia capitato
a molti sentire raccontare un fatto e dire fra sé. “toh guarda! Una storia del genere l’ho già sentita”.
Una cosa che centra con la vita di Zardini chiederete? Con la sua
vita no, ma con quel suo particolare momento di emigrante e anche
per un altro motivo o coincidenza, escludendo comunque il finale, in
questo secondo caso molto più brutto.
Siamo all’inizio degli anni settanta del secolo da poco trascorso, in
questo mio Veneto, una regione che dall’inizio del secolo fino alla
metà abbondante era stata terra di emigranti e al tempo del nostro
racconto non era passato da molto il periodo di una emigrazione ancora piuttosto diffusa verso la Svizzera o la Germania; mentre pochi
anni prima, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, si era
puntato di più verso il Belgio, la Francia, o verso le Americhe o
L’Australia.
Ora il lavoro anche nelle nostre province non mancava e se qualcuno prendeva ancora la via dell’estero lo faceva con motivazioni che
non erano più quelle dello stretto bisogno ma perché c’era una
possibilità in più di scelta fra una prospettiva locale o una oltre confine più remunerativa. Ora accadeva anche che molti emigranti
rientravano, non solo con tutto il loro bagaglio di esperienze vissute,
ma anche con il loro gruzzoletto duramente racimolato, che gli consentiva di comperarsi la casa o acquistare l’appartamento ed essi,
forti delle loro esperienze acquisite all’estero trovavano facilmente
lavoro come qualificati o specializzati nelle aziende locali le quali
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erano ormai piuttosto diffuse sul territorio. Conosco personalmente
parecchi di questi ex emigranti e ex miei compagni di lavoro con i
quali conservo un’amicizia salda fino da quegli anni.
Restava il fatto, dicevamo, che salvo i gelatai o i ristoratori, che
specialmente in Germania o in Olanda, erano diventati proprietari dei
loro esercizi, o anche di catene di esercizi, qualcuno prendeva ancora
la via del centro e nord Europa, tuttavia anche se in taluni bar, ad
esempio di Monaco di Baviera, ma non solo, erano ormai stati tolti i
cartelli con la scritta:<<vietata l’entrata ai cani e agli italiani>>, un
certo grado di razzismo o, se può sembrare più garbato, di xenofobia
verso questi “albanesi”, che venivano dall’aldilà delle Alpi, persisteva ancora, ed è tanto vero che ad esempio in Svizzera, ogni tanto, si
indiceva un referendum per decidere se fosse stato il caso di tenere
oppure di cacciare gli stranieri; non però se fossero stati turisti o se
portavano i soldi nelle banche, naturalmente! Per fortuna che la
maggioranza degli svizzeri è formata da persone intelligenti e i
referendum di questo genere sono sempre stati bocciati.
Siamo nel marzo del 1971, un giovane carpentiere veneto, originario del Cadore era, (come prima di lui molti suoi connazionali),
emigrato in Svizzera, per la precisione a Zurigo. Il suo nome era
Alfredo Zardini. Ecco l’altra analogia, casuale, il cognome: chissà,
forse era un parente alla lontana del nostro primitivo emigrante
musicista, o non lo era affatto e chissà quanti saranno stati gli Zardini
emigranti. Resta il fatto che fu una coincidenza che mi incuriosì e mi
indusse a approfondire e poi a raccontare l’accaduto.
Il mattino del venti marzo, alle ore cinque, Alfredo uscì di casa per
recarsi al cantiere; eravamo all’ultimo giorno dell’inverno ma faceva
ancora freddo tanto è vero che lungo le strade restava ammucchiata
ancora un bel po’ di neve. Essendo in anticipo sull’orario, probabilmente il lavoro iniziava alle sei, pensò di fermarsi a prendere un
caffé in uno dei rari bar che aprivano a quell’ora, che era quella dei
lavoratori turnisti o di quelli che facevano gli straordinari sfruttando
tutte le ore di luce del giorno. Nel bar c’erano pochi avventori e fra
questi un altro operaio, di nome Gerhard Schwitzgebel, il quale era
stato un attivo militante di un movimento che aveva promosso un
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recente referendum contro la presenza degli stranieri in Svizzera.
Forse era irritato perché l’esito della consultazione non era andato
come avrebbe voluto, forse nella sede del suo movimento i commenti
dei militanti delusi erano stati molto caldi e gli insulti all’indirizzo
degli stranieri e dei connazionali che non capivano nulla si erano
sprecati e probabilmente si erano caricati l’un l’altro di odio razziale,
resta il fatto che quel mattino Gerhard Schwitzgebel era come una
bomba innescata sul punto di esplodere sul primo bersaglio gli fosse
capitato a tiro.
Lo svolgimento dei fatti da quel momento non fu più possibile
ricostruirlo con esattezza, si accertò tuttavia che Alfredo Zardini fu
dapprima aggredito verbalmente dallo Schwitzgebel con frasi del
tipo: “torna a casa bastardo italiano”, poi dalle parole lo svizzero passo ai fatti e furono pugni e calci finché Alfredo rimase a terra agonizzante, senza che alcuno dei presenti avesse mosso un dito né per
fermare la furia dell’aggressore, né per soccorrere l’aggredito. Ma
Alfredo rantolante sul pavimento intralciava il passaggio dei solerti
cittadini svizzeri, che è doveroso dire, nella maggioranza non sono
razzisti, ma in quel luogo e in quel momento il nostro carpentiere era
purtroppo capitato male; e dato che c’era anche il rischio che sporcasse per terra, fu portato fuori di peso e scaricato sopra un cumulo
di neve. Solamente dopo una mezzora, altre cronache parlarono addirittura di due ore, di agonia sulla neve si pensò di chiamare una ambulanza, ma al suo arrivo Alfredo Zardini era già morto di emorragia
interna.
L’aggressore, processato, fu condannato a 18 mesi di carcere, che
per un italiano morto ammazzato forse era anche troppo, vi pare?
Non fu né il primo e nemmeno l’ultimo episodio di italiani emigranti uccisi per razzismo, ma dovrebbe far pensare la morte di questo operaio veneto di una provincia limitrofa alla mia che per molti
versi è ammirevole essendo straordinariamente piena di associazioni
di volontariato alcune delle quali si adoperano, fra l’altro, anche dei
disagi degli immigrati, ma che è anche forse altrettanto rigurgitante
di sentimenti razzisti e xenofobi spesso agitati ad arte proprio da chi,
per le cariche istituzionali che occupa dovrebbe adottare condotte e
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atteggiamenti di tutt’altra misura anziché alimentare fra la gente sentimenti di paura, disagio, repulsione e fobia nei confronti di quanti, e
sono la stragrande maggioranza, vengono nel nostro paese solamente
per cercare un lavoro e la possibilità di una vita migliore.
Diventa chiaro che è pura e squallida retorica parlare di integrazione quando non si pensa neanche lontanamente a concedere la cittadinanza a quegli stranieri che sono e lavorano nel nostro paese da un
numero congruo di anni, hanno avuto figli che frequentano le nostre
scuole, i quali non conoscono altre persone, altra cultura e altro paese
che questo. Se costoro continueranno a essere discriminati, come potranno mai essere aiutati a integrarsi?
Proprio per questi motivi e per indurre le persone a riflettere su
questi problemi, a Treviso, città che ha espresso uno dei sindaci più
truculenti e razzisti che si siano mai visti, al Palalido di Villorba il 30
giugno del 2008 è stata indetta una serata speciale antixenofoba
dedicata al ricordo di quel “rom”, “albanese”, “negro”, “marocchino” che rispondeva al nome di Alfredo Zardini, vittima dello stolto
pregiudizio razziale.
Nello stesso mese e in quello successivo, il nostro ministro degli
interni, divorato dal sacro fuoco dell’efficienza securitaria e giustizialista, (mentre da un lato il suo governo, per salvare le terga del suo
capo varava una legge “salva premier” e per dare a bere al popolo
che non era una cosa fatta ad personam ci aggiungeva, oltre al soggetto interessato, le tre più alte cariche dello Stato), il nostro prode
ministro, al fine di stroncare sul nascere la vera abbietta criminalità
di stampo “migratorio”, proponeva di prendere le impronte digitali a
tutti i bambini rom. Un altro esponente della granitica schiera degli
irriducibili e zero-tolleranti, visto che né i moniti di Bruxelles, né
Amnesty International e nemmeno la chiesa cattolica sono bastati a
smuoverlo dai suoi granitici propositi e ai critici e oppositori andava
ripetendo che si sarebbe trattato solo di una normale operazione di
<<censimento>>. Fortuna che i prefetti delle province, fecero osservare, con buon senso, che una eventuale legge sarebbe stata di fatto
impossibile da applicare, a meno che non si fosse montata una colossale nazionale caccia all’uomo, pardon, al bambino. Questo per dare
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un’idea del nostro uomo. Speriamo non gli vengano in mente altre
misure “securitarie” aventi lo scopo di tutelare il popolo contro il pericolo dei bambini rom, che ne so…fargli cucire sul petto una grande
R gialla, così gli onesti cittadini individuando facilmente i temibili
criminali, avranno una opportunità in più per difendersi. Il tatuaggio
indelebile sul braccio sarebbe più efficace, ma se poi uno porta le
maniche lunghe e d’inverno succede, verrebbe a cadere l’efficacia
del provvedimento, ma poi oggi che i tatuaggi vanno di moda uno
specifico lo si potrebbe facilmente confondere in mezzo ad altri.
Ma non temete, al nostro efficiente ministro non mancano risorse e
fantasia e quindi ne ha subito inventata un’altra e ha quindi proposto
la tassa sul permesso di soggiorno per i cittadini extracomunitari,
perché, dice, “devono contribuire anche loro”. A tale proposito ora
voglio evidenziare alcuni dati tratti da un articolo di Francesco Jori
sul giornale della mia provincia, “La Tribuna” dell’11 gennaio del
2009, dati che il ministro dovrebbe conoscere molto bene, si spera,
ma che altrettanto bene si guarda dal venirci a dire. Quindi egli dovrebbe sapere che al di là della tassa aggiuntiva di 50 euro che lui e il
suo governo pretende, un immigrato che fa domanda del permesso di
soggiorno deve: compilare la domanda su un bollettino del costo di
27,50 euro, al quale deve aggiungere una marca da bollo da 14,62
euro, quindi deve alla posta un ulteriore versamento di 30 euro per un
totale di 72,12 euro. Dopo di che, nell’attesa che gli arrivi il permesso passano dei mesi, anche più di sei e talora accade che il permesso
scada senza che il richiedente lo abbia ricevuto e domando: questa
persona in attesa di un permesso che non arriva e che per ottenerlo ha
espletato tutte le pratiche di legge, nel frattempo è un immigrato regolare o irregolare? Ed è così che si ottiene l’integrazione?
Ma partiamo pure dagli immigrati irregolari o “clandestini”, verso i
quali, altra perla di questo governo, è stata varata la legge del “ reato
di clandestinità”, che costringerà i tribunali, già intasati di pratiche,
che rendono la giustizia italiana una delle più inefficienti del mondo,
a rischiare addirittura la paralisi. È stato stimato essere il loro numero
intorno alle 700.000 persone, che può essere benissimo reale come è
reale che rappresentano un problema, solo che sembra che il governo
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anziché volerlo risolvere faccia di tutto affinché questo incancrenisca per poterlo sempre agitare come il pericolo principale, costruirci
sopra le leggi repressive, distogliere i cittadini dalla sua inefficienza
sui problemi economici e sociali; usando cioè lo stesso metodo dei
governi totalitari e autoritari che mascheravano la propria inefficienza scaricando le proprie responsabilità sulle minoranze più povere o
più deboli, vedi le leggi razziali naziste e fasciste. Non sto dicendo
che questo sia un governo fascista, ma di certo ha un capo populista
che si crede l’uomo della provvidenza e che fa varare leggi tipiche di
governi autoritari.
La stragrande maggioranza di queste persone lavorano nelle famiglie, nei cantieri edili e in piccole aziende. Naturalmente lavorano in
nero, ma se venissero regolarizzati per lo Stato sarebbe solo un guadagno perché incasserebbe i contributi relativi al loro lavoro. Devono
contribuire anche loro, dice il ministro. Falsa propaganda! Perché se
agli irregolari venisse data realmente la possibilità di uscire dalla
clandestinità sarebbero messi nella condizione di contribuire come il
resto della cittadinanza; mentre i regolari, quelli che chiedono il
rinnovo del permesso e lo ottengono con difficoltà, già contribuiscono e anche alla grande dal momento che, il ministro avrebbe il
dovere di saperlo, i cittadini stranieri muovono in Italia 25 miliardi di
euro, dei quali 5 miliardi per i soli consumi alimentari, con tanti ringraziamenti dei commercianti di questo paese.
Il 19% dei contratti di affitto e l’8% dei contratti di acquisto di case
sono intestati a extracomunitari, (dati del 2008).
Oltre 50.000 badanti nel nord-est svolgono un compito che altrimenti sarebbe caricato sulle strutture sanitarie pubbliche o private,
non in grado attualmente a fronteggiare le richieste di un numero in
continua crescita di anziani che domandano di accedervi.
Gli imprenditori stranieri in Italia hanno ormai superato il numero
di 225.000 e concorrono concretamente alla ricchezza del paese, per
intenderci, alla crescita del p i l, per più del 9%
Per fortuna c’è chi non avendo la vista corta, guarda lontano e capisce che gli immigrati sono una ricchezza. La maggioranza di governo invece, avendo su questi problemi pensieri e visioni ottusi, non
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sa fare altro che seminare paure. Cosa mai penserà di raccogliere?
Un’ultima cosa: le famiglie straniere sono decisamente più prolifiche di quelle italiane e aiutano più di queste ultime a controbilanciare
il rapido aumento della popolazione anziana. Questo non significa
che le famiglie italiane non sono più in grado di fare figli a causa di
qualche malattia misteriosa che le ha colpite. Il fatto è che oltre un
trentennio di mancate politiche familiari ha spinto inevitabilmente
queste verso comportamenti di autonoma autodifesa; per questo motivo se per una famiglia già allevare due figli diventa un problema
serio, è comprensibile che si tenda a stare sotto quella soglia.
Non so se sia superfluo ricordare al nostro ministro, ma temo purtroppo lo sia, che se nel nostro paese ci sono circa 60 milioni di abitanti, di cui un 4 – 5% di stranieri ai quali non si intende concedere la
cittadinanza, un quasi altrettanto numero di italiani, o di origine italiana sono sparsi per il mondo, dal momento che l’Italia è stata per
lungo tempo terra di emigranti e questi, la cittadinanza, in tutti i paesi
in cui sono emigrati, una volta richiesta l’hanno ottenuta.
Nel 1869 in Argentina gli italiani erano circa 72.000; ora in quel
paese quasi un cognome su tre è italiano. Alla fine dell’ottocento a
Buenos Aires un terzo degli abitanti era italiano. Fra Argentina,Cile
Brasile, Venezuela, Bolivia, Paraguai e Uruguai gli abitanti italiani o
di origine italiana già si contavano a decine di milioni.
Ora una breve nota personale; potrei anche dire, “prendiamo uno a
caso”: io. Di cognome faccio Sartori e non ho parenti stretti con questo cognome dal momento che mio padre era unico figlio maschio e
così anche mio nonno paterno, (e anch’io ho un maschio, il più grande, e una femmina). Parlavo recentemente con una ragazza brasiliana, impiegata in città in una agenzia di assicurazioni, la quale mi
diceva che i Sartori nel suo paese sono piuttosto numerosi. Potrebbe
darsi che qualcuno sia mio parente, però assai alla lontana. Da parte
di mia madre invece ho parenti sia in Argentina che in Canada, come
pure in Francia.
Anche nell’America del nord gli italiani sono milioni e non solo
negli USA dove nelle grandi città, che in buona misura essi stessi
hanno costruito, hanno costituito le little Italy, ma molte piccole e
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medie città hanno nomi italiani come Venezia, Siracusa, Roma,
Firenze, ecc…
in Canada gli italiani sono numerosissimi e nella città più grande di
questo immenso paese, Toronto, sono fra 6 e 700mila, la più grande
città italiana dell’america del nord.
Analogo discorso si può fare per l’Australia dove l’italiano è la
seconda lingua parlata, o la Nuova Zelanda dove nelle grandi città
interi quartieri sono abitati da italiani.
Venendo alla nostra Europa il discorso non cambia: in Francia;
Germania, Belgio, Svizzera; Olanda, Inghilterra, gli italiani o i figli,
nipoti, pronipoti di italiani sono numerosissimi. Una grossa fetta
della popolazione francese è di origine italiana ed è perfettamente
integrata, anzi, talora si sente anche più francese dei francesi di antica origine; ad ogni modo è sufficiente andare a vedere i loro cognomi
per rendersi conto della loro provenienza.
Ebbene, nonostante questi fatti, che sono storia recente, pare che
siano un bel numero gli italiani, che magari rimasti nel proprio paese
hanno beneficato a loro tempo delle rimesse di familiari e parenti
andati a cercare lavoro all’estero, i quali oggi sembrano essersi scordati di tutto questo, o magari fingono proprio di non sapere, forse per
malcelata e ipocrita vergogna di essere stati poveri e di aver avuto
familiari e parenti che per questo motivo hanno dovuto emigrare,
come se questa fosse un’onta o una vergogna insopportabile da cancellare, ed è, per queste persone da nulla, tanto più insopportabile
quanto più esse sono oggi ciniche e insensibili nei confronti di chi
ora viene da noi a cercare un lavoro e una vita dignitosa che nel proprio paese gli è negata.
Che dire? Ai lavoratori stranieri dico: “resistete alla rozzezza xenofoba che c’è chi sa apprezzare il fatto che abbiate scelto l’Italia come
vostro paese futuro”. Spero anche vi possiate, se vi pare, mischiare
con gli italiani e le italiane affiche l’eterogeneità migliori e rafforzi
l’etnia e questo non diventi un paese di anime morte.
Ho visto alla televisione la cerimonia del giuramento del nuovo
presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama e l’inquadratura mostrava dietro di lui circa una trentina di persone. C’era una tale
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eterogeneità di caratteri somatici nei loro volti che mi sono detto:
“quella piccolissima fetta d’America sarà composta perlomeno da
una dozzina di nazionalità differenti, figli, nipoti, pronipoti e più in là
ancora, di persone originarie da ogni angolo del pianeta e arrivate in
quella nazione che tutti ha accolto, a tutti ha concesso la cittadinanza
e a tutti ha offerto una uguale chance”. So benissimo che nemmeno
in America il problema “razziale” è ancora stato superato ma so anche che in quel paese esiste una concreta volontà di risolverlo e il
modo per farlo è quello di offrire a tutti le medesime opportunità. Da
noi, ottusamente, dando ascolto alle pulsioni più primitive, viscerali e
barbare, si sono scelte strade che di fatto creano continui ostacoli a
una naturale e pacifica integrazione.
All’inizio del capitolo precedente dissi del libro “La Grande Guerra
nella Valmarino”, dove nella prima parte si parlava del comportamento delle truppe d’invasione e dei contrasti esistenti nel loro seno
fra austriaci e germanici.
Ora nell’apprestarmi a chiudere questo capitolo prenderò spunto da
alcune pagine della seconda parte del libro, che, richiamandosi ai
fatti di quel tempo ce li rammenta attraverso i versi di alcune semplici poesie scritte nel dialetto veneto di quella parte della mia provincia
che noi chiamiamo “Sinistra Piave”, della quale in un mio precedente
libro qualche anno fa, seguendo le orme di alcuni storici locali più
qualificati, scrissi la storia.
Il dialetto veneto non solo non è parlato in maniera uguale nelle
varie province, e questo del resto è ciò che accade anche agli altri
dialetti nazionali, ma varia anche da zona a zona nelle stesse province ed è così vero che talora anche fra paesi vicini esistono piccole
variazioni e sfumature differenti negli accenti o addirittura diversi
modi di chiamare i medesimi oggetti. Ma sono differenze piccole,
che solo un nativo sa cogliere. Ho detto cogliere, come per i frutti
maturi di un albero, mettiamo le ciliege, che quando se ne assaggia
una subito se ne vorrebbe un’altra. E così, come i bei frutti succosi,
dal cestello, cioè la seconda parte del libro, ho divorato una poesia
dopo l’altra. Le aveva scritte la maestra Plinia Friggieri de Poloni,
227
che aveva sposato il medico condotto di Cison di Valmarino. Sempre
della maestra Friggieri esiste anche un’altra raccolta di scritti poetici
che vanno sotto il titolo di “Canti della terza Italia”. Ma torniamo a
questa prima raccolta dove, fra le altre, c’è una piccola serie di poesie
dedicate alla Rosa, una bella ragazza mora di Cison che faceva girare
la testa a tutti i ragazzi del paese e lei sempre allegra e piena di brio
si divertiva a prenderli in giro e farli sospirare. Poi si fidanzò con il
Tonin, che fu chiamato alla guerra e la bella Rosa si fece triste, aveva
persino cambiato i colori, non portava più abiti <<ciassosi (chiassosi)…Né più la ride sora ‘l muso ai tosi (Né ride più in faccia ai ragazzi)>>. Poi arriva la notizia che Tonin è morto.
La morte di Tonin
(dialetto)
Tonin l’è morto! I l’à savudo ancò!
L’è morto da na bala in mèzo al cor,
La Rosa la par mata dal dolor!
<<Pensa>> i ghe dise, <<che lè stà un eroe,
E che la morte in guera l’è un gran vanto!>>
Ma, solevando la so faza in pianto,
La dise Rosa! <<Si, quel che volè,
Eroe, va ben! Cossa m’importa mi?
Se lù l’è morto e che no‘l torna pì?>>
(italiano)
Tonino è morto! L’hanno saputo oggi!
È morto da una palla in mezzo al cuore,
La Rosa sembra impazzita dal dolore!
<<Pensa>> le dicono, <<che è stato un eroe,
E che la morte in guerra è un gran vanto!>>
Ma sollevando il suo viso (faccia) in pianto,
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Dice Rosa! <<Si quel che volete,
Eroe, va bene! Ma cosa m’importa?
Se lui è morto e non ritorna più?>>
Queste considerazioni attorno alla guerra per dire della sua inutilità, della sua stupidità, del raccapriccio e dell’orrore, degli sconvolgimenti, del dolore, del vuoto e assieme del desolante ricordo che
lascia, non solo tra i vinti, ma anche tra coloro che poi si proclamano
vincitori.
Per tutto questo, per poco che possa valere, voglio indirizzare una
esortazione ai potenti affinché si fermino a riflettere e intraprendano
tutte le vie percorribili prima di dare voce e corpo a quel peggio di sé
stessi, che è anche il peggio di noi; solo che a noi non spetta l’onere
o la facoltà della stura del malefico vaso di Pandora. Tuttavia se noi
diamo il nostro consenso a coloro che non hanno remore verso la
guerra e questi la fanno, diventiamo anche noi responsabili alla pari e
loro complici.
229
Libro 12°
VIOLENZA: ISTINTO O RAZIOCINIO?
Anche le domande sull’antropologismo pure incarnando visioni
filosofiche differenti, talora assai distanti fra loro, finiscono per convergere, direi collimare, quando vengono affrontate le tematiche relative alla violenza umana: l’uomo è anche violento per natura? La
natura è “violenta per natura?”, nel senso che tutti gli esseri viventi,
siano essi vegetali o animali di qualsivoglia specie sono costantemente chiamati – costretti – a lottare contro non soltanto gli abituali
elementi naturali come i consueti cambiamenti climatici, attesi e
calcolati o gli sconvolgimenti improvvisi e “imprevisti”, in realtà in
qualche modo messi nel conto, ma anche contro altre specie concorrenti che occupano il medesimo habitat, nella contesa per lo spazio
vitale e nello sforzo titanico di sopravvivere e perpetuarsi. Ed essendo l’uomo una specie fra le altre del regno animale, non sfugge alla
legge della natura, per cui si potrebbe dire, semplificando, che la sua
violenza è del tutto naturale e quindi giustificabile, perché egli fa ciò
che fa per sopravvivere e sopravvivere è un suo intangibile diritto.
Ma è qui, mi si dirà, che dovrebbe cascare l’asino, ovvero che, pure
concordando col fatto che la specie umana è una specie come tutte le
altre, tuttavia da queste si differenzia. Si differenzia? Potrei fare degli
esempi di persone che… A parte gli scherzi direi proprio che si differenzia, giacché non agisce solo mossa dall’istinto, ma fa anche uso
della razionalità, è cioè in grado di domandarsi se per perseguire
questo suo giusto scopo o fine sia autorizzata o meno di valersi di
qualsiasi indiscriminato mezzo. Quindi avendo da molto ormai superato lo stadio puramente istintivo e avendo ormai acquisito le facoltà
raziocinanti e di scelta, ha finito per darsi delle regole – leggi – il rispetto delle quali si traduce nel beneficio collettivo, mentre la loro
violazione ottiene l’effetto opposto, per cui chi le infrange è condannato a pagare con pene o sanzioni proporzionali al proprio errore
– reato –, il più grave dei quali è la soppressione volontaria di un proprio simile.
Tutti noi immagino ci siamo chiesti se anche altre specie animali
230
possiedono, oltre a quella umana, la facoltà di ragionare; per esempio
i primati, i nostri animali domestici da compagnia, i cetacei, ecc… A
viverci assieme, a osservarli e a interagire con essi sono propenso
alla risposta affermativa. Probabilmente la differenza riveste una
questione quantitativa; faccio un esempio: più alta è la percentuale di
oro in una lega, più aumenta la sua qualità (valore), per cui la differenza fra un umano e, ad esempio, un primate starebbe nel fatto che
la quantità dell’”oro” nella lega di quest’ultimo non ha ancora superato una certa soglia minima, oltre la quale fra l’umano e il primate
non ci sarebbe più differenza.
E l’anima? Se il primate supera questa possibile soglia, acquisisce
anche l’anima? E poi chi dice che al di là delle reali o ipotetiche soglie gli animali non ce l’abbiano già un’anima? Su questo argomento
tornerò ampiamente più avanti, in un altro “capitolo”, supportato anche dall’ausilio di un importante teologo cristiano.
Darsi le regole è dunque l’espressione provata della razionalità, che
non cerca tanto di privilegiare sugli istinti o sui sentimenti, quanto di
creare con questi il giusto equilibrio, il quale tuttavia è estremamente
difficile da trovare, basta osservare attentamente cosa facciamo noi
umani e, per restringere il campo, i nostri rappresentanti politici, che
poi sono la nostra espressione, viene da dire che la razionalità sarà
pure una cosa acquisita dagli umani, quanto al fatto che poi la sappiano padroneggiare... È indubbio che ci sarà da lavorarci attorno ancora
parecchio e nel prosieguo tornerò su questo punto con un esempio
chiarificante.
Abbiamo detto di regole e della necessità che queste vengano rispettate da tutti, senza eccezioni. Resta il fatto che ogni volta che
l’animale uomo si costruisce, raggiunge o acquisisce posizioni di privilegio, tende inesorabilmente a violare con più facilità quelle regole
prima accettate, difese e anche pretese, e se da un lato ciò potrebbe
indicare uno scivolare o un richiamo alla natura primordiale, da un
altro è anche testimonianza e prova dell’evoluzione, peraltro ancora
grezza, extrasensitiva e raziocinante in esso avvenuta.
Anche nei giochi e negli sport competitivi si è provato, esorcizzandola, a ingabbiare e dare una alternativa meno cruenta alla guerra,
231
togliendo da questi – ma non è sempre stato così – la morte, che in
quelli più rischiosi diventa una spiacevole fatalità o un rischio forse
calcolato, ma non auspicata.
Anche gli sports competitivi sono disciplinati da regole che devono
essere rispettate pena le sanzioni proporzionate all’entità dei falli; chi
sta nell’agone, ma anche chi da fuori fa lo spettatore e il tifoso ha
modo di dare sfogo ai suoi ancestrali istinti competitivi: ovviamente
l’avversario non lo si uccide, ma se viene vinto è come se in qualche
misura lo si facesse e la vittoria concede al vincitore quel surrogato
di conquista paragonabile all’aumento del suo spazio vitale che, per
contro, per lo sconfitto si restringe. Significativo di quanto appena
detto è il fatto che tuttora in alcuni sports è permesso ai competitori
di compiere azioni che ripetute nella vita civile sarebbero reati e
anche piuttosto gravi: rugby, lotta, boxe, ecc.., sports dove si possono
causare lesioni serie, e talora la morte.
Intendiamoci, non intendo certo fare del moralismo. Io stesso a suo
tempo fui un appassionato tifoso di Duilio Loi e poi di Mohamed Alì
e Nino Benvenuti e ricordo che quando ero intorno ai quindici anni,
con una colletta assieme agli amici comperai due paia di guantoni da
boxe di seconda mano, con i quali poi a turno ci riempimmo di
cazzotti e diventammo pure bravini (c’era un nostro amico, un dilettante mediomassimo, che diventò anche campione triveneto, che ci
dava qualche dritta) in quella disciplina, anche se nessuno di noi la
praticò poi da sportivo.
Quindi la competizione per la vita e l’istinto di prevalere se spinti
all’estremo potrebbero portare come conseguenza l’”eliminazione”
fisica dell’avversario; ma assecondare un tale disegno significherebbe accettare quella “legge della jungla” che ci porrebbe sullo stesso
piano, e spesso anche più in basso, delle altre specie.
Allora l’assassinio praticato da alcune società come forma di giustizia, (eliminazione dell’elemento pericoloso allo sviluppo armonico
della comunità), purché contenuto dentro determinate regole, leggi,
diventa per questo legale? Di fatto pare essere accettato dalla
maggioranza dei cittadini di quei paesi in cui è praticato, anche se
anno dopo anno, lentamente, gli stati che lo applicano vanno calando
232
e in altri, dove pure permane, viene ridotto il numero di reati per il
quale è previsto. Significa che, pure faticosamente, si sta facendo più
forte una sensibilità a livello mondiale tendente alla consapevolezza
dell’inutilità di un atto irragionevole e incivile quale è la pena di
morte. Se poi pensiamo che spesso è applicata non solo nei confronti
di persone che si sono macchiate di assassinio, (in certi paesi dipende
se l’assassino è uomo o donna, bianco o nero, ricco o povero), ma
anche verso donne adultere, verso gay o lesbiche, piccoli spacciatori
o rapinatori, a seconda delle leggi in vigore paese per paese. Diventa
pertanto lampante che ci si trova dinanzi a stati, anche democratici,
ma più spesso a regimi che applicano la pena di morte anzitutto come
vendetta e in seguito come deterrente dissuasivo, palesando in ciò la
loro debolezza politica e la loro arretratezza culturale.
Ora una domanda che più che una risposta necessiterebbe di una
riflessione: se una società ha la capacità di indignarsi per l’assassinio
di una persona, pure se le modalità del delitto rappresentano variabili
dipendenti nella misura o grado di coinvolgimento dei sentimenti
espressi verso l’accadimento, perché ciò non avviene in analoga misura, e si trova sempre chi approva, quando assassinii, delitti, violazione di diritti, azioni violente e arbitrarie di forti su deboli, distruzioni di paesi e economie e spoliazioni di popolazioni assumono il
nome di guerra, ad esempio quella attuale in Afganistan condotta
dall’Occidente; dove tutto questo diventa, al di là di un farisaico biasimo rituale, normale prassi politica condotta con mezzi diversi dalla
diplomazia; oppure benché biasimata, viene accolta come può essere
accolto un terremoto, o un’eruzione vulcanica, o un uragano, cioè un
evento tragico naturale contro cui non è possibile fare nulla? E
avviene che gli zelanti difensori della civiltà e della vita, a partire
dalle giuste richieste di moratoria sulla pena capitale, ammutoliscono
perché stanno sempre fra coloro che approvano l’incremento degli
armamenti, l’invio di ulteriori truppe e mezzi materiali offensivi e
quindi, nei fatti sono tra i responsabili delle soppressioni di vite attraverso però, si giustificano, i bombardamenti mirati, chirurgici, intelligenti, e si distinguono pure nel blandire coloro che lottano contro
tutto ciò. Se fossimo tanto civili quanto andiamo affermando non
233
servirebbe rammentare che se tra i naturali diritti umani c’è quello di
poter lottare per dare corpo alla proprie aspirazioni e al desiderio di
elevarsi – il cosiddetto “diritto alla felicità”, come dicono gli americani – ciò non deve certo essere impedito, anzi, solo che per farlo è
necessario il rispetto delle regole, le quali consentono a una persona
di perseguire il suo obbiettivo, purché non tolga a un’altra o a più di
una lo stesso suo diritto, quindi men che meno la vita.
Anche per tali motivi questi cosiddetti nobili difensori dei diritti
umani e della democrazia secondo il loro “vangelo” suscitano in me
un misto di penosa ironia e di rabbia.
Io sono un ex operaio metalmeccanico specializzato, operatore sulle macchine utensili. Nell’anno 1960, parecchio tempo fa quindi,
avevo diciassette anni appena fatti e un diploma delle scuole professionali e fui assunto da un’azienda di un settore attinente a quanto a
scuola mi avevano insegnato.
A quel tempo di “arretratezza sociale” esistevano i quindici giorni
di prova, dopo di che venivi assunto in via definitiva, perché si supponeva che quello era il tempo sufficiente da offrire alla competenza
e intelligenza di un datore di lavoro per capire se un dipendente era
idoneo o meno. Non che allora non esistessero “padroni” che ti dicevano: <<sei in regola!>> e invece poi non ti versavano i contributi; ci
incappai anch’io un paio di volte, per fortuna per poco tempo, (ho
perduto 15 o 16 mesi di contributi) e oggi potrei avere una pensione
un poco migliore se tutto fosse stato regolare.
Voglio anche far notare che a quel tempo il tasso di disoccupazione
non era poi superiore a quello attuale, (diciamo di inizio 2008, cioè
prima della attuale recessione), per cui chi viene a raccontare che la
precarietà sul lavoro aiuta l’occupazione o è uno spudorato mentitore
o un autentico cretino.
E veniamo all’oggi, era di “fulgido avanzamento sociale, democratico, liberal-liberista”. Oggi chi viene assunto al lavoro, non solo al
primo lavoro, anche al secondo, al terzo e così via.., si trova nello
stato di lavoratore precario e ammesso che questo lavoratore non
salti di continuo da azienda in azienda e gli capiti di essere piuttosto
stabile in una, gli capiterà di essere licenziato e riassunto dalla stessa
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ogni due, tre o sei mesi, sempre con la paga e la qualifica minima,
ma, dice questa democratica, liberale e avanzata legge sociale, il tuo
datore di lavoro potrà fare questo, bontà della legge e anche sua, per
appena 36 mesi, dopo di che sarà costretto ad assumerti in via definitiva o, naturalmente, a comunicarti che non ha più bisogno della tua
collaborazione. State tranquilli che a meno che il lavoratore non si
sia già stancato e se ne sia andato per proprio conto, sarà sempre
licenziato e riassunto ogni tre o sei mesi, con la paga minima, da
nuovo entrato, non avrà mai un periodo di ferie pagate da godere
perché i continui licenziamenti e riassunzioni non gli permetteranno
di maturarle, per cui ad azienda chiusa per ferie lui sarà a casa, licenziato, a “godere” forzatamente le ferie non retribuite e alla fine dei
tre anni avrà buone possibilità di essere licenziato definitivamente,
perché l’assunzione a tempo indeterminato comporterebbe eventuali
futuri passaggi di categoria, secondo contratto, e scatti di anzianità
aziendale, sempre secondo contratto, che farebbero lievitare, sia pure
di poco, il suo misero salario o stipendio, che comunque gli permetterebbe di guardare al futuro con un poca più di speranza.
Al datore di lavoro, se proprio non avrà bisogno di quella specifica
persona, converrà ripetere l’operazione con altre persone, che magari
hanno già sperimentato la trafila del nostro lavoratore il quale dovrà
ripetere l’esperienza vissuta, come se fosse al primo impiego, in una
nuova azienda.
Da notare, inoltre, che a ogni licenziamento mensile o trimestrale o
semestrale gli verrà corrisposta anche la liquidazione, (T F R), quindi
non si comprende come farà mai, alla faccia di tutta la propaganda
sull’utilità dell’accantonamento del T F R, pure volendolo, a costruirsi una pensione alternativa o supplementare.
Poi questi “signori” hanno il barbaro coraggio di venirci a dire che
i padri hanno mangiato la pensione ai figli e che l’IMPS è in bancarotta, mentre sanno benissimo che le cose non stanno affatto così,
perché l’istituto, per quanto riguarda i versamenti dei lavoratori dipendenti ha i conti in regola, solo che è stato costretto a pagare anche
le pensioni di alcune categorie di autonomi che non hanno versato,
non versano, o versano contribuzioni molto minori di quanto poi,
235
fintamente stupiti di quanto gli spetterebbe, rivendicano e, per non
perderne il consenso elettorale, viene loro concesso. La realtà sta nel
fatto che c’è una sorta di “banda del buco”, i soggetti sono noti, che
vorrebbe smantellare l’ IMPS per sostituirlo con le compagnie
assicurative private delle quali costoro siedono nei consigli di amministrazione. Per raggiungere tali obbiettivi le strategie non mancano,
sono note e collaudate; le ho viste applicare in variegati casi e occasioni: ad esempio se l’obbiettivo è quello di disfarsi di un avversario
o un concorrente che crea problemi, se non lo si può battere perché
qualitativamente migliore e non è possibile ricalcare la sua strategia,
si deve: 1.a), se è un’azienda concorrente, tentare di arrivare alla
maggioranza azionaria o all’acquisizione, 1.b), se è un ente statale,
arrivare ad assumerne il controllo; 2), l’oggetto viene poi svuotato
dall’interno, poco alla volta, delle sue potenzialità, fino a quando diventa evidente a chiunque la sua impossibilità di reggere. A quel
punto si dirà: <<Visto? Nonostante tutta la buona volontà e gli sforzi
profusi per tentarne il salvataggio bisogna arrendersi alle leggi del
mercato, come del resto dicemmo in tempi non sospetti>>, (tanto
nessuno ricorderà né chi, né cosa, né quando un qualcosa sia mai
stato detto). E questi continueranno, versando lacrime da coccodrillo,
manifestando tutto il loro rammarico, la comprensione e solidarietà
per quanti perderanno il posto di lavoro, …<<e del resto, pure consci
del costo che oggi comporta questa dolorosa decisione, siamo altrettanto consci che insistere in un salvataggio senza speranze, avrebbe
comportato un costo futuro ancora maggiore>>. Come dire che andrebbero pure ringraziati. Naturalmente tutta questa operazione avrà
bisogno di un ausilio mediatico il quale provvederà, attraverso consulenze di autorevoli “esperti” finanziari, amici, che dimostreranno al
popolo come l’operazione era più che necessaria, rispondente alle
ferree logiche economiche e del mercato e che chi vi si oppone è un
conservatore. E il gioco è fatto. In pratica la dimostrazione di come
sia possibile camuffare un killeraggio economico e politico in una
operazione meritoria: vedi ad esempio, per quanto riguarda il governo, l’operazione Alitalia. Se poi le cose non dovessero funzionare ed
è temibile che sarà così se lo scopo era puramente ideologico o teso a
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favorire gruppi di pressione amici - ( nel caso di aziende private che
ne fagocitano altre per avere più spazio vitale, va detto che questo
tipo di cannibalismo è certamente poco etico ma sappiamo essere una
delle componenti, seppure brutali, ritenute vitali della dottrina economica capitalistica) – a pagare saranno i lavoratori, che saranno le uniche e vere vittime. Alla fine sarà estremamente complicato risalire ai
responsabili di tali discutibilissime operazioni, tanto più che quasi
nessuno poi ricorderà chi aveva detto o fatto cosa.
Ho ormai potuto vedere talmente tanti economisti rimangiarsi le
proprie opinioni, posizioni e previsioni, anche a breve termine, e continuare a pontificare senza imbarazzo su questioni di politica economica e produttiva, che la cosa non mi stupisce ormai più di tanto,
almeno fino al momento in cui penso allo scarsissimo rispetto che
hanno verso coloro ai quali si rivolgono e all’alta considerazione che
hanno per sé stessi e per la loro abilità di manipolatori e di strafottenti impuniti; allora tutto questo mi fa davvero imbufalire. Ma qui anche una parte di cittadini ha una certa responsabilità per il limitato
uso che fa del proprio senso critico, salvo che questo non gli difetti
per una palese forma di incoerenza. Ma mi posso anche sbagliare e la
classe politica che abbiamo è esattamente quella che meritiamo.
Tornando all’IMPS dirò che verso l’istituto esistono certo motivi di
critica per difetti che sicuramente ha, ma occhio ai detrattori interessati perché lo scopo di costoro resta quello di gestire la massa di denaro ricavata dai fondi pensione dei lavoratori, i quali devono essere
edotti circa i rischi che correrebbero se i loro soldi finissero in mani
di persone o istituzioni privi di scrupoli o di capacità gestionali.
Ma ritorniamo ai lavoratori precari, che stanno gradualmente aumentando di numero ed è anche per questa evidente anomalia che
non decollano, almeno non nella maniera prevista, i fondi pensione e
la ragione sta nel fatto che un lavoratore stabilizzato dispone di un
TFR da eventualmente impiegare, mentre un precario ne è impossibilitato. I sostenitori di questo modello così chiamato della pensione
supplementare, sono parsi così sciocchi, o colpevolmente diabolici,
da aver fatto le pentole senza i coperchi. Ma, come ho ventilato, temo
che la loro non sia insipienza ma una fredda protervia ideologica
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calcolata, che è quella di lasciare una parte consistente del mondo del
lavoro senza una futura copertura pensionistica per il fatto che: 1),
l’elevato numero di lavoratori che lavorano in nero, verso i quali il
governo sembra sempre meno impegnato nel far emergere il lavoro
legale: l’ispettorato del lavoro è fortissimamente sottodimensionato
ma non si pensa di incrementarlo; 1 e mezzo), per questo motivo avvengono in Italia moltissimi incidenti sul lavoro; 2), il lavoro precario continuamente spezzettato, protratto anche per parecchi anni, non
consente di accantonare un TFR sotto nessuna forma.
Chiediamoci: è possibile per dei giovani lavoratori che si trovano a
vivere in tali condizioni fare progetti di formare delle famiglie? E se
anche vi riuscissero come potrebbero rapportarsi rispetto all’idea di
mettere al mondo dei figli da consegnare un domani nelle mani di un
sistema lavorativo basato su un precariato che non prevede forme di
coperture sociali: è evidente che non potrà non essere che forte la
spinta a desistere da tali progetti. E come potrebbero dei lavoratori
dal futuro nebuloso fornire garanzie nel caso decidessero chiedere un
mutuo per acquistare un alloggio? E come potrebbero domandare
permessi agevolati per sostenere esami universitari? L’essere soggetti al perenne ricatto della perdita del lavoro li porterà alla condizione di smarrimento di autostima o di abulica sfiducia e rinuncia nei
confronti di un sistema che non li considera, non li valorizza e non li
tutela. Al contrario, se trattati come persone alle quali viene concesso
rispetto e fiducia saprebbero rispondere con tutto l’impegno e
l’entusiasmo tipici delle persone che si aprono a un futuro che fa
intravedere sbocchi e prospettive. Come si potrebbe altrimenti avere
la pretesa di seminare ottimismo se è proprio il seminatore a chiudere
sistematicamente il solchi nei quali dovrebbe alloggiare la semente,
se cioè permette che siano smantellate anche le minime tutele e le
elementari norme di sicurezza, non capendo che si avranno certo
lavoratori più ricattabili ma certo anche più demotivati. Il risultato è
il primato europeo detenuto dall’Italia dei morti sul lavoro, primato
che ha raggiunto dimensioni da vergogna per un paese che si vorrebbe civile, e nessuno, al di là di qualche peregrina frase di circostanza,
di fronte al ripetersi di tragedie gravissime e spesso evitabili, fa in
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modo che vengano prese misure concrete per ovviare la gravità del
problema.
Lo stesso pontefice Benedetto 16°, (non si dica che sono spesso critico con lui, dal momento che quando dice cose sacrosante sono disponibilissimo a riconoscergliele), domenica 28 dicembre 2008, durante la consueta omelia di piazza san Pietro, ha affermato che il
lavoro precario così come è concepito in questo paese toglie dignità
all’uomo. “Ben detto Benedetto!” Ma crede ella che qualcuno dei tirannosauri di questo governo, sempre disposti a difenderla, quando
questa difesa fa loro acquisire, secondo sondaggio, qualche consenso,
terrà conto di queste sue parole? Io credo di no e infatti ne hanno
talmente tenuto tanto in conto che il nuovo Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro, varato nel marzo del 2009, dall’onorevole ministro,
ex socialista, Maurizio Sacconi, prevede, ad esempio su questa
materia, multe più che dimezzate per quelle aziende trovate non in
regola con le norme di sicurezza e arresti assai più difficili, di fatto
quasi impossibili per i responsabili delle aziende trovate fuori norma.
È chiaro che un tale rilassamento nei confronti della sicurezza sul
lavoro otterrà il risultato di incentivare il lavoro nero, la precarietà, la
non messa in norma degli impianti, con conseguente e inevitabile aumento della illegalità e degli infortuni.
Siamo spesso bombardati da dichiarazioni di zelanti ministri e
sottosegretari che parlando delle violazioni delle norme di legge, con
ferrea fermezza da far tremare i polsi e inorgoglire di cotanta fiera e
determinata rappresentanza, promettono per i trasgressori il pugno di
ferro e la tolleranza zero. Poi scopriamo che gli zero tollerati sono i
pericolosi lavavetri, i mendicanti, e gli immigrati sui barconi; insomma gli ultimi della società.
Per contro troviamo i paladini dell’iperliberismo, quello che non
sopporta le regole, i lacci e laccioli, che di fronte alla barbarie dei
morti sul lavoro, simulando un insincero cordoglio di facciata, non
trovano di meglio da dire che come tutto questo non sia che il naturale tributo dovuto al progresso: peccato che fra le vittime non figurino mai dei loro famigliari o amici della loro cerchia. La prova del
loro insincero proposito di far diminuire il numero degli incidenti la
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si è potuta constatare anche di fronte ai timidi tentativi di modifica
della legge 30 sul lavoro, dove si registrò persino il caso di una ministra del passato governo di centro-sinistra, governo che si reggeva
con lo sputo, che minacciando le sue dimissioni diede l’aut- aut al
suo governo, (non credo ci sia mai stato un governo tanto debole, numericamente, e assieme tanto ricattato al suo interno), evidentemente
perché trovava giusto che la barbara condizione di medievale ricatto
in cui sono tenuti oggi i giovani lavoratori venga mantenuta quale
fulgido esempio di liberale liberismo libertario, affinché, per contro,
sia garantito a un parlamentare di maturare una lauta pensione
nell’arco di una legislatura. Ad ogni modo, per fortuna della ministra
le modifiche proposte e da questa incriminate, rientrarono e rientrarono anche le sue dimissioni.
Durante la campagna elettorale per le elezioni europee, del giugno
del 2009, il lieder storico del partito, della ormai ex ministra, reduce
da un freschissimo sciopero della fame e della sete, nella trasmissione televisiva “Ballarò”, diceva che per recuperare risorse finanziarie
il paese avrebbe dovuto fare una nuova riforma pensionistica, consistente nel far andare in pensione i lavoratori dopo i 65 anni di età.
Peccato, aggiungeva, che a opporsi ci fosse quel sindacato conservatore che rispondeva al nome di CGIL. D'altronde, continuò, si
vedesse lui, ottantenne ancora in gran forma e pieno di voglia di
lavorare. Non potendo rispondergli allora lo farò ora, dicendogli che
se proprio si sente in gran forma dovrebbe provare solo per alcuni
mesi ad andare a lavorare alla catena di montaggio di una grande
azienda, o in una miniera, o in fonderia, o a fare il camionista a 16/18
ore al giorno, o salire sulle impalcature di un cantiere edile, ecc..,
dopo di che venire a riferire emozioni e opinioni.
Nel suo partito usano definirsi “non violenti”, ma c’è tanta di quella ferocia nei loro discorsi quando parlano del mondo del lavoro,
argomento per loro tanto astruso da differire dalle loro menti molte
galassie di distanza; per questo spaventano, né li può giustificare la
loro totale ignoranza di ciò che significa la fatica fisica sopportata
per anni e anni sulle carni, sulle ossa e sulle menti di milioni di persone e diventa evidente che per questi “non violenti” le persone non
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sono tutte uguali. Gli imprenditori non parlano come loro perché sanno ciò che fanno i loro dipendenti: solo pochi si comportano in modo
barbaro, molti sono umanissimi, tutti però sanno.
Confondere la libertà con l’arbitrio, difendere il privilegio e offendere e sminuire il lavoro subordinato non è liberismo; fare la spalla
dei potenti e il megafono del pensiero unico non è liberismo, stare
alla finestra del mondo del lavoro, negando diritti elementari e rispetto per i meno fortunati non è liberismo, è un’altra cosa: dategli pure
il nome che vi pare. Anche contestare ai lavoratori la legittimità delle
proprie rappresentanze non è liberismo: credo che chi pensa in questo modo non abbia gran chiara l’idea di ciò che significa liberismo.
Poi vi sono persone che si professano cristiane e credenti , le quali
di fronte al dramma delle vite spezzate sul lavoro, alla illegalità delle
ultime guerre di rapina promosse e condotte dai paesi occidentali cristiani, di fronte alla evidenza di leggi che ammettono e permettono le
torture e la condanne a morte, rimangono mute, sapendosi talora
complici, e le loro prese di posizione, non di tutti per fortuna, hanno
molto poco di umanitario, molto invece di ideologico. Ho l’impressione che anche costoro abbiano smarrito il senso vero del significato
dell’essere cristiani.
Ma ci sono, e questo mi fa arrabbiare, anche leaders sindacali che
di fronte alla situazione di una condizione operaia com’è l’attuale,
stanno facendo mostra di un biasimevole balletto nell’unico tentativo
di accreditarsi non tanto verso i lavoratori, che sono il soggetto naturale al quale rispondere, quanto verso la controparte e mettere in ombra la confederazione concorrente. Sedere al tavolo delle trattative,
firmare, esistere: “firmo ergo sum” sembra essere diventato il loro
motto, non ha importanza se ogni volta gli operai ne escono sempre
più penalizzati. Non credo che costoro sappiano più il significato di
fare sindacato. Le cene poi, offerte in forma privata dalla controparte,
non vanno assolutamente accettate: è una questione di opportunità, di
deontologia, di morale e anche di immagine: che fiducia vuoi che ne
venga da coloro che si pretenderebbe di rappresentare. Anche i reiterati complimenti ricevuti dalla controparte dovrebbero fare drizzare
le antenne e bisognerebbe chiedersi dov’è che si sta sbagliando. Può
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darsi che io stia diventando vecchio e non mi renda conto che il mondo è cambiato e il modo di fare sindacato si è ribaltato di centottanta
gradi, ma non credo che le cose stiano così : non ci sono tanti modi
di stare con i lavoratori: o si ha con essi un rapporto franco, democratico e diretto, o si fanno altre cose e altre scelte.
Poi ci sono anche partiti della “sinistra” che di fronte a questo stato
di cose, in campagna elettorale avevano promesso cambiamenti per
migliorare la condizione dei lavoratori, poi quando ebbero l’onere di
gestire l’effimero governo Prodi, le loro promesse vennero quasi del
tutto accantonate. Governo che si reggeva su un paio di voti in più al
senato e allora il grosso problema, da subito, fu quello non tanto di
navigare quanto di galleggiare, poi la litigiosità dell’eterogenea coalizione diede il via all’attacco dall’interno: un siluro di un paio di duri
e puri diede il primo scossone alla nave, ( le loro motivazioni erano
condivisibili, ma se avessero letto un poco di più Lenin, a proposito
dei compromessi che si possono o meno accettare, forse il loro comportamento sarebbe stato diverso; oppure non sarebbero dovuti entrare in quella coalizione governativa). Le successive bordate la nave le
ricevette da un altro ufficiale di bordo, un ministro capriccioso, incostante e un “poco” ricattatore. Già qualche altro topo nel frattempo
era trasbordato sulla nave dell’avversario, che del resto faceva il suo
mestiere. L’ultimo siluro si chiamò Dini; “sospettato” di intelligenza
con il nemico e quello fu il colpo fatale per colare a picco il natante
del, tutto sommato poco colpevole, comandante Prodi, che nei quasi
due difficili anni trascorsi al timone si era dovuto arrabattare fra
qualche tentativo di timide riforme, spegnimenti di focolai di bordo e
pompare acqua fuoribordo a causa delle falle provocate da siluri
“amici”. Cosa dire? Che anche questa cosiddetta “sinistra” pare abbia
scordate le proprie origini e quindi anche i propri referenti, molti dei
quali in effetti, da un pezzo, le hanno voltato le spalle a favore
dell’avversario, giacché la “sinistra” a forza di inseguire il centrodestra sul suo terreno ha già raggiunte e superate le sue retroguardie.
Della defunta coalizione governativa non ci sentiamo orfani, anche
se purtroppo quella che l’ha sostituita, essendo ideologica e classista,
sta abbandonando a sé stessa la povera gente, in modo particolare i
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lavoratori precari che in questa crisi hanno perso l’impiego e verso i
quali non è stata prevista alcuna forma di assistenza economica;
mentre il nuovo, e vecchio, premier ci sta dicendo “spendete, spendete più che potete e siate ottimisti”.
Resta il fatto che oggi abbiamo un governo di larghissima maggioranza che fa capo a un personaggio certamente carismatico e bravissimo nell’autopromuoversi, economicamente assai potente, il quale
essendosi assicurato il largo controllo dell’informazione (la nuova
legge sull’aiuto economico alle piccole testate ha tagliato fuori da
questo, guarda caso, proprio quelle più critiche al suo governo) e il
sostegno di un buon numero di vassalli da usare come utile tifoseria
catechizzata, potrà governare navigando abbastanza tranquillamente
in mezzo a questa tremenda recessione economica; recessione provocata proprio dagli stessi pescicani che avevano esaltato e praticato
quella forma di liberismo senza regole, controlli e freni, tanto caro ai
nostri governanti i quali, al di là dal cercare correttivi ai disastri provocati, sanno che alla prossima crisi, che cosi permanendo le cose
sarà inevitabile, ancora una volta a pagare saranno gli strati di
popolazione più deboli che ne usciranno massacrati e che l’ideologia
vuole non siano aiutati, giacché qualcuno dovrà pure pagare.
Assicuratosi il grosso dell’informazione non sarà un gran problema
convincere la gente che alle ricette adottate per uscire dalla crisi non
ci sono alternative. Quanto ai suoi avversari e oppositori politici,
questi sembrano proprio non essere in grado di proporre opzioni
credibili, sia per il fatto, come dissi, che avendo inseguito l’avversario sul suo terreno hanno scordato come muoversi sul proprio, sia
per il fatto, conseguente, di aver perduto buona parte della loro base
elettorale, ( quella che un tempo era detta lo zoccolo duro, che tanto
duro poi non era), e infine per il fatto di non essersi ancora ripresi e
avere elaborato le nette sconfitte elettorali. Bisognerebbe fare i complimenti al cavaliere, ma il merito della profonda crisi della sinistra
non è tutto suo, avendo questa in buona misura contribuito mettendoci molto del proprio.
Ad ogni modo tutto ciò ha contribuito a far emergere un ex inibito,
(auto-smorzato, un po’ dall’antica furbizia, un po’ dalle convinzioni
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cristiano caritatevoli), strato di “billionaires”, il quale ha potuto finalmente vincere la sua titanica battaglia di libertà uscendo in piena luce
e ora può, emulando il premier, liberamente e senza imbarazzi, ostentare le sue automobili di lusso, le ville sontuose, gli yacht da favola,
senza che gli sperperi siano vissuti come un insulto alla povertà, poi
intonando i rituali consueti pianti greci perché deve anche pagare le
tasse, se la gode alla faccia dei gonzi, banchettando sulle spoglie di
una massa in costante aumento di lavoratori precari rimasti senza
lavoro e senza ammortizzatori sociali verso i quali, questi creso dalla
finta lacrima commiserativa, sono pure pronti a mostrare gli occhi
lucidi del coccodrillo digerente. Poi compunti ci spiegano che se
questa è la triste sorte dei giovani, i quali domani avranno pure una
misera pensione, la colpa è dei loro padri perché si rifiutano di stare
al lavoro, come invece fanno loro, fino al giorno del giudizio.
Tempo fa stavo conversando con un vecchio amico che si professa
liberale (è impressionante quanti liberali si incontrino oggi: un tempo, neanche tanto lontano, c’era un Partito Liberale che raccoglieva
sì e no il due e mezzo per cento dei voti) e entrammo nell’argomento
quasi senza preamboli, perché è un tema che resta di calda e drammatica attualità. A dire il vero fu lui a iniziare il discorso e trovai la
cosa strana, perché si sa che pure essendo probabilmente più comune
di quanto si pensi il caso di amicizie fra persone che politicamente
non la vedono allo stesso modo e magari le distanze non sono nemmeno brevi, se si intende mantenere l’amicizia perché si rispetta la
buona fede e l’intelligenza dell’amico e quindi si rispetta anche una
sua idea non condivisa, sarebbe opportuno seguire la regola secondo
la quale gli argomenti che dovessero portare a contrapposizioni nette
non si affrontano con troppa frequenza e nemmeno si prendono di
petto bruscamente, ma si abbordano in maniera morbida, in particolare se un interlocutore, o entrambi dovessero essere piuttosto rigidi
sulle proprie convinzioni o facili al surriscaldamento. Se invece da
una o entrambe le parti si fosse dotati di una certa dose di ironia e
senso dell’umorismo, il problema non dovrebbe, quasi, sussistere,
perché diventerebbe assai più facile discutere senza arrivare ai musi
duri reciproci e a rotture spiacevoli e irreparabili. Questo mio amico
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di senso dell’umorismo ne possiede una buona dose e mi pare di possederla anch’io, ma sarebbe meglio farlo dire da altri, per questo non
sono prontissimo a giurarlo.
Ad ogni modo a proposito della legge 30 mi disse: <<se mi venisse
chiesto in pubblico forse la difenderei, ma in confidenza devo dirti
che il modo in cui vengono trattati oggi i giovani che si affacciano al
mondo del lavoro è un autentico atto di barbarie, una porcheria, un
ritorno indietro di secoli, un fatto del quale tutti dovremmo provare
vergogna>>. So, conoscendolo, che egli non mancherà di esprimersi
in questa maniera non solo con il sottoscritto. Il fatto è che dopo anni
di martellanti campagne medianiche sull’opportunità di rendere più
flessibile il mondo del lavoro (anche i contratti di lavoro dei giornalisti hanno introdotto le figure professionali precarie, ma non mi pare
con grande entusiasmo della categoria, e d'altronde cosa si sarebbero
potuti aspettare…, un trattamento privilegiato? Prima ti usano come
randellante, ma poi anche come randellato) è passata l’idea che sia
possibile fare uso dell’elemento umano alla stessa stregua di come si
usa una macchina o un pezzo di ricambio, tutto ciò senza che né la
“sinistra”, né il grosso del sindacato abbiano trovato niente da ridire,
anzi si sono firmati contratti che hanno visto le destre e le organizzazioni imprenditoriali appuntare medaglie di benemerito a qualche organizzazione sindacale “moderna e responsabile”.
Nel medioevo i servi della gleba venivano anche detti taillables,
cioè sottoposti a ogni taglia e volontà del padrone. Oggi ovviamente
non c’è più il vincolo legislativo al lavoro, perché siamo diventati
liberali, è stato però introdotto il perenne ricatto del licenziamento: il
sindacato pare vada orgoglioso del fatto che l’articolo 18 sul licenziamento per giusta causa non è stato sostanzialmente toccato, ma
non è stato più necessario farlo essendo che questo articolo è stato di
fatto aggirato e svuotato dall’introduzione del precariato che per certi
lavoratori, in teoria anche per tutti, potrebbe rappresentare una condizione permanente.
Abbiamo iniziato parlando di guerra e abbiamo finito col discutere
di lavoro e magari qualcuno mi vorrà chiedere cosa centra una cosa
con l’altra. Rispondo che centra nella misura in cui nell’un caso e
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nell’altro alle persone viene negato il rispetto, nell’uno e nell’altro
possono essere vessate e offese senza che alcuno sia chiamato a rispondere e ancora che nell’uno e nell’altro caso possono anche morire ammazzate come se questa fosse la cosa più naturale del mondo.
Ora accade che in questo paese ci siano sempre più persone anziane e che la vita vada allungandosi è certamente un fatto positivo; per
contro, però, il nostro paese ha la più bassa natalità europea, alla
faccia del perenne strombazzamento in difesa delle famiglie che in
ogni campagna elettorale viene rispolverato, per essere poi rimesso
velocemente in soffitta e tornare buono per imbrogliare il popolo la
volta successiva.
I giovani dunque sono pochi e costantemente in calo. Verso costoro
il parlamento, formato per la maggiore da vecchi e ricchi privilegiati
insensibili legifera in maniera perversa e sadica, rendendo loro la vita
sempre più incerta, più difficile, più povera, priva di futuro. Questo
modo di legiferare loro lo chiamano “fare le riforme”.
Da quando sono entrate in vigore le norme legislative sul precariato
la situazione giovanile, ma non solo la loro e più avanti dirò perché,
si è talmente aggravata che a denunciarne lo stato di degrado sono
intervenuti anche organismi e voci autorevoli del pensiero liberale,
che mai prima avevano sentito il bisogno di pronunciarsi in tal senso.
Significativa è stata la presa di posizione del giornale degli imprenditori e della finanza, “Il Sole 24 Ore”, del 27 febbraio del 2007, che ha
sollevato la questione, pure non scostandosi dalla sua tradizionale
linea, ma osservando che la molla che muove l’economia è data sì
dalla disuguaglianza dei redditi, tuttavia quando questa disuguaglianza si fa troppo accentuata tutto il meccanismo si inceppa. Ad esempio il mercato interno non può più crescere se cala costantemente il
potere d’acquisto dei salari: tanto semplice che lo potrebbe comprendere anche un idiota. Non sto nemmeno a chiedermi come mai non lo
comprendano i nostri autorevoli ministri finanziari e del lavoro.
Al tempo della bistrattata Democrazia Cristiana c’erano governanti
che queste cose le tenevano in qualche conto (non sempre e non tutti
comunque) e i ministri del lavoro erano scelti in base alla loro sensibilità nei confronti di chi percepiva un salario o uno stipendio da
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dipendente e si facevano un obbligo di difenderne il potere d’acquisto e questo non solo per il bene del lavoratore, ma anche dell’intero
apparato economico del paese. Negli ultimi due governi berlusconniani, dei quali il primo con un ministro del lavoro, che si fece chiamare del “welfare”, (forse era un sostantivo padano?), il quale si adoperò a smantellarlo sistematicamente questo welfare, (dopo di che
sarà rimasto a fare il ministro delle briciole), mentre il secondo e attuale, sta completando l’opera del primo.
Pertanto siamo arrivati alla fase dei governi venditori di fumo, che
se abbastanza bene camuffato da arrosto riesce a trovare ancora un
buon numero di acquirenti: basta essere buoni venditori, dunque e
non si può dire che l’attuale premier non lo sia, anzi ha fatto scuola e
i talenti ora quasi si sprecano.
Anche il Comitato Europeo dei ministri delle finanze, ecofim, già
prima che comparisse la crisi e significa che c’erano forti sentori, per
bocca del suo presidente di turno, il tedesco Stainbruek, si era dichiarato preoccupato per la situazione di alcuni paesi dell’Unione, Italia
in primis, (alla faccia dei rappresentanti del nostro governo che
continuano a ripeterci che va male ovunque, ma da noi va comunque
meglio che altrove), dicendo che se: <<si registra una perdita netta
del potere dei salari mentre esplodono i profitti delle imprese, (ora
non succede più nemmeno questo), arriveremo a una crisi di legittimità del modello di economia sociale di mercato>>. Analoghi
discorsi faceva e continua a fare il commissario europeo Almunia. In
Italia l’allarme è stato dato anche da Draghi, Governatore della Banca d’Italia, a Torino il 26 ottobre del 2007, anche qui dunque in
tempi non sospetti, durante la riunione annuale della Società Italiana
degli Economisti. In quella seduta il governatore affermò che la spesa pro-capite dei consumi rispetto al 1970 era raddoppiata, però negli
ultimi sei anni si era fermata e ora è arretrata. Sulle cause di questo
arresto non ci sono dubbi dal momento che queste vanno individuate
nelle retribuzioni troppo basse e nella precarietà del lavoro giovanile.
Due fattori strettamente collegati fra loro.
Le conseguenze sensate che si dovrebbero trarre sono che le politiche governative degli ultimi, almeno, quattro governi, si sono mosse
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in direzione esattamente opposta a quella che avrebbero dovuto prendere e tanto meno si scorgono ora cambiamenti di rotta: ad esempio i
provvedimenti tampone della finanziaria 2008, rispetto al potere
d’acquisto, sono stati pari all’aspirina data al moribondo, o come
diceva mia nonna, provvedimenti che fanno sì che la pezza sia peggiore dello sbrego.
Ma la legge “Biagi” così com’è concepita non rende precario solo
il lavoro dei giovani alle prime esperienze lavorative, ma anche l’occupazione di numerosi lavoratori anziani che per qualche ragione
hanno perso il lavoro a tempo indeterminato: crisi aziendale, riduzione del personale, ristrutturazione, spostamento dell’azienda in altra
sede o all’estero, fallimento, razionalizzazione con aziende sinergiche ecc.., per cui le persone in ridondanza hanno dovuto cercare un
altro lavoro. Ebbene, alla maggiore difficoltà di reperimento di
nuovo impiego per una persona matura o anziana, si aggiunge l’altro
fattore negativo dato dal fatto che il nuovo lavoro sarà precario
esattamente come quello di un giovane al primo impiego, la qual
cosa oltre a gettare nell’incertezza una economia familiare, prima
relativamente stabile e sicura, diventa offensiva e umiliante per la
dignità di una persona che ha lavorato decine di anni per poi venirsi a
trovare in una situazione che non garantisce un minimo di sicurezza
(comunque sempre relativa) per sé e la sua famiglia. Ci sono anche
casi di aziende che vengono cedute ad altre proprietà e queste ultime
riassumono tutti i dipendenti, (quando non ristrutturano riducendo il
personale, includendo persone con decine di anni di anzianità e vicine alla pensione), ma lo fanno attraverso forme di contratti a termine,
oppure misti a termine e a tempo indeterminato, ma con buste paga
più leggere e qualifiche più basse: la vicenda Alitalia è stata uno degli ultimi esempi più rilevanti, ma i casi si contano a decine.
Il governatore Mario Draghi faceva inoltre notare come nella realtà
il numero dei precari fosse molto superiore di quello fornito dalle
statistiche, perché queste non tenevano e non tengono conto del popolo delle partite IVA, cioè dei: <<molti lavoratori classificati come
autonomi che prestano il loro lavoro secondo modalità e tempi caratteristici dell’occupazione alle dipendenze>>.
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Ora è accaduto che una direttiva europea approvata a larga maggioranza e fortemente caldeggiata dal nostro “lungimirante” governo abbia proposto che un dipendente possa lavorare 60 ore settimanali e
anche fino a 65. Nel frattempo lo stesso governo ha approvato nel
nostro paese un decreto legge, il numero 63 / 2008, preceduto da un
entusiastico strombazzamento mediatico che lo definisce fortemente
innovativo a favore dei lavoratori. Nella realtà è il frutto di un ulteriore attacco antioperaio, un ritorno a una forma paternalista che si
pensava ormai superata, nonché una implicita dichiarazione governativa di impotenza rispetto a una seria soluzione migliorativa delle
condizioni normative e salariali di milioni di lavoratori. Il disegno di
legge in questione prevede che saranno parzialmente detassate le ore
straordinarie e i premi di produttività riducendo l’aliquota al 10% e
questa riduzione sarà possibile fino a un massimo di 3.000 euro. Essendo la tariffa normale equivalente al 23%, il lavoratore che dovesse
raggiungere quota 3.000 verrebbe a percepire circa una trentina di
euro al mese, naturalmente sfruttando al limite massimo le agevolazioni previste dalla legge. Ma essendo che di questi tempi nelle
aziende quando non si licenzia si fa la cassa integrazione o, se va
bene, si riduce l’orario alle sole ore ordinarie, salvo lavorazioni impreviste o manutenzioni straordinarie, che coinvolgono comunque un
numero limitato di persone, in genere sempre le solite, chi potrà beneficiare del decreto, sbandierato come la panacea risolutiva dei problemi salariali, sarà un infimo numero di lavoratori: in realtà dopo un
anno dalla sua approvazione non si hanno notizie che sia applicato.
Per non dire poi dei lavoratori turnisti che, ricevendo il cambio dopo
le loro otto ore, non avrebbero la possibilità di usare il decreto.
Cosa resta allora di tutto ciò? Resta il chiaro messaggio che questo
governo ante-liberale vuole veicolare alla nazione, in questo caso ai
lavoratori dipendenti: “Volete portare a casa più salario? Fate più ore
di lavoro!”. Della volontà di ridistribuire la ricchezza verso il basso,
verso cioè coloro che avendo un po’ più di denaro in tasca potrebbero mettere in moto il meccanismo dei consumi, non c’è nemmeno
l’ombra e d'altronde come potrebbe in un ambiente dove si ragiona
con la mentalità del “padrone delle ferriere”.
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E i sindacati? Pare che tacciano; salvo la CGIL, la quale avendo
organizzato uno sciopero è stata tacciata dal governo, dalla Confindustria e dalle altre confederazioni, che non hanno aderito, da irresponsabile.
Ad ogni modo c’è da dire che in una azienda gli straordinari si
fanno innanzitutto se arrivano commesse o ordinazioni impreviste,
questo nell’immediato, poi se il volume produttivo aumenta stabilmente, non si continuano a fare gli straordinari, ma si fanno nuove
assunzioni, ciò nella strategia di tutte le aziende, un governo e un ministro del lavoro competenti almeno questo lo dovrebbero sapere.
Quindi parlare di ore straordinarie in un periodo, come l’attuale, dove quasi tutte le aziende hanno già scaricato i lavoratori a tempo
determinato, che non hanno ammortizzatori sociali, mentre per i restanti ci sono periodi di cassa integrazione in corso o in prospettiva, è
una cosa che se già prima aveva poco senso ora non ne ha alcuno.
Ma continuiamo le nostre considerazioni sulle politiche economiche e produttive. Il rapporto ISTAT di metà anno 2008, per chi nel
governo avesse voluto degnarsi di prenderlo in considerazione, ci
informava che la produttività, così come la competitività del paese
non aveva nulla a che vedere con l’aumento degli orari di lavoro, al
di là di quanto stava enfatizzando una parte della classe imprenditoriale ( divisa al suo interno, anche se verso il paese finge di mostrarsi
unita) a corto di idee, la quale oltre che piangere di continuo miseria
presso il governo per avere aiuti pubblici, non sa fare altro che pestare sull’unico tasto ormai consunto, seguita pedissequamente da un
ceto governativo altrettanto senza idee. In realtà il governo attraverso
il ministero del tesoro un’idea l’aveva avuta, anche questa strombazzata al paese come la madre delle soluzioni: dare parecchio denaro
alle banche in cambio della promessa, o meglio della speranza che
queste avrebbero concesso dei prestiti agevolati alle aziende bisognose di liquidità. Morale della favola: le banche hanno incassato ma
poi non hanno distribuito. Cosa farà il governo? Potrà riavere indietro il maltolto? Non credo che ciò sarà possibile. Su chi ricadrà il
peso di questo ulteriore buco? Ecco il perché della maretta scoppiata
in Confindustria e delle proteste verso la presidentessa Marcegaglia,
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troppo adagiata, all’inizio, sulle posizioni governative.
I dati ISTAT dei primi di giugno dimostravano l’esatto contrario di
quanto il governo e la maggioranza di confindustria andavano affermando, dicendoci che: dal 1993 al 2007 il numero di ore lavorate è
costantemente cresciuto di anno in anno, fino al 10,7% in più; mentre invece la produttività è andata costantemente calando. Inoltre:
nella classifica dei 30 paesi più industrializzati, dati OCSE, i lavoratori italiani sono fra quelli che lavorano di più, ma che guadagnano di
meno. Questi dati dovrebbero suggerire qualcosa a chi è zavorrato di
orecchie per intendere: suggerire proprio qualcosa sulla qualità del
nostro sistema produttivo, che in buona misura andrebbe innovato e
per questo motivo avrebbe estremo bisogno di quei prestiti che le
banche non concedono: il risultato è la paralisi.
Aggiungeva ancora l’ISTAT: <<..le ore lavorate non riflettono la
qualità e l’efficienza del fattore lavoro>>.
Quali alcuni degli intoppi individuati: 1) la grandissima presenza di
piccole e piccolissime imprese, che se pure danno una fotografia di
grande dinamicità e buona volontà, sono spesso a basso valore tecnologico, e qui torna fuori la difficoltà, specie delle piccole imprese,
di accedere a prestiti agevolati; a ciò fa riscontro la scarsa presenza
delle grandi aziende tecnologicamente avanzate. Naturalmente ci sono eccezioni con piccole e medie imprese d’avanguardia. D’obbligo
quindi dare un aiuto alle piccole aziende a crescere. 2), un sistema
burocratico e fiscale che penalizza le imprese nazionali nel confronto
con le concorrenti estere. 3) un sistema paese che rispetto ai concorrenti produce un numero assai esiguo di brevetti. Fino a qualche
tempo fa nei dibattiti politici si parlava di aiuti e incentivi alla ricerca; ora questo esecutivo del problema non ne fa più menzione, come
se avesse gettato la spugna; sono infatti praticamente quasi azzerate
le risorse destinate alla ricerca e allo sviluppo, sia sul fronte statale, a
partire dalle università, sia su quello privato.
Non è quindi credibile pensare che un ritorno agli orari del primo
ottocento (loro le chiamano riforme) sia la soluzione o lo strumento
con cui fare fronte alle sfide che la concorrenza mondiale ci pone: se
questa è la maniera di ragionare della nostra classe dirigente significa
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che siamo veramente messi male. Facile retorica? Per niente! Non
c’è proprio nessuna intenzione!
Il ministro del lavoro, onorevole Sacconi, ai primi di luglio del
2008, a proposito del drammatico succedersi delle morti sul lavoro,
aveva affermato: <<…il casco è diffusamente rifiutato nel paese.
Penso che si possano suggerire standard più confortevoli, capaci di
garantire una migliore protezione>>. Ringraziando il ministro per la
sua solerte attenzione e il prezioso suggerimento, proviamo a dare
anche noi un contributo indicandogli che potrebbe magari pensare a
un casco di tipo intermedio fra quello da motociclista e quello da
ciclista, resistente ma insieme confortevole, leggero e aerato. E mentre stiamo rimuginando nuove idee vorremmo anche fargli notare che
un muratore che cade al suolo da una grande altezza da una impalcatura carente di adeguate protezioni, o che viene schiacciato da una
frana di uno scavo scarsamente puntellato, o che resta soffocato in
una stiva di una nave o in una cisterna venefica perché non è stato
fornito da una maschera a ossigeno, o perché viene investito da un
getto di una colata di ghisa fusa a causa della scarsa manutenzione
dell’impianto, ecc.., tutti costoro se ne farebbero assai poco di un
casco più adeguato e non che non serva anche questo.
Se poi gli orari di lavoro dovessero essere allungati a dismisura,
diventa anche logico e naturale che possano aumentare i momenti di
disattenzione causati dallo stress e dalla stanchezza.
Per esempio: se un ministro durante una riunione si dovesse distrarre o appisolare, non succederebbe nulla alla sua incolumità fisica, ma
se lo stesso accadesse a un operaio, una persona fatta di carne e ossa
come un ministro, che svolge un lavoro pericoloso, lo comprenderebbe anche un ministro che le conseguenze potrebbero essere assai diverse. Pertanto orari di lavoro adeguati, comprensivi di pause
fisiologiche. Abbiamo saputo e siamo rimasti impressionati dal grandissimo numero di ore che moltissimi camionisti sono costretti a fare
nel nostro paese, con paghe sempre più basse, col corollario di
incidenti, spesso gravissimi, la cui cause principali sono da ricercare
nelle mancate pause di riposo di questi lavoratori. È auspicabile che
quanto prima vengano prese serie e rigide misure di controllo sulle
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strade affinché non continuino a essere dei luoghi di stragi annunciate. Fondamentale quindi badare agli orari, ma anche alle condizioni
in cui vengono poste le persone che operano in situazioni di rischio,
altrimenti può accadere come nella mia regione, che è anche la stessa
del suddetto ministro, dove oltre alle condizioni rischiose del petrolchimico e dei cantieri navali dove operano diversi sub-appaltatori che
impiegano manodopera straniera sottopagata, si è aggiunto anche un
recente caso, che nonostante una sorta di sordina “suggerita” alla
informazione, è comunque venuto allo scoperto. La zona industriale
era quella padovana, che pure a detta degli esperti sembra essere una
delle più avanzate e moderne dell’Italia in fatto di sicurezza: evidentemente non era tutta così. Il fatto venne alla luce nel luglio del 2008
alla Star Recycling, azienda cooperativa di riciclaggio dei rifiuti,
controllata dalla Ecostab di Vicenza. Si scoprì che i lavoratori dipendenti, in maggior parte donne magrebine, erano costrette a fare la
cernita della spazzatura riciclabile accucciate per terra per otto ore al
giorno, - il nastro trasportatore era rotto e erano mesi che non veniva
riparato – e per tutto il tempo separavano immondizie aprendo i sacchetti, talora senza guanti dato che venivano fornite di un solo paio
alla settimana e così a lungo potevano non durare. Bontà aziendale,
ricevevano anche una mascherina settimanale. Rovistavano tra la
spazzatura nella quale si trovava di tutto, compresi scarti di macellazione, cadaveri di cani e gatti e altri animali da cortile; inoltre rifiuti
ospedalieri, comprese garze insanguinate e siringhe usate: è eufemistico dire che a monte non si differenziava poi molto.
A chi si permetteva di protestare veniva mostrata la porta.
Sulla carta, lo stipendio di queste lavoratrici risultava essere pari a
1.300 euro al mese, ma nella realtà non superava gli 800: c’erano
quindi gli estremi anche per la truffa, sia verso le lavoratrici, che verso lo Stato.
Le condizioni igieniche ambientali erano peggiori di quelle che si
riscontrano nelle discariche all’aperto a ridosso delle bidonville delle
grandi città del terzo mondo, in quanto almeno in quelle i miasmi
volatilizzano.
La classe politica locale (il comune di centrosinistra) e la provincia,
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alla notizia sembrarono cadere dalle nuvole e comunque evidenziando un certo fastidio cercarono di far passare il tutto sotto il più stretto
riserbo.
A parte i promotori del blitz, Rifondazione e CGIL, che misero a
nudo la disgustosa vicenda, sembra non ci sia stata nessuna reazione
da parte delle altre confederazioni, né da parte del restante mondo
politico; silenzio anche da parte della chiesa locale, anche abbastanza
sensibile su queste tematiche: forse avrà temuto che prendendo posizione avrebbe rischiato di essere accusata di ingerenza, chissà.
Da fatti come questi si ricava la sensazione che i nostri legislatori
non riescano proprio a comprendere cosa significhi lavorare in certe
condizioni, che non sono nemmeno necessarie da sperimentare se si
possiede la giusta sensibilità e il rispetto dovuti verso quelle persone
che poi sono le vere produttrici di quella ricchezza economica che
però esse non godranno mai. La giusta sensibilità per arrivare a comprendere che, se un lavoratore ricattato è costretto ad accettare talune
condizioni di pericolosità e di carenti sicurezze , questa situazione
non è che il risultato ultimo della barbara logica dell’iperliberismo
non più regolato, né moderato, né disciplinato da alcun vincolo, che
rivendicando il primato dell’impresa su tutto il resto, reclama per sé
libertà e diritti che nei fatti poi nega a milioni di persone.
Ma il sadico accanimento ideologico contro i lavoratori non era
ancora compiutamente consumato e ulteriori colpi sono stati inferti
nell’estate dell’anno 2008, che come si è ampiamente compreso, essendo tempo di ferie, è diventato il tempo migliore per far passare,
quasi inosservate, le fregature peggiori. Mi riferisco al decreto numero 112 / 2008, il quale prevede che nel caso nascano contenziosi
giuridici tra lavoratori e aziende a seguito della mancata trasformazione da contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, trascorsi i termini temporali di legge della durata del primo,
cioè 36 mesi, le aziende non saranno più obbligate a assumere i
lavoratori stabilmente ma saranno costrette, al limite, a corrispondere
a questi un indennizzo variabile da un minimo di 2,5, a un massimo
di 6 mensilità, dopo di che il rapporto fra i due soggetti contendenti
sarà da considerarsi interrotto.
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Ora, per quanto personalmente mi concerne a proposito delle tematiche economiche e produttive, tenendo conto della sottile previsione
di quel tale oracolo che ci ricorda: “attenzione perché ormai” <<il
capitalismo ha i secoli contati>>, che può essere presa tanto come
un’arguta battuta umoristica, quanto come una minaccia, o anche
come un responso profetico, da verificare però a posteriori, ma non
toccherebbe a noi, vorrei dire che se proviamo a esaminare pacatamente questo mondo frenetico - già pacatezza e frenesia fanno a pugni - tutto teso a incettare materie prime, (molte delle quali ormai in
via di esaurimento, uranio compreso), tanto da rapinare ormai a volto
scoperto e a mano armata chi le possiede – i pirati del Corno d’Africa
al confronto non sono che dei timidi dilettanti - ; tutto teso a progettare e a inseguire piani di aumento delle produzioni di merci da consumare sempre più rapidamente, fingendo di non vedere che sta per
soffocare tra montagne sempre più alte di rifiuti e scorie nocive e
quindi tutto teso a inquinare il pianeta fino a modificarne drammaticamente le condizioni ambientali e lasciare in eredità alle generazioni
future un mondo trasformato in una immensa discarica: già oggi,
come si scava da qualche parte, si corre il rischio di mettere allo scoperto qualche bubbone di veleni abusivamente interrati. Allora dico
che, senza scomodare il vecchio Marx, ma state tranquilli che toccherà consultarlo, usando semplicemente un po’ di buon senso, come del
resto usava il suddetto buon filosofo, bisogna per forza iniziare a
pensare e anche rapidamente, a un modello totalmente differente di
produrre e consumare, partendo da avvedute politiche di risparmio
energetico e privilegiando le fonti energetiche rinnovabili e non
inquinanti.
Ma in definitiva non è nemmeno più questione di dibattito pro o
anti-capitalista: è semplicemente questione di sopravvivenza. È ormai tempo di abbandonare un mito, che non solo sta mostrando la
corda, ma che deve fare seriamente riflettere, se non spaventare, al
solo immaginare cosa accadrebbe, ad esempio, se due potenze economiche come Cina e India, due miliardi e mezzo di abitanti, dovessero
ripetere la fase ciclica produttiva, magari amplificata, che ha finora
caratterizzato il resto del mondo industrializzato verso la spinta tesa a
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un aumento produttivo senza limiti, ben sapendo, oggi, che viviamo
su un pianeta le cui risorse hanno un limite e che per un buon numero
di queste questo limite sta ormai per essere raggiunto.
Non fosse altro che per questi elementari motivi che andrebbero
privilegiate le qualità produttive, ( il cosa e come fare), abbandonando la logica del consumo fine a sé stesso e favorendo un ragionato e
oculato utilizzo delle risorse. Altro che chiedere all’Europa la concessione della deroga affinché sia possibile continuare a inquinare e
una volta ottenutala farla passare come una grande vittoria.
Infine abbandonare anche la sciocca convinzione che un maggiore
numero di ore di lavoro possano equivalere a maggiore ricchezza.
Ora lo scossone della crisi è stato talmente forte che il PIL di tutti i
paesi industrializzati, salvo per il momento quello dell’India, della
Cina e anche quello del Brasile, è andato a finire parecchio sotto lo
zero. Tutti però si dicono fiduciosi che passata la tempesta “riudremmo gli augelli far festa”, cioè il mitico prodotto interno lordo ricomincerà a macinare records con il segno “positivo”.
Fino a quando? Fino a dove? Quale lo scopo, la meta? È o no possibile che l’umanità progredisca, cresca, si emancipi, migliori le sue
condizioni ambientali e vitali, conquisti più ampi spazi di libertà democratiche senza dovere per forza aumentare il PIL?
Il 17 dicembre del 2008 la giovane segretaria dei giovani imprenditori italiani, Federica Guidi, intervistata da Corrado Augias, affermava che in Italia bisognava lavorare di più. Mi domando in quale
secolo li vadano a pescare questi giovani segretari e quale sia la loro
scuola di pensiero. Non gli passava mica per il capo che forse la
soluzione non stava tanto nella quantità quanto nella qualità, vale a
dire non lavorare di più ma lavorare meglio?
Stesso giorno 17 dicembre: il parlamento europeo respingeva con
un’ampia maggioranza la proposta di portare l’orario di lavoro dalle
48 alle 65 ore settimanali. Va rammentato che le 48 ore erano state
sancite, come limite massimo, nel lontano 1919, quindi novant’anni
fa. Con questa barbarie, camuffata da provvedimento riformista, si
tentava di ricacciare l’Europa nell’Ottocento, cancellando i diritti sociali acquisiti dalle dure lotte sostenute dai lavoratori del continente
256
nell’arco del ventesimo secolo. Finalmente una botta sui denti a un
branco di sadici moloc che intendevano fagocitare i propri figli.
Ora, dopo la premessa che immediatamente seguirà, una domanda
proverò a formularla anch’io, sperando che da qualche parte mi possa
giungere una risposta perlomeno plausibile. Prendiamo a caso le seguenti categorie di lavoratori: un operaio siderurgico dell’ILVA di
Taranto, un muratore, un carpentiere, un bracciante agricolo, un tutore dell’ordine, carabiniere o poliziotto. Tutti lavoratori che operano,
ognuno nel rispettivo ambito, per il bene del proprio paese e, naturalmente, delle loro famiglie, percependo salari o stipendi modesti, pure
se un poco differenti. Per tutti questi motivi vanno rispettati e dobbiamo essere loro grati in uguale misura.
Il tutore dell’ordine è presunto che sia colui che fa il mestiere più
pericoloso perché è preposto, per legge, alla tutela e alla difesa della
medesima e dei cittadini, contro l’illegalità e il crimine: per questo
viene opportunamente addestrato e armato e al mattino o all’ora del
turno quando lascia il commissariato, o la caserma, o l’abitazione, i
suoi familiari trepidano per lui.
Gli altri lavoratori, giustamente, non vanno al lavoro armati perché
e assodato che non corrono il pericolo che dei criminali possano attentare alla loro integrità fisica o alla loro vite e i loro famigliari,
quando lasciano la casa al mattino o all’ora del turno, dovrebbero
provare meno trepidazione.
Orbene, accade sempre più spesso che siano proprio questi ultimi
lavoratori a morire nel numero di media ormai oscillante fra i tre e i
quattro al giorno. Spesso non fanno notizia, salvo che in ambito locale o salvo che il numero dei morti in quel giorno sia particolarmente
elevato, o l’evento insolitamente raccapricciante. Ma tranquilli che
dopo qualche giorno in cui la notizia, assieme ai rituali di cordoglio,
starà sui titoli grandi, tutto finirà nel dimenticatoio, perché è poco
delicato turbare le poche ore di sonno e le coscienze dei manovratori
impegnati, dei legislatori tesi allo spasmo al bene dei cittadini, dei
benpensanti…benpensanti; e comunque sono disgrazie sempre accadute e alla fine vai a vedere che la colpa della disgrazia non sia stata
pure loro: come dire che se la sono cercata.
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Se muore un tutore dell’ordine nell’esercizio delle proprie funzioni
diventa un eroe e certamente nessuno oserà biasimare qualche svista
nel suo operato perché magari in quel frangente non portava il casco
o il giubbetto antiproiettili, o correva troppo velocemente e qualora
fosse anche accaduto, rimarrebbe tutta intera la solidarietà e la gratitudine dei cittadini verso questo servitore dello Stato.
Ora mi chiedo: perché quando nell’esercizio delle sue funzioni
muore un operaio nessuno pensa a dargli una patente eroica, per cui
al suo funerale non si vede mai né un sindaco, né un assessore, né un
prefetto, né un presidente di provincia o di regione, né un generale,
né un cardinale o solo un monsignore, né un deputato o un senatore e
spesso nemmeno un segretario nazionale, regionale o provinciale del
sindacato, o magari più di uno dei sopraelencati assieme?
Pure non essendo un amante dei motti, degli adagi delle massime o
dei proverbi, che sono di certo frutto della saggezza popolare, ma che
vanno anche presi non esattamente alla lettera, tuttavia provo una
particolare simpatia, o una specie di affinità elettiva per quell’adagio
che dice: <<Beato quel paese che non ha bisogno di eroi>>.
Fin da quando frequentavo le elementari appresi che c’erano stati
gli eroi dell’antica Grecia Achille e Ettore, il secondo in verità era
troiano e verso costui provavo più simpatia, dato che come tutti i comuni mortali era vulnerabile, ma in fondo in fondo, sul tallone, lo era
anche Achille. Se la vicenda omerica fosse stata veritiera questi eroi
datavano più di tremila anni da noi. Ma per venire a quelli nazionali,
i più antichi dei quali presunti, appresi dal mio maestro, figura oggi
quasi estinta, che c’era stato Muzio Scevola, un romano del periodo
arcaico, che però più che un eroe mi parve un uomo tutto di un
pezzo, meno una mano ovviamente. Poi ci fu Orazio Coclite che tenne a bada da solo l’esercito etrusco di Porsenna sul ponte Sublicio sul
Tevere, mentre i suoi commilitoni romani tagliavano il ponte alle sue
spalle. Ma ora cederò per un minuto la parola a Indro Montanelli,
con il quale politicamente mi trovavo molto spesso in disaccordo,
(non lo conoscevo di persona), ma che su alcuni giudizi di costume,
proprio perché egli aborriva la retorica, trovavo l’assenso. Nella sua
“Storia d’Italia” su questo episodio scriveva: << Ma la guerra fu
258
perduta e queste stesse leggende lo provano. La loro esaltazione
costituisce uno dei primi esempi di “propaganda di guerra”. Quando
un paese subisce una disfatta, inventa o esagera dei “gloriosi episodi”
su cui richiamare l’attenzione dei contemporanei e dei posteri e distrarla dal risultato finale complessivo. Ecco perché gli “eroi” allignano soprattutto negli eserciti battuti>>.
Poi ci furono le oche del Campidoglio, ma non ci è giunta notizia
se fu loro conferita una medaglia o se finirono in pentola come tutte
le altre loro anonime consorelle. Infine Roma divenne grande e,
notate bene, non ebbe più bisogno di eroi, li ritrovammo invece
nell’Italia del rinascimento, splendida dal punto di vista artistico, miserrima, serva e sconfitta da quello politico; Italia della quale molto
giustamente si disse e si scrisse degli insuperati architetti, pittori,
scultori, letterati e tuttora si dice e si scrive. Ma politicamente cosa si
sarebbe potuto dire di questo nostro paese svenduto, fatta salva la
Savoia, (che ora non è più italiana) e Venezia, se non costruirci sopra
qualche eroe nazionale. E allora, sempre a scuola, seppi di Pier
Capponi, il politico fiorentino che nel 1494, al re Carlo ottavo di
Francia che intimando a Firenze la resa e anche un forte tributo, minacciando al rifiuto di ciò di far suonare le sue trombe, fieramente
rispose: <<Se voi farete suonare le vostre trombe, noi suoneremo le
nostre campane>>. Frase che indubbiamente si presta a essere indossata da panni eroici, ma che altro avrebbe potuto dire l’infelice commissario mediceo?
Seppi di Ettore Fieramosca: il momento di estrema umiliazione
delle sorti italiane tentò in qualche modo di essere riscattato con
l’esaltazione, dovuta anche a storici del rinascimento come il Giovio,
del celebrato episodio della disfida di Barletta del 1503, dove il cavaliere (di Capua?) Fieramosca condusse i tredici cavalieri italiani che
sconfissero i tredici francesi. Resta il fatto che ciò avveniva sul suolo
italiano mentre Francia e Spagna se ne stavano disputando le spoglie.
Seppi ancora di Francesco Ferrucci, il condottiero fiorentino che
nel 1530, durante la battaglia di Gavinana, disarcionato e morente
gridò al Maramaldo, suo nemico che gli stava vibrando il colpo finale: <<tu uccidi un uomo morto>>. Maramaldo diventò poi sinonimo
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di vigliacco e traditore. Seppi di Pietro Micca, il soldato piemontese
che nel 1706 salvò Torino dall’assedio dei francesi facendo saltare
una galleria che portava alla città, nella quale era penetrato il nemico.
Nello scoppio delle polveri e il crollo della galleria perse la vita lo
stesso Pietro. Seppi di Enrico Toti, il bersagliere che nonostante
fosse privo di una gamba, persa in un incidente, volle andare al
fronte e nell’agosto del 1916, nella sesta battaglia dell’Isonzo, sebbene ferito più volte continuava a incitare i compagni alla lotta e infine,
prima di morire, come gesto estremo di valore lanciò la sua stampella
contro il nemico.
Quindi in più di tre millenni ho conosciuto meno di una decina di
eroi, alcuni dei quali leggendari e pertanto supposti, perciò di media
uno ogni 4 / 500 anni, ma può essere che qualcuno mi sia sfuggito.
Oggi essendo nella fase avanzata di quelli che Charlot nel suo film
chiamava “Tempi moderni” delle produzioni e dei consumi di massa,
anche gli eroi, come pure i santi, vengono sfornati in quantità industriali…o post-industriali.., a iosa comunque. “Mala tempora”, direbbe Brancaleone da Norcia, dato che anche lui, benché inventato,
sapeva bene che laddove gli “eroi” si sprecano questi sono la cartina
di tornasole di un substrato di vigliacchi, di code di paglia, di retorici
straccioni da strapazzo che rispecchiano l’immoralità di quanti mandano i giovani soldati a fare le guerre di aggressione, chiamandole
per pusillanimità con altri termini. Se poi questi giovani ci lasciano la
pelle, bisognerà pure, per pulirsi la coscienza, innalzarli al rango di
eroi e dargli una medaglia alla memoria.
D'altronde se l’Italia del sedicesimo secolo, diventata schiava di
Francia e Spagna, dovette farsi riscattare in qualche modo dagli eroi,
oggi, novella “serva (USA) di vil encomio”, reiterando miseramente
l’espediente, se ne deve accreditare degli altri.
Ho volutamente evitato di aggiungere nella lista i nomi dei nostri
eroi del risorgimento, quelli che concorsero pagando con la vita a
riscattare il nostro paese dalle dominazioni straniere. Non li ho nominati uno a uno temendo qualche mia colpevole dimenticanza, però mi
è parso giusto ricordarli anche se so che gli italiani li dovrebbero conoscere perché sono stati quelli che hanno reso possibile la libertà e
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la riunificazione del paese. Li rammento così, con rispetto, separatamente dagli altri, perché su costoro, oggigiorno, è più che noto come
si stia tentando cialtronescamente di compiere una operazione di discredito,orchestrata in maniera particolare da una ben distinta parte
politica che essendo incapace di leggere la storia non sa nemmeno
compiere lo sforzo minimo di calarsi (questo è il minimo che bisogna fare per provare a comprendere il proprio passato, senza il quale
poi, nel futuro, si procederà come degli zombie ) nei tempi e nell’atmosfera in cui essi avvennero; parte politica separatista, convinta che
l’Italia riportata al tempo degli staterelli medievali, litigiosi e in balia
di ogni potente dal grosso appetito, sia un’Italia migliore. Comunque
al di là di ogni idea, giusta o sbagliata che possa essere, sempre rispettabile, non è possibile leggere in maniera corretta la storia di ieri
indossando gli occhiali di oggi. D'altronde è risaputo che gli sciocchi
sono sempre i primi a perdere la memoria. Parlare di federalismo è
un conto, parlare di separatismo è un altro: si ha l’impressione che taluni agitino il primo ma mirino al secondo e guarda caso sono poi gli
stessi, il paradosso non gli sfiora, che a parole difendono l’integrità
culturale e politica degli stati sovrani e poi sono stati tranquillamente
dalla parte di chi (governo), al G 8 di Genova mandò le forze dell’ordine a spaccare le teste a dei miti manifestanti che nei fatti chiedevano fossero salvaguardate le pluralità contro l’imposizione di un
pensiero unico uniformante e mortifero delle mille creatività e varietà
culturali: i Black Block, quelli “cattivi”, che spaccarono le vetrine,
vennero lasciati fare e questo la dice lunga sul fatto che si voleva far
tacere una protesta pacifica, che però era di massa.
La sciocca incoerenza di costoro è ulteriormente rafforzata dal fatto
che stanno con i loro alleati – per la verità il fronte è più ampio – sostenendo politiche militari aggressive fuori dai confini nazionali:
contro il terrorismo dicono. Nessuno nega la presenza del terrorismo,
ma non sono questi i metodi per arginarlo: così lo si alimenta.
A tale proposito la confusione su chi sia e chi no un terrorista è
stata sparsa a piene mani. Domanda: chi lotta per cacciare un esercito
straniero occupante il proprio paese è un terrorista o un combattente
per la libertà? Altra domanda: se le forze nazifasciste avessero vinto
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la seconda guerra mondiale, i partigiani sarebbero stati banditi e terroristi o combattenti per la libertà? E l’esercito americano sarebbe
stato quello che ci liberò da un regime dispotico e guerrafondaio, oppure un occupante indebito giustamente ricacciato?
Il fatto è che in questo disgraziato, intossicato e ipnotizzato (ma anche opportunista) paese c’è un sacco di gente di falsa coscienza e
dall’enorme coda di paglia, sempre pronta e flettersi davanti a ogni
nuovo padrone, ieri: <<Francia o Spagna purché se magna>>, oggi,
nuova serva di vil encomio, prona al nuovo padrone del mondo, che
ci ha liberati dal nazifascismo, ma poi non se n’è più andato.
Certamente americani e partigiani assieme liberarono l’Italia dal
fascismo e dal nazismo, ma ora gli epigoni discendenti del regime
con perfetto stile voltagabbanesco (ovviamente pure non condividendo, “apprezzo” maggiormente coloro che alla luce del sole - e non
erano molti - rimasero fedeli alle idee del regime) hanno sfoderato
l’arte sopraffina della piaggeria verso il nuovo alleato-padrone, al
quale hanno anche promesso il raddoppio della base militare di
Vicenza. A quando la costruzione di una base militare italiana negli
Stati Uniti d’America?
Poi, nei confronti dei nostri partigiani questi “signori” si permettono di ostentare un altezzoso fastidio, se non spregio, perché costoro
non hanno potere, giacché compiuto il loro dovere tornarono, in prevalenza, ai propri lavori e professioni di gente comune fra gente
comune. D'altronde i partigiani stessi parlando di sé hanno ormai in
numerose occasioni affermato: “.. non siamo stati né eroi né santi.
Dopo alcuni mesi di vita grama in montagna si tendeva a insellatichire; ed essendo pure braccati come bestie era piuttosto logico che
fossimo un poco “incazzati”.
Noi che di loro manteniamo il ricordo più alto, non li poniamo fra
gli eroi ma fra gli uomini giusti.
262
Libro 13°
LE QUESTIONI DEL CIELO E DELLA TERRA.
Il mese di dicembre del 2007 si aprì con un’ennesima enciclica di
questo dinamico papa grafomane, impossibile da ignorare sia per il
contenuto, ma anche perché sparata su tutti i media nazionali come,
pure se con minore ridondanza, su molti esteri dal titolo “Spe Salvi”,
dedicata quindi alla speranza, la qual cosa per noi laici fiduciosi di
vedere in questa odierna chiesa cattolica, rinserrata nel suo assolutismo dogmatico e con lo sguardo rivolto al passato, un piccolo segno
di apertura verso le mille istanze del mondo non colte, è stata – non
ci eravamo fatti comunque soverchie illusioni – ancora una volta una
speranza delusa.
Va però rilevato come il destinatario per competenza dell’enciclica,
in questo caso, fosse il mondo cattolico, mentre il rimanente mondo,
tutto il resto, diventava solo destinatario per conoscenza. Comunque
la conferma sulla percezione, di chi sta all’esterno, di una chiesa barricata, non perché oggetto di attacco, oggi più che mai ha ai suoi
piedi schiere di cortigiani prostrati e vogliosi di accredito, ma per il
suo sdegnoso rifiuto di “contaminarsi” e mischiarsi davvero come faceva Gesù fra le eterogenee folle, con tutto quel mondo verso il quale
“apre” le ostilità rimanendo pertanto blindata e sull’offensiva.
Naturalmente non è una chiesa tutta così dato che alcuni suoi uomini, peraltro osteggiati, quando non emarginati, esistono e resistono; ma un organismo rigidamente impostato su scala gerarchica
non può trovare che assai problematico concepire come sia possibile
derogare autonomamente, anche di poco, dalle rigide direttive del
vertice.
Una faccenda che pareva sostanzialmente interna quindi, almeno
questo sembrò in un primo momento, ma poi con uno o forse due
giorni di ritardo, il papa incontrando in Vaticano le ONG cattoliche
mondiali, quasi aggiungendo una postilla all’enciclica, sparò a pallettoni ad alzo zero contro l’ONU e allora per forza di cose l’enciclica
coinvolgendo interessi generali andò a coinvolgere competenze più
ampie, generali.
263
Le tematiche che solleva questo papa filosofo, per chi le avvicina
sia pure casualmente, o meglio cautamente, esercitano un indubbio
potere di attrazione, fino a diventare fisiologicamente coinvolgenti,
nondimeno essere interessati non significa essere competenti, per cui
nell’esprimere il mio punto di vista, che è quello dell’ignorante, anche se interessato, non potrò non avvalermi dell’ausilio di persone
certamente più competenti ed è ciò che farò per una parte importante
riguardante l’enciclica, mentre per un’altra mi riserverò in un momento successivo - dopo un intermezzo di carattere storico, pertinente però al tema – una considerazione maggiormente “personale”, (anche se sappiamo essere pochissimo di ciò che diciamo che non sia
già stato detto), la più stringente possibile, anzitutto per il fatto di
essere argomentazioni in parte già trattate in questo libro, ma anche
perchè essendo preda di due forze contrastanti, sta quasi prendendo il
sopravvento nel sottoscritto un senso di spossatezza data l’infruttuosità che si ricava nel cercare di replicare al rintocco di una campana
che continua a battere imperterrita la medesima nota, mentre
all’intorno il mondo sta cambiando con una rapidità mai riscontrata
prima: il rischio è che tutto diventi un puro esercizio di sterile
retorica, dentro la quale non intendo scivolare.
Il testo dell’enciclica era dedicato al nostro <<presente faticoso>>.
Gianni Vattimo commentandolo, sul Manifesto, si disse deluso anche
perché tra quelle pagine non aveva trovato traccia di Bloch, il filosofo e teologo <<della speranza>>, docente fra le altre, anche all’università di Tubinga, che Benedetto 16° conosce sicuramente molto
bene. Ma il papa non l’ha citato, se posso suggerire, non certo per
dimenticanza ma in primo luogo perché Bloch non è stato teologo
cristiano in senso stretto, ma di estrazione ebraica e abbiamo imparato che questo papa dei cattolici romani pure esprimendo rispetto
verso le altre fedi monoteiste, forse anche di più che verso quelle cristiane riformate, le ritiene tuttavia non degne di confronto alla pari e
nel migliore dei casi sorelle deviate da redimere; per questo, in primo
luogo, Bloch non poteva proprio comparire tra gli esempi papali da
citare, non gli tornava utile. In secondo luogo perché il filosofo della
speranza si era contaminato con esperienze marxiste, anche se nella
264
Germania dell’Est dove egli insegnò a Lipsia, (dopo il rientro dagli
Stati Uniti d’America dove si era rifugiato durante le persecuzioni
naziste antiebraiche), fu vittima di vessazioni, denunciato e condannato per revisionismo avendo ripensato il marxismo partendo dalle
sue origini ebraiche, per cui dovette tornare all’Ovest. Cosa dire allora …, che era naturale che Benedetto 16° lo citasse?
V’è da considerare che questo papa comprende sicuramente benissimo il senso del concetto secondo il quale un uomo è ciò che è
anche o soprattutto a causa delle sue origini, dei suoi trascorsi e dei
suoi percorsi di vita, ma se comprendere ciò è indice di sensibilità e
acutezza, non significa che queste gli difettano se poi egli fa ricorso o
meno a certi riferimenti.
Vattimo si aspettava che nell’enciclica fosse stata riportata almeno
la “teologia della liberazione”, oppure i lavori di certi autori come
Moltmann o altri che come lui hanno cercato di dare alla dottrina cristiana della speranza un concetto non meramente <<spiritualistico>>
e Vattimo, uomo della speranza, in questo caso delusa, sa bene anche
lui che Benedetto 16° poco prima, nel suo viaggio in Brasile, aveva
ancora una volta rigettata la “teologia della liberazione”, con quello
che ne consegue per la vita e le speranze di milioni di poveri cristi
del continente latinoamericano e in questa condanna non si percepì
alcun turbamento proprio perché dietro cera quella ragione assoluta
non adombrata da dubbi e bene sappiamo come le ragioni di tale natura di cosa sono generatrici: come si fa a non averne paura?
Dice il papa: << il cristianesimo non aveva portato un messaggio
sociale- rivoluzionario come quello con cui Spartaco, in lotte cruente
aveva fallito>>. È del tutto pacifico che il confronto fra l’azione di
Gesù che portò la speranza alla gente in modo del tutto inedito e una
rivoluzione sociale e politica come fu l’azione che invece, fallendo,
tentò di fare Spartaco, va a beneficio di Gesù. E se Spartaco non
avesse fallito? Ho testé sottomano la vicenda storica di un fallimento, così come forse pare intendere o ci fa intendere di intendere il
nostro “pastore” romano erede di Pietro: si tratta della “Battaglia della Montagna Bianca”, che papa Ratzinger conosce sicuramente bene
dato che fu implicata, alla fine, anche la sua Baviera e che in breve
265
racconterò dopo una riflessione, che sarà anche una domanda, ma anche dopo un antefatto storico chiarificatore di un siffatto epilogo.
Una battaglia cruenta, seppure breve, episodio importante, se non addirittura cruciale di una guerra che insanguinò l’Europa per trenta e
più anni, (il più sta a significare che dopo il conflitto, 1618 – 1648 e
il trattato di Vestfalia, Spagna e Francia si combatterono ancora per
altri undici anni), costata, solo la singola battaglia in questione, migliaia di morti, ovviamente in numero maggiore fra i perdenti, in
questo caso i protestanti e relative ulteriori conseguenze ancora più
tragiche, sempre per questi ultimi.
Ora la domanda: questa battaglia, dovrebbe essere vista dal mondo
cattolico come un grande e santo evento da tramandare e celebrare
nei secoli in onore e gloria della propria fede e del proprio dio, o dovrebbe essere vista semplicemente per quella che fu, cioè come l’orrenda carneficina, cui si aggiunsero le atroci purghe toccate ai vinti,
paragonabili, sia pure con le debite proporzioni del caso, a quelle
staliniane, ben maggiori e di più recente memoria; per essere più
chiaro e dirla in modo “papale - papale”, una lotta cruenta e fallimentare per i perdenti o fallimentare in quanto fu versato sangue umano?
Già all’inizio di questo libro citai la battaglia fra Costantino e Massenzio e forse la ricorderò ancora, per indicare l’anno d’inizio, 312,
in cui i cristiani da perseguitati iniziarono a diventare anche persecutori, pure sapendo che molti probabilmente non essendo d’accordo
troveranno da obbiettare sul fatto che questo sia stato solo uno scontro fra due religioni, e infatti concordo che non fu solo questo perché
è innegabile che fu anche, o meglio soprattutto una battaglia il cui
esito avrebbe stabilito chi sarebbe stato il dominus dell’impero. Resta
il fatto che 1) i due eserciti si pararono dietro insegne religiose; 2)
che il presunto sogno di Costantino della vigilia della battaglia, in cui
egli sotto il simbolo della croce apparso in cielo vide la famosa scritta <<in hoc signo vinces>>, che gli predisse la vittoria e diventò poi
una verità storica; 3) alla predetta “verità” si aggiunse anche un altro
falso storico: la “Donazione di Costantino”, confezionata abilmente
in epoca carolingia, fu fatta passare per autentica, fino a che Lorenzo
Valla, 1407 – 1457, non ne scoprì l’infondatezza, ma ciò non aveva
266
impedito alla chiesa di Roma di rivendicare come legittimi i possedimenti territoriali che furono soggetti al potere dei papi re; 4) ciò che
simboleggiava il grande scontro tra paganesimo e cristianesimo fu ulteriormente evidenziato dal grande affresco dal titolo <<La battaglia
di Costantino e Massenzio al ponte Milvio>>, capolavoro pittorico di
Raffaello, che si volle facesse bella mostra di sé in una delle sue
“stanze” vaticane. Se il papa del tempo, (Giulio 2°, mi pare), l’aveva
commissionata qualche ragione pratica, non strettamente evangelica,
ci sarà pure stata.
Fare il conteggio dei morti ammazzati in nome del cristianesimo o
del colonialismo, che poi dietro si trascinava (quando non era trascinato dal…) il primo, con le conversioni più, o meno, spontanee, e poi
fare anche il conteggio dei morti ammazzati in nome, ad esempio, del
comunismo, è certo un’operazione giusta oltre che un dovere storico,
ma non dovrebbe servire a consolare nessuno la considerazione che i
crudi numeri dall’una come dall’altra parte potrebbero anche divergere in più o in meno anche sensibilmente dall’altra o dall’una delle
parti. Quello che non ritengo accettabile è che da un lato si condanni
e biasimi Spartaco, oppure la Rivoluzione Francese dei sanculotti o
ancora la Rivoluzione bolscevica d’Ottobre, perché portatrici di lutti
e violenze, mentre dall’altro lato si cali una cappa d’oblio, nemmeno
imbarazzato, sulle guerre di religione, a partire proprio da Costantino
che diede l’avvio alla persecuzione dei pagani, le crociate, l’inquisizione, le repressioni contro gli eretici, gli scismatici, gli ebrei, i
genocidi degli indios dell’America con le conversioni forzate e non
solo in quel continente, e poi il colonialismo, le guerre sante e ancora
le attuali guerre giuste e umanitarie condotte dall’Occidente “cristiano e democratico”, e mi si spieghi come fa una guerra a essere
santa o umanitaria. Poi ci si viene a dire: “è l’esempio di Gesù Cristo
che dovete seguire!”. Bravissimi! L’avete seguito voi?
Spartaco era uno schiavo e giustamente si ribellò a coloro che lo
costringevano in quella inumana condizione.
Non risulta che Gesù abbia mai parlato di schiavitù, né che mai si
sia posto il problema e ciò appare un fatto inspiegabile nel comportamento di un uomo che si vorrebbe essere stato il figlio di dio, ma
267
anche, incarnato uomo, dio egli stesso e padre di figli tutti uguali.
Più realistico pensare che Gesù sia stato un grande rabbi, certamente non cristiano ma ebreo, che era seguito e insegnava alla gente
la parola del Libro, (del Vecchio Testamento), anche per quanto concerneva i vari aspetti della vita quotidiana sia dei singoli come del
popolo: bisogna pensare che a quel tempo leggi politiche e religiose
procedevano compenetrandosi, anzi, in pratica erano la medesima
cosa, per cui tutto ciò che era peccato era anche reato: come oggi è
ancora in buona sostanza nella maggioranza dei paesi a religione
mussulmana. L’epoca dei lumi, che tanto sembra stare sullo stomaco
a questo papa, ha fatto mutare la vecchia concezione unitaria e adesso politica e religione procedono (per fortuna di entrambe, anche se
qualche nostalgico fuori dalla realtà e dalla storia sembra non
convenire) su binari separati.
Riguardo alla schiavitù il pensiero di Gesù era quindi del tutto in
linea con quanto la Bibbia recitava, ad esempio nel Levitico, 25 e anche 27 (Riscatti). Ma sempre rispetto al Libro egli fu anche rivoluzionario in quanto disconobbe alcune norme che erano diventate
anacronistiche: l’aver detto <<porgi l’altra guancia>>, al posto di
“occhio per occhio” è rivoluzionario: la chiesa ufficiale, che si proclama sua, questo insegnamento per quanto predicato non lo ha mai
praticato, salvo pochissime singolarità fra la sua caterva di santi, singolarità che è possibile trovare anche fuori dalle chiese.
Fu l’azione di Gesù anche politica e sociale? Le implicazioni riguardanti il suo nome dopo la sua morte certo che lo furono, eccome!
Ma in vita Gesù fu portatore di pace e il suo messaggio non prevedeva mutamenti sociali e politici da raggiungere con forzature violente,
anche se alcuni passi dei vangeli, poi variamente interpretati , fanno
pensare a un Gesù capo politico. In Matteo troviamo la frase. <<Non
crediate che io sia venuto a portare la pace, ma la spada>>; e non è
l’unico riferimento evangelico a prospettare cambiamenti di “energica” soluzione. Anche nel vangelo di Luca, 22,35 – 38, se ne trovano
e sempre in Luca, 19 – 27, il concetto è ancora più esplicito. Tuttavia
numerosi sono coloro che interpretano il termine “spada” usato da
Gesù come una metafora per intendere la parola potente e forte di
268
Dio, cioè Gesù fa uso di parole spirituali ma i suoi seguaci non sono
in grado di comprenderlo e lo interpretano nel modo più semplice e
prosaico. Leggendo le parole evangeliche in realtà viene sovente da
pensare che ciò sia vero, però rimane problematico comprendere che
senso avesse esprimersi in un tale modo sapendo di non essere spesso
compreso o di essere male interpretato. In realtà esiste anche la
possibilità che siamo noi, duemila anni dopo, a non riuscire ad afferrare alcuni termini o “modi di dire” chiarissimi a quel tempo, astrusi
al nostro: in letteratura non è insolito che nel tempo termini o concetti abbiano mutato o addirittura ribaltato il senso, ma è meno facile
che questo concetto sia adattabile tout court al caso bilico in quanto
la teologia è stata vigile guardiana, almeno sembrerebbe, affinché i
concetti non subissero travisamenti o alterazioni interpretative.
C’è ancora una spiegazione, ma probabilmente ve ne saranno anche
delle altre, secondo la quale Gesù per certe tematiche ha usato un
linguaggio criptato, o nel caso della schiavitù non ha affrontato il
problema della sua abolizione perché nella stragrande maggioranza il
popolo non sarebbe stato in grado di comprendere – come dicevo nel
Levitico la schiavitù non solo è prevista ma è pure regolamentata da
precise norme -.
Nell’affrontare argomenti storico-sociologici di tempi passati è indispensabile cercare, per quanto possibile, di calarsi nell’atmosfera o
nel clima mentale dell’epoca in questione in modo che le proprie
personali opinioni abbiano nel risultato finale il minore degli impatti
possibili. È quindi assai probabile che a quel tempo il rischio di non
essere compresi esistesse, ciononostante l’argomentazione non regge
in quanto Gesù avrebbe potuto, come fece in altre circostanze,
parlare ancora una volta per metafora, aprendosi dapprima ai pochi
che in seguito sarebbero potuti diventare molti. E poi era proprio del
tutto vero che il popolo, o parte di esso, non avrebbe compreso? Evidentemente non si espresse non ritenendolo un argomento rilevante,
oppure lo fece ma furono gli evangelisti a sottovalutarne la portata, o
lo ritennero inopportuno, oppure ne parlarono i vangeli apocrifi, che
ci dicono anche che Gesù si era lamentato di parlare e non essere
compreso. Ma noi dobbiamo fare i conti col materiale che abbiamo.
269
Spartaco attuò la sua rivolta con l’obbiettivo di liberare gli schiavi,
contro il potere dispotico di Roma e ciò avvenne dal 73 al 71 prima
di Cristo e se fu un episodio di cotanta rilevanza politica significa
che in qualche misura il problema aveva raggiunto una sua maturazione fra le migliaia e migliaia di persone che a quel tempo ne erano
coinvolte e forse lo era anche per molte altre che pure non provandolo di persona possedevano la sufficiente sensibilità per comprenderlo.
Forse sarebbe stato più saggio se Benedetto 16° si fosse servito di
qualche altro esempio per portare acqua al mulino che macina le sue
argomentazioni.
La rivoluzione francese divampò perché le disuguaglianze e le distanze sociali e economiche tra le classi privilegiate dei nobili e degli
alto-borghesi, rispetto alla stragrande maggioranza della classe del
ceto popolare, erano diventate umanamente non più tollerabili. La
rivoluzione d’ottobre in Russia scoppiò perché in un secolo dove sia
in America che in Europa, ed anche in altre parti del mondo, la rivoluzione industriale era ormai un fatto concreto e maturo, l’emancipazione e i diritti delle classi subalterne venivano, pure non mancando i
contrasti cruenti, riconosciuti, come pure il diritto al voto seppure talora limitato, era diventato un fatto compiuto e la democrazia, anche
se a fatica, si stava affermando, accadeva che a ridosso di un’Europa
“emancipata” esisteva un immenso paese cristiano chiuso in sé stesso
e immobile in un passato remoto che non palesava prospettive, dove
continuavano a prosperare minoritarie sacche di assoluto, esclusivo e
intollerabile privilegio goduto da caste agevolate che avevano e esercitavano ancora diritti di vita e di morte sopra folle immense di
donne e uomini considerate e trattate, per legge, alla stregua di animali o di merci. Le condizioni erano così disastrose che la Russia
affrontò la Prima Guerra Mondiale totalmente impreparata: basti
pensare, ad esempio, che ai primi del diciassette, gran parte dei soldati dell’esercito impegnato a contrastare la Germania nelle trincee
del fronte orientale non aveva sufficienti approvvigionamenti di cibo
e di vestiario, ad esempio mancavano le scarpe, ma non solo queste.
Ad ogni modo è difficile immaginare un soldato in trincea, che a
secondo del tempo può essere secca o melmosa, senza le scarpe; per
270
cui furono numerosi gli episodi di ammutinamento, anche di interi
reparti, e infine la Russia si ritirò dalla guerra.
Analogo discorso può essere fatto per quel che concerne la rivoluzione maoista in Cina, paese dove la gente del popolo, in particolare
le donne, potevano essere impunemente soppresse nell’infanzia o
essere oggetto di compravendita. Chi oggi la critica ricordando gli
“eccessi” compiuti dalle guardie rosse, se si ferma solo a quei fatti
non fa storia ma, pure legittimamente, compie solamente un’azione
ideologica. Quegli eccessi vanno certo ricordati e pure chiamati con
il loro nome e cioè crimini, che anche nelle altre rivoluzioni si consumarono, ma se in un dato paese, in un determinato periodo storico e
in uno specifico contesto politico e sociale sono accaduti fatti che in
maniera drammatica, tumultuosa e anche violenta, hanno concorso a
travolgere quello che pareva essere il normale e immutabile assetto
degli equilibri politici e sociali esistenti, significa che erano maturati
i tempi e le situazioni affinché questi fatti accadessero: stava alle
classi dirigenti del tempo comprendere e prevenire attuando le debite
e giuste riforme.
Naturalmente, proprio per l’eccezionalità degli accadimenti, questi
più che altri saranno nel tempo i fatti oggetto di approfondite appassionate analisi e critiche storiche. Ma se tali critiche si configureranno usando i soli parametri del presente, anziché quelli del tempo in
cui questi fatti accaddero, i risultati che ne scaturiranno non potranno
che essere fuorvianti; frutto probabilmente di minchionaggine o insipienza, o ancora più di furberia, opportunismo e tornaconto politico.
Vorrei ricordare come praticamente tutti i regimi, ma anche certe democrazie deboli, hanno sempre teso a riscrivere la storia a loro uso,
consumo e tornaconto; inoltre se nel raccontare i fatti della storia non
si tiene conto degli antefatti chiarificatori, cioè delle cause che concorsero a provocarli, quindi dell’interezza delle vicende, le verità,
comunque sempre relative, non potranno mai apparire nella loro
completezza. Ed è per tale motivo che queste non potranno fregiarsi
dell’attributo di storiche, dato che si compiranno solo operazioni di
dubbia onestà intellettuale.
Ma torniamo alla nostra vicenda che per essere compresa al meglio
271
abbisogna, appunto, degli antefatti chiarificatori.
Tutta la faccenda era figlia di vecchi rancori fra boemi e tedeschi,
maturati nella seconda metà del 14° secolo, dopo che Carlo 4° , 1316
– 1378, della dinastia dei Lussemburgo, in seguito alla morte del
padre Giovanni 1°, ottenne nel 1346 la corona di re di Boemia e di
Germania e fu, inoltre, incoronato imperatore del Sacro Romano Impero nel 1455. Dopo aver annesso al regno boemo la bassa Luzazia,
il Brandeburgo ed altri principati della Slesia, si dedicò con
sollecitudine a dare impulso alla capitale facendo erigere un nuovo
importante quartiere, Nove Mesto, (città nuova) e per dare maggiore
lustro alla città fondò l’università di Praga, la prima dell’Europa
centro-orientale, che fu organizzata sul modello di quella parigina
della Sorbona. Tutta questa operosità e attivismo diffuso tanto nella
capitale quanto nel resto del regno servì da calamita per attirare in
Boemia un notevole flusso di gente proveniente in larga misura dalla
Germania. Questo fatto considerato all’inizio del tutto naturale e positivo, andò con il tempo assumendo aspetti e valori di segno contrario che furono l’inizio e la causa di tutte le future sventure. Tuttavia
l’agitazione antitedesca non si manifestò in modo palese fino a quando rimase sul trono Carlo 4°, ma scoppiò sotto il regno di suo figlio
Venceslao 4°, nato nel 1361 e regnante dal 1378 al 1419.
La rivolta all’inizio fu solo ed esclusivamente di carattere religioso,
in quanto si era alimentata facendo proprio il moto della riforma diretta da Giovanni Hus, che a sua volta aveva assimilate le idee riformatrici dell’inglese John Wyclif. Hus, 1369 – 1415, ordinato sacerdote nel 1400, diventò presto rettore dell’università di Praga tenendo
la cattedra dal 1402 al 1412, ma già prima della nomina aveva iniziato le sue trascinanti predicazioni che insistevano in particolare sulla
corruzione e lo strapotere del clero. Le dispute dentro l’università, in
seguito dilagate anche all’esterno, tra la <<nazione tedesca>> e la
<<nazione ceca>>, trovarono ulteriore alimento in tutta la Boemia
con il sostegno delle dottrine di Wyclif , introdotte nel paese dal riformatore Girolamo da Praga. Andò così maturando un contrasto fra
i teologi cechi e quelli tedeschi che divenne insanabile e che spinse
questi ultimi a ottenere la condanna di 45 articoli della dottrina del
272
maestro inglese oxfordiano.
Hus per il momento si tenne ai margini dell’agone, ma ad acuire il
conflitto, conferendogli un carattere nazionale, contribuì l’evoluzione
che assunse in quegli anni lo Scisma d’Occidente in Boemia. A quel
tempo poi a intorbidire ulteriormente le acque concorse non poco il
conflitto fra il papa Gregorio 12° e l’antipapa Benedetto 13° e se si
pensa che in sequenza si susseguirono ancora una serie di antipapi a
contendere la tiara al legittimo erede di Pietro, si comprenderà come
l’incertezza e il disorientamento fossero gli elementi dominanti.
Tornando in Boemia constatiamo che l’ostilità fra tedeschi e cechi
era andata talmente salendo nei toni che i primi decisero di lasciare
l’università di Praga per fondarne una nuova a Lipsia.
Avvenne poi che l’antipapa (ogni eletto, naturalmente, si dichiarava legittimo) Alessandro 5°, con bolla specifica, condannò l’eresia di
Wyclif e fece bruciare tutte le sue opere; era l’anno 1410. Hus rispose all’intimidazione intensificando le predicazioni in sostegno delle
tesi del riformatore inglese. Nel 1412 Hus venne scomunicato e
anche il re Venceslao 4°, probabilmente per ragioni di stato, gli tolse
il suo appoggio, per cui rimasto isolato in Praga il predicatore e teologo si ritirò a Kozi Hradek, dove completò il suo “Tractatus de Ecclesia” nel quale espose le sue tesi, che diventarono poi i capisaldi
dell’hussitismo boemo. Nel 1414 Hus venne citato a comparire davanti al Concilio di Costanza, concilio che, pure presieduto da una
persona definita poco dopo antipapa, fu il più importante di quel
tempo, ( ogni eletto papa in quello stesso periodo tenne il suo concilio personale), infatti vi parteciparono 1800 ecclesiastici fra cardinali,
arcivescovi, vescovi, patriarchi, religiosi di vario tipo e grado, teologi, legati in rappresentanza dei vari sovrani, nonché laici esperti in
questioni canoniche.
Dalla sicura rocca di Kracovek, l’11 ottobre Hus si avviò alla volta
di Costanza, dove giunse il 3 di novembre munito di un salvacondotto rilasciato dall’imperatore Sigismondo. Altre fonti sostengono che
la lettera imperiale gli giunse più tardi, ma la questione non riveste
grande importanza. Certo fu che egli era fermamente deciso a difendere le sue tesi davanti al concilio, ma si accorse assai presto di
273
essere circondato da un’atmosfera ostile e la spiegazione di ciò stava
nel fatto che i suoi più accaniti nemici boemi lo avevano preceduto
creandogli surrettiziamente un ambiente avverso, per cui dovette da
subito affrontare l’animosità e le censure non soltanto dei cardinali
Oddone Colonna, Pietro degli Stefaneschi, Francesco Zabarella, per
citare i più noti, ma anche quelle di un certo numero di professori
dell’università parigina della Sorbona, fra i quali spiccava il teologo
e filosofo Giovanni Gerson, uomo assai acuto e autore fecondissimo,
la cui figura meriterebbe di essere approfondita, il quale peraltro,
qualche tempo dopo, ebbe pure lui contrasti seri con la chiesa per
aver scritto, fra gli altri, un trattato che criticava aspramente la struttura monarchica e dispotica dell’istituzione.
Presiedeva il concilio Giovanni 23° che in un primo momento aveva manifestato verso Hus sentimenti di indulgenza, ma presto questi
mutarono, assai probabilmente a causa di un suo adeguamento opportunista al clima che si respirava verso il teologo boemo e un tale
comportamento ha una spiegazione il cui senso emergerà in modo
chiaro in seguito. Accadde pertanto che alla fine di novembre il predicatore venne arrestato dal cardinale Pierre d’Ailly e furono del tutto vane le rimostranze sollevate dai cavalieri boemi posti a sua protezione, evidentemente colti di sorpresa.
Nel frattempo Giovanni 23°, al secolo Baldassarre Cossa, nato a
Napoli nel 1370 e morto a Firenze nel 1419, fuggì da Costanza e più
avanti ne dirò il motivo.
Avrete certo compreso che questo Giovanni 23° portava lo stesso
nome e numero di successione del più noto e a noi vicino Giovanni
23°, il Papa Buono, il cui pontificato durò dal 1958 al 1963. Adesso
il più antico è annoverato fra il gruppo degli antipapi, ma in quel momento le cose non stavano così e il fatto non era scontato, perché
accadeva che fra papi autentici o presunti tali, ve n’erano due o tre
contemporaneamente e questo non solo nel periodo ora in questione
e stabilire quale era l’autentico o legittimo non era cosa tanto semplice, né tanto meno semplice è dare ora una spiegazione in poche righe, comunque proviamoci: Papa Gregorio 12°, 1406 / 1415, nell’anno 1409 svolse un concilio a Cividale del Friuli e nella sessione del
274
22 luglio dichiarò legittimi solo i papi della sede romana, vale a dire
da Urbano 6° a Bonifacio 9° ed egli medesimo, e antipapi quelli della
sede di Avignone, cioè Clemente 7°, Benedetto 13°, nonché il fresco
di nomina, a Pisa, fatto papa durante un concilio parallelo a quello
friulano di Cividale, col nome di Alessandro 5°.
Sia il patriarca di Venezia che quello di Aquileia si proclamarono
obbedienti a questo ultimo e tentarono di catturare Gregorio 12° per
imprigionarlo; ma egli riuscì a fuggire in abiti borghesi, mentre il suo
cameriere con indosso i suoi vestiti fu inseguito, preso e pestato come un tamburo, finché gli inseguitori si accorsero che il papa non era
quella persona.
Naturalmente i sovrani europei sostenevano chi l’uno chi l’altro dei
pontefici e questo fatto contribuiva a aumentare la confusione.
Il cardinale Baldassarre Cossa, che a Bologna ricopriva la carica di
legato di Alessandro 5°, tramava contro il suo dominus avendo in
animo di sostituirlo. Nella primavera del 1410 egli invitò a Bologna
Alessandro 5° con un pretesto e questi, scevro di sospetti, recatovisi
ci lasciò le “penne” il 3 maggio, molto probabilmente per avvelenamento. Lo stesso mese il Cossa si fece eleggere suo successore col
nome di Giovanni 23° e rapidamente si insediò in Roma.
Gregorio 12°, che poi l’ordinamento dirigente ecclesiastico e la storia riconobbero quale legittimo papa, contando in quel frangente numerosi nemici, finì per rifugiarsi a Rimini presso il signore di quella
marca, Carlo Malatesta, forse l’unico degli “amici” di cui in quel
momento si poteva fidare.
Giovanni 23°, alias Baldassarre Cossa, non era certo uno stinco di
santo e non solo per l’avvelenamento, sospetto, del suo predecessore,
si diceva infatti che in gioventù avesse praticato la corsa nei mari, (la
differenza fra corsaro e pirata stava nel fatto che il secondo depredava chiunque, lavorando e rischiando in proprio, mentre il primo
faceva lo stesso lavoro, ma per conto di una qualche potenza che ufficialmente lo condannava e disconosceva, ufficiosamente lo proteggeva). Poi ebbe il cappello cardinalizio da Bonifacio 9° nel 1402.
Morto quindi Alessandro 5°, restavano Gregorio 12° e Giovanni
23°, entrambi considerati legittimi dai rispettivi sostenitori, poi, come
275
sappiamo, chi alla fine vince scrive la storia.
Non è mia intenzione complicare la faccenda, ma va portato a conoscenza del lettore il fatto che papa o antipapa era pure Benedetto
13°, dal 1394 al 1423, il quale aveva eletto la sua sede ad Avignone,
peraltro già in precedenza sede di papi regolari. Egli fu colui che diede l’avvio allo Scisma d’Occidente.
Ora vediamo perché Giovanni 23° al concilio di Costanza si trasformò da presidente in fuggiasco. Gregorio 12°, accettando di inviare a Costanza il suo legato nella figura del cardinale Giovanni Dominici di Ragusa, dichiarò all’assemblea di essere disposto a dimettersi
se anche gli altri “pontefici” avessero compiuto lo stesso passo e
chiese inoltre, affinché si fosse operato in un clima di neutralità, che
venisse tolta la presidenza a Giovanni 23°. Questo ultimo, intuendo
che i membri conciliari ritenevano queste proposte sensate, (è probabile che già ci fosse una fronda a lui ostile), non sentendosi più al
sicuro spiccò il volo e questa mossa fu l’inizio della sua fine perché
fu inseguito e ripreso a Sciaffusa, ricondotto a Costanza, accusato di
simonia, dichiarato decaduto e condannato alla prigione, che tuttavia
riuscì a evitare: di fatto fu “ospite” sotto custodia di vari sovrani per
qualche tempo e poi liberato.
Ma torniamo a Giovanni Hus, che durante questi trambusti era rimasto segregato a Costanza nel convento dei domenicani e che, sottoposto a processo, veniva incalzato dalle domande dei commissari
inquisitori e incriminato con accuse spesso fittizie e fumose e a dimostrarlo sta il fatto che numerose di queste furono poi ritirate dai
suoi avversari boemi. Però la potente macchina inquisitoria ormai era
in moto e difficilmente si sarebbe fermata; tuttavia il collegio giudicante dovette accogliere la richiesta dell’imperatore Sigismondo di
accordare a Hus la possibilità di essere ascoltato pubblicamente, la
qual cosa egli fece difendendosi dalle false accuse, in maniera specifica sui temi concernenti l’eucarestia. Ma ciò non gli servì a molto in
quanto rimaneva nella sua interezza l’accusa di essere un seguace di
Wyclif, cosa che peraltro, nonostante i reiterati tentativi di fargli
cambiare idea, egli non si sognò nemmeno per un attimo di smentire;
pertanto il suo destino era segnato e dopo che gli fu letta la sentenza
276
di condanna per eresia, fu pubblicamente degradato e quindi consegnato al braccio secolare della legge, sottoposto al supplizio e poi arso sul rogo: era il 6 luglio del 1415. Le sue ceneri vennero gettate nel
Reno, affinché di lui si perdesse ogni traccia. Solamente nel 1990
papa Giovanni Paolo 1°, nel corso della sua visita alla Repubblica
Ceca, tentò, nello spirito di riconciliazione che lo animava, (il suo
cruccio era la chiesa russa, ma già muoversi verso est era un piccolo
passo in quella direzione), di rimuovere quegli ostacoli che da secoli
avevano finito per incancrenire i rapporti fra la chiesa cattolica e le
chiese cosiddette “eretiche” riformate. Questo primo momento di disgelo fu l’occasione per promuovere nel giugno del 1993 la Commissione per lo studio delle questioni riguardanti la vita e le opere di
Giovanni Hus, dove il papa Wohityla promise la rivalutazione del riformatore boemo da parte della chiesa cattolica entro l’anno giubilare
2.000 e per dare corpo alle sue affermazioni fra queste due date furono organizzati una serie di incontri tra le chiese che affrontarono le
tematiche della riconciliazione, a partire dai riconoscimenti delle vittime causate dalle reciproche intolleranze religiose verificatesi nel
corso dei secoli fra ussiti , luterani e cattolici. Rispetto a queste tematiche fortemente sentite da Giovanni Paolo 1°, si ha ora più che la
sensazione, molti sono i segnali che lo stanno a indicare, che l’attuale
pontefice, per motivi che sembrano fortemente personali, stia operando una nuova svolta, tutt’altro che ecumenica, di segno autoritario,
contrastante tra l’altro con la sua figura un po’ dimessa e il tono della
voce quasi mellifluo, che non farà altro, secondo la mia modesta opinione, che provocare danni al processo di avvicinamento fra le chiese
sorelle, iniziato dal suo predecessore. Egli sembra ora piuttosto propenso a coltivare il suo orto e avrà pure le sue buone ragioni, mentre
pare che l’avvicinamento, che egli pure auspica, o meglio concepisce, verso le chiese riformate, sia di tipo “eliocentrico”: non tutte le
chiese “satelliti” alla pari tendenti alla luce della Stella vitale, il Dio
comune a tutte, ma quella cattolica il sole e le altre i satelliti.
Ma completando la vicenda e proseguendo con gli avvenimenti
poco sopra interrotti c’e da rilevare come il processo e la condanna a
morte di Hus fece del predicatore boemo un martire e un patriota
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della nazione ceca e il conflitto dei suoi seguaci contro la chiesa
romana, ma anche contro i sovrani e la nazione tedesca, non ebbe più
tregua. Anche Girolamo da Praga, pure lui scomunicato, fu catturato
e sottoposto al processo dell’inquisizione del tribunale di Costanza:
all’inizio intimorito dalle minacce di morte ritrasse le sue convinzioni e questo fatto lo avrebbe senz’altro salvato, ma poi egli volle sostenere fino in fondo il suo pensiero e per questo ebbe la condanna
come eretico recidivo che lo condusse al rogo il 30 maggio del 1416.
Questo fatto diede ulteriore alimento alla vera e propria guerra civile
che divampò fra cechi e tedeschi. Fra il 1433 e il 1436 la nobiltà e la
borghesia germanica in Boemia fu decimata e alla fine la nazione ne
uscì stremata, impoverita e disorganizzata. I tedeschi comunque non
dimenticarono gli oltraggi e i torti subiti.
L’occasione di rivalsa a lungo covata si presentò loro all’inizio del
diciassettesimo secolo. Nell’anno 1609 re Rodolfo 2°, con “Littera
maiestatis” aveva accordato alla confessione religiosa ceca la facoltà
di libero culto, indebolendo con questo atto l’influenza cattolica degli
Asburgo, i quali trovarono però l’occasione per rifarsi dopo l’insurrezione della nobiltà ceca, seguita alla deprecabile azione attribuita alle
manovre dell’imperatore germanico Mattia, Vienna 1557 – 1619,
(colui che aveva spodestato dal trono il fratello Rodolfo 2° nel ’12),
ricordata come la <<defenestrazione di Praga>>, 1618, pretesto e
preludio alla guerra dei Trent’anni.
Per la precisione le defenestrazioni di Praga furono due: la prima
avvenne all’inizio della guerra hussita, nel 1419, durante la quale il
popolo in rivolta gettò dalla finestra del palazzo Comunale sette consiglieri cattolici del re Venceslao 4°; la seconda, che fu meno cruenta
perché ebbe come immediata conseguenza un solo ferito grave, avvenne il 23 maggio del 1618 ed ebbe come teatro operativo una sala
del castello o palazzo Reale, dove quattro luogotenenti-governatori di
corte vennero investiti da un centinaio di nobili protestanti boemi,
presi e precipitati dalla finestra nel fossato sottostante, probabilmente
svuotato dall’acqua. Fortunatamente un cumulo di letame ammassato di sotto salvò loro la vita sicché, maleodoranti, ma sostanzialmente
illesi, riuscirono a mettersi in salvo fuggendo. Le conseguenze di
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questa azione ebbero tuttavia esiti molto più gravi delle ferite toccate
ai defenestrati, dato che poi i rivoltosi furono sconfitti da Ferdinando
2° nella famosa battaglia della Montagna Bianca, che con il suo esito
segnò le sorti della Boemia per un lunghissimo periodo di tempo: il
regno boemo diventò una provincia degli Asburgo e venne riorganizzato dal punto di vista politico e religioso; il protestantesimo fu duramente perseguitato in ogni maniera e con qualsiasi mezzo sotto il
regno di Ferdinando 3°, Leopoldo 1°, e Giuseppe 1°. Soltanto Maria
Teresa, che regnò dal 1740 al 1780, si risolse a pubblicare l’<<Editto
di Tolleranza>> che riconobbe le confessioni luterane e riformate,
ma lo stato boemo rimase sottomesso.
Solamente dopo la prima guerra mondiale fu possibile dare vita e
proclamare lo Stato cecoslovacco. Ma non era finita: dall’1 al 10 di
ottobre del 1938 Hitler occupava militarmente la zona dei Sudeti.
“Sudetendeutsche”, regione del sistema montuoso della Boemia al
confine con la Polonia: 30.000 chilometri quadrati circa, abitati a
quel tempo da popolazioni in maggioranza di origine e lingua germanica che il dittatore rivendicava secondo il presunto, pretestuoso e
arbitrario diritto della Germania di governare su tutti i territori in cui
vi fosse stata la presenza maggioritaria di popolazioni di origine tedesca, ottemperando all’aberrante teorema ideologico nazista secondo il quale chi aveva sangue tedesco apparteneva alla “razza superiore” predominante.
Dopo la seconda guerra mondiale la Cecoslovacchia si ricompose e
finì nell’orbita dei paesi “satelliti” dell’Unione Sovietica, ma dopo la
caduta del Muro di Berlino il paese si spaccò, questa volta consensualmente, dividendosi in due stati sovrani indipendenti, nel gennaio
del 1993, con Cechia e Boemia da un lato e Slovacchia dall’altro.
Come bene si vede l’influenza straniera nelle questioni politiche,
economiche e sociali, ha avuto un peso rilevante negli sviluppi della
storia di questo paese, ma altrettanto, se non più pesante, è stata l’influenza dovuta alle interferenze religiose; e vicende storiche similari,
di peso anche maggiore, nelle quali la chiesa cattolica è intervenuta
direttamente o per interposta persona, hanno segnato in maniera
profonda il destino di paesi e popoli e in Europa come nel resto del
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mondo queste intrusioni sono state talmente numerose, che sarebbe
arduo se non impossibile averne per quantità, peso e sostanza, l’esatta dimensione.
Dopo l’episodio della defenestrazione di Praga del 1618, gli insorti
boemi, sapendo che ci sarebbe stata sicuramente una reazione cattolica nemica e consci che sarebbe stata di una portata tale che, data la
loro inferiorità di forze, non avrebbero potuto reggerne l’urto, fecero
proprio il motto secondo il quale “la migliore difesa è l’attacco” e infatti si mossero in anticipo e la messa in pratica di questa strategia
consentì loro alcuni primi successi militari, che probabilmente li rese
euforici e temerari più di quanto avrebbero dovuto; poi, dopo avere
eletto re di Boemia l’elettore del Palatinato Federico 5°, comandati
dal generale, conte Thurn, andarono all’assedio di Vienna, ma questo
fu, come diciamo noi oggi, un passo più lungo della gamba: i ribelli
boemi impegnati in campo aperto nella battaglia di Záblatí furono
respinti dagli imperiali e dovettero rapidamente levare l’assedio. Non
fu una vera e propria sconfitta, ma dopo questa battaglia la buona
sorte voltò loro le spalle e incalzati da più parti dal nemico, che si era
organizzato, dovettero ritirarsi entro i propri confini approntando la
difesa della patria e l’anno seguente furono messi alla prova.
Dalla parte cattolica le forze imperiali di Ferdinando 2° d’Asburgo,
quelle della Lega Cattolica e della Spagna, ammontavano a circa
29.000 uomini, dei quali circa un terzo di cavalleria e due terzi di
fanteria, tutti bene armati e addestrati. La parte boema disponeva di
21.000 uomini, fra i quali la cavalleria, per numero, era leggermente
predominante; inferiori quindi nel numero totale, ma il problema
maggiore stava nel fatto che si trattava per lo più di truppe raccogliticce scarsamente preparate e inferiore era anche la qualità del loro
armamento.
Da notare che Ferdinando 2° prima di ricevere nel 1619 il titolo imperiale, era quindi freschissimo di nomina, era stato nominato re di
Boemia nel ‘17 e di Ungheria nel ’18, ma ciò non gli impedì di ergersi a campione della controriforma volgendo le armi proprio contro il
suo primo regno, dove poi impose ai sudditi di scegliere fra il cattolicesimo e l’esilio: assai probabilmente la sua educazione da giovane
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principe, compiuta presso i gesuiti nel collegio di Ingolstadt, aveva
lasciato l’impronta che i maestri speravano.
L’esercito cattolico, comandato dal generale conte Tserclaes di
Tilly e dai luogotenenti Karel Bonaventura e Johann Buquoy, avanzava dall’Alta e Bassa Austria, mentre da nord chiudeva la morsa
l’altro alleato Giovanni di Sassonia che invadeva la Lusazia;
dopodichè tutte le truppe si ritrovarono in Boemia pronte a ingaggiare lo scontro con l’esercito nemico.
L’esercito boemo era invece comandato da Cristiano 1° principe di
Anhalt-Bernburg.
Lo scontro che decise la prima fase, (periodo boemo), della guerra
dei Trent’anni avvenne alla cosiddetta Montagna Bianca, Bìlà Hora
in ceco, Weisser Berg in tedesco, una collina di 380 metri a ovest di
Praga, sulla strada che portava alla capitale e che lambiva le pendici
del colle. La strada venne sbarrata in quel punto dall’esercito, il quale
si attestò ad attendere il nemico, riparato a destra da una palazzina o
padiglione di caccia, mentre sulla sinistra e sul fronte era protetto,
per il poco che permettevano, da due ruscelli. Le truppe imperiali
congiunte si attestarono sul pendio della collina, di fronte all’esercito
boemo. Il conte Tilly, dopo aver studiato con minuzia le disposizioni
nemiche decise di portare l’attacco nel mezzo dell’esercito avversario, attraverso un ponte su uno dei due ruscelli, che probabilmente
sarebbe stato opportuno distruggere preventivamente.
La sorpresa dell’assalto a cuneo, unita alla generale superiorità
tattica, numerica, alla disciplina e al morale delle truppe cattoliche
risultò determinante, perché due sole ore di furiosi e intensi combattimenti bastarono per sfondare le linee boeme protestanti, separarne
l’esercito in due tronconi e metterlo in fuga. Era l’8 marzo del 1620,
la via per Praga era aperta e l’esercito vincitore guidato da Tilly vi
entrò domando l’ostinata resistenza degli ultimi difensori e uccidendo numerosi nobili che erano stati i promotori della rivolta.
Il re Federico assieme alla moglie Elisabetta, dopo aver tentato
un’ultima disperata difesa con le esigue truppe rimastegli, fu nuovamente sconfitto e costretto a fuggire. A motivo delle sue sconfitte,
forse non dell’ultima, negli ultimi giorni invernali questo re fu poi
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ricordato con il nomignolo di “re d’inverno”.
Gli anni che seguirono furono segnati da diversi tentativi di rivolte
immediatamente e duramente represse.
La Boemia decadde da regno a provincia e venne annessa ai domini degli Asburgo e più precisamente alla Baviera.
Ebbe con ciò inizio l’operazione di conversione forzata al cattolicesimo degli ussiti boemi e la regione dovette subire un lungo periodo di ferrea repressione unita alla germanizzazione del territorio e
tutto ciò fini per provocare la fuga di 36.000 famiglie boeme.
Il conflitto iniziato con una vittoria schiacciante dei cattolici avrebbe potuto dirsi concluso; fu invece soltanto l’episodio d’inizio di una
guerra assai più lunga e ampia fra i grandi stati per l’egemonia europea e tutto ciò non solo impoverì il continente, che aveva trovato un
soddisfacente equilibrio economico, ma aprì la via alla grande peste
che aggiunse alle vittime della guerra quelle provocate dal morbo.
Ora però mi pare sia giunto il momento di proseguire con le considerazioni sull’enciclica papale Spe Salvi, la data della cui diffusione
non è stata scelta a caso essendo l’inizio dell’avvento, che dal punto
di vista dei cristiani è il tempo della speranza.
Il tema era suggerito dalla lettera di San Paolo ai Romani: Spe
Salvi facti sumus, nella speranza siamo stati salvati; enciclica che
prendendo spunto dalla parole dell’Apostolo delle Genti – di quel
suo tempo – si è rivolta alle genti del tempo attuale, in particolare a
quelle del mondo Occidentale e in modo ancora più specifico ai
credenti cattolici per ammonirli dal rifuggire dall’individualismo che
li pervade. Per molti versi più che una enciclica classica, di invito
alla riflessione, è parsa essere un sollecito manifesto catechizzatore e
al tempo una chiamata del tipo “stringiamoci a coorte”, veicolato in
modo dovizioso dall’ossequioso spiegamento dei media, che il pontefice spesso critica, ma che nondimeno dentro al quale si muove come un pesce nella sua acqua e essendo la pubblicità parte importante,
vitale di esso, anzi essendone, come si dice, l’anima, non doveva
essere ignorata dai destinatari del messaggio dato che, sempre attraverso le medesime vie, altrettanto bene questi hanno assimilato le
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lezioni dell’ideologia, o concezione del mondo ( weltanschauung)
individualista e consumistica del pensiero unico globalizzante:il dissenso è minoritario, se non marginale e spesso criminalizzato, così il
cerchio si chiude. Quindi medesimi destinatari di messaggi contrastanti, vale a dire gli stessi “cristiani” verso i quali questo pontefice,
giustamente preoccupato, si è rivolto ribadendo una volta ancora, assieme alle critiche di tutto ciò che non è cristiano, l’esaltazione di
tutto ciò che lo è, riaffermando dunque le certezze della superiorità
del cristianesimo cattolico sulle altre fedi, superiorità che si fa forza,
secondo il papa e il tema, sulla virtù della speranza, ma naturalmente,
suggerirei, non solo su questa, dato che le virtù teologali, bagaglio rivendicato dai cattolici (sembrerebbe) come esclusivo e inalienabile,
sono molteplici.
A difesa, o meglio a conferma delle sue affermazioni Benedetto
16° ha chiamato questa volta non solo i grandi dottori della chiesa,
come Agostino o Ambrogio – che io vedo più come arcigno e caparbio combattente che come sottile teologo o filosofo -, ma anche
Bernardo di Chiaravalle, e poi ha imbarcato anche Lutero, e ancora i
pilastri della filosofia come Platone, Kant, Adorno, tutti alleati e tutti
arruolati e schierati nella battaglia contro le utopie moderne della
scienza e del relativismo.
È l’ormai consueto e perenne cruccio (ossessione) di questo papa,
che servendosi di ogni alleato e ogni mezzo vuole convincerci, ma
data l’esasperante insistenza usata si è sfiorati dal dubbio che voglia
egli steso convincersi, (comportamento che del resto non farebbe che
conferirgli una levatura pienamente umana) e quindi parrebbe sia
pure lui a dubitare; la qual cosa sembra angosciarlo, che cioè fede e
ragione siano la medesima cosa. Infatti non sono la stessa cosa: mi
spiace per lui e vorrei quasi suggerirgli di avere più fede. Quanto alla
ragione, (relativa), con questa ci si può sempre confrontare.
Riguardo alla scienza poi, sono purtroppo costretto a ripetere il
solito ritornello anche perchè, sempre attorno al tempo dell’enciclica,
in una trasmissione televisiva mi capitò di sentire da parte di autorevoli esponenti cattolici: per la chiesa mons. Fisichella, che in quella
occasione identificai nella volpe e per la politica l’on. Buttiglione,
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che ravvisai nel gatto, che fa l’eco alla volpe nella favola di Collodi,
contrapposti a alcuni uomini di scienza laici, credenti e non, che discutevano, fra l’altro, sul fatto della mancata lezione del papa all’università della Sapienza di Roma. Ancora una volta sentii accusare la
scienza e in particolare i suoi esponenti non credenti di essere ancorati a una visione passata – non fu detto ottocentesca, ma l’allusione
percepita era questa – del concetto filosofico di scienza. Naturalmente gli scienziati respinsero questa gratuita impostazione ma sembrava che le loro parole rimbalzassero contro un muro di gomma.
Non essendo io uomo di scienza ma di ignoranza, ma nemmeno
sordo di circostanza, ritengo di avere compreso nel modo corretto il
messaggio che il grosso della scienza da su queste tematiche e quindi
comprendo il suo rifiuto di sottostare ai vincoli di chi intende ad ogni
costo operare delle forzature artefatte, facendo indossare alla scienza
dei panni fuori moda e fuori misura, mostrando con ciò non solo
scarsa onestà intellettuale, ma anche la debolezza di chi essendo a
corto di argomenti, nel confronto, pretende arbitrariamente non solo
di inventare il gioco, dettare le regole, formare le squadre e assegnare
i ruoli, ma poi vuole anche fare l’arbitro: naturalmente vince (la sua
squadra) e dice: “avete visto che avevo ragione io!
Nostalgie di epoche ormai trascorse, mestizie di quando questo modo di operare non solo era possibile, era la norma e la chiesa, del
fatto che un ritorno a tempi nei quali la sua parola era legge per tutti
non è più praticabile, dovrà farsene una ragione. Nessuna intenzione
bellicosa, solo la rivendicazione a una difesa legittima di ogni singolo pensiero e individualità.
Il mondo laico è formato da persone comuni, di fede e non, incluse
le donne e gli uomini di scienza i quali certamente di questa non fanno un dogma o una religione; del resto che senso avrebbe adorare la
scienza quando molti dei suoi esponenti non adorano nemmeno un
dio. È più che percepibile che a un settore, che pare maggioritario,
dei vertici cattolici tornerebbe utile se le cose stessero in questo modo, se cioè il mondo scientifico fosse ancorato al pensiero positivista
della seconda metà dell’ottocento, primo novecento, codificato da
Auguste Comte e dalla sua scuola. Per questa consapevole ed errata
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concezione molti dentro la chiesa continuano a dipingerlo così, sapendo benissimo che così non è e se lo fu lo fu solo per una parte,
pure importante, la cui visione filosofica, legata a un dato periodo
storico, è da quasi un secolo tramontata. A quel tempo, sull’onda euforica del progresso scientifico e industriale che avanzava impetuoso,
ci fu una corrente intellettuale di pensiero, piuttosto influente, che si
illuse che il frutto del sapere razionale avrebbe risolto ogni problema
dell’umanità: la Belle Epoque ne fu il prodotto emblematico più visibile e contribuì a sostenere l’illusione. Ma attenzione, se una analisi e
una critica vanno fatte a una concezione filosofica, queste non possono prescindere dal tenere conto dell’epoca e il contesto storico del
loro verificarsi. Del resto era pacifico che non fosse oro tutto quello
che luccicava e la critica al processo e al progresso capitalista ottocentesco, la denuncia delle sue vittime e dei suoi costi umani, gli orari di lavoro di 16 e più ore al giorno, i bassissimi salari, i trattamenti
arbitrari verso i lavoratori dipendenti, lo sfruttamento del lavoro minorile, non fu solamente materia di studio, riflessione e critica di
filosofi quali Karl Marx o Friedrich Engels, ma si poteva ritrovare
trasportata in modo oggettivo nelle vite dei personaggi dei romanzi
di quell’acuto osservatore della società di quel tempo che fu Charles
Dikens, il quale non fermandosi all’esteriorità solo “positiva” che
questa di sé voleva mostrare ne aveva indagati gli aspetti più reconditi, i luoghi e le vicende sociali più scabrose che tornava utile tenere
nascoste e dando voce e corpo a chi non li aveva mai avuti aveva
mostrato alla società anche l’altra faccia della medaglia.
Poi, come una doccia gelata che di soprassalto ridesta da un torpore
letargico, arrivò la prima guerra mondiale alla quale una scienza, fino
ad allora impegnata, in buona sostanza, alla realizzazione del progresso civile, dedicò tutto il suo potenziale nel palesare al mondo la
parte oscura di sé; ma sebbene la scossa fosse stata poderosa, il mondo e in particolare l’Europa non comprese ancora l’avvertimento e
arrivò la seconda guerra mondiale che rese ancora più manifesto fino
a quanto e a dove potevano giungere le capacità scientifiche al servizio della ferocia. Solo allora il mondo parve comprendere, (senza
però ancora farne tesoro), quali traguardi poteva toccare la scienza,
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ad esempio quella atomica, al servizio della guerra.
Quindi oggi più che mai, parlando di scienza, sappiamo bene di ciò
che stiamo discutendo, come altrettanto bene sappiamo che fino a
poco meno di un secolo fa questa mirava al progresso del genere
umano agendo sostanzialmente sulle materie “inerti” e operando in
modo principale sulle discipline scientifiche “classiche” o tradizionali; oggi i suoi orizzonti si sono notevolmente allargati e tanto nelle
materie classiche quanto in quelle più recenti, come le scienze spaziali, con le sonde che ci rivelano i segreti dell’infinitamente grande
del cosmo, o tecnologiche che aprono panoramiche nuove e affascinanti nell’infinitamente piccolo, le nano-tecnologie, o quelle mediche, attraverso le indagini sulla biologia e sulla genetica, che rivelano
misteri e mondi fino a non molto tempo addietro ritenuti insondabili.
Si parla della vita, si parla dell’uomo e sappiamo bene che tutto ciò
comporta problemi di opportunità, di etica, di morale, di coscienza e
anche di religione.
Dire che su queste tematiche la scienza ha l’obbligo e il dovere di
procedere con estrema cautela ci trova consenzienti. Erigere barriere,
imporre divieti, proclamare diktat, pretendere di dare direttive, demonizzare la scienza rivela invece solamente l’antico e mai superato atteggiamento dispotico e oscurantista, il ritorno a un passato in cui
impunemente poteva essere scatenata la caccia alle streghe; un tempo
per alcuni visto con nostalgico rimpianto, un tempo non più accettabile per un mondo che pretende di definirsi libero e garante in prima
persona delle sue libertà.
Per questo è utile, fondamentale, discutere e dialogare sgomberando innanzitutto il campo da preconcetti pretestuosi, senza attribuire
ad altri vesti e ruoli che non gli appartengono, negando nei fatti il
dialogo che a parole viene auspicato; perciò ancora una volta con infinita pazienza ribadiamo: <<proprio perché siamo privi di certezze assolute, siamo aperti al dialogo, ma chiediamo interlocutori che
alla discussione non privilegino l’indottrinamento>>. Sarà una battaglia lunga e dura e questa convinzione, ogni giorno più rafforzata,
nasce dalla considerazione che gli “interlocutori” possessori di fedi
non bisogna credere che non accettino il dialogo per cattiveria o per
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protervia, benché talora si sia indotti anche a pensarlo, ma perché
non sanno che cosa esso sia non avendolo nei fatti mai praticato.
Torniamo ora all’enciclica e al cruccio papale sull’egoismo e l’individualismo, che non sembrano essere più delle patologie della società occidentale ma una loro discriminante o distinzione virtuosa.
Non posso però non vedere come la chiesa romana, per bocca quasi
esclusiva del suo esponente maggiore, nel mentre ne fa la critica, anche aspra, consapevolmente poi ci sguazza e anche ci gode, e essendo l’individualismo un frutto sempre esistito, ma particolarmente ben
coltivato da questo modello di società, anche le chiese ne sono permeate in tutte le loro componenti, laiche e religiose e quella romana
risulta esserne la più coinvolta, non solo, ma risulta anche essere
quella che più delle altre, consapevolmente o no, questo modello lo
ha fatto proprio.
Il papa insiste contro la cultura del denaro e del guadagno facile,
dell’apparire piuttosto che dell’essere, dello stare sulle prime pagine,
della pubblicità; ma poi vediamo tutti i giorni sia egli che i suoi “luogotenenti” e la sua chiesa sui giornali, alla televisione, sulla pubblicità: è diventata ormai stucchevole la reclame televisiva per l’accaparramento dell’8 per mille, dove ci vengono accortamente mostrate
situazioni pietose, disperate, strappalacrime di poveri esseri umani
che vengono salvati dall’indigenza materiale e morale grazie alla caritatevole chiesa di Roma.
Sappiamo nel contempo che le sue ricchezze materiali non sono
mai state così ingenti come oggi; ad esempio il suo patrimonio immobiliare è immenso e l’affittanza di alloggi è attuata a cifre non
certo inferiori a quelle di mercato; poi accade che se qualche inquilino, perché povero, bisognoso, anziano, malato, o portatore di handicap o non autosufficiente non è più in grado di pagare del tutto o in
maniera regolare la pigione, viene, secondo mera norma di legge,
sfrattato allo stesso modo di come farebbe un normale proprietario o
una compagnia locataria immobiliare.
Sappiamo ancora che in molti piccoli comuni o cittadine le sole
strutture, che di norma dovrebbero essere pubbliche: teatri, sale per
convegni, scuole, comunità per anziani, strutture sanitarie, cliniche,
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ospedali, ecc.., sono invece private e appartengono in maggioranza
alla chiesa la quale, per alcune di esse, si riserva il diritto, del proprietario privato, di affittanza ai soggetti più o meno a lei graditi.
Ancora una volta quindi la distanza fra il predicare bene e il razzolare male appare essere incolmabile e la chiesa se in coscienza vuole
rivendicare e avocare a sé quel ruolo evangelizzatore, che ritiene le
sia dovuto, dovrebbe anche affrontare questa altra contraddizione che
sta tutta al suo interno. Non ci si stigmatizzi altrimenti se esprimiamo
il dubbio che certe encicliche, accolte in ambito laico sempre in modo attento e speranzoso, ma anche severo, finiscono a volte per lasciare l’impressione di non essere più che meri esercizi accademici,
come se chi li compie confessasse preventivamente a sé stesso: “ si
fa perché si deve, ma si sa che il segno che lascerà, visto il contesto
in cui si opera, sarà prossimo allo zero”. Non è nemmeno messa in
discussione la buona fede, (anche questa però relativa), ma è la
contraddizione tra il dire e il fare che lascia perplessi.
Naturalmente ogni problema può essere affrontato da posizioni e
punti di vista differenti e a contrastare individualismo e egoismo più
che la speranza dovrebbe scendere in campo un’altra virtù: la carità,
tuttavia il detto evangelico che recita <<ama il prossimo tuo come té
stesso>>, tradotto in volgare dovrebbe significare che se un uomo
non parte dall’amore per sé stesso – individualismo, egoismo – non
può essere nemmeno in grado di amare un altro suo simile. Principio
che contiene il rischio del fallimento se colui che esercita l’esercizio
dell’avere e del dare non possiede le capacità di saper dosare le misure, dato che se tutto,o quasi, l’amore è riversato su di sé, saturando il
proprio ego, si genera un mostro che interrompe i contatti con il
mondo; ma se, al contrario, un uomo diventando preda di un esaltato
misticismo annichilisce e annulla sé stesso dando tutto agli altri, nulla riservando a sé, nella “lucida” consapevolezza che più darà in terra
più avrà, moltiplicato, in cielo, assai probabilmente si trasformerà in
un essere non migliore del primo perché diventerà il frutto di un falso
altruismo, apparente, e di un reale occulto interessato egoismo: una
scaltrezza buona per ingannare gli dei.
Leggevo tempo addietro l’introduzione che Gianni Montanari fece
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su un libro di fantascienza dal titolo “Alieni”, pubblicato dalla Bur
un po’ di anni fa, nel quale trovava posto una serie di racconti brevi
di autori vari, il più noto dei quali era Asimov. Chiederete: “che cosa
centra la fantascienza con le tematiche in esame?”. Centra in questo
contesto giusto per caso e nella misura in cui in quel prologo trovai
una breve frase che mi indusse a riflettere perché parlava di egoismo
dell’uomo e del suo rapporto con gli dei, ed era la seguente: <<L’uomo che per egocentrismo ha creato ogni genere di divinità, buone o
malvagie non importa, purché con gli occhi saldamente puntati su di
lui,…>>: non serve che aggiunga commenti, mi pare.
Come dicevo, per cercare di comprendere meglio le cose sarebbe
cosa buona guardarle da punti di vista diversi, (prospettive); ciò mi
induce a chiedermi e a chiedere come sia possibile fare da certi ambienti una critica severa all’individualismo sfrenato, se poi l’essenza
stessa del credente negli dei è un distillato puro di individualismo.
Non so se queste limitate deduzioni arrivano a sfiorare la grande
erudizione teologica di Benedetto 16°, tuttavia avendo egli indirizzato il suo messaggio particolarmente ai seguaci della sua confessione è chiaro che ha colto proprio in questi i trasgressori da blandire,
(anche il resto del mondo pecca, naturalmente, ma qui troviamo un
pastore preoccupato in particolare del suo gregge); e quando nell’enciclica affronta il tema della preghiera, cioè del dialogo diretto fra
l’uomo e il suo dio, o i santi, dice che certamente la preghiera è uno
dei modi per innalzare l’anima al cielo, ma se questa pratica è esercitata in maniera individuale e secondo le modalità che ciascuno ritiene
più consone o utilitaristiche a sé, rischia di diventare, nel migliore dei
casi, rapimento estatico poco fruttuoso, nel peggiore, egoistico. Meglio quindi, secondo il papa, la preghiera liturgica comunitaria, in
chiesa, sotto la guida dei propri pastori. Opinione legittima e forse
anche giusta, resta il fatto che l’apostolo Matteo, nel suo vangelo racconta di aver udito un messaggio diverso, che in realtà pare opposto:
<<…Quando pregate non siate simili agli ipocriti che amano pregare
stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze per essere visti
dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.
Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta,
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prega il Padre tuo, che vede nel segreto, e il Padre tuo, che vede nel
segreto, ti ricompenserà…>>: Matteo (6,5 – 6,6).
Non è certo questo un argomento tale da sollevare polemiche: forse
il papa, che conosce benissimo il Vangelo, si è espresso in questa
maniera semplicemente perché avrà ritenuto utile farlo.
Forse sarebbe il caso di fare una pausa di riflessione.
Grande rispetto comunque per le pagine e le parole dell’enciclica
rivolte al <<presente faticoso>> di questo mondo che sembra avere
perduto ogni valore e ogni punto di riferimento etico e morale, e per
questo viene da chiedersi: “se fossimo in tempi di materialismo comunista ateo e imperante comprenderei l’attacco severo portato a
questa ideologia dal pontefice di Roma. Ma dal momento che il comunismo è dato per morto, (moribondo?) e sepolto, rigettato, rinnegato e misconosciuto perfino dalla maggior parte degli esponenti di
quello che fu il più grande partito comunista europeo e occidentale,
quello italiano, e quindi in un paese dove quasi tutti, compresi molti
esponenti e militanti dell’ex PCI si dichiarano cristiani e anche liberali, che scopo ha avuto tanta virulenza?
E ancora a 24 ore dall’enciclica Spe Salvi il papa, indicando quale
avrebbe dovuto essere il <<perfetto regno umano>>, (non credo sia
stata ipotizzata dal pontefice una sorta di agostiniana “Civitate Dei”,
così come fu interpretata nei secoli seguenti alla morte del più noto
dei padri dottori della Chiesa, da una corrente dottrinaria teocratica
nota come “agostinianesimo politico” che, contrariamente al pensiero
del grande teologo, ipotizzava una identificazione de “la città di Dio
con la Chiesa”), da ritrovare solo nel suo cristianesimo cattolico, attaccava anche l’ONU e altri organismi internazionali, come ad esempio Ammnesty Interational, perché rei di <<relativismo morale>> e
miranti solo a obbiettivi materialistici, politici e non etici. Assieme a
ciò rinnovava il suo rimprovero al marxismo e ancora con più forza
all’illuminismo.
L’ONU naturalmente replicò seccamente alla chiesa di Roma rammentandole come esso sia nato da un accodo fra gli Stati e si sia fondato sulla <<Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo>> e ciò
significava che era proprio l’essere umano a essere tenuto in sommo
290
conto sia dal punto di vista morale che da quello materiale, perseguendo quindi fini sia morali che politici. La moratoria sulla pena di
morte, su iniziativa del governo italiano e dell’Europa, votata dall’organismo solo pochi giorni dopo l’attacco papale, ne fu la prova e una
adeguata risposta.
Dopo di che l’ONU lo si può benissimo criticare e le occasioni per
farlo, specialmente in questi ultimi anni sono state frequenti e anche
più che legittime; ma non gli si possono rimproverare i principi su
cui si fonda, a meno che non si sogni di sostituirlo con un ratzingeriano <<perfetto regno umano>>, che a questo punto si potrebbe anche immaginare come una teocrazia cristiana e cattolica che trasformerebbe l’ONU in una succursale del Vaticano. Stiamo celiando, ma
non completamente.
Pure conoscendone il pensiero, si rimane comunque piuttosto sorpresi che, nell’ evidente riscontro del dissolversi del comunismo, il
papa anziché esultare trionfante, come la logica vorrebbe, attacca un
cadavere, o se vogliamo un moribondo, con esagerata virulenza. Probabilmente sta constatando che pure dio sembrerebbe, al di la delle
dichiarazioni di circostanza all’umano contesto, non godere di eccessiva buona salute.
Ma se così fosse la colpa di ciò non potrebbe essere certo attribuita
al primo soggetto morente, ma piuttosto a qualche altro di ben più vivo e vegeto. Del resto il papa sa bene come stanno le cose e in verità
più volte lo ha fatto intendere, solo che la sua analisi non è esplicita
fino in fondo, perché allora dovrebbe ammettere che anche la sua
chiesa è parte integrante e effettiva del meccanismo che egli critica;
che anche la sua chiesa persegue obbiettivi non solo teologici, etici o
morali, ma in larga misura anche politici e materiali. Sarebbe come
ammettere di comportarsi come quel marito che dopo aver spinto la
moglie a praticare il mestiere più antico del mondo, poi la rimproverasse di averlo reso cornuto.
In realtà la chiesa non può permettersi, verso il potere politico e governativo, di spingere la sua critica oltre un certo limite, dal momento che con questo ha stretto troppi patti compromissori: lo avrà dalla
sua sui temi della famiglia, (no ai dico) e sui temi della bioetica, no
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sulle cellule staminali o sul testamento biologico; lo avrà contro sui
temi della lotta all’immigrazione attuata con metodi discutibilissimi,
sull’invio di soldati in guerra, sul tema della precarietà sul lavoro,
questioni verso le quali dovrà tenere un profilo il più basso possibile:
permessa solo qualche timida critica di circostanza, nel qual caso i
cordoni della borsa resteranno allentati e riceverà i suoi trenta denari.
Per questo forse avrà scelto di attaccare una minoranza, che casomai dovrebbe essere protetta, perché in via di estinzione, non sapendo come affrontare i problemi verso l’arrembante maggioranza che
largamente sta dominando. Gli esempi di questo genere nella storia si
sprecano e hanno sempre condotto verso risultati tragici.
Non so se queste tematiche, sollevate dall’enciclica saranno sul
serio oggetto di riflessione della chiesa romana e se questa, oltre che
rivolgersi all’esterno si chiederà se è poi un fatto reale che questo
mondo cristiano, guidato dai suoi pastori, ha respinto con sdegno
l’idolo dell’individualismo e dell’egoismo, oppure si è tuffato con
esaltante fervore e entusiasmo nell’ideologia unica e imperante, non
più temperata da ingombri di altro colore ideologico, la quale ideologia ricollocando sull’altare il vitello d’oro ne esalta, logicamente, i
suoi valori e oltre a quelli detti esalta il carrierismo, l’esclusivismo,
l’ostilità verso i diversi, il razzismo, la supremazia del vincente sul
perdente, “valori” che naturalmente sono ufficialmente condannati
per convenzione, non certo per convinzione.
Ma noi vogliamo essere ottimisti e vogliamo credere che proprio
così non sia, giacché se così fosse allora la potenza di un organismo
spirituale e morale quale la chiesa afferma di essere, perché quella di
Gesù, sarebbe ai minimi livelli, anche se nel contempo la potenza
dell’organismo materiale sembra essere ai massimi, vincente, sugli
scudi, al top, come si conviene a un prodotto reclamizzato che buca
lo schermo, un prodotto”in”, con un seguito di moltissimi fans.
Ma da san Pietro non si vorrà ammettere che anche il cristianesimo
è diventato carne da polpettone macinabile, come ogni altra cosa
l’ideologia, (la macina), tritura rendendo il tutto uniforme, omogeneo
e indistinto.
“Ma”, si dirà, “il papa parla contro l’egoismo, contro il razzismo,
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contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, contro la guerra, contro
il profitto quale valore primario, contro la pena di morte”. È vero ma
a delle parole, poco seguite da esempi, come replica il cittadino medio, che un tempo si chiamava “l’uomo della strada”, che in genere si
professa cristiano credente? <<Si, si, va bene, ha ragione e in linea di
principio sono d’accordo con lui, tanto che se egli dovesse chiamare
a raccolta andrei pure a manifestare a piazza san Pietro; poi però, in
confidenza, parliamoci chiaro, la realtà è un’altra cosa: vorrei vedere
io se nel tuo condominio avessi uno o più inquilini extracomunitari e
magari anche di colore che ti svalutano l’appartamento, e a proposito
di extracomunitari, premesso che non sono razzista, quando va bene
ci portano via il lavoro e quelli clandestini sono tutti criminali, e sono
tutte balle che fuggono dalla miseria, dalla disperazione e da situazioni politiche pericolose e in più ci portano pure le malattie. Riguardo poi alla pena di morte, va bene la moratoria, però certi delinquenti
presi in flagranza andrebbero eliminati seduta stante, senza processo,
sul posto. Infine per quanto riguarda la guerra, questa sarà pure
esecrabile, lo ammetto, ma oggi è un male necessario per combattere
il terrorismo…, detto questo non significa che sono contrario a quanto va dicendo il papa, ci mancherebbe! Tanto più che sono un buon
cristiano, vado a messa quasi tutte le domeniche e faccio anche la
comunione, e se proprio la vuoi sapere tutta sono pure d’accordo che
le coppie si sposino in chiesa, sennò non sarebbero nemmeno delle
famiglie>>. Se questo non è il pensiero della maggioranza del buon
gregge cristiano, guidato dagli attuali pastori cattolici, mi si smentisca provandomi il contrario ed eventualmente dicendomi dov’è che
sbaglio. Naturalmente e per fortuna lo so benissimo che non tutti i
cattolici cristiani sono così. Comunque questo stato di cose è ben
noto anche ai vertici cattolici ma, come già dissi, pare che per loro
eminenze non costituisca un problema: l’importante è che ci si professi cristiani e in particolare cattolici. D’altra parte un esercito per
essere tale ha bisogno tanto dei generali quanto dei soldati semplici e
se questi ultimi non rispondono ai parametri qualitativi migliori, si
supplirà alla carenza qualitativa con quella quantitativa: se si calcola
che i cristiani sono più di un miliardo, alcune stime dicono anche un
293
miliardo e mezzo, si converrà che la cifra fa impressione, perciò dire
che in Occidente trionfa il cristianesimo è pleonastico.., quasi un
nuovo Eden terrestre… Però allora difficilmente mi spiego i toni e gli
atteggiamenti da crociata della chiesa di Roma contro le poche voci
di dissenso che vengono additate come le nemiche mortali da criminalizzare e condannare, né mi spiego gli atteggiamenti di vittimismo
e i pianti greci che in modo scaltro, gesuitico, ci vogliono dare a
intendere che agli organismi ecclesiastici e in particolare al papa è
stato impedito di esprimersi, (vedi la polemica sulla mancata lectio
magistralis all’università romana della Sapienza), quando è arcinoto
essere strabocchevole lo spazio che i media, acritici e genuflessi, sono costantemente disposti a concedere facendo da megafoni amplificanti a qualsivoglia messaggio proveniente dallo Stato del Vaticano,
messaggio spesso calibrato in maniera opportunistica rispetto alle tematiche relative alle azioni governative: ho spiegato qualche pagina
sopra come funziona.
Se giustamente la chiesa rivendica uno spazio nel dibattito pubblico senza limitazioni nel tipo di argomento, altrettanto giustamente
questo spazio deve essere concesso anche a chi, non essendo d’accordo, dissente e il valore delle dichiarazioni di ogni parte deve avere
pari dignità.
Come ho avuto modo di anticipare, l’enciclica non era indirizzata
in modo generale a tutto il mondo, ma più specificatamente <<Ai
vescovi, ai presbiteri, ai diaconi e a tutti i fedeli laici sulla speranza
cristiana>>. Non era dunque un messaggio ecumenico e infatti cristiani non cattolici o credenti di altre fedi non trovarono posto dentro
l’indirizzo. Legittimo? Certamente! Quando però il termine del tema
è la speranza, si dovrebbe comprendere che la parola oltre che fare
rima con fratellanza, non è patrimonio o pertinenza esclusiva di una
parte, pure importante, del mondo ma, specie per un cristiano, andrebbe intesa nel modo che Gesù intendeva, cioè nel coinvolgimento
con l’umanità tutta. La contraddizione è palese e enorme: a che serve
una chiamata a correo per i soli cristiani cattolici europei? E gli altri?
Sono forse considerati dalla chiesa di Roma figli di un dio minore?
Particolarmente virulenta è stata la critica contro l’illuminismo,
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sostanzialmente perché ateo e il relativismo perché non rivela verità
assolute. È tuttavia singolare che la chiesa non sembri nemmeno essere sfiorata dal dubbio di quanto le sue enunciazioni in due millenni
di storia siano state cambiate, modificate, rettificate, calibrate, adattate, aggiustate, corrette, piegate, emendate, annullate su questioni che
affermava, prima delle modifiche, essere dogmatiche e immutabili, o
comunque su enunciazioni teologiche ritenute non più discutibili e
infallibili; comportandosi cioè da organismo del tutto e per tutto
umano in un normale contesto umano. Non lo ammetterà mai, forse,
dato che rivendicherà il diritto di rivelare dogmi e verità e poi anche
disconoscerli-e, ritenendo che gli ordinamenti fisici umani sociali secolari che regolano le relazioni umane del mondo siano validi per tutti ma non per lei, dato che se ne convenisse dovrebbe di conseguenza
anche ammettere che il relativismo – se è vero che tutto è relativo –
vale anche per le sue verità “assolute”, che per essa tali sono giusto
per il solo fatto di affermarlo.
Quando Benedetto 16° asserisce che la speranza contiene in sé la
fede noi speriamo che egli voglia concedere che questo assunto logico sia universale e non specifico, (valevole cioè per i soli cattolici).
Quando poi afferma essere la speranza già salvezza o certezza di salvezza, fa un’affermazione non più logica, razionale, ma di fede e
quindi valida per lui e per tutti coloro che pensano o credono come
lui, ma non per tutti.
Insomma un rispolvero di vecchi arnesi pre kantiani , un ritorno a
un “razionalismo” metafisico, anacronistico.
Altra accusa papale alla scienza, otre a quella di relativismo, (mi
domando come si faccia ad accusare una cosa di essere quella che è;
l’accusa avrebbe un senso se mossa nei confronti di chi affermasse di
essere ciò che non è), è quella di positivismo.
C’è da sperare, ma sospetto sia così, non lo si voglia identificare
con quel Sistema di politica positiva ipotizzato da Comte nella prima
metà dell’Ottocento, corredato dalle sue inedite massime “religiose”
o pseudo tali, che nell’intendimento dell’ideatore avrebbero portato,
se rigorosamente seguite, al superamento della fase teologica e metafisica del mondo.
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Ma nemmeno di positivismo inteso nel senso più ampio (successivo a Comte, il quale diventò l’indirizzo forse prevalente del pensiero
sociale e filosofico europeo della seconda metà del diciannovesimo
secolo, alimentato dagli impulsi del progresso tecnico e scientifico)
si può accusare la società e le scienze contemporanee e siccome su
queste tematiche la maggioranza del mondo laico e scientifico si è
più volte espressa, ribadendo fin quasi allo sfinimento non essere la
scienza un mito né tanto meno una nuova religione o un dogma, non
serve ripetersi ancora una volta dato che non esiste sordo peggiore di
chi non vuole intendere. Come se non sapessimo che la cieca fiducia
nella modernità è stata causa rilevante di contrapposizioni ideologiche e politiche conflittuali e violente.
Altra causa di altrettante se non maggiori contrapposizioni violente
sono state invece di certo le religioni, non solo le une in conflitto con
le altre, ma anche a una a una in lotte fratricide e feroci intestine, le
quali nel loro divenire hanno alimentato fiumi di sangue: un po’ di
sano illuminismo avrebbe contribuito a evitare molte tragedie.
Il guaio, il grosso guaio sta nel fatto che le chiese non sanno trovare, forse non possono, alternative al catechizzare, essendo organismi
che non contemplano la dialettica, per conformazione o vizio originale; ne consegue che questa loro carenza di facoltà al dialogo, che è
stata anche la loro forza nelle società precedenti prive della democrazia, le conduce inevitabilmente a rifiutare di entrare in argomenti
che esse ritengono di loro esclusiva competenza, come quelli inerenti
alla vita e alla morte di miliardi di donne e uomini, rigettandoli sdegnosamente e, data al riguardo la loro visione dogmatica cristallizzata, ripropongono ogni volta il proprio personale concetto delle cose
verso il quale viene chiesta una adesione totale, acritica e senza condizioni: non è forse tutto ciò spaventoso, abominevole, disumano?
E veniamo alla critica del marxismo-comunismo che essendo una
ideologia terrena non poteva che essere difettosa e quindi destinata a
errare, mentre ciò che invece non fallisce, secondo Benedetto 16°, è
la fede in Dio, ma si badi bene, nel dio da raggiungere solo se dentro
il cristianesimo cattolico.
Ancora una volta per rafforzare le sue argomentazioni il papa mette
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a confronto la sua verità “divina” con una verità umana, che lui deve
in qualche misura nobilitare affinché possa essere adeguata a poter
reggere il confronto. È chiaro che con questo modo di intendere la
comparazione egli ha buon gioco. C’è però un particolare che sembra
“distrattamente” sfuggirgli e cioè che i confronti vanno fatti fra entità
della stessa natura o essenza: una religione con un’altra religione,
un’ideologia con un’altra ideologia, un sistema economico con un
altro sistema economico.
Anche se l’ideologia comunista fu chiamata “dottrina”, per la fede
e le speranze liberatorie e salvifiche che suscitò fra milioni di persone, il suo significato non poteva essere accostato o equiparato e tanto
meno confuso con quello religioso. Tuttavia l’attacco papale all’ideologia marxista è stato meno violento di quello rivolto all’illuminismo, perché pure biasimando questa prima filosofia-ideologia è parso
quasi il papa gli avesse voluto concedere lo status di “movimento di
fede”. Naturalmente le critiche rivolte al marxismo da Benedetto 16°
sono state accolte dal mondo, che ora si proclama tutto liberale, come
si accoglie un dono provvidenziale, di cui era proprio sentita la mancanza, e dunque a queste parole non sono mancati gli applausi; ma
per contro vi sono stati altri, come ad esempio lo storico Nicola Tranfaglia, che ha voluto ricordare come Carlo Marx non abbia mai
mancato di tenere in primo piano l’essere umano nella sua dignità;
che poi la sua critica, la sua analisi e il suo pensiero siano stati tradotti e trasformati in ideologia che muovendosi in suo nome ne stravolse
i principi idealistici, con le conseguenze tragiche che ne seguirono in
alcuni paesi, è un fatto che non solo non può essere negato, ma che
dovrà richiamare tutti a riflettere riguardo ai percorsi che tutte le
ideologie dirette da elite minoritarie, caste o lobby ristrette e esclusive e escludenti, partiti unici, guide populiste, uomini della provvidenza, conduttori di greggi umane, più o meno illuminati, vengono
alla fine imposte ai popoli senza che a questi siano concesse altre
possibilità di scelta. Da rammentare che Unione Sovietica significava
letteralmente unione dei “soviet”, vale a dire degli organismi di base
o consigli eletti dal popolo, che di questo ne sarebbero dovuti essere i
rappresentanti e che avrebbero dovuto dare attuazione alla cosiddetta
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“dittatura del proletariato”, quindi di una parte importante, specifica,
ma non ancora totalizzante, quindi, della società, e già da ciò la
democrazia sarebbe risultata monca. Fu invece ancora peggio, dato
che fu una dittatura “sul” proletariato e anche se la Repubblica si definì sovietica i soviet non furono mai attuati.
Il Partito Comunista in Italia, ma non solo in Italia: ad esempio in
Svezia il Partito Socialdemocratico e il Partito Comunista governarono assieme per decenni, in quello che è stato indicato come il paese
più democratico del mondo, fu un’altra cosa ed è davvero sconfortante che nessun ex comunista, ora PD, (meglio non contare quelli che
hanno saltato il fosso), dell’ex apparato dirigente – va bene che l’attacco avversario è feroce, costante, mordace e anche mendace – sia,
pure timidamente, intervenuto in difesa di questo partito e di tutti gli
uomini e donne che ne fecero parte e che nel ventesimo secolo furono prima oppositori del regime fascista, quindi combattenti contro lo
stesso e il suo alleato nazista, poi promulgatori, assieme a tutti i partiti democratici usciti dalla tragedia della guerra, della Carta Costituzionale, infine per decenni difensori di milioni di lavoratori; tutto
questo pagando spesso con la vita di moltissimi dei suoi uomini e
donne migliori.
A questo proposito voglio ancora una volta riportare le parole di un
gigante del mio contraddittorio Veneto, Mario Rigoni Stern, sia per
offrire una mia testimonianza di affetto allo scrittore a poco tempo
dalla sua scomparsa, sia per rendere ancora omaggio all’uomo schivo e schietto dell’altopiano di Asiago, prendendo a prestito alcuni
brani del carteggio intercorso fra lui e il presidente dell’Ampi della
provincia di Treviso Berto Lorenzoni a proposito della resistenza.
Così Mario scriveva all’associazione dei partigiani: <<Cari compagni, sì, compagni, perché è un nome bello e antico che non possiamo
lasciare in disuso; deriva dal latino cum panis che accomuna coloro
che mangiano lo stesso pane>>; mi vengono in mente coloro che in
chiesa fanno l’eucarestia e mangiano assieme lo stesso pane.
Mario Rigoni non fu partigiano combattente perché tra la ritirata
drammatica dalla Russia del ’43 e la caduta del fascismo dell’otto
settembre dello stesso anno era ancora arruolato nell’esercito. Dopo
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quella data, sul diverso schierarsi dei reparti militari e per quanto riguardava i suoi alpini Mario ricordò che la maggior parte di essi , ufficiali inclusi, che non furono catturati e deportati, come avvenne a
lui, diventarono partigiani. Ci fu anche una minoranza che scelse la
Repubblica di Salò e Rigoni rammentava che fra costoro c’erano sia
degli ingenui, come anche degli ottusi, ma anche alcuni in malafede.
Per coloro che avevano aderito in ingenua buona fede e per questo
erano morti Mario manifestò sentimenti di pietosa comprensione, per
gli altri no .
Lui con i suoi reparti, che vennero separati dagli ufficiali, fu fatto
prigioniero e deportato nei lager in Polonia. Nel suo libro “L’ultima
partita a carte” ricordava di quando la Repubblica Sociale Italiana
tentò di arruolare tra le sue fila i soldati italiani prigionieri: Un giorno nel campo circolò la voce che sarebbero arrivati degli ufficiali da
Berlino per convincerli ad arruolarsi con Graziani, il ministro della
guerra della Repubblica di Salò, e per alcuni giorni dagli altoparlanti
del campo risuonarono canzonette patriottiche, popolari o romantiche
italiane atte a creare il clima. Fu pure approntato una sorta di palco
addobbato con bandiere italiane e stemmi del fascio. Il giorno stabilito per l’arrivo dei gerarchi arruolanti, prepararono sul campo una fila
di grandi marmitte piene di pastasciutta e altre di minestrone, con al
loro fianco dei cuochi che con dei grandi mestoli rimestavano i cibi
fumanti per diffonderne gli aromi che da questi si sprigionavano fin
sotto le narici e solleticare al massimo gli appetiti, (non ce ne sarebbe
stato in realtà bisogno), dei prigionieri tutti schierati in file. Arrivò la
delegazione fascista e nazista: ci furono dei bei discorsi patriottici
dove si disse che l’Italia combatteva dalla giusta parte, contro il barbaro invasore, ecc.., ecc.., dopo di che fu chiesto ai soldati schierati
di aderire alla Repubblica Sociale marcando l’assenso con un passo
avanti: <<Noi – racconta Mario Rigoni Stern – vecchi sergenti:
Baroni, Dotti: Bertazzoli, io e quelli giovani di grado ma non di naia
; Antonelli, Tardivel e il cappellano padre Marcolini ci eravamo messi in testa alle file. Facemmo un passo indietro. Nessuno uscì e i loro
incitati inviti si trasformarono in insulti…..Non sapevamo ancora
delle camere a gas e di quello che succedeva nei campi di sterminio,
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né degli esperimenti che i medici tedeschi facevano su centinaia di
ebrei e di prigionieri e donne russe. Ma avevamo visto le fosse comuni in Ucraina, le donne ebree costrette a pulire nella tormenta le
stazioni ferroviarie polacche, i partigiani impiccati, i prigionieri russi
che venivano mitragliati. I bambini affamati: Se ne andarono via
scornati, indignati e delusi per la nostra viltà>>.
Il 27 gennaio del 2006, quindi oltre sessant’anni dalla fine della
guerra e certamente dopo un lungo travaglio interiore, non avendo
mai in nessun modo rivendicato nulla, ma conscio del vento sulla cui
onda, con colpevole superficialità, certo interessato e servile revisionismo storico tentava e tuttora tenta di far diventare “memoria pubblica” anche le menzogne, Mario Rigoni Stern accettò dall’Ampi la
tessera onoraria, scrivendo poi a Lorenzoni: <<La mia Resistenza è
stata nei lager>>.
In queste righe ho tratto ampio spunto da un articolo che Antonio
Frigo scrisse sulla Tribuna di Treviso domenica 29 giugno 2008.
È anche singolare che in questo contesto debba essere io – ma del
resto queste sono le pagine del mio lavoro – che del P.C.I. non fui
mai aderente né tesserato, a prendere le difese di quel partito verso il
quale spesso fui critico poco indulgente, in particolare a causa dei
suoi rapporti ambigui e in varia misura di copertura acritica verso il
partito comunista sovietico, fino al famoso “strappo berlingueriano”,
che se fece, con sollievo, dire a molti “meglio tardi che mai”, (altri
non l’approvarono), probabilmente arrivò fuori tempo massimo e in
pratica sembrò più uno smarcamento imbarazzato che una puntuale e
severa critica allo stalinismo.
Se la rivolta di Budapest del 1956, soffocata dai carri armati e dai
soldati dell’esercito sovietico non scrollò il P.C.I. dal suo stato di
acritica sudditanza psicologica dato che, in modo contorto e equivoco, la legittimò – si può anche, se non giustificare, comprendere che
nel clima di piena guerra fredda il partito comunista italiano fosse
sottoposto a pressioni interne e esterne fortissime e in virtù dei legami con il partito fratello sovietico, pure sbagliando, abbia agito in
quel senso, quasi obbligato - , ma quella della “Primavera di Praga”
del 1968 avrebbe dovuto scuoterlo alle fondamenta, invece anche
300
allora fu ondivago e ritroso e non seppe prendere nettamente le distanze da Mosca.
Quando scoppiò la rivolta a Budapest avevo tredici anni e ricordo
ancora quei primi telegiornali che mostravano i resistenti magiari di
quella splendida capitale occupata, che dagli angoli delle strade, dalle
finestre e dagli abbaini sui tetti dei palazzi sparavano con vecchi
fucili, residuati di chissà quale guerra, contro i carri armati dei
“fratelli” sovietici: quando mai avrebbero potuto spuntarla?
Fino da giovanissimo fui attratto dal P.S.I., aria respirata in casa
perché mio padre era socialista, tesserato, come molti dei suoi amici:
in realtà il suo amico migliore era iscritto al P.C.I. e per questo
motivo ogni tanto si beccavano ma la loro amicizia non venne mai
meno. Io non presi tessere e rimasi simpatizzante fino al 1972, o i
primi del ’73, quando seguii la parte restante del PSIUP, il frutto
residuo, agro, di una ennesima scissione della sinistra, un’altra parte
aveva finito (dopo elezioni finite male dove, per il gioco dei quorum,
un milione di voti non ebbe nessun deputato e un solo senatore) per
aderire al PCI, ma nessuno dei suoi esponenti entrò nel comitato
centrale e ne venne fagocitata. L’unico eletto PSIUP fu il senatore
Lelio Basso, che rimase indipendente. Era stato nel passato anche
segretario del partito socialista, negli anni 1948 e 1949. Basso era
ligure, di Varazze, dove era nato nel 1903 e fin dall’inizio del regime
di Mussolini fu immediatamente antifascista e ne pagò tutte le conseguenze essendo stato perseguitato, carcerato e confinato negli anni
1928 – 1931 e ancora 1935 – 1940.
Ogni rottura, non solo per un iscritto o un militante, ma anche per
un simpatizzante, quale io ero, è traumatica e non me ne capacitavo,
per cui il sentimento verso il PSI era inquinato ma nel profondo il
vecchio legame non era del tutto spezzato, anche perché là ci restavano persone come Riccardo Lombardi, la cui acutezza di analisi e la
cristallina onestà intellettuale, assieme a Sandro Pertini che però si
tenne piuttosto defilato dall’ultimo PSI, facevano di lui uno dei migliori uomini politici del 20° secolo: peccato che il partito nel mentre
lo usava come un’onorificenza da appuntarsi o una bandiera dietro
cui pararsi, di fatto lo emarginò: lui lo sapeva ma non ebbe la forza di
301
rompere con un partito che anche nella deriva morale finale, rappresentava tutta la sua vita.
Il gruppo superstite del PSIUP si unì quindi agli “scomunicati” dal
PCI , del “Manifesto”, che già alcuni anni prima dello “strappo” avevano “osato” attaccare lo stalinismo e l’Unione Sovietica e per questo furono espulsi. Ma già prima i gruppo psiuppino e alcune altre
minoranze della sinistra radicale e anche cattolica - ad esempio nel
Veneto un certo numero di militanti e iscritti sindacali fimmini e di
altre categorie dell’industria avevano fondato l’MPL, (Movimento
Politico dei Lavoratori), che noi scherzosamente chiamavamo “moplen”, (una sostanza chimica brevettata dalla Montecatini Edison),
con il quale avevano tentato, senza successo, la carta delle elezioni –
avevano dato origine a quello che sarebbe stato il PDUP, Partito di
Unità Proletaria per il comunismo, 1974, di cui il segretario fu Lucio
Magri. Alle elezioni, mi pare di quello stesso anno, il partito portò al
parlamento una piccola ma gagliarda e combattiva pattuglia di deputati. Del partito fui, quasi da subito, militante e tesserato.
Furono anni intensi, nei quali le tematiche politiche e sociali: il lavoro, le infrastrutture, la scuola, la salute nelle strutture ospedaliere e
negli ambienti di lavoro, la questione femminile, l’energia, l’ambiente furono affrontati con entusiasmo, rigoroso impegno e intelligenza
da quelle che furono fra le menti più acute della sinistra italiana: ad
esempio sulle due ultime questioni , energia e ambiente, furono formulate analisi e indicate soluzioni sulle politiche energetiche alternative che ora, a distanza di più di un trentennio sono ancora al di là
dall’essere, non dico portate a soluzione, ma talora nemmeno compiutamente analizzate e non perché manchino le risorse umane, ma
per l’arretratezza culturale degli esecutivi formati da una avvilente
inconsistente classe dirigente di dinosauri preoccupata solo del mercato, la quale ancora non riesce a rendersi conto che le questioni
energetiche e ambientali sono ora più che mai cruciali e se ancora un
poco dilazionate ci cadranno sulla testa in maniera drammatica e irreparabile. Senza contare che l’amministratore intelligente avrebbe già
da molto saputo comprendere che il problema ambientale rappresenta
oggi la più formidabile opportunità di rilancio, (non frutto del caso
302
ma di precise scelte politiche), di questa, non a caso, disastrata economia mondiale.
Guardiamo ad esempio al summit dei G. 8 dei primi di luglio del
2008, dove i leader mondiali degli otto paesi più “industrializzati”,
Geoge W. Bush, in testa, in Giappone, nella ridente città di Toyako,
dopo il sontuoso simposio caratterizzato dai diciannove piatti, divisi
in otto portate, frutto della creazione della stella mondiale dei cuochi
(stella Michelin) Katsuhiro Nakamura e dopo aver piantato, armati di
fiammanti pale, gli alberelli, uno a testa, simbolo di un futuro prospero e luminoso, e anche verde, hanno solennemente promesso al mondo di ridurre le emissioni “serra” entro il 2050. poi dice che uno
rischia di rimanere preda dello sconforto. D'altro canto se quegli
“statisti” occupavano il posto che occupavano e prendevano le decisioni che prendevano era perché ognuno di loro, nel proprio paese,
aveva ricevuto la maggioranza dei voti del rispettivo elettorato.
Nella mia azienda ero rappresentante, (si diceva delegato), sindacale F.I.M.(Federazione Italiana dei Metalmeccanici) ed ero anche nel
direttivo di zona della categoria. Ora vista la metamorfosi involutiva,
frutto di una trasformazione lunga ormai più di un ventennio, che ha
subito quel mio ex sindacato, ma non solo quello in verità, non solo
per l’avvallo dato alla deriva ultramoderata del fallimentare e truculento modello neo-liberista, che ha condotto il mondo del lavoro dipendente a perdere gradualmente tutte quelle conquiste duramente
acquisite dalle precedenti generazioni operaie, ma pure per la smania
di accreditarsi agli occhi di chi sta nei posti di comando, sedere ai tavoli “che contano”, compiacersi dei complimenti della controparte,
(ma i lavoratori chi li rappresenta?), ora, dicevo, se dovessi fare la
tessera sindacale farei altre scelte.
Accettai di fare il coordinatore del settore operaio della sezione del
partito della mia città, sezione che era anche l’unica.
A livello nazionale, per il PCI rappresentammo probabilmente più
una fastidiosa spina nel fianco che una risorsa, non tanto perché esso
temesse la concorrenza, dato che la sproporzione numerica, 1 a 20 e
anche più, era troppo marcata, quanto per il fatto che le nostre analisi
politiche erano spesso più azzeccate. È anche vero che il partito
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comunista italiano, pure essendo partito di opposizione, si considerava anche partito di governo e in buona misura lo era perché i vari
governi, eterogenei e talora piuttosto deboli, erano costretti a tenere
conto del peso e della autorevolezza notevoli che esso esercitava su
larghi strati della società italiana. Resta il fatto che la sua anima conservatrice tendeva spesso a predominare su quella riformatrice.
Anche sul terribile problema del terrorismo il PCI fu piuttosto povero di analisi e praticamente sempre allineato alla Democrazia Cristiana e ai partiti del centro-destra, come volesse allontanare da sé
ogni sospetto di pur minima comunanza o collusione, sia pure vagamente di attinenza verbale col fatto che le brigate eversive, chiamandosi rosse, avrebbero potuto richiamare alla mente, per assonanza,
una qualche forma di comunione con il partito della bandiera rossa.
Sospetti che non c’erano, salvo che qualcuno non fosse stato in mala
fede e del resto il partito fu colpito nell’interno del suo corpo con
l’assassinio del sindacalista Guido Rossa. Ma nonostante ciò questa
sensazione si respirava, che cioè esso volesse togliere da sé ogni
seppur minimo dubbio e del resto la condanna al terrorismo che egli
fece fu del tutto condivisibile, dato che se i brigatisti con quegli atti
abominevoli cercavano una legittimazione, non solo non l’ottennero,
che tutto il paese civile li respinse, ma si mostrarono esattamente per
quello che erano, vale a dire assassini e anche vigliacchi perché infierirono armati e in gruppo su singoli inermi e, nonostante l’eloquenza
verbosa del loro linguaggio, si dimostrarono anche degli stupidi giacché non furono che auto-referenti e quel“popolo” di cui millantavano
essere rappresentanti non li avrebbe mai accettati.
Sta di fatto che talune reazioni del PCI, proprio per i motivi sopraddetti furono a volte sopra le righe, o se meglio può rendere l’idea, da
soggetto con qualche nervo scoperto, quasi nevrotiche, mi spiego
meglio: La imputazione a Toni Negri, verso il quale la mia distanza
era palese, carcerato preventivamente per anni senza prove e la sua
icriminazione nel processo denominato <<Sette Aprile>> secondo
una ricostruzione teorica che prese il nome del magistrato che la formulò: <<Teorema Calogero>>, di area PCI, che poi fece carriera, in
base al quale fu attribuita a Negri non solo la direzione delle BR, ma
304
addirittura il rapimento di Aldo Moro, imputazione poi caduta, come
poi caddero anche le altre; restarono però gli anni di carcere.
Ritengo, ma posso sbagliarmi, che i sevizi di intelligence e le segreterie dei partiti, almeno dei maggiori, sapessero quasi da subito
che le cose non stavano così e assai probabilmente se non certezze
almeno sospetti sull’identità di alcuni capi o militanti brigatisti è probabile ci fossero, ma si prese tempo e si scelse la strada delle “leggi
speciali”. Ora ammesso e non concesso che, come si disse, Negri sia
stato un “cattivo maestro”, anche se le responsabilità di eventuali
allievi restano sempre individuali, fu abominevole, pur di far tacere
una voce fastidiosa, agire in maniera irresponsabilmente dolosa, indicando al paese un colpevole di comodo, addossandogli una colpa
così grave sapendo che una condanna gli sarebbe stata data nel nome
del popolo italiano. Lasciamo perdere, per amor di patria, il fatto che
indagini presero direzioni sbagliate, per non parlare poi del garantismo di cui troppe persone a sproposito si riempiono la bocca.
Un altro caso, per fortuna meno grave, fu la reazione spropositata,
vissuta alla maniera di “lesa maestà” da parte del segretario generale
della CGIL Luciano Lama, uomo rettissimo e onesto, ma di una certa
“legnosità” mentale, che all’università romana della Sapienza, dopo
essere stato oggetto di contestazioni, in verità anche piuttosto calde,
da parte di alcuni gruppi di studenti, ( Benedetto 16° non è stato pertanto il primo alla Sapienza, anche se egli preventivamente, a essere
contestato), reagì accomunando gli studenti contestatori agli eversori,
con il risultato di esasperare gli animi di qualche testa più calda che
bisognava invece, con avvedutezza, cercare di raffreddare. Avrebbe
dovuto possedere quel discernimento, quella avvedutezza, quella elasticità per comprendere che una eventuale contestazione sarebbe stata
da mettere nel conto, valutata per quella che era e che comunque era
tutta figlia di quei tempi e di quel clima.
Un altro caso che vide il PCI calcolatamente poco autonomo nelle
analisi si delineò, quando assieme alla DC, manifestò la sua più netta
intransigente e ferrea chiusura verso qualsiasi forma di trattativa nel
rapimento da parte delle brigate rosse di Aldo Moro. Una trattativa
condotta avvedutamente non avrebbe concesso ai brigatisti alcuna
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legittimazione e avrebbe potuto salvare la vita allo statista.
Così ad esempio non ragionò il PSI che nei dibattiti di quei giorni
ricordava come la vita dell’assessore campano Cirillo fosse stata salvata senza che lo Stato perdesse la faccia, ma se in qualche modo la
perdette fu per aver fatto intervenire nella faccenda la camorra del
boss Raffaele Cutolo, tramite il ministro Antonio Gava, referente politico DC per il “mezzogiorno”; ma questa è un’altra storia.
E in modo analogo a quello socialista si espresse anche il nostro
giornale: già, il Manifesto.
Dopo il ’77 venne tutta allo scoperto la crisi fra partito e giornale,
crisi che già covava da tempo. Il problema era noto: il giornale doveva diventare l’organo del partito o doveva rimanere, come da proposito originario, il quotidiano della sinistra senza interferenze di sigle
o di linee partitiche di sorta?
Scelsi il giornale, anche se il distacco dal partito non fu immediato,
(trascorse più di un anno) e anche questa scelta non fu facile, ma in
fondo nemmeno tanto travagliata dato che un altro fattore favorì la
mia separazione; il fatto cioè che nemmeno il PDUP, il partito che
voleva rappresentare una sinistra inedita e per molti versi lo fu, era
riuscito a sciogliere quel nodo, fondamentale, rappresentato dal “centralismo democratico” - due parole che accostate rappresentano una
contraddizione in termini – dato che si era trascinato dietro, non tutto
in verità e infatti all’interno il dibattito era acceso, una vecchia impedente zavorra. Si consumò così l’ennesima rottura all’interno della
sinistra. Non che rotture, scissioni e divisioni non siano avvenute o
non avvengano anche fra i partiti di centro e di destra, ma nella sinistra sono state certo molto più frequenti e ciò induce a pensare che
questa sia affetta da una “patologia” che ancora non è stata curata,
oppure farebbe anche pensare che la gente di sinistra sia più intransigente con sé stessa e con quelli che a lei le sono più vicini e sia alla
ricerca di quella “perfezione” che purtroppo non esiste.
Che fare? Da allora non ho più cercato coinvolgimenti in alcun
partito, anche se la politica italiana, pure con quel certo distacco che
mi sono voluto concedere, continua e continuerà ovviamente a intrigarmi: ci si è quasi trascinati non potendo ignorare la drammatica
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crudezza dei fatti politici che accadono e il senso di nausea che provocano: tapparsi il naso per non sentirne il fetore forse non basta più.
Dissi alcune pagine sopra, ammetto volutamente polemizzando,
che è singolare che sia io, per dire uno che nel PCI non c’è mai stato,
a difenderne oggi la memoria, pure avendone mostrate le magagne,
visto che molti che nel partito c’erano si stanno comportando come
Pietro dopo l’arresto del suo rabbi Gesù. Ma per fortuna non sono
solo, anche se la compagnia non è affollata e riallacciandomi ai giudizi papali sul comunismo ritorno a Nicola Tranfaglia evidenziando
come lo storico abbia ribattuto al pontefice domandandosi perplesso
come mai in questa enciclica egli non abbia trovato la spazio per un
paio di parole di condanna anche verso <<la sola teoria che nella
storia dell’umanità ha elevato l’uomo a Dio proponendo la razza eletta: il nazismo>>. Forse siamo noi che pensiamo sempre male e il papa la condanna al nazismo la dava per scontata, essendosi scrollato di
dosso il carico di responsabilità, naturalmente assai relative, che pure
lui giovanissimo, sedicenne nel 1943, aveva accettato di assumersi
aderendo per due anni, fino alla fine della guerra, alla gioventù hitleriana delle SS . Forse fu mosso più dall’amore di patria per il suo
paese che, non reggendo più lo sforzo della guerra, stava precipitando verso la catastrofe, che non dalla convinzione ideologica, che a
quella sua età non poteva certo essere matura; ma fosse stata pure la
seconda la motivazione principe, o entrambe, o fosse stato costretto a
quel passo dalle circostanze contingenti, o dal regime, ci auguriamo
che la sua riflessione su tutto ciò che fu il nazismo (ho da poco finito
di leggere il libro di Boris Pahor “Necropoli”) e l’ideologia che lo
mosse e sorresse, sia stata piena, fruttuosa, maestra e perlomeno pari
alle riflessioni che egli ha fatto verso le altre ideologie totalitarie o le
altre dottrine assolutiste.
A proposito di ideologie e dottrine ricordo un giorno di prima
estate della metà degli anni ’70, in cui con un altro paio di rappresentanti sindacali della mia azienda ci recammo a Vittorio Veneto a portare la nostra solidarietà agli operai di una nota industria dolciaria, la
cui direzione minacciava la chiusura dello stabilimento se non fosse
stata accettata una pesante “ristrutturazione”. Discorrendo del più e
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del meno con un rappresentante sindacale di quell’azienda, iscritto
CGIL e tesserato PCI, finimmo per parlare dell’Unione Sovietica,
della quale dissi che lo stalinismo aveva finito non solo per offuscare
la bella immagine che molti si erano fatti del comunismo, ma che lo
aveva affossato nei fatti. La reazione di questo compagno fu quasi
isterica e mi ribatté con foga che l’Unione Sovietica era la patria
della giustizia e della libertà per tutti i lavoratori. Se l’avessi incalzato con altrettanto impeto avremmo finito per litigare, perciò cercai di
mitigare il dialogo dicendo che era vero che a tutti veniva assicurata
un’istruzione, un lavoro, un alloggio e cure sanitarie, ecc.. e evidenziai di meno il discorso sulla libertà, sicché lui, comprendendo di
averla presa su toni troppo alti, si acquietò; naturalmente ognuno restò sulle proprie posizioni.
Ciò che intendo evidenziare da questo aneddoto, che non fu nemmeno l’unico di questo genere, è il fatto che rimasi impressionato
dalla assoluta convinzione, o meglio dall’incrollabile fede che egli
riponeva nel partito e negli ideali del comunismo, che però, detto in
modo certo banale, (perché era certo che dietro e sopra e tutto intorno
c’era molto altro: una grande storia), per molti militanti di base erano
rappresentati dalla “linea”. Poi dentro al partito, nelle sezioni, c’erano i dibattiti, le discussioni, ma su temi che venivano dall’alto, come
il prete in chiesa, che decide lui quale sarà il tema del sermone, e lui
dovrà rispondere della sua linea al vescovo. Il “centralismo democratico” cha pare che Stalin abbia sagomato su modello vaticano.
Ma più che impressionato rimasi turbato, quasi commosso, anche
se, ripeto, non era la prima volta che ebbi modo di discutere con
uomini e donne, le donne erano anche più toste, possessori e portatori
di una fede che pareva incrollabile e assoluta.
La cosa che mi faceva arrabbiare e se ci penso mi fa incavolare
anche ora, era il fatto che il gruppo dirigente del PCI, ma non solo lo
stretto vertice peraltro, sapeva bene come stavano le cose “oltrecortina”, ma con ostinazione scelse di continuare a mistificare una “verità” che poi in realtà era diventata uguale al segreto di Pulcinella e
che non fu più possibile sostenere già ben prima del crollo del muro
di Berlino. Per questo dissi che lo “strappo” operato da Berlinguer
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con il partito comunista sovietico, che non poteva non avvenire, avvenne però fuori tempo massimo.
E allora molti dirigenti,che sapevano di aver vissuto nell’ambiguo,
entusiasti mutarono pelle e si scordarono rapidamente ciò che erano
stati, non tutti in verità e ci si deve guardare dal fare di tutte le erbe
un fascio. Resta il fatto che oggi è difficile trovare qualcuno di questi
ex dirigenti che ti dica “io sono stato comunista”; ovviamente non sto
parlando dei nostalgici alla Cossutta che continuano a riproporre un
modello di socialismo che tragicamente ha fallito, avendo disatteso
gli ideali sui quali, mistificando, diceva di ispirarsi.
Molti di questi ex “ferventi” epigoni “agostiniani” bramosi di una
qualsivoglia fede da abbracciare, purché avvinca, catturi, sia totalizzante, (ho osservato, nella mia ormai non più breve vita, categorie di
persone, parlo sia in generale che nello specifico, così strutturate),
oggi incanutiti o che magari hanno perduto i capelli, come me, che
con altrettanto entusiasmo e fede di allora stravedono e votano per
Bossi o anche Berlusconi, pronti magari un domani, quando anche la
luce di costoro si sarà eclissata, a seguire altre lanterne che qua e là
dovessero accendersi. Naturalmente sto generalizzando, ma mi pare
chiaro che il fenomeno esista e che queste non siano solo opinioni
personali.
Ma richiamando-mi all’attenzione del tema di partenza e ponendo
l’interesse sulle differenze fra il dire e il fare, fra il predicare bene e il
razzolare male, debolezze in cui spesso noi umani incappiamo, mi
accingo a chiudere questa riflessione sulla speranza indotta dall’enciclica papale. E guardando proprio al fare più che al dire mi pare che,
al di là degli auspici di circostanza, nel concreto non sia stata data
una grande fiducia alla speranza di avvicinamento e dialogo nei confronti di tutto quel mondo che si professa altro dal cattolico, altrimenti credente o anche non credente nelle religioni, dal momento che
questa è stata rivolta alla sola fortezza cristiana europea, ad essa sola
è stato rivolto l’invito e il monito a trovare o ritrovare nella sua
antica e unica fede quella identità, che se dovesse andare smarrita,
causa il modernismo , finirebbe per smarrire anche il continente.
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Identità escludente, come escludente sembrerebbe essere qull’altra,
quella islamica, invocata negli ambiti e dai leaders più intransigenti
di quel credo i quali trovano consensi e humus nel loro ambito facendo leva su una visione del mondo che fotografa la realtà di un Occidente egoista e aggressore verso alcuni dei suoi popoli e diffidente
verso praticamente tutti gli altri.
Ciononostante la parte maggioritaria dell’islam, come pure quella
maggioritaria cristiana pare comprendere che la contrapposizione sterile tra le due fedi conduce su vie perdenti per entrambe, dato che tutti gli esseri viventi, a qualsiasi latitudine, auspicano sul serio la pace,
e il modo per ottenerla non può essere altro se non quello del dialogo
e del confronto, partendo dal rispetto reciproco, dal riconoscimento
della pari dignità, nonché della conoscenza reciproca e della mente
aperta e disposta alla contaminazione. Per secoli le due religioni
hanno profuso enormi energie per trovare, talora inventare elementi
di distinzione e di divisione, sarebbe tempo di invertire la rotta.
Quindi affinché la speranza non resti parola vuota, chi veramente
vuole la pace sa bene quali vie intraprendere.
Liberi però gli uomini di credere o meno, senza che su di loro siano
esercitate pressioni, lusinghe, inganni, in modo tale che il dialogo o
meglio il confronto non assuma significati altri da quello letterale che
ha, allora non solo sarà possibile ma anche fruttuoso.
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Libro 14°
LE FAVOLE
Intendo ora aprire uno spazio speciale facendo una chiacchierata
circa le ancora numerose voci amanti del cantar storie, voci semplici
e al contempo ricche di filosofica saggezza e maestre di fondamentali
insegnamenti, che narrano storie non necessariamente di guerre e
battaglie o di grandi eventi, e nemmeno necessariamente racconti di
fatti reali, ma anche, o per lo più, di fantasiose vicende narrate in
prosa, in poesia o in musica, ai giorni nostri quasi allo stesso modo di
come si narravano in tempi remoti e in luoghi diversi, suscitando fra
gli ascoltatori emozioni sempre intense anche se non sempre uguali.
Ma cercherò di dire anche o soprattutto dei narratori dato che in
questa nostra epoca supertecnologica sembrano essere scomparsi; ma
non è così e se in alcune nazioni questi sembrano essersi ritirati in
qualche nicchia appartata e ristretta, in altre hanno riconquistato spazi e ora sono ben vivi e sempre disponibili a donare, finché ci sarà
gente disposta a ascoltare, la loro essenziale e genuina opera vitale.
Non si pensi che abbia inteso fare ricorso a una sorta di intervallo
strategico per stemperare l’onerosità dei temi finora esposti, come
dire, dare il tempo a una loro digestione, e devo ammettere che gli argomenti non inclinavano alla vaporosa soavità; il fatto è che ho potuto constatare come non solo ai bambini, ma anche alle persone adulte
sono sempre piaciute le favole che, sappiamo, sono state narrate fino
da tempi immemorabili, perché il tramandare la storia, i miti o le favole in maniera orale è stato il sistema più efficace e pratico usato
dagli uomini fino a quando non giunse il tempo della scrittura, ma
non per questo poi essi smisero di narrare a voce.
È dal rinvenimento delle tavolette di creta dell’antica Mesopotamia, ritrovate intorno alla metà del secolo scorso, che abbiamo potuto sapere quali racconti, tratti dalla storia, dal mito o dalla fantasia,
venivano oralmente tramandati. Storie vecchie di oltre quattromila
anni che raccontate oggi possono fare emergere fra gli ascoltatori ancora grandi emozioni. Storie di persone semplici o di re, di dei o di
eroi, di saghe o di miti che gli antichi babilonesi si tramandavano da
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generazioni infinite. Storie cantate da vati o aedi, rapsodi e poeti, che
precedettero anche di molto i racconti omerici e quindi anche le favole di Esopo e di Fedro: mi riferisco ai favolisti della Cina antica, e
dell’India e dell’Africa, dei favolisti dell’Oriente misterioso e
affascinante che poi ci hanno fatto conoscere i racconti delle “Mille e
una notte”, e per venire a tempi più vicini, le favole stupende di
Giambattista Basile, di Andersen, dei fratelli Grimm e quelle di Italo
Calvino, spessissimo pescate dalla tradizione orale regionale che si
perdeva nella notte dei tempi e non ci sfuggono le contaminazioni fra
narrazioni che si sono servite delle medesime trame, con i personaggi
di volta in volta adattati alle culture e ai paesi in cui venivano raccontate, le quali, più che richiamare a coincidenze o coinvolgimenti o
propagazioni inducono, forse più semplicemente, alla logica constatazione che essendo in grandissima parte della gente uguale il desiderio di giustizia e di pace, non potevano essere che assai simili le favole che opponendosi con le loro trame a talune inaccettabili brutture del mondo, ne facevano emergere e trionfare di questo le sue
parti più pulite e virtuose.
Perciò, per il fascino che esercitano, si rimane ancora oggi catturati
davanti a un bravo raccontatore di storie e dalle sue favole semplici o
fantastiche che compiono il miracolo di ridestare anche fra gli adulti
quella parte più intima dell’animo rimasta ancora bambina.
E giacché in ogni dove e in ogni tempo si sono raccontate fiabe e
queste, come la storia più importante, sono diventate patrimonio
della tradizione culturale dei popoli, ne rivangherò anch’io almeno
un paio prendendole in prestito e unendomi a coloro che hanno pescato nel grande sacco della fantasia; quindi, ripeto, non propongo un
intervallo se lascio da parte discorsi più seri come quelli sulla guerra,
macchina mossa dalla delirante barbara follia di chi pretendendo di
fare sue più zolle di terra di quante siano bastanti alla propria sepoltura, sarà pagato alla fine con quelle e non una di più.
Adesso pare che le favole non vadano più di moda, ma non è proprio così. È il modo di raccontarle che è cambiato; ci sono meno nonni e più cartoni animati, tuttavia anche questo modo, meno poetico,
continua a piacere sia ai bambini quanto agli adulti e da qualsiasi
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latitudine le fiabe arrivino e in qualsiasi latitudine giungano e siano
seguite muovono sensazioni, aspirazioni, speranze, sentimenti allo
stesso modo di mille e mille anni fa.
Mi sposto ora nel paese che essendo il più tecnologico del mondo
potrebbe essere percepito nell’immaginario collettivo anche come il
meno adatto a fungere da ideale contenitore di una tradizione culturale favolistica. Ma le cose non stanno come ai più potrebbe sembrare ed è stata anche questa “contraddizione” ad avere destato la
mia curiosità. Già la grande produzione cinematografica, ad esempio
della Walt Disney, ma non solo quella, basterebbe a fare degli USA
un paese assai coinvolto nella produzione favolistica, un paese che si
serve di tutti i mezzi, dai tradizionali ai più moderni, per mantenerla
viva, senza scordare il fatto che questa rappresenta pure un business.
Ora lasciamo stare Holliwood ma rimanendo in America vediamo
come se la sta cavando il vecchio tradizionale mondo dei cantastorie.
A suscitare il mio interesse fu una serie di articoli sulla rivista mensile in lingua inglese “Speak up”, edita in Italia dalla De Agostini fino
dalla prima metà degli anni ottanta, rivista che si prefiggeva di far
conoscere ai suoi lettori la voce del mondo di origine anglosassone:
dalla Gran Bretagna al Sud Africa, dall’Australia al Nord America.
Fu così che in uno di questi articoli , redatto da Mark Worden, venni
a conoscere questo strano e vitale mondo dei cantastorie e dei favolisti, non soltanto ancora presente, come credevo, nella sola vecchia
Europa, ma anche nella “vecchia America”, dal quale scovai pure
una antica fiaba che colà si narra, della quale scoprii una singolare
similitudine con una che dalle mie parti raccontavano le nostre nonne e mamme, assieme ad altre, quando eravamo bambini; storie semplici ma affatto banali perché a loro modo, talora nemmeno tanto
tenero e leggero, offrivano il loro essenziale contributo a fare diventare adulti i “cuccioli d’uomo”, (Kipling), e a fare ritornare un poco
bambini quelli che cuccioli non lo erano più.
Può sembrare strano il motivo per il quale proprio una piccola città
americana sia diventata la capitale mondiale dei cantastorie, dato che
questa tradizione era fino a un recente passato oltre che più antica,
per ovvie ragioni, anche più viva nei paesi europei, ma mentre in
313
questi è andata vieppiù scemando - non sto ora a indagarne le cause,
anche se in verità in questi ultimi anni c’è stata una ripresa del cosiddetto “teatro di strada” e accade che ora in una città europea ora in
un’altra si organizzino regolarmente raduni di cantastorie – una città
americana è riuscita a fare di questa forma d’arte che stava scomparendo un evento prima nazionale e ora anche mondiale.
Come è potuto accadere? È stato forse il frutto di un caso fortuito?
Resta il fatto che se alcune cose accadono e funzionano significa che
dietro c’è della volontà e dell’impegno di persone in carne e ossa , in
questo caso quello degli abitanti di Jonesborough, Tennessee.
Potrei cominciare con “c’era una volta” ma questa, che potrebbe
sembrare una favola è invece una storia vera e quindi inizio come si
iniziano le storie vere.
L’autunno è già iniziato ma le giornate di questa prima settimana
ottobrina sono ancora meravigliosamente calde e assolate. Sonnacchiosa e immersa in questa pacifica atmosfera si crogiola una tipica
cittadina americana, la quale, in verità, nello stile dei suoi edifici più
vecchi e rappresentativi, mostra ancora chiaramente quel tocco nordeuropeo a ricordare l’origine dei suoi abitanti. Fra le abitazioni della
città, che sorge su un territorio ondulato di basse colline, il colore
prevalente è il verde smeraldino dei prati , dei parchi, degli alberi secolari, né mancano i giardini pubblici, in uno dei quali si trova un
suggestivo piccolo lago,il Woodland lake. Dalle falde dei vicini monti scendono i due piccoli fiumi cittadini che scorrendo uno a sud-est,
l’altro a nord-ovest fanno quasi da limite all’abitato più “antico”, storico di questa graziosa piccola città incastonata fra il Blue Ridge
(cresta) e le Great Smoky Mountains.
Il Tennessee è uno degli stati centro-meridionali degli USA, di circa 110.000 km. quadrati, posizionato da est a ovest e con i due confini di nord e sud perfettamente paralleli distanti l’uno dall’altro circa
180 km.. Il confine nord, il più lungo, circa 700 km., separa lo stato
dal Kentuky e dalla Virginia, quello sud, circa 540 km., lo separa dal
Mississippi, dall’Alabama e dalla Georgia. Dei due lati corti quello a
ovest è segnato dalla discesa in grandi anse del Mississippi, che
separa lo stato dal Missouri e dall’Arkansas, mentre quello a est, che
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lo divide dalla Cartolina del Nord, è molto irregolare e segue un percorso da nord a sud-ovest. La capitale è Nashville e si trova circa al
centro dello stato. La nostra Joneborough si trova invece quasi al vertice di nord-est, all’incirca a 40-50 km. di distanza sia dalla Virginia
che dalla Carolina del Nord, sulla linea ferroviaria costruita nel 1857
e che scendendo arriva a Knoxville e poi a Chattanooga a sud sul
fiume Tennessee - città resa famosa proprio da una canzone che
parlava della sua ferrovia e del trenino che vi sferragliava – due delle
tre città, oltre la capitale, più importanti dello stato. La terza, quindi,
è sempre a sud, ma all’estremo ovest dello stato, sulle rive del Mississippi ed è Memphis. Non mi sono dilungato a caso su queste città
perché proprio queste, assieme ad Ashville nella Carolina del Nord e
a poche altre, sono state la culla di un particolare tipo di musica popolare nord-americana, e di ciò dirò nel prosieguo.
Le risorse dello stato sono legate allo sfruttamento delle foreste e
all’agricoltura con la grande produzione cerealicola, del cotone e della frutta; notevole è anche l’allevamento del bestiame: bovini, suini,
equini e ovini, ma molteplici sono anche le industrie che fanno del
Tennessee uno degli stati più industrializzati del sud degli USA:
energia idroelettrica, industrie tessili, (lana, cotone e fibre sintetiche),
industrie chimiche, alimentari, del legno e meccaniche; inoltre sono
numerose le miniere di ferro, zinco, rame, carbone, uranio e altri minerali. Molto importante è anche l’entrata economica dovuta al turismo e fra le mete più frequentate per la bellezza dei paesaggi montani c’è il Great Smoky Mountain National Park, condiviso con la confinante Carolina del Nord .
Poco al di sopra del parco c’è la nostra Jonesborough, una cittadina
come altre nel Tennessee e negli stati vicini, un poco sonnolente, immerse nella tranquilla pace agreste e lontane dalle grandi metropoli e
pertanto anche dai grandi eventi degli States. Probabilmente per questo motivo, ma forse anche per cercare di evitare che questa sorta di
velato torpore corresse il rischio di sfociare in apatica indolenza, un
gruppo di suoi abitanti pensò di dare vita in città a un evento che
tenendo conto delle inclinazioni della sua gente ne destasse e muovesse le risorse di fantasia e creatività e diventasse anche un richiamo
315
per l’esterno e magari, possibilmente, anche una ulteriore fonte di affari e turismo, ma questo lo si vide solo a posteriori.
In quel fine settimana dei primi di ottobre accadde quindi che un
gruppo di volenterosi cittadini prendesse dalla stazione un vecchio
vagone scoperto e lo trainasse fino sulla piazza principale della città,
davanti al Palazzo di Giustizia. Il pianale del vagone sarebbe servito
da palcoscenico allo svolgersi del primo National Storytelling Festival, il primo Festival Nazionale dei Cantastorie.
Era un scommessa giocata al buio e il primo tentativo sarebbe potuto essere stato anche l’ultimo: una piccola cosa, un po’ progettata e
un po’ improvvisata, ma in quel fine settimana ottobrino qualcosa di
importante accadde nella piccola città che, sorta nel 1779, andava
fiera di essere la più antica città del Tennessee, una cosa rilevante
quindi ma che ormai non poteva più bastare e quel piccolo evento, attraverso quella particolare forma d’arte, determinò una svolta tanto
culturale quanto economica per Jonesborough.
A quel primo festival, dell’anno 1973, parteciparono come narratori solamente un vecchio congressista dell’Arkansas, un banchiere del
Tennessee, un professore di un collegio locale e un agricoltore del
nord-ovest della Carolina. Raccontarono le loro storie con vera partecipazione, riuscendo a compiere il piccolo-grande miracolo di alitare
un magico soffio di vita dentro l’atmosfera del festival, che persuase
gli organizzatori, entusiasti, che quello era un evento senz’altro da ripetere perché avevano visto come il pubblico, in verità quella prima
volta non molto numeroso, formato da persone che ascoltavano sulle
poche sedie disposte, o sedute sul bordo del marciapiedi, o per terra
sull’erba a gambe incrociate, aveva seguito con vero interesse e coinvolgimento i racconti di quei primi quattro narratori. Fra costoro e il
pubblico si era instaurato un legame, uno speciale collegamento che
aveva creato una speciale simbiosi con i protagonisti dei racconti, sia
che questi fossero stati personaggi ancora vivi o vissuti nel passato,
che fossero stati famosi e conosciuti o sconosciuti e mai visti, vissuti
in luoghi vicini e familiari o in altri lontani e inconsueti, oppure che
fossero state figure reali o del tutto immaginarie e inventate. Incredibilmente in quelle poche magiche ore il primo festival aveva dato
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vita a una specie di rinascimento del raccontare storie, una fiammella
piccola ma viva, che andava alimentata; e così fu, facendo diventare
Jonesborough la capitale mondiale dello storytelling.
Da quel primo evento il festival è cresciuto anno dopo anno e ora
esso si tiene sotto diversi tendoni da circo collocati nei posti più
adatti della città, contrassegnati e divisi per “temi”, nei quali dozzine
di “raccontatori di storie”, provenienti anche da altri continenti, chi
usando la sola propria voce, chi accompagnandosi con strumenti musicali, si alternano davanti a pubblici sempre molto numerosi e attenti, nonché competenti, intrattenendoli con i loro racconti.
Il clou del festival rimane sempre il weekend della prima settimana
di ottobre, ma adesso da giugno a ottobre, in città, per ventidue fine
settimana di fila, i ventidue più amati e quotati “cantastorie” sono invitati, uno alla settimana, a presentare il meglio del loro repertorio.
L’evento è ormai diventato un richiamo turistico nazionale e anche
internazionale e in città, come è ormai diventata consuetudine di tutti
i luoghi che richiamano folle, sono stati aperti negozi di souvenir nei
quali si può trovare di tutto, in particolare articoli dell’artigianato locale. Sono stati costruiti anche dei nuovi alberghi, che sono andati a
affiancare in particolare lo storico Eureka Inn, sorto nell’ottocento e
posto sulla via principale nel cuore della città.
Dicevo dei racconti a tema, per uno dei quali esiste un luogo, mai
cambiato proprio perché è risultato essere il più confacente, appunto,
al tema in questione: in uno dei parchi cittadini, un poco periferico,
su una piccola altura è stato costruito un artistico gazebo dove, a partire da quando cominciano a scendere le ombre della sera, vengono
raccontate le storie spaventose di truci delitti, spettri, morti misteriose, zombie e fantasmi a una folla sempre numerosa che ascolta in un
silenzio rapito carico di tensione. Un piccolo fiume scorre appena
dietro e sotto al gazebo un po’ avvolgendolo e le luci, volutamente di
colore rosso intenso che illuminano il suo interno, colorano con i
propri bagliori riflessi l’acqua del ruscello dando la netta impressione
che in esso vi stiano scorrendo rivoli di sangue.
Fra coloro che oggi raccontano storie al festival ci sono anche personaggi molto noti dello spettacolo, dell’arte e della letteratura, non
317
solo famosi a livello nazionale ma anche internazionale. Ad esempio
c’è una vecchia signora oramai veterana del festival che si chiama
Katryn Tucker Windham, una vera maestra dello storytelling, sempre
molto seguita, la quale è autrice, finora, di 24 libri di successo. C’è
John Mc Cutcheon, uno dei più quotati artisti tra i cantanti della musica folk, vincitore di numerosi premi. C’è Doug Elliot, un personaggio che sembra uscito da altri tempi; si presenta con una barba fluente e baffi e un grande cappello di paglia in testa e racconta storie di
uomini e animali selvatici le vicende dei quali spesso si intrecciano.
Carmen Deedy è invece una giovane autrice di libri per bambini e
viene al festival a raccontare le sue favole. Donald Davis è uno del
posto, nativo della zona dei monti appalachiani e racconta storie semplici, esilaranti, di personaggi un po’ sciocchi, ma il suo repertorio è
vasto e conosce storie paurose o altre che si rifanno agli antichi antenati provenienti dal Galles e alla Scozia. Brenda Wong Aoki è invece una giovane artista di origine giapponese che viene dai teatri di
Brodway di New York City; mentre Waddie Mitchell, un simpatico
Cowboy e poeta, con l’immancabile cappellone che fa ombra a una
faccia simpatica ornata da un enorme paio di baffoni, viene dal lontano Nevada a raccontare le storie della sua terra. Won-Lay Pye, un
cantante nero, formidabile intrattenitore che pesca i suoi racconti fra i
canti e le storie della vecchia tradizione. Bill Lepp, un giovane ma rinomato cantastorie a livello nazionale apprezzato per i suoi racconti
umoristici e seguito da un pubblico di tutte le età. C’è poi un duo formato da Blenda Zahra e Emily Hooper, due simpatiche signore di
colore che alternano le loro storie fra narrazione e canto. C’è ancora
Elizabeth Ellis, una appalachiana cresciuta in una famiglia dove si
raccontavano un sacco di storie, per lo più immaginarie e ora lei le ripropone al pubblico affinché possano rimanere vive e diffondersi.
Poi c’è Barbara Mc Bride-Smith, Jay o’Callahan, Michael Parent e
dozzine e dozzine di altri artisti verso i quali so far loro torto non nominandoli, ma so anche che per quanti nomi facessi non riuscirei a
elencarli tutti; ad ogni modo questi appena sopra nominati sono per
lo più i partecipanti degli ultimi festival. Ma adesso è doveroso che
io torni indietro di circa un paio di decenni, all’epoca in cui venni a
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sapere per la prima volta dell’esistenza di questa manifestazione la
cui fama stava ormai uscendo dai confini nazionali perché, come dissi, incontrai una cantastorie, un’artista, che raccontava una favola che
per una buona parte era molto simile a una che mi fu raccontata da
bambino; una fra le tante che al festival si narrano ai bimbi pescando
dalle vecchie rimembranze a sua volta udite nella loro infanzia dai
genitori e nonni, storie misteriose condite da personaggi fantastici,
storie paurose di orchi e maghi, storielle esilaranti con finali comici o
paradossali, ma anche poemi musicali cantati o suonati da strumenti
musicali talora inusuali o magari inventati apposta per quei brani.
Uno dei personaggi, fra i veterani della “prima ora”, o quasi, era
Ray Hick, un bizzarro tipo alto e allampanato, un agicoltore di
professione che veniva da Beech Mountain, (la montagna dei faggi),
nel nord Carolina, il quale parlava il dialetto tipico delle sue zone e il
suo abbigliamento non poteva essere che quello tipico dei vecchi
agricoltori delle montagne appalachiane, con jeans e pettorina retta
da una sola bretella trasversale che gli conferiva quella caricatura,
forse volutamente accentuata (l’auto-ironia è quella forma di intelligenza che non ti fa vergognare delle tue origini, per quanto modeste
esse siano) ormai entrata negli stereotipi dell’”hillibilly”, in cui c’è la
visione del campagnolo sempliciotto, sempre scalzo, rappresentato
anche in una serie fortunata di vecchi fumetti, nati al tempo della
“grande depressione” che arrivarono anche in Italia, nei quali veniva
preso in giro questo suo modo estremamente elementare di ragionare
e prendere la vita, ma dalla cui tradizione e folclore a suo tempo era
nata e si sviluppò la musica country-western.
Coloro che conobbero il Ray Hick di quegli anni lo definirono con
un solo aggettivo: “magico” e quando raccontava la storia di “Jack
(as in the Beanstalk) o Jack and the Beanstalk, (Giacomo e i fagioli
parlanti), una delle favole più popolari per bambini tramandata da
generazioni, la folla che lo attorniava, fatta anche di adulti, superava
ogni volta il migliaio di persone, molti se si pensa che molti conoscevano già la favola, ma ogni volta la risentivano rapiti e in silenzio per
non perdere nemmeno una singola parola, immersi in una sorta di
tenero pathos e questa era la prova che nelle persone, a saperle tirare
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fuori, si scopre che esistono tutte quelle meste e tenere sensazioni
che in genere per una certa riservatezza o pudore restano nascoste;
sensazioni che un carattere semplice e singolare come quello di Ray
Hick trasmettendo il suo genuino e coinvolgente messaggio sapeva
far emergere e questo gli conferiva quel ché di razza animale da
proteggere perché in via di estinzione.
Tutti questi motivi danno il senso e possono bene spiegare il perché
della fenomenale crescita che il festival ha avuto anno dopo anno,
l’intuizione cioè dell’importanza di riuscire a ridestare il sentimento
e l’interesse per le vecchie buone cose e in tutto ciò aiutò senz’altro il
fatto che gli uomini, per naturale autodifesa o primordiale istinto,
tendono a dimenticare più facilmente o a spostare in un “cassetto”
più recesso del cervello le cose più brutte e negative. Per contro questo fatto, (parlo in generale ma anche guardando alle cose di casa
mia), se non supportato da un razionale e meditato senso di equilibrio, può concorrere a alimentare un substrato ambientale e culturale
di conservatorismo e immobilismo, legato magari a qualche movimento politico o religioso piuttosto integralista e rivolto a un passato
falsamente o ingenuamente mitizzato, che rischia di diventare reazionario e ostile a tutto ciò che di nuovo, aperto, progredito, innovatore
si affaccia al mondo; per cui teniamo pure care e conserviamo le vecchie tradizioni, ma poi, per favore, guardiamo in avanti! In questa
breve divagazione, che mi appresto a chiudere, ho premesso che mi
riferivo al mio paese, guardando ad esempio a quanto accade dalle
mie parti, dove di questi tempi in quasi ogni città (piccola città) o
paese vengono riscoperte le antiche origini e tradizioni che vengono
reinterpretate con manifestazioni di tipo culturale e storico, o pseudo
tali, riproponendo quadri con i vecchi costumi medioevali o rinascimentali con cornici di rivisitazione delle antiche attività e mestieri, il
tutto tenuto assieme dalle riedizioni religiose di messe “lefebvriane”
rigorosamente recitate e cantate in latino. Tutto in apparenza suggestivo, ma io mi chiedo quanto di tutto ciò rispecchi o risponda al disegno di un vero risveglio storico-culturale, che mi sta bene, e quanto
invece non sia il segno di una regressiva forma di “fetale” ritorno a “
idilliaci” tempi, che non sono mai stati e che in tutti i modi non
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potranno essere rivissuti, di una insicurezza che porta a rinchiudersi e
rifugiarsi in presunte egoistiche sicurezze mitizzando un passato
ideale che non era certo migliore del presente e inoltre il segno di un
forte disagio di cui si è preda nel guardare al futuro, giacché pervasi
dalla netta sensazione di essere stati vittime di falsi profeti, che
peraltro continuano imperterriti a profetare indicando rotte fondate su
calcoli del tutto inesatti.
Tornando al nostro festival non posso evitare di segnalare uno dei
primi importanti personaggi che lo frequentarono come cantastorie, a
partire esattamente dal 1976, mi riferisco a David Holt, anche lui
proveniente dalla vicina Carolina del Nord, uno dei partecipanti al
festival fra i più amati e seguiti, il quale fece dello studio delle storie
e della musica di quelle regioni montane il lavoro della sua vita.
Quando David cominciò la sua professione di cantastorie, all’inizio
degli anni settanta, viveva ancora nel Texas, suo paese d’origine, ma
andò poi a stabilirsi nella Carolina del Nord, a Asheville, che diventò
la sua residenza definitiva. La città, rinomata per il suo stile di vita
ancora a misura d’uomo e per la sua musica, si trova al limite delle
Great Smoky Mountains, le Grandi Montagne Fumose, situate in una
delle più belle parti degli Stati Uniti. Il termine geografico ufficiale
di questa zona degli Appalachiani meridionali,(Southern Appalachia,
pronunciati Appal-atcha), è anche molto noto con l’appellativo di
“Hillibilly country”. David venne da queste parti per imparare come
si suonava il banjo nel vecchio stile e inoltre come si suonava il claw
hammer, (il martello a granchio?), strumento che in verità non
conosco ma si suppone dovrebbe servire a segnare il ritmo, quel
ritmo dello stile musicale locale che arrivò in America dall’Africa
oltre duecento anni or sono. Di questa vecchia tradizione musicale
qualcosa ancora sopravvive fra queste montagne, ma è un patrimonio
che si va perdendo ed è tanto vero che resta a conoscenza solamente
delle persone più anziane.
Siccome David sapeva che quello era ormai il solo luogo dove
avrebbe potuto imparare questa musica di prima mano, si recò sul
posto e apprese ad usare strumenti dei quali non immaginava nemmeno l’esistenza, perché oltre al banjo trovò strani tipi di chitarre e di
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armoniche, imparò a suonare i cucchiai e le “ossa”. Questo tipo di
musica gli entrò talmente dentro l’anima che finì per stabilirsi fra
queste montagne a suonare nello stile “hillibilly”, una musica che i
più pensano o immaginano come tipicamente “bianca”, ma che invece, come altri tipi di musiche popolari americane, è nata e si è sviluppata dall’incontro delle culture europee e quelle africane: in questo
caso fra la scozzese-irlandese e africana. Sia gli scozzesi che gli irlandesi arrivarono fra le montagne appalachiane tra il tardo diciassettesimo secolo e i primi del diciottesimo e erano in maggioranza agricoltori: trovarono degli ottimi terreni coltivabili e poterono reclamare
e ottenere il loro pezzo di terra. Negli stessi luoghi, un poco più tardi,
arrivarono anche dei neri, anche se fra queste montagne non furono
mai molto numerosi come negli altri stati del sud; e avvenne che i tipi di black blues che cantavano e suonavano piacevano e finirono per
fondersi con le musiche scozzesi e irlandesi dando vita a quel particolare e autentico folk song americano che è senza dubbio il frutto
della combinazione delle due anime.
La musica delle montagne ha avuto in seguito una influenza determinante nell’industria moderna della musica country e western e la
città simbolo di questa musica è diventata poi Nashville, Tennessee,
anche se va rammentato che le prime registrazioni risalenti addirittura agli anni venti del Novecento furono effettuate più a est, vale a
dire a Bristol e a Asheville.
In quegli anni David Holt, accompagnandosi con il banjo o con i
cucchiai, raccontava e cantava storie a volte davvero bizzarre e fra
queste ce n’era qualcuna di piuttosto truculenta come quella che brevemente dirò, ma generalmente preferiva i racconti allegri e dal
finale lieto, oppure storie che narravano, mitizzandoli, (tutto il mondo è paese), i bei tempi andati.
Veniamo ora alla storia che, si badi bene, è un fatto realmente accaduto in una località nelle vicinanze della città di Erwin, Tennessee,
nel 1916. In quel luogo da un po’ di tempo si era stabilito un circo
nel quale viveva una elefantessa che si chiamava Magnifica Mary.
Un giorno questa elefantessa, non si sa per quale ragione, si imbizzarrì e accadde che nella sua furia ammazzò un uomo. Quando ven-
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ne catturata fu sottoposta a un regolare processo e la sentenza fu di
condanna a morte secondo la legge dello Stato. Ebbene, lo si creda o
no, venne impiccata.
Del resto non fu l’unico pachiderma a morire secondo le leggi
federali, o anche scavalcandole e mi pare che fossimo sempre intorno
a quella data. Si trattava anche stavolta di un elefante, o una elefantessa, che però non aveva nemmeno commesso reati, ma gli toccò di
fare da cavia per collaudare un tipo di sedia elettrica brevettata da
Thomas Alva Edison. Naturalmente l’elefante non fu fatto accomodare sulla sedia, dato che non ci entrava, ma gli furono applicati gli
elettrodi intorno alla base delle zampe: ci mise un po’ a morire, friggendo e fumando, ma era la prova che se ci restava secco un elefante
tanto meglio ci sarebbe rimasto un uomo. Questo per dire qualcosa
circa il problema della pena di morte e della sensibilità della gente
verso gli animali in tempi non tanto remoti, ma ci sarebbero storie da
raccontare per niente edificanti di come questi vengono trattati anche
ai giorni nostri.
Il North Carolina è uno stato dal quale provengono molti cantastorie fra i più gettonati al festival di Jonesborough. Poco prima della
metà degli anni novanta e per un certo numero di anni successivi, era
frequentato da una corpulenta e simpatica signora afro-americana disabile, costretta su una sedia a rotelle, conosciuta semplicemente
come la “signora della storia”. Si chiamava Jakie Torrence e anche
lei, come Ray Hicks, amava moltissimo raccontare storie della vecchia tradizione popolare che le erano state narrate dai suoi genitori o
dai nonni o che aveva pescate dai vecchi racconti della tradizione del
suo paese e queste favole che lei narrava con una particolare e intensa espressività portavano molti degli spettatori a commuoversi fino
alle lacrime. Per lei il festival era decisamente il più importante avvenimento dell’anno, tanto da farle confessare di provare una enorme
tristezza, perfino di soffrire di una leggera forma di depressione,
quando il festival chiudeva i battenti. Lei, che a causa del suo problema incontrava grosse difficoltà a spostarsi, affermava che gli uomini
possiedono le qualità e una grande forza per sopportare le avversità e
lei in particolare ne era un esempio vivente, quindi affermava che fin
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da quando era bambina si era sempre lasciata affascinare dall’immaginazione di poter vivere ogni tanto di magia e benché poi la dura
realtà della vita riporti i sognatori nel mondo reale, è bello ogni tanto
concedere lo spazio ai sogni perché anch’essi sono parte della vita e
ogni tanto ad essi ci si può abbandonare. È per questo motivo che a
Jonesborough anche i grandi tornano a essere per un poco bambini in
quei pochi giorni dove tra fantastici racconti si è condotti in posti
dove non si sarebbe mai potuti andare, nemmeno col più moderno o
sofisticato dei mezzi di trasporto. E Jackie aggiungeva che la innata e
eterna magia delle storie e dei bei racconti è anche una parte importante che non deve mai mancare nell’educazione dei bambini e pure
se si raccontano storie dove c’è l’orco o il lupo cattivo o una brutta
magia, non lo si fa per spaventarli ma per insegnargli a essere cauti e
prudenti, perché non esiste un mondo privo di cattiverie e di problemi. Per questo motivo Jackie Torrance, al di là di quanto alcune
persone affermavano essere la sua e dei suoi colleghi una attività di
puro e semplice intrattenimento, riteneva e lo diceva, di offrire un
servizio sia di carattere pedagogico, sia terapeutico, perché aiutava le
persone a prendersi una pausa, a staccare la spina, a stare un poco
lontane dai problemi di tutti i giorni, molti dei quali, dato il carattere
frenetico e ansioso del mondo d’oggi, creati da noi stessi.
Jackie aggiungeva poi che tutto il suo impegno e entusiasmo, al
quale non poteva andare che tutto l’apprezzamento possibile, era accompagnato e sorretto dalla sua forte fede religiosa e io che una fede
religiosa non l’ho immagino che, se una persona intensamente pensa
e crede allo stesso suo modo, ciò possa esserle davvero di reale aiuto.
Poi, dopo aver detto questo, però aggiungeva che non avrebbe voluto
suggerire l’idea che lei o altri che la pensavano allo stesso suo modo
avessero inteso servirsi del festival di Jonerborough per fargli assumere un carattere o una impronta religiosa; il fatto era che ogni persona portava con le proprie storie anche le proprie esperienze di vita.
L’affermazione secondo la quale gli stati del centro-sud della grande campagna americana siano quelli maggiormente vicini alle forme
religiose più tradizionaliste, conservatrici o anche integraliste, è un
fatto che mi pare non si possa contestare, come è pure incontestabile
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il fatto che nei medesimi stati esistano maggiori difficoltà rispetto a
quelli del nord riguardo al problema razziale, tuttavia molti passi in
avanti sono stati compiuti e non è soltanto l’elezione di un presidente
afro-americano, votato anche da numerosi bianchi del sud, che lo sta
a dimostrare.
Tornando a Jackie Torrance, alla sua fede e al grande entusiasmo
che metteva nel raccontare storie, quasi fosse stata la sua missione,
voglio aggiungere come lei collegando tutto ciò diceva spesso una
cosa arguta riguardo a Gesù definendolo uno studioso della natura
umana, quasi uno psicologo ante litteram, il quale sapeva molto bene
che alla gente di ogni età piace stare a sentire una buona storia e lui
di parabole, storie che avevano un senso e contenevano un insegnamento e una morale, alle moltitudini che lo seguivano ne aveva raccontate molte.
A Jackie in quel periodo capitava spesso di raccontare, fra le altre,
una favola che aveva sentita da bambina dai suoi genitori i quali
l’avevano a loro volta imparata dai propri e quando mi sono imbattuto in questa sua favola, narrata in anglo-americano sul mensile Speak
Up, nell’ormai lontano settembre del 1993, da questa straordinaria
cantastorie detta “la signora della storia”, ho trovato stupefacente come questa nella sua parte essenziale, che è la seconda o quella finale,
sia praticamente uguale a una che circolava, perché ormai quasi più
nessuno racconta le storie, dalle mie parti da tanto di quel tempo che
non so dire. Si tratta della “Storia del Barba Zhucon, o Zhukon”, traduco: Barba nel veneto orientale significa anche zio, Zhukon significa zuccone o anche tonto e questo lo si può comprendere meglio;
solo che questo zio zuccone, nella favola, era anche mago e inoltre
era un tipo irascibile e quando si arrabbiava diventava anche feroce e
crudele. Sarà stata una semplice coincidenza, abbastanza comune
nelle fiabe, anche se raccontate in luoghi lontanissimi gli uni dagli
altri, o fra le due ci sarà stato qualche arcano collegamento, difficile
sapere! Tuttavia la cosa mi parve curiosa ed è per tale ragione che
questa storia ho deciso di raccontarla pure io, prima traducendo
quella di Jackie Torrance e poi traducendo, dal veneto della “Sinistra
Piave”, quella originale nostra. Ma c’è anche un altro motivo per il
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quale intendo rivisitare questa fiaba nostrana, dato che in questi tempi essa sta rivivendo una nuova giovinezza e di seguito dirò perché,
ma ora la favola che Jackie intitolava “The story of Tilly” e che lei
iniziava dicendo di avere avuto tanto tempo fa – che è per forza un
tempo remoto e quindi lascia immaginare che per un bambino i nonni
abbiano l’età di matusalemme, o quasi – una piccola amica di nome
Tilly che viveva lontano lassù sulle sperdute verdi montagne.
Suo padre e sua madre costruirono una casetta di tronchi tagliati
dalla foresta e ne era uscita proprio una bellissima accogliente casetta. C’era solo una cosa che non andava; non c’era la luce elettrica,
forse perché la casetta era isolata e lontana e non c’erano linee elettriche che passavano vicine, ma forse anche perchè quel tempo era
proprio lontano e l’elettricità gli uomini non l’avevano ancora imbrigliata. Resta il fatto che tutte le sere quando fuori calava il buio, la
mamma e il babbo di Tilly accendevano delle candele tutto intorno
alla casa e anche dentro, con l’eccezione però delle scale che portavano in alto alla camera di Tilly.
E ogni sera, all’ora di andare a dormire la mamma di Tilly diceva:
<<Tilly è ora di andare a letto!>> E Tilly rispondeva: <<Ma io non
voglio andare a letto. Fa troppo buio lassù. Non voglio salire quei
gradini. Per favore mi daresti una candela da portare mentre salgo le
scale?>> Ma la mamma di Tilly rispondeva: <<Tilly Tilly, tu sei
troppo piccola per portarti delle candele in cima alle scale, che sono
tutte di legno e possono bruciare. Non c’è proprio niente lassù.
Perciò vai a letto!>> Povera piccola Tilly, dover salire gli otto scuri
gradini prima di arrivare dentro la sua camera. Ogni notte era sempre
la solita solfa: “Tilly è ora di andare a letto.” “Non voglio andare a
letto.” “Vai a letto Tilly”…Otto scuri gradini.
Una notte Tilly andò in cima alle scale, attraversò l’uscio, salì sopra il letto, ci saltò dentro e si tirò le coperte sopra la testa. <<Benissimo>>, pensò poi, <<visto che non sto ancora dormendo cosa potrei
fare, prima di prendere sonno, in questa piccola oscura stanza? Potrei
inventare un gioco,…Certamente!>> E questo fu quello che fece. Il
gioco consisteva nel cercare di ricordare ciò che aveva fatto il giorno
appena trascorso, e poi il giorno prima, e poi il giorno prima e quello
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prima ancora , ma giusto che Tilly fu immersa nei suoi pensieri, tutta
intenta a ricordare ciò che aveva fatto nei giorni precedenti, udì un
qualche cosa.
Qualche cosa ai piedi delle scale. Stette attentamente a sentire meglio…, era certamente una voce, e la voce diceva: <<Tilly, Tilly; Tilly, sto salendo le scale per venire a prenderti!>> e Tilly disse: << Uh,
oh!>> E poi pensò: <<Chi mai potrebbe essere? Oh>>, poi parlando
tra sé disse: <<non ho nessun motivo di spaventarmi. C’è la mamma
giù, e il babbo. Sono certamente loro che stanno facendo un gioco
con me. Ascolterò così sarò più sicura.>> E ascoltò…, e la voce disse
ancora: <<Tilly sono sul primo gradino!>> <<Oh>>, disse Tilly, <<
questa non è la voce della mamma!>> E la voce disse ancora: << Tilly sono sul secondo gradino!>> <<OH, mio…!>> disse Tilly, <<questa non è la voce della mamma e nemmeno quella del babbo. Chi mai
potrebbe essere?>> <<Tilly sono sul terzo gradino!>> <<Uh, oh!>>,
disse Tilly. <<Sta venendo sempre più vicino. Che cosa potrei mai
fare?>> Girò lo sguardo tutto all’intorno della sua piccola stanza buia
e scorse a malapena una piccola finestrella in alto, ma era talmente
stretta che Tilly non sarebbe potuta passare. E poi c’era solo la porta
d’ingresso, ma dietro la porta c’era la voce. <<Tilly sono sul quarto
gradino!>> <<Oh>>, disse Tilly, <<sta venendo sempre più vicino!
Che cosa potrei mai fare? Ecco, ho trovato!>>, disse, <<tutto ciò che
devo fare è alzarmi, aprire la porta, scendere le scale e infilarmi nel
letto assieme alla mamma e al babbo. Oh, ma non posso fare questo
perché dovrei passare dalla parte da dove viene la voce, e cioè dalle
scale!>> E poi sentì ancora: <<Tilly sono sul quinto gradino!>>
<<Oh>>, disse Tilly, <<sta venendo sempre più vicino e non è la voce della mamma né quella del babbo. E non posso scendere le scale.
Chi sarà mai questo?>> <<Tilly sono sul sesto gradino!>> <<Oh
no!>> Disse Tilly, <<cosa mai potrei fare? Devo pensare. Non posso
scendere. Non è la voce della mamma né quella del babbo. Oh no!
Non c’è una finestra abbastanza grande da poterci passare, né un’altra porta!>> <<Tilly sono sul settimo gradino!>> <<Oh no!>>, disse
Tilly, <<è sempre più vicino, devo calmarmi e pensare…Oh adesso
so, adesso so cosa devo fare! Chissà perché non mi era venuto in
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mente prima; tutto ciò che devo fare è prendere un gran respiro e
chiamare la mamma e il babbo. Certamente loro mi sentiranno.>> e
questo fu quello che fece.
<<Mamma, babbo, mamma, babbo, mamma, babbo, mamma, babbo…, mamma…, babbo…!>> Ma la mamma non la sentiva e nemmeno il babbo. E lei non poteva raggiungerli scendendo le scale. E la
voce si fece sentire più vicina, anzi vicinissima: <<Tilly sono
sull’ottavo gradino!>> <<Oh no!>> Disse Tilly, <<adesso è giusto
dietro la porta. Cosa mai posso fare?>> Aspettò e ascoltò, poi sentì la
porta della sua camera aprirsi: <<eeeeeh – uuuuuh, Tilly, Tilly,
Tilly, sto venendo nella tua stanza a prenderti!>>
Ma in cima ai gradini non c’era proprio nessuno, perché questo era
il gioco che Tilly faceva ogni sera prima di prendere sonno e gli serviva per vincere la paura del buio, e questa è la fine della storia.
Una favola per un tratto molto simile a questa ci veniva raccontata
quando eravamo bambini, anche se la parte iniziale e centrale segue
un’altra trama, peraltro con diverse piccole varianti; però la protagonista è sempre una bambina che viveva in una casetta povera e un po’
isolata, alla estrema periferia di uno di quei paesetti di campagna che
di uguali oggi non se ne trovano più, pertanto non solo perduto nel
tempo, ma nemmeno ben collocabile né precisamente riconoscibile,
ma che proprio per questo si presta egregiamente a essere un paese
da fiaba.
Questa è una di quel pugno di fiabe fra le più radicate nel mio territorio da tempo immemorabile, ma anch’essa, come molte altre, rischiava di essere dimenticata e perduta, (a volte basta il solo salto di
una generazione), sennonché è stata recentemente fatta oggetto di rivisitazione anche da parte di illustri esponenti della cultura letteraria
quali, ad esempio, il poeta Andrea Zanzotto, nato e residente nella
mia provincia a Pieve di Soligo e colgo l’occasione per ricordare che
questo sublime poeta e umanista moderno , assieme a Mario Rigoni
Stern e a Bepi De Marzi è un membro di quel trio di grandi veneti
contemporanei che, nonostante i tempi incerti a causa di troppi cattivi
gestori del globo, inducono a sperare in un positivo riscatto umano.
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Zanzotto ha messo in versi una piccola parte della storia del Barba
Zhukon, inserendola in una sua più lunga poesia nella quale egli
tesse l’omaggio a certi momenti ludici, in questo caso suscitati dal
gioco delle “Carte Trevisane”. Che ha come titolo “Diffrazioni, eritemi”, dove, dopo un prologo introduttivo, le sue rime si soffermano a
commentare storie, la nostra di fantasia, ma altre reali, datate nei
tempi passati e riportate alla memoria dalle massime presenti sugli
assi delle suddette carte. Venendo alla nostra, riferita all’asso di
coppe che reca scritto: “Per un punto Martin perse la cappa”, il nostro poeta racconta: <<…E, dietro quello sprone losco – di roccia,
abitava il santolo più sadico – e più tonto e più orco il – Barba Zhucòn oggetto di burla atroce, - che al posto delle frittelle ebbe dalle figliocce – una fazzolettata di caccotte di mulo; - ma non riuscì a
vendicarsi penetrando dal buco – dell’acquaio e ingozzò inoltre un
intero agoraio…>>. In questa sua, il poeta usa una delle varianti della
favola in quanto questo Barba Zhukon, un po’ tonto, un po’ orco e un
po’ mago, viene ingannato dalle figliocce, che sono almeno due,
mentre la versione a me più nota e accreditata fra il coneglianese e
l’opitergino parla di una sola ragazza che si chiama Isadora, che del
Barba è la nipote, e della mamma di lei, che non ha nome.
Sempre di questa poesia, interessantissimi sono anche i racconti
relativi agli altri assi, da cui scaturiscono vicende accadute nei secoli
passati, dalla trama in parte ormai quasi perduta, mentre resta viva,
seppure poco nota, per i motivi che il lettore potrà poi immaginare,
quella relativa all’asso di bastoni, sul quale sta scritto “Se ti perdi tuo
danno”. Qui il poeta racconta una vicenda losca, che già io ripresi in
maniera completa, seppure sintetica, in un mio precedente lavoro, per
la prima volta raccontata da Paolo Sarpi, scienziato veneziano, 1552
– 1623, dell’ordine dei frati serviti, nel suo “Interdetto” e in altre sue
opere che, per la posizione che egli prese in questa vicenda a favore
di Venezia e contro la Roma papale, ma anche per la sua coraggiosa
difesa di Galileo, ebbe a patire il feroce ostracismo della chiesa
romana, con tutto quello che seguì : ad esempio la messa al rogo
delle sue opere, ma anche una premeditata e feroce aggressione (il
mandante si individuò chiaramente nel papa, anche se non ci fu la
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possibilità di raccogliere le prove) tendente a ucciderlo, dalla quale
uscì per miracolo – era stato lasciato per morto – ma rimase fisicamente segnato in vita. E allora come si fa con un conoscente che si
incontra dopo tanto tempo un poco ci si intrattiene e quindi riproporrò parte della vicenda giusto per sommi capi e se poi il mio lettore
vorrà saperne di più, sopra ho dato il titolo di un’opera e di un autore
davvero notevole.
Visto che siamo in tema di favole questa potrebbe essere presa
come tale, però vi assicuro che è una storia vera, ma prima facciamo
parlare il poeta.
<<Se ti perdi tuo danno: <<…precipitando nella più infima feccia
– (Noli, Domine, iudicare – del tempo dare nella breccia – nel brecciame della vetrata / vortice – dell’Abbazia, poi reimpostare i seghettati – frammenti di portenti, - L’Arcipriore demonologo (autore, forse, di un trattatello “Della Prepotenza”) che faceva faville – di parricidio, incesto e altre mille – favolose perversioni e che quel santo
luogo – aveva reso ritrovo – di eretici di maghi e di zhisampe – di
zombies di sciamani e di assassini – sino a far saltare le relazioni –
tra la Repubblica e la Chiesa – che una grandissima contesa – fra loro
misero in piedi su chi dovesse giudicarlo – la davvero saturnina
surreale – Questione Giurisdizionale. – Noli, Domine, quaesto, iudicare>>. Il poeta si è rifatto a una fosca vicenda che vide protagonista
l’arcipriore e abate, vescovo Marcantonio, rampollo secondogenito
dei conti Brandolini, una delle più insigni e potenti famiglie della
“marca trevigiana”, vissuto a cavallo tra il 16° e il 17° secolo.
Approfittando della carica di abate dell’abbazia di Nervesa, località
del Montello sulla destra del Piave, si macchiò dei più orrendi delitti,
compreso l’assassinio del padre; delitti che compiva al comando di
una banda di “bravi”, togliendosi la veste talare e indossando abiti
civili e una maschera sul volto per non farsi riconoscere. La Repubblica di Venezia che lo volle processare per questi suoi delitti si trovò
la strada sbarrata dalla chiesa romana. I rapporti fra questi due stati,
che non erano idilliaci nemmeno prima dell’eventuale processo, precipitarono al livello più basso mai raggiunto fino ad allora e poco
mancò che la Repubblica di Venezia diventasse uno stato protestante.
330
Roma riuscì a spuntarla e il processo farsa che impiantò si concluse
con una pena “simbolica”: un soggiorno obbligato, temporaneo, fuori
sede inflitto al Marcantonio, il quale non ravveduto continuò con la
sua vita delittuosa… .
Ma torniamo al nostro Barba Zhukon perché c’è da dire ancora che
nel 2005 questa favola è stata scelta e messa in musica dal maestro
Domenico Sossai, musicista , clarinettista membro della Orchestra filarmonica Triveneta, compositore, insegnante, direttore didattico
dell’istituto musicale Benvenuti di Conegliano e direttore della banda
comunale di Cordignano, un complesso musicale eccezionale, nel
quale i componenti sono per la maggior parte diplomati al conservatorio. Questa “banda”, che il maestro Sossai non ha voluto chiamare
filarmonica, termine che in qualche misura farebbe elevare l’appellativo del complesso, in quanto si sostiene esserci una differenza fra il
primo del quale sono presenti solo “fiati” e percussioni, in genere la
grancassa, mentre le filarmoniche tendono ad avere più generi di
strumenti, come è il caso della “banda” di Cordignano. Ma come pare che l’abito non faccia il monaco (è uno dei proverbi oggi più messi
in discussione) così il nome non fa la qualità e il maestro dice che il
nome banda sta benissimo essendo un convinto assertore dell’importanza delle bande per il ruolo che queste svolgono per l’apprendimento e la diffusione della musica sia popolare che “colta”; come del
resto avviene nei paesi del nord e dell’est Europa dove esistono dei
complessi musicali cittadini eccellenti. Stesso discorso può essere
fatto per l’America settentrionale, dove ogni piccola città, per non
dire ogni scuola, possiede il suo complesso musicale. Sotto la guida
del maestro Domenico, (che ho il piacere di conoscere perchè mio
figlio Andrea, che suona anche nella sua banda, è stato suo allievo e
si è diplomato in saxofono al conservatorio di Milano, Giuseppe
Verdi), la banda ha raggiunto livelli di eccellenza e per tale motivo è
alquanto richiesta e, salvo non suoni gratuitamente per associazioni o
istituzioni benefiche o senza fini di lucro, discretamente remunerata.
Il complesso, oltre al repertorio “classico” per bande non propone solamente il rifacimento musicale della suddetta favola popolare,
diventata una vera e propria sinfonia che si snoda su un percorso
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musicale intervallato dal racconto di un attore dialettale che disvela
la trama della storia, ma oltre a questa ve ne sono delle altre, musicate e cantate o recitate, alcune in maniera buffa e esilarante e sono
apprezzate moltissimo, anche da un pubblico giovane. Ciò dimostra
come non sia vero che i giovani sono interessati solo dalla musica
cosiddetta leggera o da discoteca, ma anche da altri generi se presentati con maestria e competenza: poi, oggi, un complesso bandistico
musicale valido, con un buon arrangiatore, o più di uno che collaborano, è praticamente in grado di affrontare qualsiasi genere musicale.
A tale proposito il maestro Sossai ha messo in musica la famosa
filastrocca per bambini: <<Giro giro tondo, casca il mondo, casca la
terra, tutti giù per terra!>>, suonata in circa 25 generi musicali differenti e si va dal tango al rock, dal valzer al blues, dai ritmi sudamericani alla musica balcanica, dalla musica russa ai ritmi africani, dalla
musica orientale al cool jazz, dalla musica giamaicana al rap music, e
altri generi ancora, inoltre la banda ha pure una cantante fissa, più
altre, i, occasionali.
Ora veniamo alla storia del Barba Zhukon, che così come ce la raccontavano i nostri nonni, ma in dialetto non potrò dirla per non mettere difficoltà il lettore e allora la tradurrò in italiano, anche se di
tanto in tanto qualche espressione dialettale ho deciso di lasciarcela.
La storia del barba Zhukon
Tanto tempo fa in una modesta casetta isolata, sulla strada per il
paese di….., vivevano una mamma e la sua giovane figliola che si
chiamava Isadora.
Era la vigilia di Carnevale e la mamma di Isadora, per celebrare la
festa, decise di fare le frittelle, ma in quella casa erano così povere da
non avere nemmeno la padella per cuocerle e così la mamma chiamò la sua bambina e le disse: <<Isadora, bisognerà che tu vada da
tuo Barba (zio) a chiedergli la padella per le fritole>>. <<Iehee …>>,
piagnucolò la bimba, <<mamma…, non chiedermi questa cosa qua,
ho troppa paura di andare lì, e poi non so nemmeno se capirà ciò che
avrò da chiedergli…quello zuccone di mio Barba!>>. La mamma,
che le voleva un sacco di bene, allo stesso modo voleva anche che
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la figlia non disobbedisse, dal momento che la voleva tirar su come
“si deve”. <<Isadora! Devi andare…e subito anche! Prima che faccia
buio, perché poi lui el vien cativo (diventa cattivo) e non puoi più
chiedergli niente!>>. Infatti il Barba Zhukon faceva proprio paura:
era un brutto vecchiaccio sporco e ruvido, con tutti i capelli arruffati
e un barbone lungo e incolto, e quando giungeva la notte gridava
sempre, ma non si sapeva nemmeno perché né contro chi.
Sta di fatto che Isadora, anche se di malavoglia, dovette partire per
raggiungere il paese, attraversarlo e poi anche il bosco, per arrivare
fino a laggiù in fondo…eeh…, ne aveva di strada da fare… Cammina, cammina, arrivò in paese e là trovò tutti i suoi compagni di scuola
e si fermò con loro a ciacolar (chiacchierare) e in più c’erano anche
le giostre e la banda che suonava. Così Isadora passò tutto il pomeriggio con gli amici e quando si mosse per la sua commissione arrivò
al limitare del bosco che cominciava già a imbrunire. Potete immaginare quanta paura provasse adesso la bimba ad andare dal Barba
Zhukon. Arrivò davanti alla casa, poi fece i due gradini dell’uscio
e…toc, toc…,(con voce piccola piccola e spaventata), <<sono io, Isadora e sono venuta a chiederti – in prestito – la padella per le frittelle,
perché la mamma non ce l’ha e noialtre vorremmo fare le frittelle di
Carnevale – noialtre…>>. Silenzio…Aspettò un poco ma non veniva
fuori nessuno…Toc,toc…,(con un tono un po’ più alto), <<Sono io,
Isadora e sono venuta a chiederti in prestito la padella per fa…>>
<<Chi c’è? Chi è che vuole la mia padella? Per fare cosa? Chi
c’è?>>, rispose un vocione potente e cavernoso dal piano di sopra.
<<Sono Isadora e sono venuta a chiederti la padella per le frittelle,
perché la mia mamma…>> <<Voialtre non avete mai niente! Comunque te la do, anzi vieni dentro a prendertela, che la troverai nel
cassetto dei pettini nella credenza, (per dire quanto il Barba Zhukon
teneva all’igiene), ma ricordati che me la devi portare piena di
frittelle, hai capito?>> <<Si, si che ho capito>>, rispose Isadora e
entrò in cucina, tirò il cassetto dove stavano tutti assieme i pettini,
cento altre cianfrusaglie e la padella, che lei prese. E via di corsa per
il bosco, col suo cappellino di paglia calcato in testa e la padella sotto
il braccio, tutta contenta, che il Barba Zhukon non era stato neanche
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tanto burbero.
Appena arrivata a casa, Isadora e la sua mamma si misero subito a
fare le frittelle, tante…buone…, che non vi so nemmeno dire quanto.
Poi prepararono un bel cartoccio grande, di carta di paglia, e lo riempirono ben bene di frittelle per il Barba Zhukon, messe per benino,
sulla padella, tutta lustra e pulita.
E così il giorno appresso,un bel po’prima di mezzogiorno, Isadora
partì per raggiungere il paese, attraversarlo, attraversare anche il
bosco e arrivare fino laggiù in fondo…eeh... la ghen’avea strada da
far… Cammina, cammina, arrivò in paese, dove c’erano le giostre e
la banda che suonava, e c’erano anche tutti i suoi amici…Voialtri
potrete ben capire, la povera Isadora non aveva fatto nemmeno colazione…e i suoi amici nemmeno, pieni di fame anche loro…Insomma, assaggiarono una frittella, poi due, poi tre…, avevano fame, poverini! E intanto la giostra girava…e la banda suonava. Dopo un po’
Isadora si accorse che era già mezzogiorno passato e allora prese di
fretta la strada per il bosco e mentre camminava pensava: <<erano
proprio buone le frittelle>>, ma non fece a tempo di finire il pensiero
che gliene venne subito un altro, molto più brutto. Mise la manina
dentro il cartoccio…e si accorse che nel fondo del cono era rimasta
soltanto una frittella. Povera bimba…, gli venne da piangere.
Affranta si sedette su un ceppo tagliato, lungo la strada, e pensò:
<<cosa posso fare ora?>>. Era così assorta quando un live rumore la
fece trasalire. Alzò un momento lo sguardo e vide poco distante un
somarello e vicino a lui, per terra, tante caccotte, belle brune, che
parevano rotonde e rosolate come…e ben no eh! E invece sì! Si avvicinò all’asinello, si accucciò per terra e una alla volta prese tutte le
caccotte, fino a riempire il cartoccio e sopra a tutte ci mise anche la
frittella buona, poi disse fra sé, quasi a volersi rassicurare: <<il peso
mi sembra uguale a quello di prima e a guardarle sembrano proprio
uguali a quelle vere…, secondo mè non si accorgerà di niente!>>.
Arrivata però davanti alla casa del Barba Zhukon, Isadora non ebbe il
coraggio di chiamarlo, allora mise sui gradini dell’ingresso la padella
con il suo bel carico di caccotte d’asino e via di corsa senza nemmeno voltarsi indietro.
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Come Isadora arrivò a casa la sua mamma vide subito che la bambina era tutta stralunata e le chiese: <<che cosa è successo, che sei
così pallida…, non avrai mica combinato qualche guaio?>>. Ma la
bimba restava muta e diventava sempre più pallida. Insomma, dai e
ridai, alla fine Isadora le raccontò tutto. <<Che cosa hai fatto?
Adesso di sicuro Barba Zhukon verrà a prenderti – disse la mamma –
dobbiamo immediatamente trovare una soluzione>>. La mamma sapeva bene come fare, perché sapeva che il Barba era anche un mago
e riusciva a passare dappertutto, anche dalle fessure e dai buchi più
piccoli, eeh…era proprio un diavolaccio! E così chiuse bene la casa,
comprese le fessure più piccole e anche le toppe delle chiavi delle
porte, poi fabbricò un kusin pien de ciodi e de spin e de veri roti (un
cuscino pieno di chiodi, di spine e di vetri rotti), e gli diede la forma
di un volto di bambina, poi gli attaccò ai lati due belle trecce che assomigliavano proprio a quelle di Isadora e lo portò di sopra, in
camera, lo mise sul letto, sporgente dalle coperte, che pareva proprio
che Isadora stesse dormendo.
Mentre le due donne stavano trafficando attorno a queste faccende,
il Barba Zhukon, che sporgendosi dalla finestra dall’alto aveva visto
la padella con dentro il cartoccio sopra uno dei gradini dell’ingresso,
scese a prenderla e gli venne subito voglia di assaggiare una frittella,
perciò si mise in cucina, comodamente seduto a tavola, e tirò fuori
dal cartoccio una bella frittella rotonda e rosolata: la rimirò qualche
secondo, quasi godendo dell’acquolina che gli colava in bocca e poi
la mangiò in un boccone. <<Mmm…buonaa…>> Era proprio l’unica
buona rimasta. Immediatamente gli venne di assaggiarne un’altra e
hamm! <<Ma cos’è? Yuuu! Phuaa! Per carità!>> Cominciò a sputare
dappertutto e si mise a urlare: <<Aaah! Brutta peste, cosa mi hai
combinato?! Adesso eeh, adesso ioo, vedrai cosaa…!>> Il Barba
Zhukon era fuori di sé dalla rabbia e urlava così forte che si udiva
dappertutto, perfino qua a…(si fa il nome del luogo dove in quel momento ci si trova). Indossò in fretta il suo pastrano nero come la pece
e via come una furia in quella sera, altrettanto nera e senza luna, verso la casa di Isadora per andarla a prendere e mangiarla.
Le due donne intanto si erano nascoste sotto il letto e sopra di loro
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si erano tirate una grossa coperta e aspettavano tremanti che arrivasse
il Barba. La mamma stava pensando se aveva fatto tutto per bene, se
cioè avesse chiuso proprio tutto…, le porte, gli scuri, il buco del camino e anche l’acquaio…l’acquaio! Si era dimenticata di tappare il
buco di scarico dell’acquaio. <<Ah, povere noi – disse disperata la
mamma – lui è capace di passare anche di là!>> E infatti, il Barba
Zhukon appena arrivato alla casa le fece un giro tutto all’intorno e si
accorse subito che lo scarico era rimasto aperto e fattosi come aria si
ficcò senza fatica dentro il tubo dell’acquaio e in meno di un attimo
era in cucina; allora con un vocione che fece tremare i muri disse:
<<Sono qua sul primo gradino!>> La mamma di Isadora le disse:
<<Ssss. Silenzio piccina e ficcati sotto, ficcati sotto!>> <<Son qua
sul secondo scalin!>> <<Fikete soto, fikete soto!>> <<Guardate che
sono sul terzo gradino!>> e la mamma, <<fikete soto, fikete soto!>>
<<Adesso sono sul quarto gradino!>> Le due donne non riuscivano a
dominare il tremore, ma la mamma provava a dare coraggio alla bimba: <<fikete soto tesoro, fikete soto!>> <<Guarda che ora sono sul
quinto gradino e sto venendo a prendertiii!>> <<Fikete soto picinina,fikete soto!>> <<Adess son sul sesto scalin e fra poc te ciapo!>>
<< Fikete soto amor, fikete soto!>> <<Guarda che sono sul settimo
gradino e sono quasi arrivatooo, adesso eh, adesso eeeh!>> <<Fikete
soto bambin, fikete soto tesoro! >> << Sono qua sull’ottavo gradino e
ora sono davanti alla porta!>> Il cuore delle due donne batteva con il
ritmo di un maglio impazzito e pareva volesse salire dal petto e scappare fuori dalla bocca. Broommm! Un colpo e la porta si spalancò.
Sotto il letto silenzio assoluto. Il Barba Zhukon, che come abbiamo
detto, era sì un po’ tonto, ma era anche un mago, era proprio accanto
al letto, ma anche se la stanza era completamente immersa nel buio
lui ci vedeva benissimo lo stesso…, forse proprio benissimo no, però
ci vedeva e quando vide la testa della bambina, là che dormiva in silenzio, spalancò la bocca e…ahmmm! Come fece per mordere si
punse tutte le guance e il palato, e si tagliò pure la lingua e la gola.
Insomma era tutto sbregà (sbrindellato) e sanguinante e cominciò a
saltare e a urlare dal dolore come nessuno l’aveva mai udito prima.
<<Aaah, bruta tosa, bruta tosa! (peste di ragazza),>> e infilata la
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porta come un fulmine scappò via di corsa per i campi e per i boschi
nel buio più buio di quella notte senza luna.
Il Barba Zhukon, da quella volta, non lo vide più nessuno, ma ogni
sera, specialmente di quelle senza luna, se facciamo silenzio e tendiamo bene le orecchie, è possibile sentire ancora un grido soffocato
lontano lontano, ma non si sa nemmeno bene da dove provenga.
Non è stato possibile sapere con certezza da dove abbiano avuto
origine le favole, ma gli studiosi delle tradizioni popolari hanno notato come giochi, vecchie cantilene o filastrocche di bambini non siano in realtà che quel che resta di antichi riti religiosi. Ad esempio il
gioco della mosca cieca deriva dai sistemi o criteri che anticamente
erano in uso per scegliere le vittime umane da sacrificare agli dei.
Analogo discorso vale per le fiabe: in antichità riti liturgici conosciuti solo dai sacerdoti dei templi, con il tempo andarono in disuso o
perché sostituiti da altri più moderni o perché addirittura cambiarono
gli dei e allora un po’ alla volta mutarono fino a diventare passatempi della tradizione popolare. Perciò dietro a una filastrocca o a una
vecchia storia che ancora oggi viene raccontata è possibile si nascondano dei rituali molto antichi, i cui significati però sono ormai andati
perduti e noi non siamo più in grado di decifrare.
Nelle vecchie storie babilonesi vi sono diversi racconti con riferimenti possibili da ritrovare anche nella Bibbia: ad esempio la storia
del Diluvio Universale. E per restare a quei tempi e in quei luoghi
veniamo ora alla favola o meglio alla leggenda babilonese per eccellenza, forse legata a un importante personaggio mitizzato: mi riferisco alla storia che racconta “le avventure di Gilgamesh”, dove si narra di questo personaggio fortissimo e terribile, per due terzi divino e
per un terzo umano, il quale aveva soggiogato ai suoi voleri tutti gli
uomini e le donne di quelle provincie dell’Oriente.
Le popolazioni stanche delle sue angherie invocarono l’aiuto del
Signore del Cielo, che udite le loro implorazioni chiamò la dea Aruru, la medesima dea che nei tempi molto più antichi era stata colei
che aveva plasmato l’uomo dall’argilla, (così come fece il Dio della
Bibbia per dare un corpo ad Adamo), per fare, allo stesso modo, un
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rivale degno di Gilgamesh. Ma la storia, che è una vera e propria saga del personaggio, va parecchio per le lunghe e inoltre ha diverse
versioni, pertanto mi interrompo. Rilevante è il fatto che l’epopea di
questo eroe è narrata dal punto di vista letterario in una edizione allestita dal re babilonese Assurbanipal, 668 – 626 a. C., ma esistevano
versioni assire molto più antiche, sia pure giunte in frammenti, e persino una versione hurrita. Infine esistevano anche delle leggende sumere che parlavano dell’eroe, risalenti al 3° millennio a. C.
Per il vicino Oriente di quei tempi l’epopea di Gilgamesh rappresentò ciò che l’Iliade e l’Odissea furono per il mondo greco.
In un altro racconto babilonese, tradotto con il titolo “Penne prese a
prestito”, si narra del tempo in cui il mondo era giovane e l’aquila e il
serpente erano amici. Poi l’aquila ruppe il patto divorando i figli del
serpente.
In quel tempo era credenza presso molti popoli che sia l’aquila che
il serpente, a meno che non venissero uccisi, potessero vivere per
sempre, perché l’aquila cambiando le piume e il serpente cambiando
la pelle rinnovavano continuamente la loro vita.
Nella nostra antica storia l’aquila, per quel suo cattivo gesto, venne
punita e privata delle ali. Più tardi però le riacquistò, ma con penne
posticce che le aveva fornito il re Etana e in cambio di questo favore
essa avrebbe dovuto portarlo dove nasceva una tale pianta magica;
ma quando furono in alto nel cielo il re scivolò dal dorso dell’aquila
e precipitò in mare.
In questa favola, che ho semplificato allo strettissimo essenziale,
troviamo elementi sia della leggenda greca di Dedalo e Icaro, sia
elementi biblici in quanto i due animali protagonisti occupano ruoli
importanti nel Libro e questo tanto nel Vecchio come nel Nuovo
Testamento, (Vangelo), dove però l’aquila è lanimale virtuoso e il
serpente quello malvagio.
Veniamo ora a tempi relativamente più recenti e parliamo dell’epoca barocca della quale mi è parso obbligatorio segnalare un libro di
favole in dialetto napoletano, già in verità poco comprensibile al tempo in cui fu scritto, forse per via dell’alto tasso di analfabetismo, ma
del resto poco comprensibile anche dai napoletani d’oggi, perché
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anche i dialetti, come le lingue, col tempo cambiano, per questo sono
dette lingue vive, il quale libro, forse proprio per la sua difficile lettura, non ebbe la diffusione e il successo che si sarebbe meritato.
Considerato il più antico libro di fiabe post-rinascimentale che si
conosca in Occidente, fu tradotto in lingua italiana da Benedetto
Croce nel 1925 e benché egli non avesse mai avuto in simpatia il periodo artistico barocco, considerò “Il Racconto dei Racconti”, o meglio “Lo cunto de li cunti overo lo trattenimento de’ peccerille”, <<il
più bel libro italiano barocco>>.
Stiamo parlando di Giambattista Basile, napoletano, letterato e uomo di corte, 1575 – 1632. Oltre che al servizio della corte del vicereame di Napoli, (che dipendeva dalla Spagna), dalla quale ebbe importanti incarichi e anche un piccolo feudo, nel quale trascorse la
maggior parte della sua vita. In gioventù era stato per qualche anno,
come soldato, al servizio della Repubblica di Venezia poi, in veste di
intellettuale e letterato alla corte dei Gonzaga di Mantova, dove ricevette la nomina a cavaliere e poi il titolo di conte. La sua opera letteraria maggiore, Il Racconto dei Racconti, fu anche pubblicato nel
1674, quarantuno anni dopo la sua morte, con il titolo “Pentamerone”
per una certa affinità, almeno nella sua struttura architettonica, con il
Decamerone di Giovanni Boccaccio: dieci novelle per dieci giorni, le
cento del Boccaccio, dieci novelle per cinque serie, o giornate, le cinquanta del Basile.
Certo le favole di Giambattista Basile, viste con gli occhi di oggi, (
ma appunto con questi ci si dovrebbe sforzare di non guardarle), non
sarebbero state proprio le più adatte al trattenimento “de’ peccerille”
perché, oltre all’ampio e doveroso spazio concesso all’orrido, con corollario di maghi, streghe, fate, orchi, ecc…, più o meno presenti in
moltissime altre favole anche di autori notissimi, come ad esempio
Perrault, Andersen, i fratelli Grimm e altri, in Basile troviamo pure il
triviale mischiato al raffinato, l’infimo all’eccelso, il sordido allo
splendido, la crudeltà all’umanità, la saggezza alla stoltezza; e assai
probabilmente sta anche in tutto questo la grandezza della sua opera.
Tuttavia in Basile, ebbe a dire Italo Calvino – maestro della letteratura, ma anche fine esperto di favole per la sua raffinata raccolta
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di fiabe nostrane – c’è come un <<ossessionato gusto dell’orrido>>,
un’abbondanza di toni truci, violenti, di vite difficili, che risentivano
in verità del clima della vita quotidiana del suo tempo, e allora la punizione e la morte, data al colpevole e al malvagio, diventava una cosa del tutto naturale e anche il modo di farlo: come ad esempio lo
squartamento pubblico, come nella fiaba “L’Orsa”, o nel sotterrare
fino al collo la moglie traditrice e incinta e lasciarla morire in quella
condizione: la favola de “I tre cedri”.
Riguardo alla considerazione in cui erano tenute allora le donne in
ambito sociale bastano poche parole per rendere l’idea: <<…si restò
per un bel pezzo come quando nasce una figlia femmina>>, per dire
che una disgrazia peggiore non poteva capitare.
Dicevo che le favole rispecchiavano in maniera reale i tempi e le
società e sappiamo che il vice-reame spagnolo del primo Seicento
non era certo quanto di meglio si poteva trovare in Europa in fatto di
apertura sociale. Per rendere l’idea, siamo intorno al tempo in cui
maturò la rivolta capeggiata, formalmente, da Masaniello, 1647. Già
meno di un secolo più tardi il vice-reame, diventato regno, sarebbe
mutato parecchio avviandosi a diventare uno dei più illuminati e moderni del suo tempo.
Dicevo anche di altri autori di favole, come ad esempio Perrault,
1628 – 1703, successivo quindi al Basile, ma non poi di molto, tuttavia nella Cenerentola di Perrault, ma anche in altre sue favole: Pollicino, Il gatto con gli stivali, ecc…, al di là del temperamento, carattere o sensibilità personale di ogni singolo autore, sono tutti evidenti i
segni che, nella cultura parigina di fine seicento, già mostravano come stavano germinando i semi dell’illuminismo e del pensiero razionale che sarebbe esploso in tutto il suo vigore nel secolo successivo.
Sia nella Cenerentola di Basile che in quella di Perrault i padri della
giovane sono aristocratici: principe il primo, gentiluomo il secondo;
entrambi vedovi, si risposano e ora la loro unica figlia avrà una matrigna. In Basile la figlia, che si chiama Zezolla, viene affidata a una
istitutrice, la quale convince la ragazza a ammazzare la matrigna, che
secondo lei non l’ama, mentre ella sì che l’amerebbe come una figlia
vera se il principe sposasse lei. Così Zezolla, calando di colpo il
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pesante coperchio di un baule sul collo della matrigna, spezzandoglielo, la uccide e poi convince il padre, all’inizio restio, a sposare
l’istitutrice. Costei dopo un po’ rivela il suo vero carattere, porta in
casa le sue figlie (ne aveva sei) e relega Zezolla in cucina, sporca e
con le vesti lacere e giacché è sempre vicina al camino la ribattezza
Gatta Cenerentola.
In entrambe le favole Cenerentola subisce le angherie della matrigna e delle sorellastre. Le parti centrali delle due favole variano, ma
ritornano a essere quasi uguali verso la fine: nella favola di Basile la
ragazza perde una “pianella”, (zoccolo), che il re raccoglie per vedere
poi a chi appartiene, e tutte e sei le sorellastre di Zezolla saranno le
prime a prepararsi alla prova; nella favola di Perrault Cenerentola
perde la scarpina di cristallo, che il principe raccoglie…. E l’epilogo
di entrambe le favole sarà il medesimo.
Ma la grossa differenza fra le due storie sta nel fatto che Perrault
non avrebbe mai fatto di Cenerentola, tanto meno con una certa disinvoltura, un’assassina e infatti così all’inizio la descrive, nella traduzione di Carlo Lorenzini, che con lo pseudonimo di Collodi scrisse
”Pinocchio”: <<…una figlia, ma di una dolcezza e di una bontà da
non farsene un’idea; e in questo tirava dalla sua mamma la quale era
stata la più buona donna del mondo>>.
Una fiaba di Cenerentola fu scritta anche dai fratelli Grimm, ma c’è
stato anche un melodramma musicato da Gioacchino Rossini.
Pure Italo Calvino scrisse una Cenerentola, una fiaba che sentì raccontare a Palermo e la intitolò “Gràttula Beddattula”.
Se dovessi aver dato l’impressione di avere mosso una critica in
qualche modo severa a Giambattista Basile, mi dispiace e me ne scuso, perché non era proprio mia intenzione; ho semplicemente voluto
evidenziare il fatto di come epoche, ambienti, culture e caratteri differenti non possono che dare vita a espressività artistiche diverse.
La grandezza di Basile non è in discussione e proprio a lui darò la
parola facendovi ascoltare, se lo leggerete ad alta voce, uno straordinario prologo di una sua favola dal titolo “Cagliuso”: in questo caso
la favola assomiglia molto, ma non arriverò fino a quel punto in cui
la faccenda diventa palese, a quella più famosa de “IL gatto con gli
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Stivali”, anche questa di Perrault, ma pure di altri autori.
Dalla traduzione di Ruggero Guarini.
C’era una volta nella città di Napoli mia un vecchio pezzente pezzente, il quale era così spoglio, sbrico, sgramo (misero e avvilito),
grande, leggero e senza il becco di un baiocco in bocca, (senza un
soldo), che andava nudo come il pidocchio. Essendo giunto allo
scotolamento dei sacchi (l’imminenza della morte) della vita, chiamò
Oratiello e Pippo, (svista per Cagliuso), figli suoi, dicendo: <<Già
sono stato citato, sopra il tenore dello strumento (strumento è il documento con valore di atto legale), per il debito che ho con la Natura; e
credetemi (se siete cristiani) che proverei un gusto grande a uscire da
‘sto Mandracchio (zona prossima del molo di Napoli) di affanni, da
‘sta galera di travagli, se non fosse che vi lascio rovinati, grandi
come Santa Chiara (patrona dei pezzenti; <<grande>> in questo
contesto significa “povero”), alle cinque vie di melito (zona frequentata da accattoni) e senza una maglia (moneta di poco valore), netti
come un bacile di barbiere, lesti come sergenti, asciutti come osso di
prugna (richiami alla povertà assoluta), giacché ne avete quanto ne
porta sul piede una mosca, e se correte cento miglia non vi cade un
picciolo, poiché la sorte mia mi ha ridotto dove i tre cani cacano (indicazione di grande miseria); che non ho che la vita, e come mi vedi
così puoi scrivere di me, che sempre come sapete ho fatto sbadigli e
crocette (per fame, sbadigli, e per scongiurare gli spiriti del male,
crocette), e mi sono coricato senza candela. Con tutto questo, pure
voglio alla morte mia lasciare qualche segno d’amore; perciò tu Oratiello, che sei il primogenito mio, pigliati quel crivello (setaccio) che
sta appeso al muro, con cui puoi guadagnarti il pane; e tu, che sei il
cacanido, (ultimo del nido, ultimo nato – termine di vari dialetti; in
Veneto, per es., “scaganiàl’), pigliati la gatta, e ricordatevi del tata
(espressione affettuosa per babbo) vostro>>. Così dicendo scoppiò a
piangere, e poco dopo disse Addio che è notte! (diede l’addio al
mondo dei vivi).
Avevo iniziato il capitolo accennando al fatto che a causa dei moderni mezzi di comunicazione l’opera dei cantastorie, che in buona
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sostanza erano stati i cronisti del passato, poteva considerarsi conclusa. Un tempo giravano per città e paesi e narravano vicende spesso
reali, tratte dalla cronaca, ma talora la fantasia galoppava e allora,
pure partendo da un canovaccio reale, ci ricamavano attorno e finiva
che inventavano anche storie fantastiche e perdute nei tempi e immedesimandosi nei ruoli dei personaggi davano prova di attori consumati. Se riportavano notizie della cronaca recente, le narravano con
facile parlata, rotta all’uso del mestiere, che sgorgava sciolta e catturava. Da bimbo feci in tempo a sentirne qualcuno, (venivano il venerdì che era il giorno del mercato), e ne restavo affascinato.
Talora recitavano in versi, talora cantavano accompagnati da qualche strumento, a volte supportavano i racconti aiutati da cartelloni,
con quadretti di scene dipinte, con la sequenza visiva dei fatti, narrati
per “stazioni”, come quelle della via crucis nelle chiese.
Alcuni di costoro erano specializzati per temi, per tempi storici, per
regioni e fra questi ci metterei anche i pupari e i burattinai; altri erano
più eclettici e spaziavano ampi per fatti e tempi e luoghi.
È ovvio che oggi una tale stretta funzione informativa è superata,
anzi lo è da decenni e in effetti i cantastorie, così come i muli o i cavalli, (in verità per loro c’è stato un rilancio ad altra funzione) e anche i buoi, sembravano essere scomparsi. Ma si erano solo un poco
defilati, tirati in disparte, che passava il progresso tecnologico che
“sparava” le notizie a raffica, come una mitraglia, e queste ti entravano da un orecchio e ti uscivano immediatamente dall’altro, perché
non c’era il tempo di elaborarle e fuori c’erano subito quelle nuove
pronte a entrare. Ma la macchina informativa non è più possibile
fermarla e nemmeno lo si vorrebbe fare. Il guaio è che spesso ci trasmette del buono e anche del marcio, a volte mischiati, e capita che si
faccia fatica a discernere.
Allora non è un caso se, come diceva quello scrittore in una sua
fortunata serie, “talora ritornano”. Ci si era disfatti di loro troppo in
fretta, senza ragionare, convinti che ormai avremmo potuto farne a
meno. Sbagliavamo e questi educati gruppi di schive e timide persone stanno tornando, in punta di piedi, con discrezione, senza grancassa, perché hanno capito che c’era ancora bisogno di loro e loro sono
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pronte. E si scopre di trovarsi dentro a un mondo formato da artisti
entusiasti, dall’eclettismo insospettabile, non più dei meri diffusori di
cronaca. Hanno dovuto “evolversi”, affinarsi, diventare non solo attori, suonatori, marionettisti, mimi, acrobati, ma anche poeti e filosofi del teatro di strada. Sanno raccontare le storie, le vicende e i fatti
del mondo in modo che questi non passino addosso agli uomini come
acqua sulla pietra dura, ma li aiutano a elaborare, a capire, a crescere,
alla moda degli antichi filosofi. Ma bisogna che anche gli uomini reimparino a concedersi e a concedergli un po’ più di tempo per starli a
ascoltare. Uno di questi artisti, poeta, filosofo, traduttore, giornalista,
drammaturgo, teatrante, marionettista, artista da strada, è Guido
Ceronetti.
Dall’ultimo dei suoi libri “Le ballate dell’angelo ferito”, stampato
da Bertoncello Artigrafiche – Cittadella, 2009, prendo una sua “ballata” che narra una vicenda passata da secoli e che tutti un po’, ma
solo un po’ conoscono, perché fece cronaca e in verità fu anche ripresa in seguito da nomi non da poco: Stendhal, Dumas, Shelly, Nicolini, Guerrazzi e Corrado Ricci ( e dopo di lui altri) che nel 1923 ne
fece la ricostruzione storica probabilmente più esatta. Una vicenda
nota, quindi, ma che pochi raccontano, perché in questo paese, di
questi tempi, certe cose pare non stia bene dirle.
Naturalmente Ceronetti dice anche di fatti e di argomenti del nostro
tempo, ma ora andiamo indietro di qualche secolo.
Supplizio della gentilissima Beatrice Cenci sulla piazza di ponte
San’Angelo in Roma, 10 settembre 1519.
Oggi la fanno in quarti corriamo a vederla!
Corri buon popolo, il palco è là che attende.
Tra poco udremo le salmodie, la parricida
Avanza con le croci, in cenerine bende.
Si segnano le donne, si canta e si grida
Nel torvo carcere di Tor di Nona
Gentile artista tal Guido Reni
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Dalle guardie è introdotto nella cella.
Beatrice nel mastello si è lavata
Ha i capelli bagnati, glieli avvolge
Guido in un panno candido a turbante
Dice il pittore: - Perché l’hai fatto?
Per dare a me il tuo volto mai ritratto?
- Guido ella risponde mesta e fissa,
Dovrebbe Roma fare lunga festa
E benedire il cielo
Avendo io a tal mostro fenduta la testa.
Imprigionata da lui alla Petrella
Mia madre e io meditammo il riscatto
E il mio lebbroso padre Francesco
Maledetto tra i Cenci, dai suoi delitti
Di scellerato fu preso al laccio. –
Beatrice ci guarda e splende nel ritratto.
Ecco l’osceno padre nell’istante
Di fare oltraggio alla figlia riluttante
A tavola aggredirla in erezione
Inseguirla di notte in luna piena
Belva bramosa di tenera cena
E Beatrice che grida insanguinata
L’odono immobili le volpi e i gufi
Scappa è ripresa la denuda il bruto
Gode ai suoi pianti di sverginata
Oh bellezza infelice di Beatrice
Tu a noi strappi con le lacrime il perdono
Ma del papa Clemente la clemenza
È un barlume che muore. Morte sentenzia
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Vieni creator spiritus si leva
Dalla lugubre fila fino a Ponte.
Prima tocca a Lucrezia, poi la figlia
Pone sul ceppo la rasata testa.
La tua colpa, innocente, fu che nata
Fosti nei Cenci, schiatta sciagurata
Deponemmo al Granicolo in San Pietro
In Montorio la forma tua troncata
Ma a pregar sul marmo che la copre
Voi venturi pietosi non venite
Le sue gentili ossa sono sparite.
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Libro 15°
STORIA DI UN COLONIALISTA ANOMALO
Come ho avuto modo di dire anche in altre occasioni, tutti coloro
che scorrendo la storia hanno poi inteso parlarne, non hanno mai
potuto evitare di dire di invasioni, occupazioni, guerre e conquiste, si
da far parere che proprio gli atti cruenti che l’hanno caratterizzata
siano stati lo scheletro portante dell’intero edificio. La storia ovviamente è stata anche molto altro e altro sarà, ma è indubbio che fasi
salienti di essa sono state caratterizzate da episodi di violenza e laddove questa nella storia è stata maggiore e più lungamente esercitata
là lo storico in maniera maggiore si è soffermato, quasi attratto dal
magnetismo che esercitava. Forse a volerla in qualche modo esorcizzare? Non so dare una risposta, ma ciò che so è che il suo compito è
raccontarla.
Anche il colonialismo è stato un periodo, (qualcuno ha detto parentesi), storico del quale già un poco in questo mio lavoro ho detto, per
esempio del fatto che praticamente tutte le nazioni dell’Europa occidentale ne sono state coinvolte avendolo praticato o esercitato, dopo
di che hanno teso se non a dimenticarlo, che non era possibile, a relegarlo ai margini della propria storia. È quindi evidente che non fu
una “parentesi” esaltante, una impresa di cui menare vanto, una “medaglia” da esibire, un momento e un ricordo da commemorare.
Ma pure non togliendo a nessuno la patente di colonialista, con i risvolti per lo più negativi che questo sostantivo ha simbolizzato, devo
dire che non tutti i colonialisti furono della stessa “pasta”. Se dico
questo è perché nel mio viaggiare fra storie di colonialismo ho finito
per imbattermi in un personaggio certamente particolare, (probabilmente l’eccezione che conferma e rafforza la regola), per come si
pose e agì rispetto a quello che fu il sentire e la coscienza comune del
modo di intendere l’imperialismo sia nella seconda metà del 19° secolo che nella prima metà del 20°.Avrei voluto subito iniziare questo
capitolo unendo il mio piccolo contributo a quello ben più importante
prodotto in Italia, ma soprattutto in Francia, dovuto alla simpatia e
alla stima nei confronti di un uomo che, caso raro se non unico per
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quel tempo, in Africa seppe farsi apprezzare e amare dalle popolazioni locali. Ed è quanto senz’altro farò ma non prima di un doveroso
preambolo chiarificatore su ciò che fu il “pre-colonialismo” e poi il
colonialismo, in particolare quello praticato dal mio paese, in modo
tale che poi il racconto specifico troverà - questo in buona sostanza
il mio intendimento - una collocazione più chiara nel più ampio anche se certamente non completo panorama.
L’intero continente africano, dal Congo all’Etiopia, dall’Algeria al
Sud’Africa, era sempre stato considerato dall’imperialismo europeo
terra di conquista e di razzia, già da molto prima del 19° secolo, dato
che questo ne avava saccheggiate senza remore tutte le risorse via via
scoperte, ivi comprese quelle umane con la “tratta degli schiavi”.
Accadde cioè che tra il sedicesimo e l’inizio del diciannovesimo secolo, secondo calcoli probabilmente arrotondati per difetto, furono
strappati dal “continente nero”, per essere trasportati nel “continente
nuovo” o delle americhe, fra i dodici e i quindici milioni di donne e
uomini, rigorosamente indicati nei quaderni di bordo come “importazioni”, quindi alla stregua di merci e come merci di fatto viaggiarono. Di tutte queste persone, poi, almeno un quinto non sopravvissero
alla traversata atlantica.
Tutto ciò accadde senza che le nazioni cristiane, esportatrici e importatrici, provassero la minima remora o imbarazzo.
Solamente all’inizio del diciannovesimo secolo, grazie alla lotta del
“Movimento abolizionista” si riuscì a imporre che Gran Bretagna ,
1807, e Stati Uniti d’America, 1808, cessassero ufficialmente la tratta dei neri dichiarandola fuorilegge, ma tuttavia questa continuò in
modo indisturbato a essere praticata, chiudendo sulla legge un occhio
e talora anche entrambi, fino a circa la metà del secolo.
D’altro canto su codeste tematiche anche alcuni dei maggiori intellettuali europei che, come diremmo noi oggi, facevano tendenza,
ritenuti al loro tempo “liberali”, qualcuno addirittura “progressista”,
rispetto alle problematiche e ai dibattiti allora aperti sullo schiavismo
e sul colonialismo in generale non palesarono grande sensibilità, anzi
taluni, in particolare francesi, ( rammento che la Francia era reputata nazione aperta e modernista), rispetto alle questioni africane
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brillarono per il loro cinismo e insensatezza. Fra costoro Alexis de
Torqueville, storico e politico di tendenze repubblicane e liberali,
1805 – 1859, il quale rispetto alla questione dell’Algeria, paese
invaso dalla Francia nel 1830, a chi protestava per i metodi brutali di
repressione colà usati, rispondeva scrivendo a più riprese, dal 1840 in
poi, approvando i sistemi, anzi rincarando la dose come è possibile
dedurre da un tratto di un suo scritto dal “Travail sur l’Algerie” del
1841: <<…credo che il diritto di guerra ci autorizzi a devastare il
paese e che dobbiamo farlo distruggendo le messi al momento del
raccolto…>> e il proseguo resta per un tratto ancora su questi toni.
Altri esponenti della cultura di quel tempo usando magari sfumature
meno truculente, nella sostanza la pensavano allo stesso modo: vedi
Victor Hugo nella Conversazione con Bogeaud, in “choses vues”
dello stesso anno, dove lo scrittore giustifica le occupazioni
imperialiste sostenendo: <<E’ la civiltà che avanza sulla barbarie. È
un popolo illuminato che va incontro a un popolo che è nella notte. ( Analoghi discorsi vennero fatti dai gerarchi del regime fascista ai
militari italiani che si imbarcarono per andare a occupare l’Etiopia
nel 1935 – 36) -. Noi siamo i greci del mondo; spetta a noi illuminare
il mondo…>>. Una quarantina abbondante di anni più tardi la mentalità imperialista di certa classe intellettuale ritenuta liberale non era
cambiata e nel 1883 Guy de Maupassant in “Gil Blas” esprimeva il
diritto, fine a sé stesso, anche mancando l’utilità pratica, di razziare e
prendere: prospettava il caso di una città cinese, che se ad esempio
fosse costata la vita di 10.000 soldati francesi questa avrebbe dovuto
essere risarcita con la vita di 50.000 cinesi, pertanto proseguiva:
<<Questa città non ci servirà a nulla. È soltanto una questione di
orgoglio nazionale. Dunque l’onore nazionale che trae soddisfazione
dal furto, dal furto di una città, sarà ancora più grande dopo la morte
di cinquantamila cinesi e diecimila francesi>>. Modesto, si accontentava solamente della proporzione uno a cinque: più tardi sarebbero
arrivati coloro che per ogni loro morto ne avrebbero reclamato dieci
degli altri e ancora che per ogni dente della loro bocca reclamarono
un’intera dentatura di una bocca altrui.
Nella prima metà del ventesimo secolo il pensiero sulla superiorità
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della “razza” bianca rimaneva inattaccato, anzi, con il nazismo questo si sarebbe rafforzato non solo in Germania ma in buona parte
dell’Europa e, per restare in Francia, troviamo ancora Leon Blum.
1872 – 1950, scrittore e politico socialista, il quale pagò pure con la
deportazione in Germania, dal 1943 al 1945, per la sua opposizione
antinazista, ma in fatto di discriminazione razziale sembrava non
avesse fatti del tutto propri i fondamenti del pensiero socialista, (del
resto non fu l’unico), non almeno fino al luglio del 1925, quando su
“Le Populaire” scriveva: <<Amiamo troppo il nostro paese per sconfessare l’espansione del pensiero e della civiltà francese. Accettiamo
il diritto e persino il dovere delle razze superiori di attrarre a sé quelle che non hanno raggiunto lo stesso grado di cultura>>. Forse più
che razzismo puro era maggiormente marcata l’impronta sciovinista,
resta il fatto che Blum parla di “razze superiori”.
A proposito di razze: quando Albert Heinstein dovette lasciare la
Germania a causa delle leggi razziali antiebraiche, il giorno che sbarcò in America chiedendo asilo politico dovette disbrigare le formalità
d’obbligo compilando le varie documentazioni secondo la prassi
legislativa americana vigente. Naturalmente gli venne chiesto nome,
cognome, nazionalità, età, professione, ecc… Alla domanda razza?
Rispose: <<umana!>>.
La “questione algerina” rimase un problema francese anche nel dopoguerra, problema che continuò a macinare rimanendo irrisolto fino
all’indipendenza del paese africano; problema che deflagrò anche
dentro la Francia, nella sua capitale, Parigi, in tutta la sua virulenza il
17 ottobre del 1961. A Parigi, a meno di un anno dall’indipendenza
di Algeri, era stato decretato il coprifuoco per i soli cittadini francesi
di origine algerina: francesi a tutti gli effetti, anche se venivano chiamati “francesi mussulmani d’Algeria”. Costoro, tramite il Front de
Libération National, convocarono una manifestazione per la sera del
17 ottobre per protestare contro un provvedimento razzista che colpiva, discriminandoli, dei cittadini in tutto e per tutto francesi. Per quel
giorno il prefetto di Parigi Maurice Papon mobilitò un enorme apparato poliziesco che aveva il beneaugurante nome di “gardiens de la
paix”, guardiani della pace, ma il loro intendimento era tutt’altro che
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pacificatore.
Il risultato fu che il, questo sì pacifico, corteo venne deliberatamente assalito e il bilancio fu di circa trecento morti fra i manifestanti che
rimasero in parte sul selciato, da dove vennero fatti sparire alla svelta; altri finirono gettati nella Senna già morti o moribondi e vi annegarono; altri ancora morirono nei giorni seguenti sia perché non
riuscirono a superare il trauma delle ferite, sia perché nel frattempo si
era scatenata una feroce caccia all’uomo per eliminare dirigenti del
movimento e eventuali testimoni scampati all’eccidio. Probabilmente
immediatamente dopo il massacro le autorità parigine si resero conto
dell’enorme atto di barbarie che avevano compiuto e si diedero immediatamente da fare per far scomparire le tracce del massacro, quindi venne usato ogni mezzo per far finire tutto nel dimenticatoio.
L’Algeria, con un referendum per l’autodeterminazione, si rese
indipendente il primo luglio del 1962, mentre già nel marzo dello
stesso anno la Francia aveva cessato le operazioni militari repressive
in quel paese.
Appena qualche anno più tardi la maggior parte dei cittadini francesi aveva ( così almeno pareva) cancellato dalla memoria il ricordo
del massacro dei loro concittadini francesi di origine algerina avvenuto a Parigi il 17 ottobre del 1961.
Io mi imbattei nella vicenda leggendo un “giallo” Mondatori, edito
in Italia nel 1996, ma già uscito in Francia nel 1984 per le “Edition
Gallimard”, di Didier Daeninckx, dal titolo (in italiano) “A Futura
Memoria”; libro che ricevette in Francia critiche lusinghiere e diversi
premi. L’indagine, nel romanzo, che in un primo momento non portò
a nulla, prendeva il via dall’ assassinio di un modesto professore di
storia. Assassinio misterioso, avvenuto lo stesso giorno del massacro
degli “algerini”: unica ipotesi plausibile era che probabilmente il
professore era stato involontario testimone dell’eccidio.
Vent’anni dopo, il tempo “presente” dello svolgersi della trama,
anche il figlio del professore, che sta cercando risposte alla morte del
padre, viene trovato morto assassinato a Tolosa. Tutto rimarrebbe
avvolto nel mistero se un caparbio poliziotto con pazienti ricerche
non riuscisse a venire a capo dell’enigma sia trovando un nesso di
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collegamento fra le due morti, sia scoprendo che a distanza di tanti
anni c’erano ancora persone, che ricoprivano anche cariche importanti, coinvolte nei fatti di vent’anni prima, le quali tentavano con
ogni mezzo di mettere a tacere chiunque intendeva riportare alla luce
il massacro e i suoi responsabili.
Dieci anni dopo l’uscita del romanzo in Italia, siamo sul finire del
2006, trovai un articolo sul “Manifesto” di Filippo Del Lucchese, che
riprendeva un dibattito politico aperto in Francia in quel periodo; dibattito tendente a un revisionismo storico, visto in positivo, rispetto
alle responsabilità coloniali francesi in Africa.
Del Lucchese faceva notare, riportando alla luce l’episodio delittuoso, come continuando a nascondere le verità scomode si finisca
per dare completamente ragione all’autore francese del libro sopra citato, quando con una frase estremamente azzeccata, in premessa,
scisse: <<Dimenticando il passato siamo condannati a riviverlo>>.
Nel settembre del 2004 la Commissione Europea toglieva
l’embargo alla Libia e così fecero anche gli Stati Uniti d’America,
revocando le sanzioni a quello che fino a quel momento era considerato, secondo lo specifico elenco stilato dall’amministrazione Bush,
uno dei cosiddetti “stati canaglia”.
In cambio della revoca delle sanzioni venne chiesto alla Libia un
risarcimento per le vittime e per i danni causati nell’attentato aereo di
Lockerbie e inoltre fu pretesa la sottoscrizione di un impegno del
governo di Tripoli di non dotarsi di armamenti di distruzione di massa. Il vice premier italiano del tempo, Gianfranco Fini – oggi presidente della Camera, che visto da questo scorcio del 2009 sembra essere rimasto l’unico uomo di centrodestra a palesare positive sensibilità rispetto ai problemi dei diritti civili, dell’immigrazione e sociali
in genere, pertanto da apprezzare - , volendo forse fare atto di zelo
più di quanto fosse richiesto, inviò una ulteriore richiesta, da presumersi concordata in ambito governativo, al governo libico, consistente in una rivendicazione che nessun paese guidato da persone di buon
senso si sognerebbe mai di fare a un altro paese sovrano senza non
rivelare quel grado di supponenza tipico di chi per forma e struttura
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mentale è uso essere superbo con i deboli e cedevole con i forti; per
non parlare poi di diplomazia o di sensibilità politica, in questo caso
del tutto inesistenti. In cosa consisteva la richiesta? Nella pretesa che
la Libia rinunciasse a un pezzo importante della sua storia laddove
questa avesse offuscato in qualche misura quella del paese richiedente; ma del resto da quel nostro governo sarebbe stato bizzarro potersi
aspettare qualcosa di diverso, dal momento che tale formula era già
diventata nella pratica prassi nazionale, ad esempio sminuendo l’importanza dell’apporto dei partigiani nella conquista della nostra libertà dal nazi-fascismo; o ancora, ad esempio, promuovendo la “giornata del ricordo” affinché non fossero dimenticati gli atti criminali
perpetrati dai partigiani jugoslavi titini, fatti meglio noti come gli eccidi delle foibe, dove molti italiani che vivevano in Istria furono uccisi sommariamente negli anni 1944 – 1945. Intendiamoci, fatti che è
giusto e doveroso ricordare, ma fatti che non possono o meglio non
devono essere disgiunti dagli antefatti che furono la causa di tutto
quello che poi accadde. E allora vanno ascritti alla memoria anche gli
anni che in un percorso a ritroso, 1944 – 1922, ma anche precedenti,
offrono la chiave di lettura dell’intera vicenda, a partire cioè da quel
periodo che questo governo avrebbe voluto volentieri cancellare dalla memoria e quindi dalla storia del nostro paese, trovando acritici
consensi dalla sua parte, e questo era scontato ma, purtroppo, per
malafede, ignoranza o finta amnesia, consensi quasi dogmatici da
una parte dell’opposizione, più altri consensi più o meno tiepidi di
un’altra parte di questa per imbarazzante e ingiustificabile ritrosia
che ebbe la meglio sulla pretesa del rispetto storico.
Ebbene questi venti e più anni che corrisposero, guarda caso,
sostanzialmente al periodo del regime fascista e poi anche razzista,
furono gli anni in cui i fascisti italiani, in particolare le famigerate
“camicie nere” si distinsero per ferocia nell’operare rastrellamenti di
donne, uomini, vecchi e bambini nei villaggi istriani sloveni e croati:
tutte persone che furono poi avviate ai campi di prigionia. Molti di
costoro furono fucilati sommariamente a gruppi e i corpi fatti sparire
in fosse comuni; molti altri furono infoibati, cioè gettati, talora ancora vivi, nelle cavità carsiche. Perché va rammentato a tutti, in modo
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particolare a coloro che amano la condotta delle tre scimmie, che furono i fascisti italiani i primi a inaugurare e usare per anni questo macabro sistema di eliminazione dei cosiddetti nemici politici. Le popolazioni istriane furono terrorizzate e spesso costrette a lasciare i loro
villaggi che furono distrutti e dati alle fiamme a decine. Tutto questo
perché le genti dei territori slavi occupati e inglobati nell’Italia, dopo
la guerra del 1915 / ’18, non accettavano una italianizzazione forzata
che il governo fascista volle imporre con metodi brutali non tenendo
conto della cultura e delle esigenze locali. Tutto ciò a partire dal rogo
del teatro sloveno - che si trovava nel centro di Trieste – nel 1920 ad
opera delle squadre fasciste: <<…che dopo aver cosparso di benzina
quelle mura aristocratiche, danzavano come selvaggi attorno al grande rogo>>, Boris Pahor in “Necropoli”, Fasi editore. Naturalmente
tutti episodi che risultano ampiamente documentati per chi volesse
prendersi la briga di andarsi a documentare e andarli a accertare. E va
ricordato poi che la vendetta titina, che si sfogò purtroppo anche su
molti innocenti, colpì pure degli autentici criminali fascisti che furono per anni assassini impuniti e infoibatori; alcuni addirittura vantarono pubblicamente i loro crimini come se questi fossero state delle
gesta eroiche.
Questo va chiarito non certo per giustificare, giacché la vendetta è
tutt’altro che giustizia ed è quindi in ogni caso condannabile; ma c’è
da chiedersi se sarebbe accaduto tutto ciò se gli italiani si fossero
comportati umanamente in Istria.
Allora se la storia va ricordata, va ricordata per intero e con essa è
doveroso farci i conti, non scordando alcun addendo, altrimenti non
solo non tornano le somme ma nemmeno questa ci sarà stata maestra
dato che se sarà stata di proposito stravolta finirà per creare nuove
incomprensioni e rancori dai quali non potranno germinare che ulteriori mostri. È curioso che ogni volta che lo Stato sloveno solleva
queste questioni, c’è sempre qualcuno del nostro governo che invece
che dire al paese vicino: “va bene,discutiamone”, approfittando del
maggiore peso politico e economico del nostro paese scatta in piedi
sbraitando indignato, come se da oltre frontiera si stesse compiendo
un reato di lesa maestà, minacciando rotture diplomatiche.
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Per tale motivo mi permetto di fare un invito a non accettare ogni
notizia per buona, queste mie per cominciare e propongo di indagare,
verificare, approfondire. Sembra essre purtroppo questa una delle debolezze congenite di noi italiani, ma probabilmente non solo di noi, o
di una parte di questo popolo italico più facilmente vulnerabile, individuabile fra quanti non essendo capaci di essere gestori e artefici in
maniera soddisfacente del proprio essere hanno bisogno dell’ausilio
dell’uomo forte o della “provvidenza”, che faccia loro da faro e da
guida e naturalmente, come poi regolarmente avviene, sappia vendere bene l’aria fritta spacciandola per polpette succose e sostanziose:
se poi le cose dovessero andare storte sarebbe anche più facile scaricargli addosso tutte le responsabilità.
Anche sapere e tacere è immorale, ma per fortuna sono anche molti
gli italiani a non stare al gioco truccato.
Ma torniamo alle vicende libiche per rispondere a cosa chiese il
nostro buon ministro alla Libia. Semplicemente che venisse tolta dal
loro calendario la celebrazione del “Giorno della Vendetta”, riferendosi a quel 24 ottobre del 1911, che fu invece per noi il giorno della
vergogna. Fu come se uno stato estero ci avesse chiesto di togliere
dal nostro calendario la celebrazione del 25 aprile, festa della liberazione dal nazifascismo. Ma, al di là di richieste extranazionali, è
possibile che una tale idea sia balenata in testa a più di un esponente
del suddetto nostro governo dato che già alcuni suoi membri di spicco brillarono a suo tempo, come del resto anche oggi, per la loro latitanza nelle ricorrenze dell’evento, salvo poi, quando il governo cambiò e qualcuno di costoro si rifece vivo alla celebrazione prendendosi
la sua meritata dose di fischi, lagnarsi perché, disse, “il 25 aprile era
la festa di tutti”.
Ora vediamo cosa accadde quel 24 ottobre del 1911. Il 3 ottobre il
governo presieduto da Giovanni Giolitti, cui le avventure italiane nel
Corno d’Africa non avevano insegnato nulla e pertanto sempre preso
dall’anelito di far diventare l’Italia grande potenza coloniale, ( in
realtà vi erano motivi esterni e interni: il primo perché si era venuta a
creare una competizione con la Francia per il controllo delle sponde
mediterranee africane, il secondo per tenere tranquilla una destra
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parlamentare recalcitrante), si imbarcò nell’avventura libica e come
primo atto inviò un ultimatum alla Turchia, che occupava la Libia,
intimandole di sloggiare dal paese che a quel tempo si chiamava Tripolitania. Al rifiuto opposto dai turchi Giolitti fece sbarcare sulle
coste cirenaiche e tripolitane 100.000 uomini al comando del generale Caneva. Il 23 dello stesso mese le truppe turche, alle quali si erano
aggregati i rinforzi dei partigiani libici, i quali evidentemente temevano di più il nuovo aspirante padrone di quello che già avevano,
intercettarono le truppe italiane che il giorno dopo, il 24, vennero
battute a Sciara Sciat. La sconfitta fu netta, ma in sé non eccessivamente pesante dal momento che i morti italiani forono solamente
alcune centinaia, per la precisione 503 fra bersaglieri e alpini, di cui
482 soldati e graduati e 21 ufficiali. Ma l’esercito sbandò e non seppe
reagire ed è da ciò che venne l’onta.
Il capo del governo,Giolitti, da molti ricordato in seguito come uno
dei padri della patria moderna, in quel momento non se ne dimostrò
degno perché perduto il sangue freddo, arrabbiato e specialmente
sorpreso, dato che forse si attendeva che tripolitani e cirenaici accogliessero gli italiani come liberatori, ordinò la repressione più spietata, senza riserve. Iniziarono così pesanti rastrellamenti di popolazioni
civili la cui composizione era formata in larga misura da vecchi,
donne e bambini, anche in tenerissima età, mentre il grosso degli
uomini abili a combattere era fuggito per unirsi all’esercito turco o
per entrare nella clandestinità e nella resistenza. La prova che il
rastrellamento era stato largamente preventivato stava nel fatto che
già il 29 ottobre, vale a dire solo qualche giorno dopo la sconfitta,
sbarcarono sulle isole italiane Tremiti, al largo del Gargano, e su
Ustica, 2975 di questi infelici che erano stati stivati come bestie su
alcune navi , senza che nei loro confronti venisse mai mossa nessuna
imputazione, che del resto non poteva esserci, a giustificazione dell’
esodo forzato. Ad ogni modo entro il 31 del mese i deportati libici in
Italia superavano le 4.000 unità e nell’anno successivo ne arrivarono
degli altri, ma la documentazione relativa al loro numero e dislocazione sembra sia andata smarrita, o fu fatta scomparire. Informazioni
più precise si sono invece potute avere sui cittadini libici, in modo
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particolare della Cirenaica che furono internati in patria nei 13 campi
di concentramento dislocati maggiormente nelle zone della Sirte e a
sud di Bengasi, ma questo accadde negli anni dal 1929 al 1933. Furono i primi lager inaugurati nel 20° secolo, allestiti su idea del generale Badoglio il quale, accertato che i suoi sistemi antiguerriglia non
davano soddisfacenti risultati, pensò bene di rinchiudere nei campi di
concentramento una corposa fetta della popolazione della Cirenaica.
Accadde così che dei circa 100.000 internati 40.000 morirono di
stenti, di fame, di dissenteria e di altre malattie e a causa delle pressochè inesistenti condizioni igieniche, nonché fucilati sommariamente allorquando singoli o gruppi, esasperati, protestavano per questo
inumano trattamento.
In Italia la popolazione civile era rigidamente tenuta all’oscuro di
quanto accadeva in Libia: lo fu durante il periodo fascista ma lo fu
sostanzialmente anche dopo il 1945 quando la democrazia avrebbe
potuto consentire di liberarsi di questo fardello riprovevole, giacché
la verità storica e l’ammissione degli errori è utile proprio perché non
abbiano a ripetersi. E invece accadde che furono decisamente pochi
gli storici che ebbero il coraggio e l’onestà di raccontare ciò che di
esecrabile successe e non solo alle popolazioni libiche ma anche a
quelle etiopi al tempo del regime coloniale nel Corno d’Africa.
Ma torniamo alla fine del 1911: fino dal loro arrivo sulle isole Tremiti molti dei deportati, perché debilitati dai metodi brutali della
cattura, dal disagio del viaggio e dalla insufficiente alimentazione,
cominciarono a deperire, ad ammalarsi e a morire per dissenteria,
malattie infettive, fame e maltrattamenti e venivano seppelliti in fretta in fosse comuni.
Unico lodevole riconoscimento alla loro memoria è stata la commemorazione avvenuta il 29 ottobre del 2007, stesso giorno ma 96
anni dopo lo sbarco forzato di quegli innocenti, su iniziativa del sindaco delle Tremiti, Giovanni Calabrese, il quale fino dall’anno prima
aveva fatto raccogliere i poveri resti ancora reperibili, (circa 400), di
quegli infelici, dandogli una dignitosa sepoltura e quindi, con una
cerimonia pubblica, per lo più ignorata dai media, ricordandoli e riconoscendo loro quell’onore dovuto e per tanto tempo negato: poco
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anche se meglio di niente, mai però bastante a nettare le coscienze di
chi queste vicende le ha sempre volute tenere nascoste. Ma non si
tratta nemmeno di coscienza: si tratta di quella brutta malattia della
quale l’uomo soffre non per il pentimento indotto dal rimorso per una
sua cattiva azione compiuta, ma per non saper reggere alla vergogna
quando lo stesso, che si passava per integerrimo, viene scoperto essere l’autore dell’azione: quindi falsa coscienza e falso onore.
Circa un anno dopo il primo sbarco, 18 ottobre 1912, la Libia era
presa. Poi accadde che poco prima della nostra entrata nella prima
guerra mondiale la riperdemmo a causa della sconfitta del 29 aprile
del 1915, a Gasr bu Hadi, subita dal colonnello Miami, sconfitta che
fece mormorare tra i denti il ministro delle colonie Ferdinando
Martini, presenti pochi intimi: <<peggio di Adua>>.
La “riconquista” della Libia cominciò poco dopo la fine della guerra, già all’inizio del 1919, ma lo sforzo maggiore per la sua “normalizzazione” fu fatto fra il 1922 e il 1932 da Benito Mussolini che non
risparmiò a quel paese le atrocità peggiori, che furono poi ripetute
nella campagna di Etiopia nel 1935 / 36. Il campione delle nefandezze compiute in Libia e poi in Etiopia fu quel generale Rodolfo
Graziani che i libici soprannominarono “il macellaio degli arabi”. A
tale proposito e per volerne sapere di più è sufficiente consultare gli
scritti del nostro Angelo Del Boca, il più importante e scrupoloso ricercatore e storico italiano sui temi del nostro colonialismo, in verità
assai poco amato da un buon numero di autorità politiche del dopoguerra più interessate a mantenere il mito, ad arte costruito, del buon
colonizzatore italiano: è pacifico che nelle colonie ci furono anche
delle brave persone e probabilmente non poche, ma era l’imperialismo e la logica che lo muoveva a essere sbagliato e si sa, da un male
manifesto, per quanto lo si voglia dissimulare e rivoltare, assai difficilmente se ne ricaverà un bene.
Ma proseguiamo negli anni dell’occupazione raccontati da colui
che, come ho detto, sfrondando gli orpelli retorici ha inteso andare
contro la conformista corrente della storiografia di regime ma anche
contro chi, più tardi, ha inteso considerare la soria del periodo coloniale una fastidiosa parentesi secondaria poco rilevante e pertanto, in
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maniera piuttosto retorica e un poco vigliacca ha in qualche misura
tentato di rimuoverla. Così non ha fatto questo egregio signore e in
verità anche altri in questi ultimi anni, al quale dovremmo essere grati e che, come ho detto, risponde al nome di Angelo del Boca.
Questo particolare raccontoche segue proviene da uno dei suoi ultimi lavori, un libro del 2007, edito da Baldini Castaldi Dalai, tradotto
in diverse lingue, compreso l’arabo, dal titolo “A un passo dalla forca”. lo spunto per questa opera gli fu fornito dall’avvocato libico
Anwar Fekini, nipote di uno dei capi della resistenza libica Mohamed
Fekini. Anwar conoscendo di fama Del Boca e sapendo della sua
onestà intellettuale e del suo rigore di storico, lo contattò offrendogli
i diari del nonno affinché lo storico li usasse nel modo che meglio
avesse ritenuto. Da questi diari è nato il libro sopra citato.
Innanzitutto va ricordato che le vittime libiche causate dall’occupazione coloniale italiana furono non meno di 100.000, un numero
rilevante quindi, ma la cifra assume un suo valore “più” assoluto se si
considera che fra gli anni 1911 e 1912 la popolazione di quel paese,
secondo i censimenti degli occupanti, ammontava ad appena 800.000
persone: ciò significa che una persona su otto perse la vita a causa
dell’occupazione. Oggi i libici sono poco più di sei milioni. Se poi
volessimo considerare il numero complessivo delle vittime dovute al
nostro colonialismo in Africa queste, secondo fonti tendenti a minimizzarle, avrebbero superato di non molto le 500.000 unità, altre
fonti invece parlano di circa 800.000.
Era l’anno 1922 e abbiamo ricordato che la prima occupazione libica durò circa quattro anni scarsi; poi tornammo nel 1919, ma la
riconquista ci costò quasi quindici anni di sforzi a causa di una resistenza fortissima, alla quale rispondemmo nel modo più brutale possibile: distruzioni e incendi di villaggi e di raccolti agricoli, deportazioni di popolazioni e fucilazioni di massa. Furono costruiti i
campi di concentramento ubicati nelle zone più impervie e desertiche, dove vennero stipati 100.000 prigionieri deportati da varie regioni, ma in particolare dalla Marmarica, ai confini con l’Egitto, e fatti
camminare per più di mille chilometri e chi non era più in grado di
seguire la colonna veniva soppresso sul posto; di ciò che accadeva
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nei campi ho già detto e anche del fatto che nulla trapelò in patria.
Il generale Graziani incaricato dal governo del duce di trasferire i
Berberi sul Gebel – un rilievo montuoso non superiore ai 700 metri,
nei pressi della costa, caratterizzato da terrazzamenti degradanti verso il mare e esteso grosso modo da Bengasi fino al golfo di Bomba –
si tovò impossibilitato alla manovra perché fortemente ostacolato
dalla resistenza della zona al comando della quale c’era Mohamed
Fekini, lo stesso comandante che aveva sconfitto gli italiani undici
anni prima a Sciara Sciat.
Fekini non aveva sempre fatto il militare e infatti prima dell’occupazione era stato prefetto al tempo in cui nel paese c’erano i Turchi
Ottomani. Graziani invece era un militare di carriera, un tipo piuttosto rozzo e scarso di sapere, però esperto di faccende militari e comprese subito che, avendo bisogno di una pausa per prendere tempo in
attesa di rinforzi, era opportuno chiedere una tregua, che gli fu concessa. Decise inoltre di di aprire col suo nemico uno scambio epistolare, forse per dare uno scopo al tempo o per tentare di comprendere
la mentalità dell’avversario che egli probabilmente immaginava fosse
piuttosto primitivo e incolto.
Le lettere che i due comandanti si scambiarono durante gli otto /
nove giorni di tregua risultarono essere dei documenti interessanti
soprattutto perché rivelatori del carattere e del livello culturale di
entrambi gli scriventi. Da quelle dell’italiano ne usciva la figura di
un militare grezzo e questo traspariva anche dai suoi banali errori
grammaticali; da quello libico ne usciva una persona capace di scrivere in bello stile, raffinata, abituata all’uso di citazioni coraniche,
ma non mancavano nemmeno i riferimenti letterali classici che
denotavano la personalità di un uomo colto e assieme assennato. Un
giorno Graziani, che aveva compreso di trovarsi a confronto con un
uomo che culturalmente lo surclassava, assieme alla lettera gli inviò
un aereo che bombardò e distrusse la casa di Fakini e questi gli
rispose con una tale disarmante pacatezza da diventare provocatoria e
infatti fece schiumare di rabbia il generale: <<Ho ricevuto con la lettera anche le sue bombe, questo non è lo stile delle persone civili..>>,
poi la missiva continuava su analogo tono dicendo che lo scrivente e
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coloro che difendevano il proprio paese non avevano timore perché
erano veri uomini, mentre coloro che compivano simili azioni nei
momenti di tregua concordata non potevano definirsi così. Infatti chi
chiese la tregua, perché in difficoltà, poi non la rispettò, mentre chi la
concesse, potendo negarla, fu di parola. Ma come si sa, i tempi della
cavalleria, se mai esistettero, erano ormai tramontati. Questo non vero uomo, d’altro canto, fu colui che a causa delle sue azioni barbare
compiute in quel paese, fu poi battezzato il macellaio degli arabi e
queste esperienze libiche gli servirono in seguito per distinguersi nei
massacri compiuti in Etiopia, della quale ottenne il titolo di vicerè.
Fu questo invidiabile curriculum a spianargli la strada per ricevere
poi l’incarico da Mussolini del ministero della guerra della Repubblica di Salò.
A proposito di bombardamenti aerei c’e da dire che gli italiani furono probabilmente i primi a sperimentarli e infatti dopo che in Libia
nel 1911 vennero per la prima volta impiegati aerei come ricognitori,
l’anno successivo, prima della presa del paese, furono attuati i primi
rudimentali bombardamenti con bombe da due chili lanciate a mano
dall’osservatore che stava a bordo con il pilota.
Quanto all’impiego dei gas asfissianti, questi non vennero usati
solo in Etiopia, ma furono collaudati contro le popolazioni libiche e a
testimoniarlo esiste un preciso rapporto del generale Ciconnetti sugli
effetti dell’iprite e del fosgene e sulle conseguenze che provocava
sulla gente la “morte che veniva dall’aria”.
Abbiamo poco fa parlato dell’Etiopia e a tale proposito sul trattamento usato contro questo paese fanno riscontro le aspre polemiche
fra Indro Montanelli che, quale giovane ufficiale dislocato in Etiopia
nel 1936, negò categoricamente l’uso dei gas da parte italiana e
Angelo Del Boca che, testimonianze e documenti alla mano, sosteneva il contrario. Alla fine Montanelli dovette dargli ragione. A dare
più forza alla sue affermazioni, nel 1969 Del Boca svelò, facendo
pubblicare la notizia su “Il Giorno”, l’esistenza dei 120 telegrammi
di Mussolini fra i quali il duce ordinava l’impiego dei gas: Mussolini
aveva addirittura minacciato il ricorso alla guerra batteriologica, ma
Graziani si dichiarò contrario, non certo per scrupoli umanitari, ma
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perché sollevò dubbi circa la capacità di controllo nell’uso di una simile arma e temeva inoltre ostili reazioni internazionali. Gli aerei italiani sganciarono sulle popolazioni etiopi bombe che contenevano
ognuna 200 litri di iprite, le quali aprendosi ad una altezza calcolata,
lasciavano cadere al suolo una pioggia micidiale che investendo sia i
civili che i combattenti li faceva morire fra spasmi atroci .
Nella guerra di Etiopia e Eritrea, dove per cancellare l’onta di
Adua, “umanità” divenne una parola bandita dal dizionario, facemmo
un numero di morti vicino ai 700.000 fra quelle popolazioni che ebbero il solo “torto” di vivere in una terra che doveva a ogni costo diventare il nostro impero, verso il quale l’Italia fascista, bontà sua, si
disse investita del nobile fine di portare anche fra quelle genti “barbare” la civiltà; non la democrazia, naturalmente, che non c’era nemmeno da noi; però avendola poi ottenuta e non certo grazie a quei
campioni di civiltà, ci siamo ancora una volta autonominati, assieme
agli “amici” Blear e Bush junior, portatori di democrazia, demandandoci il compito di esportarla con i ben noti metodi usati in Iraq.
Per fortuna che poi, nonostante che dai governi di questi “signori” si
spergiurasse il contrario, si comprese (ci voleva tanto?) che l’obbiettivo vero non era questo e, come fece Zapatero, ma con molti più se e
molti più ma, ce ne siamo andati anche noi. Nella realtà stiamo
ancora impantanati nella guerra afgana, dove nessuno parla più delle
povere donne di quel paese escluse dall’istruzione e dalla vita sociale
e costrette a portare il burka e dove nessuno accenna più alle piantagioni rigogliose dei papaveri da oppio, che foraggiano con i loro proventi la resistenza talebana. Ci raccontano che stiamo combattendo il
terrorismo. Non sarà invece che lo stiamo alimentando?
Tornando al nostro colonialismo ritengo che le nefandezze diligentemente rimosse, anzi cancellate, alla fin fine probabilmente hanno
risolto “all’italiana”, o meglio aggirato il problema evitando il confronto con le “serene” coscienze di questo nostro bel paese che si
culla nella celebrazione delle proprie virtù cristiane, domestiche,
civili, democratiche, umane, garantiste, tolleranti, xenofile, con tutto
quello che ciò dovrebbe significare, tant’è che se “per caso” dalla
Commissione Europea arriva una critica severa verso il modo in cui
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legiferiamo nei confronti degli immigrati, ( la legge sul reato di clandestinità), reagiamo (il ministro competente) stupiti e indignati, dato
che è arcinoto che da noi un lavoratore straniero ha grandi facilità di
ottenere i permessi di soggiorno, se non ha documenti non sta per
lungo tempo nei centri di raccolta o accoglienza, (leggi lager), ha
estrema facilità a integrarsi perché viene favorito nel suo percorso,
dato che non è vero che il ministro ha proposto scuole separate per i
bambini extracomunitari (qualcuno anche posti separati nei bus cittadini), mentre è vero che un adulto immigrato dopo un certo numero
di anni può andare a votare e gli viene anche concessa la cittadinanza, inoltre non è affatto vero che dal governo sono arrivate proposte
per la schedatura dei bambini rom, non fa differenza se italiani o
stranieri ( e poi qualcuno dice che non siamo democratici). E facciamo tutto questo perché abbiamo ben chiaro nella memoria che fino a
non molto fa siamo stati anche noi emigranti, per cui memori di quel
tempo facciamo tutto, ma proprio tutto, per favorire l’integrazione.
Comunque, siccome affermiamo di essere tutti, o quasi tutti, dei buoni cristiani – Erasmo da Rotterdam, per esempio, non era d’accordo e
già ai suoi tempi ci definiva un popolo di atei – dovremmo possedere
per virtù innata quel minimo di solidarietà in più, almeno verso quei
paesi o popoli che come il nostro sono cristiani; ma questo fattore nel
1935 / 36 non ci fermò, del resto quando mai è stato di ostacolo o di
remora per un paese cristiano il fatto che un altro paese che questo
intendeva aggredire fosse stato come il suo cristiano?
L’Etiopia è infatti il paese africano, dopo quelli della fascia mediterranea, che sono poi diventati mussulmani, a più antica penetrazione cristiana, tanto che questa religione cominciò a diffondersi in quel
paese a partire dall’anno 320, durante il regno di Ezana, per opera di
San Frumenzio che diventò il primo vescovo d’Etiopia. Da allora la
chiesa etiope ebbe a difendersi per secoli dalla penetrazione di altre
fedi e nel corso di varie guerre, le più strenue delle quali quelle sostenute contro l’islam, che non riuscì a imporsi, se non a intervalli.
Le sue antiche credenze cristiane si rafforzarono ulteriormente con
le nuove conversioni operate fra il 1607 e il 1632 dai missionari cattolici al seguito dei portoghesi, che tentarono, non si sa con quali
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metodi e con quali esiti, di riportare all’ortodossia la chiesa d’Etiopia
in odore di eresia, in quanto questa disputava sul rapporto fra l’umanità e la divinità di Gesù Cristo.
E l’argomento religioso ci porta a questo ultimo fatto della guerra
coloniale italiana. A Dabre Libanos, la città etiope delle chiese, il generale Graziani fece fucilare 500 religiosi che avevano avuto il torto
e l’ardire di predire e predicare la rapida e ingloriosa fine dell’impero
mussolinan-sabaudo, come poi di fatto in poco tempo avvenne.
Citai poco sopra Indro Montanelli e questo mi ha fatto rammentare
un altro aspetto del colonialismo legato al regime fascista e alle leggi
razziali e precisamente al famoso “Manifesto della razza” o “Manifesto degli scienziati razzisti” del 1938, che colpì non solo i cittadini
italiani “non ariani” e dato che, secondo codesti scienziati, ingaggiati
dal regime, che avevano sposato le tesi sostenute in alcuni dibattiti
antropologici “orientalisti” di fine ottocento, teorizzanti una “razza
italica”: per costoro gli italici erano, come altre popolazioni nord europee, di origine ariana, vale a dire di provenienza indiana o indoeuropea. Questo fatto sempre secondo costoro escludeva gli ebrei e, naturalmente, gli africani , in questo caso delle colonie, ai quali non era
concesso lo status di cittadini italiani ma solo di sudditi coloniali. Le
prime attivazioni della legislazione razzista furono addirittura precedenti di un anno il “Manifesto razzista”e con decreto regio trovarono
immediata applicazione nelle colonie africane, in particolare in
Etiopia dove fu proibito agli italiani, militari e civili, di intrecciare
relazioni stabili con donne africane e tanto meno di contrarre con
esse matrimoni, invalidando gli eventuali già celebrati. Fu anche ordinato di disconoscere i figli nati da relazioni con donne africane. In
definitiva di operare una netta separazione fra colonizzatori e
colonizzati al fine di difendere il prestigio e la “purezza” della razza
italica. Oggi ci tocca purtroppo constatare che, nell’indifferenza, o
assuefazione, o rassegnazione quasi generale, suscitata da una martellante campagna che semina diffidenza e paura verso gli stranieri
poveri che nel nostro paese cercano un avvenire migliore per loro e
le loro famiglie, c’è chi il “Manifesto razziale” del ’38 non disdegnerebbe riesumarlo per difendere, ad esempio, la purezza della “razza
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padana”, o come dalle mie parti, della “razza piave”. Ma, come il
venticello della famosa aria rossiniana, miasmi razzisti e xenofobi
sembrano essersi diffusi contaminando un cero numero di uomini e
donne un po’ in tutta la penisola.
In verità Hannah Arendt, la grande filosofa ebrea tedesca, allieva di
Heidegger e Jaspers, nel suo più famoso libro “La banalità del male”,
a proposito delle leggi razziali ha fatto dell’Italia il ritratto di un paese fra i meno razzisti d’Europa nel periodo tra la fine della prima e la
fine della seconda guerra mondiale, dicendo che se in Italia ci furono
le leggi razziali queste non vennero fatte perché il paese , che pure
era fascista, ne sentisse il bisogno, ma per accontentare il dittatore
tedesco Hitler che insisteva col governo italiano, e anche con i governi di mezza Europa, affinché queste si facessero. Ha aggiunto poi che
nel nostro paese queste leggi non furono applicate con rigore (noi
diciamo all’italiana e stavolta fu un bene) e a provarlo stava il fatto
che la maggioranza degli ebrei italiani si salvò dallo sterminio. Sicuramente in altri paesi la sorte degli ebrei e di altre minoranze, ad
esempio zingari e oppositori, fu certamente più tragica che in Italia,
resta però il fatto che anche da noi le leggi razziali furono promulgate e poi applicate e molti a causa di queste patirono e morirono.
Anche Montanelli quindi, come molti altri militari o civili che avevano allacciato unioni matrimoniali, questo il suo caso, o relazioni
pseudo-coniugali o di concubinato, se ne tornò in Italia abbandonando la sua sposa africana al proprio destino.
Dato che come ebbi già a dire, mi reputo uno spirito semplice, non
mi so capacitare in base a quali criteri scientifici fu stabilito, da quei
famosi scienziati ingaggiati dal regime, che i popoli della cosiddetta
razza ariana erano di provenienza indiana o indoeuropea, un fatto che
poteva anche ipoteticamente darsi; senochè l’antropologia e la storiografia della seconda metà del 20° secolo hanno demolito e smitizzato
vecchie credenze basate più su supposizioni di carattere metafisico
che su fatti concreti accertati. La seconda cosa che mi è ostica, data
forse la mia architettura mentale, è il comprendere perché mai genti
provenienti da un eventuale cantone del globo piuttosto che da un altro, sarebbero dovute essere portatrici di caratteri e valori “superiori”,
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che poi sarebbero stati quelli del nazismo. Resta il fatto, assodato, i
dati paleo-antropologici e storici possono comunque sempre essere
modificati, essere il genere umano, che è unico, nel senso di uno solo, una sola razza, originario dell’Africa: Etiopia; Kenia, Tanzania,
Sud Africa; perciò l’unica cosa che con una certa sicurezza potremmo dire è che siamo tutti africani.
P. S. Allo scopo di non ingenerare equivoci vorrei anche precisare
che le farneticanti teorie sulla cosiddetta razza “superiore” ariana non
hanno alcuna attinenza con quella che fu la corrente religiosa cristiana diffusasi a partire dalla seconda metà avanzata del quarto secolo
per opera dell’”eretico” Ario, che trovò discepoli fra i cristiani dell’
Oriente e fra le popolazioni gotiche (alcune tribù del popolo visigoto)
dell’impero d’Oriente come pure fra le popolazioni longobarde che
conobbero quella religione dopo il loro penultimo spostamento (l’ultimo fu in Italia) attorno alle rive del lago Balaton.
Il fatto che questi ultimi popoli avessero origini nord europee, germanico-baltico-scandinave, non significa che fra i due “arianesimi”
vi sia stato un qualche legame, nesso o riferimento, se non di mera
coincidenza lessicale se entrambi in ben precisati e determinati
periodi storici, (1600 anni di distanza), si definirono ariani: i primi,
cristiani, seguaci di Ario, che discettando sulla divinità di Gesù
gliene riconoscevano una minore rispetto al Padre; i secondi seguaci
di Hitler, che presupponendo una certa origine etnica e geografica, si
reputavano “razza superiore” rispetto al resto del genere umano.
Ma torniamo alla Libia dove, come è noto, l’Italia sconfitta dagli
inglesi perse anche questa colonia nel gennaio del 1943. Nel 1970 il
colonnello Gheddafi, con una legge del 21 luglio, confiscò i beni degli italiani rimasti nel paese i quali, con decreto aggiuntivo, vennero
espulsi dalla Libia. Probabilmente a quasi trent’anni dalla perdita
della colonia quel provvedimento apparve eccessivo, tanto più che
gli italiani rimasti si erano in qualche misura integrati e rappresentavano inoltre più una risorsa che un problema. I colpevoli di nefandezze verso il popolo libico non erano certo rimasti nel paese. La
spiegazione del drastico provvedimento andrebbe ricercata allora nel
fatto che assai probabilmente quell’atto di espulsione fu una risposta
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ritorsiva al fatto che nei rapporti fra Libia e Italia gravava il contenzioso, non ancora chiuso, sulle responsabilità morali e materiali
italiane dell’occupazione coloniale. Solamente alla fine di agosto del
2008 è stato raggiunto un accordo, da presumersi definitivo, siglato
a Bengasi, capoluogo della Cirenaica, (anche il luogo, simbolico, non
è stato scelto a caso), fra il leader del governo libico Gheddafi e
quello del governo italiano Berlusconi. Nell’accordo l’Italia, assieme
alle scuse ufficiali per gli anni del colonialismo, si impegna a versare
alla Libia, a titolo risarcitorio, cinque miliardi di dollari in rate da
250 milioni l’anno per vent’anni. Si impegna poi a costruire un
ospedale a proprie spese e a costruire l’autostrada costiera che dovrà
collegare i confini della Tunisia con quelli dell’Egitto, nella pratica
attraversare tutto il paese da ovest a est. Sarà effettuata inoltre la restituzione di reperti artistici archeologici trafugati durante l’occupazione, come la Venere di Cirene, copia romana di un originale greco,
scoperta dagli archeologi italiani nel 1913 e portata a Roma: Berlusconi l’ha portata con sé in Libia come a fargli da testimone alla sigla
dell’accordo. Già nel 1999 Massimo D’Alema aveva riportato a
Tripoli l’altra stupenda Venere di Leptis Magna, del secondo secolo,
rubata dal gerarca fascista Italo Balbo, che ne fece dono al collega
nazista Göring. Altre questioni ritenute collaterali, ma pure importanti, riguardavano il risarcimento ai superstiti delle repressioni compiute dagli occupanti fascisti, la ricostruzione storica della vicenda relativa alla deportazione degli oltre 4.000 cittadini libici nelle isole
Favignana e Ustica, lo sminamento del territorio, seminato di mine
dall’esercito italiano in ritirata prima della sconfitta, in particolare
della Cirenaica dove ancora oggi persone continuano a rimanere
vittime degli scoppi. L’accordo parla di impegni reciproci e qui entra
in ballo la ricchezza data dal petrolio e dal gas naturale che si trova
nel paese che a suo tempo noi battezzammo “scatolone di sabbia” e
che fino a qualche anno fa era uno degli “stati canaglia”. Ora è corteggiato da tutti i grandi paesi industrializzati, America in primis. Ma
anche l’Italia fa la sua parte se pensiamo che solo nel primo quadrimestre del 2008 l’ENI ha estratto in Libia idrocarburi (gas e petrolio)
per oltre 5 miliardi di euro e ha contratti per i prossimi 35 anni. Fra le
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questioni “collaterali” non è stata dimenticata la richiesta italiana alla
Libia relativa alla restituzione o risarcimento dei beni confiscati ai
cittadini italiani , circa 20.000 persone espulse fra l’estate e l’autunno
del 1970: su questo contenzioso le diplomazie dei due paesi hanno
concordato di mettersi al lavoro per trovare un accordo che possa
soddisfare entrambe le parti.
Nel giugno del 2009 Gheddafi è stato in visita ufficiale in Italia, si
presume anche per mettere a punto le questioni rimaste sospese. Il
protocollo prevedeva anche un incontro col presidente della Camera,
Gianfranco Fini, che come si sa non si è svolto: Fini ha atteso l’ospite libico per quasi tre ore, dopo di che ha annunciato, contrariato, che
l’incontro non ci sarebbe più stato. L’indomani Gheddafi si è scusato
per il mancato appuntamento, lamentando un malore. Lungi dal sottoscritto voler fare della dietrologia, ma il sospetto che Gheddafi non
si sia presentato di proposito è più che legittimo: probabilmente,
secondo il leader libico, motivi per questo suo comportamento esistevano. E ancora lungi dal voler prendere le parti di Gheddafi che, va
ricordato, è un dittatore feroce e assoluto che nega la libertà alla sua
gente, (con tutto quello che ciò significa e comporta), la sua mancanza di diplomazia, o per essere più precisi, il suo sgarbo nei confronti
di Fini poteva benissimo essere ricondotto, (visto il carattere del personaggio e il suo reiterato ricordarci che fummo aggressori del suo
popolo), a quella richiesta che il presidente della Camera, allora
minstro degli esteri, fece alla Libia riguardo alla cancellazione della
loro festa nazionale, ma forse anche al passato politico del nostro
presidente della Camera rimembrante quel truce colonialismo fascista che fra i libici rammenta ancora cupi ricordi.
Infine, per chiudere questa esposizione sul colonialismo italiano,
restiamo in Libia per raccontare ancora un fatto che una volta di più
mostra quale fu il volto e la condotta dell’imperialismo nostrano nel
rapporto con la dissidenza e con l’opposizione e la resistenza delle
popolazioni libiche alla colonizzazione. Mi riferisco all’ignobile e
inutile impiccagione del vecchio leader della resistenza libica Omar
el Mukhatar, avvenuta a Soluch il 6 settembre del 1931. Il regime
avrebbe potuto compiere un gesto di conciliazione salvando la vita al
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vecchio combattente, volle invece dare un esempio di fermezza fascista. Fu viceversa un gesto di barbarie gratuita che creò un martire da
allora ricordato dal popolo libico come il simbolo della resistenza
anticolonialista. Omar el Mukhatar è stato proclamato dai libici loro
eroe nazionale. Da questa vicenda è stato tratto il film “Il leone del
deserto”, distribuito in tutta Europa, ma in Italia non fu mai proiettato (salvo, pare, una volta alla T.V. nazionale in orario notturno) dato
che avrebbe potuto intaccare la retorica immagine dell’italiano buon
colonizzatore. La foto che Gheddafi portava appuntata sul petto,
quando scese dall’aereo in Italia per la sua visita ufficiale, mostrava
l’episodio della cattura di Omar circondato dai capocce fascisti e il
vecchietto malfermo sulle gambe, vestito di bianco, che sulla passerella lo seguiva a fatica e che tutti si domandarono chi fosse, era il
figlio dell’eroe libico della resistenza.
A ben vedere tutti i tentativi di fare dell’Italia un paese colonialista
non sono mai approdati in alcunché di positivo, compresa la non finora citata impresa in Albania, anche questa finita con la sconfitta
del mio paese nella seconda guerra mondiale. Tuttavia, proprio perché con queste vicende il paese non ha mai inteso fare i conti fino in
fondo, queste non paiono poi avere insegnato molto, specialmente al
grosso del nostro ceto politico (era logico; matematico) e d’altronde
se nello scrivere la storia si usano le categorie del patriottismo retorico, delle omissioni scientemente volute, quando addirittura del falso
storico, non si possono trarre che conclusioni ingannevoli e di conseguenza insegnamenti errati.
Oggi ufficialmente non esistono più colonie europee in Africa, di
fatto però l’Europa, gli Stati Uniti d’America e ora, pesantemente,
anche la Cina, continuano a praticare nel continente africano un modello surrettizio di colonialismo, dove cambia solo la forma, che è
meno appariscente, meno apertamente invasiva, non intervenendo
come un tempo in maniera diretta, ma fomentando tensioni o scontri
e talora anche operando a sopirli se vi è la convenienza: scontri etnici
e tribali all’interno dei singoli stati o fra stati vicini, in modo che l’instabilità politica e sociale che ne risulta continui a favorire i potentati economici esterni, i loro referenti politici e le industrie belliche.
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Le conseguenze di tali politiche di indebite ingerenze fanno si che
mani straniere continuino ad appropriarsi delle risorse naturali africane a bassissimi costi, tuttavia, poi, i consumatori occidentali e anche
orientali le pagheranno comunque a prezzi decuplicati perché le grosse lobbies e i cartelli commerciali non faranno sconti nemmeno ai
cittadini dei propri paesi.
In queste guerre di “bassa intensità”, ma non per questo poco cruente, dato che vengono ad arte continuamente alimentate, è risaputo
come vengano spesso impiegati come combattenti soldati bambini i
quali vengono strappati alle famiglie e costretti, col ricatto dello sterminio dei loro familiari, a compiere azioni indicibili in nazioni come
la Sierra Leone, i Congo, la Nigeria e altri paesi dove sono forti gli
interessi per i giacimenti metalliferi, o diamantiferi, o petroliferi e
altro. Ad esempio nel Congo, (Kinshsa), le più importanti miniere di
quella nazione sono di proprietà della Compagnia Generale delle
Miniere, che è belga: il Belgio quindi, pure avendo concesso al Congo l’indipendenza nel 1960, mantiene nel paese un grande potere e
grossi interessi economici.
La Nigeria, stato di 145 milioni di abitanti, è invece ricchissima di
petrolio, ma nonostante questa sua risorsa è oberata da un debito, dati
2006, di cinque miliardi di dollari con il Fondo Monetario Internazionale, (Club di Parigi). Sempre nel medesimo paese i danni arrecati al
territorio dalle compagnie petrolifere, in particolare dalla Shell, sono
ingentissimi, perché le norme di salvaguardia del territorio sono pressoché inesistenti e, o, comunque ignorate. Il disastro economico che
ha condotto la Nigeria a un così rilevante debito è maturato in seguito all’accordo stipulato col F.M.I. dopo il fallimento del radicale piano di privatizzazioni del patrimonio statale del paese, praticamente
imposto ma, affinché il tutto risultasse politically correct, si disse
“suggerito” dalla Banca Mondiale già responsabile in vari paesi del
mondo di altri disastrosi “suggerimenti” del genere. Il secondo motivo di questa crisi economica fu poi la scelta del doppio sistema di
cambio della valuta nazionale, la moira, la quale andò sempre più
perdendo di valore.
Se ci fosse bisogno di ulteriori riscontri del fatto che le grandi
370
potenze economiche,USA, Europa e Cina, sono impegnate in Africa
in quello che lo scrittore americano Kevin Philips ha battezzato col
nome di “Imperialismo petrolifero”, basterebbe guardare alla creazione dell’amministrazione del governo di Gerge W Bush dell’organismo “Africom”, inizio 2007, interamente sotto controllo militare, che
con il pretesto della lotta al terrorismo, che ormai fa da premessa a
ogni piano d’azione militare estera, è inserito in praticamente tutti i
paesi africani in cui esistono fonti petrolifere, come la Nigeria, il Camerum, le due repubbliche del Congo, l’Angola, l’Algeria, la Libia,
il Gabon, la Guinea Equatoriale, e il Corno d’Africa. Col pretesto di
sovrintendere agli aiuti umanitari di opere pubbliche indispensabili e
di proteggere i suddetti paesi dal terrorismo, l’Africom ha in mira,
anche promuovendo la vendita di armamenti al paese referente e fornendo consulenze militari, di assicurarsi il controllo delle zone petrolifere dei diversi paesi citati e di altri nuovi eventuali. Un solo dato è
sufficiente a svelare e “giustificare” l’impiego sempre più massiccio
delle forze militari in quel continente che, a detta del Dipartimento
dell’Energia, possiede il 10% delle risorse petrolifere rimanenti nel
globo. Fra gli anni 2000 e 2007 le importazioni USA di petrolio
dall’Africa sono passate dagli 1,6 milioni di barili annui ai 2,7 e le
previsioni sono di ulteriori aumenti.
Analoghi sistemi di penetrazione (armamenti e alimenti) in Africa
sono praticati ultimamente dalla Cina, anche se è meno chiaro fino
ad ora, ma il saperlo non fa grande differenza, quali siano gli organismi cinesi operativi.
Quanto poi agli aiuti concreti, disinteressati e effettivi dei paesi ricchi nei confronti del continente africano, questi come sappiamo, al di
la delle false promesse, sono andati di anno in anno costantemente
diminuendo.
La riunione che i G. 8 hanno tenuto la seconda settimana di luglio
del 2009 in Italia, a L’Aquila, città terremotata – l’incontro degli
otto grandi della terra, nella città, doveva simboleggiare la loro solidarietà e la sua rapida ricostruzione – nel constatare quanto poco stia
facendo il mondo ricco nei confronti dell’Africa, (gli aiuti, specie italiani, sono vicini allo zero), hanno ribadito le promesse a fare di più.
371
Ulteriore lavacro di coscienze sporche che si è aggiunto alla serie di
lavacri precedenti.
Questa la relativamente lunga premessa inerente alla storia del colonialismo, in particolare italiano, storia, come si è potuto constatare,
decisamente desolante e quindi certamente proprio per questo motivo
accuratamente accantonata e a tal punto accantonata da farci scordare
perfino quei rari episodi che avrebbero potuto non dico riscattare, che
è certamente troppo, ma almeno renderci edotti del fatto che non tutto il colonialismo nostrano mostrò il volto della rapina, della vanagloria, dell’arroganza e del bieco razzismo. Chiaramente continuerò
a parlare di colonialismo, ma racconterò una storia per molti aspetti
anche diversa, storia di un “colonialista” particolare, storia differente
e anomala rispetto al classico cliché dell’espansionismo imperialista
europeo del diciannovesimo secolo, storia di un uomo che pure
rientrando nell’attribuzione lessicale tipica del colonialista, nei fatti
non ebbe alcuna, o quasi, delle classiche caratteristiche del modus vivendi comune invece a tutti i colonialisti del suo tempo.
L’anomalo personaggio in questione si chiamava Pietro Savorgnan
di Brazzà, del quale nel 2005 ricorreva il centenario della morte.
Apparteneva a un ramo di una delle più importanti e antiche casate
feudali friulane che, secondo le fonti storiche più accreditate, era originaria dalla Moravia – regione che con la Boemia forma oggi lo Stato ceco – anche se gli antenati del nostro si attribuivano una discendenza risalente all’imperatore Settimio Severo, ma si sa essere stata
una costante dei casati nobililiari attribuirsi origini antichissime e, o,
fantasiose. La famiglia, il cui nome in origine era Cipronesi o Cipriani, venne investita nel 1254, dal patriarca di Aquileia, del feudo di
Savorgnan, nelle vicinanze di Udine, la città che nella prima metà del
secolo successivo diventò capitale, dopo che il patriarca Bertrand de
Saint Genis ebbe spostato là la capitale dall’antica ma periferica
Aquileia alla più centrale Udine.
Il primo Cipronesi infeudato di quella località fu Adolfo o Corrado,
che cambiò il proprio nome di casata con quello del feudo che gli era
stato concesso e già nel 1260 la famiglia col nome di Savorgnan fu
iscritta alla cittadinanza udinese. Da allora si contarono numerosi i
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discendenti che le diedero lustro: nel 1262 Francesco Savorgnan, signore d’Istria, fu creato, dall’imperatore Carlo 4°, conte palatino,
cioè accreditato alla corte imperiale o di palazzo, (da palatium) e la
famiglia, che si divise in più rami, continuò a essere una delle più
influenti protagoniste della politica e della storia del Friuli, ma anche
della Repubblica di Venezia.
Uno di questi rami fu quello dei Savorgnan di Brazzà, località presso Moruzzo nella provincia di Udine, dove sorge tuttora un castello
piuttosto imponente, che però pare non essere stato della famiglia,
che invece ne possedeva uno vicino a questo che venne distrutto dalle truppe austro-ungariche e tedesche durante la loro ritirata nel 1918.
Saltiamo qualche secolo, dato che non ci interessa ora tutta la storia
della famiglia, e approdiamo nell’Ottocento dove troviamo i Savorgnan di Brazzà stabilmente insediati a Roma, non ancora capitale
d’Italia. Pure mantenendo intatti i suoi possedimenti friulani la famiglia abitava ora dalle parti di Castel Sant’Angelo dove il conte
Ascanio, che possedeva in quei pressi una grande villa, svolgeva le
funzioni di ispettore delle Belle Arti di Roma, quindi alle dirette dipendenze di quello che allora era il papa re dello Stato Pontificio.
Qui, nel 1852 nacque Pietro, che ebbe, nel 1859, un fratello di nome
Giacomo il quale seguì poi le sue orme.
Italiani entrambi quindi, ma entrambi chiesero e ottennero in seguito la cittadinanza francese: forse non del tutto estraneo a questa decisione il fatto che avendo perso il papa lo Stato, ( la famosa battaglia
della breccia di Porta Pia del 20 settembre del 1870), anche altri suoi
referenti persero talune loro cariche; tuttavia le decisioni di Pietro
parvero di altra natura e in seguito le diremo, mentre per quelle del
fratello Giacomo influì certamente una forte componente emulativa.
Pietro, la cui famiglia era molto facoltosa, aveva compiuto i suoi
studi a Parigi e essendo egli dotato di uno spirito curioso, avventuroso e vivace, chiese di essere ammesso all’accademia navale francese,
la quale cosa gli era però preclusa essendo egli un cittadino di origine
straniera e le leggi non permettevano che la marina si servisse di ufficiali non francesi. Avendo però egli in patria potenti aderenze pensò
bene di sfruttarle e infatti intervenendo il padre presso il pontefice,
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ottenne che ogni ostacolo venisse appianato e così il giovane e ricco
aristocratico italiano, nell’ottenere la cittadinanza francese e il permesso di ingaggio nella marina militare, modificò pure il suo nome
in Pierre Savorgnan de Brazza e presto si ritrovò guardiamarina della
regia marina francese, grado col quale si arruolò volontario nel 1870
nella guerra che in quell’anno scoppiò contro la Prussia, odierna Germania. Questa campagna, sia pure di breve durata, gli permise di
mettersi in luce e gli diede notorietà non meno di quanta gliene aveva
procurata il suo conto patrimoniale.
La guerra fu clamorosamente perduta. L’unica battaglia vinta fu
quella guidata da Garibaldi con la sua armata dei Vosgi, zeppa di volontari italiani, alla presa di Digione, 21 / 23 gennaio 1871. il 29 fu
firmato un armistizio e Garibaldi cominciò a ritirarsi dal fronte: ne
approfittarono i germanici, con forze preponderanti, per assalirlo e
tentarne la cattura: erano “incazzatissimi” perché il nizzardo era
riuscito a impadronirsi della bandiera del 61° reggimento Pomerania,
unica bandiera persa in tutta la guerra dalla Prussia: erano al contempo ammirati da quest’uomo non più giovane che tormentato
dall’atrosi si reggeva in piedi a fatica e poche volte montò a cavallo.
Anche Garibaldi di questi nemici disse: <<L’attacco fu formidabile:
io vidi in quel giorno soldati nemici, come mai avevo veduto migliori>>. Non riuscirono a catturarlo. Poco dopo fu firmata la pace.
Ma lasciamo quello dei due mondi e torniamo al nosro “eroe”, che,
conclusa la pace con la Prussia, si trovò spianata la strada per la sua
prima missione in Africa, che tuttavia gli lasciò in bocca l’amaro
sapore della delusione se non del disgusto in quanto lui, che pure era
stato volontario, per patriottismo e per gratitudine verso un paese che
lo aveva accolto, in un conflitto appena concluso, possedeva nella
sostanza uno spirito umanitario particolarmente spiccato e senza dubbio un carattere tendente al pacifismo e in Africa comprese solo “in
corso d’opera” le modalità autentiche della missione che, nella nuda
crudezza, fu quella di reprimere una rivolta di Cabili in Algeria alla
maniera spiccia e brutale del colonialismo del tempo, che consisteva
soprattutto nel dare voce alle carabine. Non era un atto di guerra contro un nemico alla pari, era un atto repressivo contro popolazioni
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pressochè disarmate. Questo episodio lo segnò profondamente lasciandolgli una cicatrice e una macchia probabilmente mai del tutto
cancellata nella vita.
Rientrato in Francia già nel novembre di quell’anno subito si adoperò per un suo ritorno in Africa e contando soprattutto sulle sue
risorse finanziarie riuscì ad allestire una spedizione che lo avrebbe
portato, in compagnia del suo fedele aiutante e amico, il senegalese
Malamine, all’esplorazione di ampie zone del Centro Africa, dove
avventuratosi fra intricate e fitte foreste, risalendo numerosi fiumi e
superando cascate e rapide, servendosi a tale scopo di battelli smontabili, esplorò terre prima mai raggiunte da nessun europeo.
Il maggiore di questi fiumi era l’Ogooué, di 1170 Km. , che egli,
partendo dalla foce sulle coste del Gabon, risalì esplorando anche
alcuni suoi affluenti, fino alle sorgenti che si trovavano nel Congo,
paese che egli esplorò sistematicamente in maniera scientifica, nel
corso di tre spedizioni succedutesi negli anni 1875, 1880 e 1887. alla
conclusione della sua seconda spedizione, grazie soprattutto al suo
modo, unico a quel tempo, di interessarsi sia delle usanze che dei
problemi delle popolazioni locali, si guadagnò la stima e l’amicizia
di numerosi capi tribù e questo fatto gli permise di porre, senza alcun
problema, il paese sotto il protettorato francese, siglando un accordo
con il re di quello stato Makoko, che egli indusse alla firma senza
usare la persuasione dei fucili, ma solo la diplomazia.
Per non rischiare di generare confusione voglio precisare che sto
parlando del più piccolo Congo, ex francese, che oggi si chiama Repubblica Popolare del Congo, lo stato occidentale di 342.000 chilometri quadrati, un poco più grande dell’Italia, diviso per la parte
maggiore della sua lunghezza dal fiume Congo o Zaire, 4374 Km,
dall’altro paese con lo stesso nome, di 2.345.000 chilometri quadrati,
quasi otto volte l’italia, ex Congo Belga, poi Zaire dalla dittatura di
Mobutu e ora nuovamente Congo, (orientale), ovvero Repubblica
Democratica del Congo, con capitale Kinshasa.
Anche il fratello di Pietro, Giacomo, 1859 – 1888, il quale, ancorché nella sua breve vita, si fece apprezzare come esperto naturalista,
ottenne la cittadinanza francese e anche lui corresse il proprio nome
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in Jaques Savorgnan de Brazza. Giacomo, raggiunta l’Africa Equatoriale, si unì a un altro esploratore italiano che si chiamava Attilio
Pecile, 1865 – 1931, anch’egli friulano come i Savorgnan, nativo di
Fagagna , Udine. Il giovane Savorgnan, contagiato dalle gesta e dalla
fama del fratello maggiore, fuggì da casa per raggiungerlo in Africa.
Una volta giuntovi si unì con il Pecile e assieme compirono l’esplorazione di un’ampia regione a nord-nord-est del fiume Ogooué e nel
corso di quel viaggio riuscirono ad arricchiesi di un grande numero
di informazioni e appunti comprendenti classificazioni etnografiche
corredate da una grande quantità di materiale relativo ai costumi e
alle usanze delle popolazioni locali. Ebbero inoltre il modo di studiare e catalogare numerosissimi campioni di nuove varietà sia botaniche che zoologiche.
Accadde però che nel corso di queste esplorazioni, che mettevano a
dura prova anche i fisici più temprati, il giovane Jaques fu colpito da
forti febbri infettive, trasmesse con ogni probabilità da insetti portatori di malattie contagiose, a quel tempo difficili da curare e queste lo
condussero alla morte all’età di soli 29 anni.
È anche probabile che il fratello maggiore Pietro in qualche misura
possa essersi sentito responsabile della morte di Giacomo per avergli
trasmesso la passione per l’Africa, ma nella realtà ogni occidentale
che si avventurava in quelle regioni aveva grandi probabilità di rimanere vittima di numerosi inconvenienti fisici.
Pietro, spirito curioso e eclettico, oltre che esploratore fu anche
ottimo ricercatore scientifico, antropologo e geografo, inoltre, come
dicemmo, non possedeva quel carattere arrivista, truculento e spiccio
tipico della maggior parte degli esploratori al servizio del colonialismo di quell’epoca, carattere che forse gli sarebbe venuto utile non
tanto nei confronti o nei rapporti delle popolazioni africane, con le
quali si intese benissimo, quanto con quegli dei suoi connazionali
europei. Forse indulse al paternalismo, ma vanno considerati i tempi
e i modi di pensare dell’epoca e, alla fine, pure con tutte le distinzioni del caso, fu anche lui un colonialista, ma particolare o unico nel
suo genere o, come si direbbe oggi, dal volto umano. Ebbe la mentalità e anche l’abilità di trattare usando come unica arma la diplomazia
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e il dialogo e non cedette mai alla scorciatoia delle maniere forti,
sicché riuscì a acquisire fra le popolazioni di tutta la regione esplorata un’ottima reputazione e una sincera amicizia e ammirazione, che
andò via via aumentando quando facendo uso delle proprie finanze
acquistò in diverse occasioni gruppi di schiavi per poi rendere loro la
libertà. In definitiva riuscì, senza sparare un solo colpo di fucile, nella impresa clamorosa e inconcepibile per quei tempi, di fare proprio
un impero che poi donò alla Francia, la quale accettò battezzando
quel territorio Congo Francese.
In questa avventura e sfida gli capitò di contrappori senza remore o
sensi di inferiorità all’altro grande campione dell’esplorazione e del
colonialismo di quel tempo, che come un grande divo, spopolava:
Henry Morton Stanley, 1841 – 1904, col quale non solo fu in competizione per questioni territoriali, ma anche o soprattutto ideologiche.
Stanley, che era nato in Inghilterra, da giovanissimo emigrò in America e ne prese la cittadinanza, ma più tardi, dopo la fama acquisita in
seguito alle sue scoperte, chiese nuovamente la cittadinanza britannica: non indifferente a ciò fu il fatto di aver ricevuto dalla Corona il
titolo di baronetto, al quale evidentemente teneva.
Come è noto Stanley fu colui che nel 1871 ritrovò sulle rive del
lago Tanganica quell’altro grande esploratore del tempo rispondente
al nome di David Livingstone, 1831 – 1873, lo scozzese che aveva
rivelato al mondo Occidentale l’esistenza del lago Niassa e del quale
da due anni si erano perse le tracce. Livingstone, che stava ristabilendosi da una malattia, probabilmente una febbre malarica o qualcosa
di simile, si unì a Stanley e assieme esplorarono le rive settentrionali
del lago Tanganica, poi si separarono. Poco dopo lo scozzese, che
evidentemente non era guarito, moriva, a soli 42 anni, mentre Stanley, dopo le scoperte dei laghi Vittoria, con le cascate omonime,
Alberto e Tanganica, continuò, (puntando sul Congo), a cavalcare la
gloria. L’incarico per questa ennesima impresa gli era stato dato dal
re del Belgio Leopoldo, che divenne poi anche sovrano del Congo
Belga, poi ribattezzato Zaire e ora nuovamente Congo.
Nessuna infatti, o quasi, delle nazioni conquistate dai colonialisti
europei ha mantenuto poi il nome che costoro eventualmente gli
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avevano imposto e lo stesso vale per le città. Una delle pochissime
eccezioni è stato l’ex Congo francese che ha sempre mantenuto il nome, ovviamente levando il “francese” e lo stesso vale per la sua capitale Brazzaville, che non ha sentito il bisogno né provato imbarazzo a
mantenere il nome datole da Pietro Brazzà o Pierre Brazza; in città
anzi è stato costruito un monumento che è diventato il mausoleo di
Pietro Savorgnan di Brazzà, unico esploratore colonialista che gli
africani riuscirono a rispettare, perché anch’egli seppe a sua volta
trattarli con lo stesso rispetto. Un esempio probabilmente unico, che
non trovò purtroppo emuli fra gli altri europei che in quel secolo, ma
anche in quello successivo, misero piede in Africa.
Così oggi abbiamo sulla riva destra del fiume Congo, nel punto in
cui questo esce dalla Stanley pool, ora pool Malebo, (un lago di circa
35 per 25 chilometri, con un’isola al centro, nel quale entra e poi esce
il Congo, circa a 560 chilometri dalla foce), la città sorta sull’antico
centro di Ntamo, battezzata, nel 1880, Brazzaville dall’esploratore
italiano naturalizzato francese, capitale del piccolo Congo, che guarda all’altra città di fronte ad essa, sulla sponda opposta del fiume,
quella sinistra, la metropoli Kinshasa, ex Leopoldville, capitale del
grande Congo.
Quanto alla Francia, quando si vide donare su un vassoio d’argento
un impero da quel bizzarro francese, che proprio francese non era,
accettò naturalmente, che rifiutare non sarebbe stata buona educazione, ma con una punta di imbarazzo, se non di fastidio, dal momento
che quell’impero non se l’era guadagnato né con qualche fucilata né
con almeno un paio di “eroiche” vittime. Poi, con il tempo, si dimenticò sempre più dell’italianità del donatore e allora crebbe per lui
anche l’ammirazione e la simpatia e non si contarono più i libri che
ne celebrarono le gesta. Nel 1939 dell’epopea di Pietro Brazzà si
interessò anche la settima arte e le sue imprese eroiche furono trasferite sullo schermo nel film “Brazza ou l’epoée du Congo”, interpretato da Robert Darne, l’attore fascinoso per antonomasia del cinema
francese di allora. Pare però che, come “Il leone del deserto”, anche
questo film non sia stato molto proiettato in Italia e forse non lo fu
proprio per niente, anche se a dire il vero nella nazione di origine di
378
Pietro, soprattutto per merito di suo nipote Francesco Savorgnan di
Brazzà, furono prese delle iniziative per ricordarne il nome, la più
importante delle quali fu il libro scritto dallo stesso nipote, sotto la
supervisione del ministro delle colonie, (per questo c’è da supporre
che forse la libertà di espressione ebbe a patirne: non si sa mai che
dicesse qualche cosa di sgradito all’Italia), dal titolo “L’uomo che
donò un impero”. Edito da Valsecchi uscì nel 1944: è da presumere
fosse stato ultimato qualche tempo prima, ma doveva sembrare sconveniente in epoca fascista parlare di un italiano, sia pure eroico, che
non solo aveva chiesto la nazionalità di un paese a quel tempo nenico
( l’Italia fascista aveva dichiarato guerra alla Francia e ne aveva occupato una parte del suo territorio meridionale litoraneo. Poi a guerra finita e perduta, l’Italia si dovette ritirare perdendo anche qualche
fetta di territorio nord-occidentale a favore della Francia) ma che gli
aveva pure donato un impero e con quali modalità poi, se solo si pensava agli sforzi e alle pene che dovette patire l’italietta giolittiana e
mussoliniana per conquistarsene uno.
Ad ogni modo a Roma, ultima residenza della famiglia Brazzà, in
tempi recenti, anche su iniziativa dell’ex sindaco Veltroni, è stata intitolata a Pietro una piazzetta nei pressi di Fontana di Trevi e al centenario della sua morte un francobollo commemorativo. Nel paese
originario del ramo della sua famiglia, Madruzzo, in provincia di
Udine, è stato organizzato un convegno in suo nome e gli è stata
dedicata una mostra all’Auditorium di Roma nella quale sono state
percorse tutte le tappe della sua avventurosa e non facile vita. Pare
anche esista un progetto per un film, questa volta prodotto dall’Italia.
Due righe sopra ho detto “non facile vita”; mi si dirà. “era ricco,
fortunato e ebbe modo di soddisfare i suoi sogni e le sue ambizioni,
forse anche al di là di quanto sperava; cosa di più? Tutto vero, ma nel
prosieguo si capirà il perché di quella frase.
La Francia, che all’epoca della donazione lo avrebbe preferito cittadino purosangue, dopo questa sua impresa gli conferì l’incarico di
commissario generale per il Congo, paese nel quale Pietro trascorse
molto tempo dedicandosi a organizzare la colonia e a esplorarla in
maniera scientifica, trascrivendo dati e mappe, confini, rilievi altime-
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trici, foreste, fiumi, città e villaggi; egli infatti si era anche fatto apprezzare come abile cartografo. Viveva una vita serena, in quel paese
nel quale era benvoluto dalla locale popolazione e lui ricambiava il
sentimento. Improvvisamente però l’incarico gli venne revocato e si
parlò di mene e intrighi di concorrenti invidiosi, forse politici corrotti
in combutta con affaristi e mercanti poco onesti che da Parigi, il
centro del potere, approfittando di un periodo in cui Pietro si trovava
ad Algeri per curarsi da una malattia, all’inizio del 1898 lo silurarono. Non ebbero nemmeno il coraggio di comunicargli il provvedimento ufficialmente, almeno nei tempi di protocollo, ed egli apprese
la notizia della sua destituzione da un giornale di Algeri. La cosa gli
procurò un profondissimo dolore.
Morì, si disse di crepacuore, nella capitale del Senegal, Dakar, il 3
ottobre del 1905, dopo aver compiuto un ultimo viaggio in Congo,
paese che egli sentiva ormai come la sua vera patria e che, in questo
suo ultimo viaggio, egli aveva trovato profondamente cambiato e
sconvolto dall’avidità predatoria delle compagnie mercantili.
Sua moglie non smise mai di sostenere che la causa della sua morte
era stata l’avvelenamento complottato da coloro che volevano impedirgli di portare a Parigi le sue denuncie sulla cattiva gestione operata
dagli incaricati del governo nel Congo. Di fatto, l’umanità e la sensibilità di questo uomo fuori da quel tempo e da quel contesto, prestato al colonialismo per la sua fame di conoscenza del mondo, non
poteva reggere il confronto con le pratiche e crude leggi della frode e
della rapina che muovevano le logiche imperialiste di quel tempo.
È da supporre che i suoi rapporti di denuncia siano arrivati a Parigi,
ma è altrettanto supponibile siano finiti sommersi da altre pratiche
senza valore e dimenticati in qualche polveroso scaffale nascosto alla
vista di eventuali funzionari solerti e il fatto che simili comportamenti siano magari comuni anche ad altri paesi, il mio compreso, non
serve a diminuirne la gravità.
Nell’anno 2005, anniversario della morte di Pietro, le sue ceneri
furono richieste dal presidente del Congo Sasso Nguesso, in accordo
con il presidente francese Jaques Chirac: avrebbero dovuto lasciare il
cimitero alle porte di Algeri, dove a suo tempo erano state tumulate,
380
per Brazzaville. Dato però che il monumentale mausoleo, nei pressi
del quale è stato costruito anche un museo, una biblioteca e gli uffici
del ministero della cultura, non era ancora stato ultimato, per non
sottrarre risorse ad altre più urgenti priorità di quel paese che era da
poco uscito da un dilaniante scontro di guerra civile fratricida e pertanto bisognoso di ogni aiuto, si stabilì che non appena l’opera fosse
stata completata i resti mortali di Pietro avrebbero potuto riposare
nella loro definitiva dimora.
L’occasione per la cerimonia è slittata solamente di un anno e a 101
anni di distanza della morte di colui che ottenne gli appellativi di
<<conquistatore pacifico>> e <<liberatore di schiavi>>, il 3 ottobre
del 2006 le ceneri di Pietro Savorgnan di Brazzà e della sua famiglia
hanno trovato finalmente collocazione nel grande mausoleo circolare
di marmo bianco di Carrara, sormontato da una cupola di vetro, nei
pressi del municipio della città che porta il suo nome. Di fronte al
mausoleo, su un piedistallo, la sua statua di bronzo, alta quattro metri, dai margini della sua <<verde Brazzaville>> osserva e respira il
palpitante fluttuare del grande fiume Congo che la separa dall’altra
capitale, l’enorme Kinshasa situata sulla sponda opposta.
È singolare come a più di un secolo dalla sua morte rimanga ancora
viva nei congolesi della Repubblica Popolare l’ammirazione, o meglio, un vero e proprio culto per questo uomo bianco che, proprio per
questa ragione e molte altre ancora, avrebbe potuto legittimamente
risvegliare sentimenti non proprio benevoli; mentre invece la stima
per Pietro Brazzà rimane quella che generalmente un popolo riserva
ai suoi figli migliori. Il presidente Nguesso sapeva che tale cerimonia, molto enfatizzata, sarebbe stata una occasione da non mancare,
giacché rappresentava uno dei punti fermi e sicuri di unità nazionale
di cui il paese aveva e ha grande bisogno.
Sicché abbiamo chiuso in maniera positiva un capitolo di storia
complessa e singolare con le vicende di un uomo anch’egli singolare
e certamente eccezionale che ha appagato il suo segreto desiderio di
riposare per sempre nel suo terzo e più amato paese, anche se siamo
certi che avrebbe preferito una collocazione più modesta, o meglio
ancora. che le sue ceneri fossero state sparse sulla terra a entrare in
381
comunione con il paese che più di tutti aveva amato.
Ma il monumento si è fatto a spese, pare, del governo della Francia, il paese dove di questi tempi si riparla di colonialismo per dire e
scrivere (nascondendo se si può le sue brutture) che in fondo non fu
una cosa del tutto negativa. E tornano utilissime le azioni di un uomo
che si infuriava per lo sfruttamento degli schiavi e li liberava, che
aveva rifiutato l’uso della spada e del fucile e rifuggiva l’imbroglio,
che si era guadagnato la stima e l’amicizia delle popolazioni del Congo, tanto che da queste e dalle mani del loro re Makoko, sovrano dei
Tékés, il 10 settembre del 1880, ricevette nelle sue mani un impero.
382
Libro 16°
CHE COS’E’ IL SACRO
Se a ognuno di noi venisse fatta la domanda : “che cos’è il sacro?”
La risposta nella maggioranza dei casi, suppongo, e pure fra sfumature diverse, automaticamente e quasi per moto d’inerzia sarebbe di
tipo “canonico”, vale a dire all’incirca prestabilita e confezionata secondo il modo mentale ereditato o acquisito per apprendimento fino
dall’età infantile, perciò non congetturata né messa di proposito in
discussione e dunque quella che alla maggior parte delle persone appare più giusta e naturale. Risponderemmo cioè che, oltre a quello
che dal punto di vista laico riteniamo patriottico: patria, eroi, bandiere, monumenti, luoghi, ecc.., dal punto di vista religioso è in buona
sostanza tutto ciò che concerne e sta intorno ai dogmi religiosi delle
fedi. Materia insidiosa quindi, dentro la quale è obbligatorio muoversi con prudenza, come si fosse dentro un campo minato, perché il rischio è quello di calpestare, senza saperlo o volerlo, qualche mina,
(sacralità), che ai nostri occhi di sbadati ignoranti o superficiali può
non apparire tale: materia facilmente “esplosiva” quindi, da maneggiare con cura, giacché è stata talora, e può esserlo ancora, più fonte
di guai di quanto sia stata di benefici.
Delle fedi al plurale si è detto, anche se poi generalmente il credente per convinzione o “obbligo” dogmatico dà al suo culto o al suo
credo personale una sacralità più importante, maggiore, rispetto a
quella che è disposto a dare agli altri. In aggiunta e secondo questa
coerenza essendovi chi, come accade ancora oggi, ad esempio, nel
maggior numero dei paesi islamici, avendo tratto le proprie leggi
dello Stato espressamente e, o direttamente da quelle religiose, in
questo caso coraniche, - partendo dall’assunto che nulla di umano
può essere migliore del divino – arriva per “giusta” logica a concludere essere ugualmente sacro anche tutto il proprio sistema di vita
statale e quindi oltremodo giusto se rispettoso di queste leggi.
Ma forme simili di contaminazione anche se vigenti e operanti in
maniera parziale o in modi certamente meno totalizzanti, prevaricanti e invasivi sono patrimonio, secondo alcuni punti di vista, o
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impacci ostacolanti secondo altri, anche di molte democrazie occidentali i cui stati a-confessionali, riguardo al diritto, contengono nei
loro codici norme specifiche relative alla regolamentazione giuridica
del sacro. Ad esempio il codice penale italiano prevede, fra i delitti
contro il sentimento religioso, le offese alla religione di Stato – e già
il fatto che la religione, pure maggiormente praticata, sia ancora
ritenuta religione di Stato è una contraddizione nei termini in uno
Stato che si autodefinisce laico -.
Tali offese riguardano il vilipendio alle cose formanti oggetto di
culto o consacrate al culto o destinate al suo uso; e ancora sono puniti
i turbamenti di funzioni religiose del culto cattolico compiute con
l’assistenza di ministri del culto. La pena per tali reati arriva alla
reclusione che si applica, sia pure diminuita, anche nel caso di analoghi reati commessi verso altri culti ammessi dallo Stato: ammettendo con ciò, nei fatti, quello che poi viene negato nelle dichiarazioni
d’intento e cioè che il culto maggioritario nel nostro paese sia anche
più sacro degli altri e questo dimostra che si continua a mistificare
male interpretandolo, anche dopo 1700 anni, l’editto di Costantino
che assegnava pari dignità e pari valore a tutte le fedi, per questo
motivo anche il sentir parlare spesso di dialogo fra le fedi richiama a
un’ operazione di tendenziosa mala-fede.
Abbiamo appreso e compreso come il rispetto delle fedi abbia pertanto valenza sia morale – e qui il grado di valenza non potrà che variare da soggetto a soggetto, quindi essere personale – che legislativo
in quanto imposto per legge e viene sanzionato se infranto. Resta il
fatto che questa valenza, pure valutando pesi e misure, finisce inevitabilmente, data questa specie di “imposizione” di tipo morale per
sconfinare in una sorta di “violenza”.
Sarebbe d’obbligo a questo punto chiedersi e tentare di chiarirsi su
che cosa si intenda per sacro e a chi spetti decidere ciò, sapendo che
una volta stabilitolo sarà comunque sempre una forzatura lesiva di
libertà imporlo a chi eventualmente non lo dovesse riconosce come
tale, dato che pare proprio non venga posto il problema dello stabilire
anche se ciò debba o no essere vincolante per tutti senza eccezioni e
quindi se sia lecito che tutti debbano accettare il concetto di sacro,
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siano essi credenti, agnostici o non credenti, concetto che, si dovrebbe ammettere, piuttosto astratto e comunque difficilmente generalizzabile in quanto per ognuno potrebbe significare tutto o molto o poco
o anche assolutamente niente, quand’anche non assuma una valenza
negativa: ad esempio per un ateo il concetto religioso di sacro non
esiste, né ovviamente può essergli imposto. Tuttavia egli, pure non
essendo oggi costretto, grazie alle leggi laiche e democratiche, a partecipare ai riti, alle funzioni o alle cerimonie religiose, è tuttavia “costretto” all’osservanza dei codici civili e penali che gli impongono il
rispetto di ciò che è sacro per gli altri ma non lo è per lui. Rispetto
che comunque è dispostissimo a concedere per dovere civile e se vogliamo morale e per riguardo personale anche se si operasse in mancanza di obblighi legislativi.
Ma proviamo a vedere nel concreto ciò che è o dovrebbe essere inteso come sacro partendo dal criterio originato dalle primitive forme
di religiosità rappresentate ad esempio dall’animismo, forme peraltro
ancora presenti presso talune popolazioni o società arcaiche in alcune
parti del pianeta, forme religiose verso le quali propendeva l’uomo
che cercava risposte ai fenomeni della natura che accadevano intorno
a lui e dei quali non riusciva a dare spiegazioni non essendo ancora
in grado di comprendere i meccanismi che li animavano.
Conseguente e naturale fu l’origine della magia – che trova peraltro
schiere di seguaci anche nel mondo moderno, cosidetto colto e evoluto, nonché in quantità “industriale” fra gli stessi religiosi e credenti –
che si era assunta il compito di interpretare e quindi di cercare di
controllare e dominare tali forze misteriose, dotandosi di un corollario di strumenti costituenti le peculiari forme di ordinamento religioso delle origini. Queste, iniziando dai tabù, venivano integrate dai
porta-fortuna, amuleti, feticci, formule magiche, riti propiziatori e
divinatori, che non di rado, per stabilire i collegamenti con le entità
arcane e superiori, si servivano dell’ausilio di particolari sostanze
“segrete” o “magiche”, permesse all’uso solo agli uomini iniziati al
culto, la cui sacralità si traduceva in potere e il concetto che ne derivò rimase poi immutato. La sacralità poteva e in molti casi anche oggi può essere rappresentata o personificata da fenomeni atmosferici,
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da certuni astri, da corsi d’acqua o sorgenti, da monti o da pietre di
particolare conformazione o forma, da alberi o da certe erbe, da animali e dal loro comportamento, dai sogni e dalla loro interpretazione
e da molto altro ancora.
Tutte cose cui veniva attribuito l’epiteto di sacre e alle quali era
dovuto rispetto e venerazione da parte di tutti, compresi gli scettici,
che pure in tempi antichi esistevano ed erano coloro che o venivano
presi per matti, e talora rispettati perché anche la pazzia era considerata sacra, o condannati, a volte anche a morte, perché il loro anticonformismo diventava un pericolo per il potere: erano solo persone più
intelligenti o sensibili della media che amavano ragionare con la
propria testa e che non convinti della “sacralità” ufficiale non l’accettavano come parte del loro bagaglio culturale; ma rispetto a ciò nulla
di nuovo, pare, nella sostanza, si è poi manifestato sotto il cielo.
Poi le società primitive, evolvendosi, sentirono il bisogno di nuovi
dei, dei più alla loro altezza e dalle ancestrali forme di religiosità
discesero altre religioni con le loro variegate schiere di dei, naturalmente sacri e potentissimi e ora miseramente e malinconicamente declassati e consegnati al mito, alla leggenda o addirittura all’oblio e
pertanto oggi esclusi dagli obblighi legislativi e anche morali del
rispetto. Ad esempio se dicessi che Apollo sarà stato pure bello e
sacro ma anche un po’ cretino non incorrerei in alcuna riprovazione
pubblica o reprimenda o sanzione penale per un reato contro il sentimento religioso, sempre che questo dio e altri come lui, a suo tempo
cassati per legge dagli uomini, non siano ancora oggi a nostra colpevole insaputa, benché obliterati, in pianta stabile e di ruolo e non
meditino, giustamente, di farci (farmi) pagare la nostra mancanza di
rispetto: perché per Bacco, per Giove e anche per Diana, gli dei non
si possono cassare per decreto! In tal caso e tuttavia, se la legge più
non mi punisce, il mio rispetto non dovrebbe comunque venire meno.
Veniamo ora all’epoca delle grandi religioni “moderne”, vale a dire
quelle ora vigenti, che in verità tanto moderne non sono non avendo
avuto origine in tempi recentissimi e del resto il tempo, fra le cose
relative, è la cosa fra tutte che della relatività da il senso maggiormente afferrabile. Le principali ovvero le più note sono l’ebraismo,
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il confucianesimo, l’induismo, il buddismo, il taoismo, lo scintoismo,
il mazdeismo, il cristianesimo, l’islamismo, ciascuna delle quali si è
a sua volta frazionata in movimenti scismatici, congregazioni o, con
un termine che ha assunto una valenza negativa o addirittura spregiativa, in sette, termine che ogni religione tende a attribuire agli altri
rami della stessa, “sette”, più o meno consistenti per numero di aderenti o importanza, che si sono staccate dalle “case madri” o perché
espulse da queste per “eresia”, o spontaneamente a causa delle differenti interpretazioni teologiche dei libri, o per questioni di etica e di
morale, o per mere questioni di potere e di convenienza. Tutte queste
fedi, “principali e derivate”, naturalmente si autoproclamano giuste e
sacre, anche se spesso le une negando la legittimità alle altre di fatto
ne negano o sminuiscono anche la sacralità.
Anche il legislatore, comunque, il quale ha l’obbligo di non farsi
influenzare dalle diatribe fra le fedi, corre il concreto rischio, se la
sua serenità e imparzialità non sono più che salomoniche, di rimanere
vittima delle sue intrinseche convinzioni religiose, se ne è penetrato,
o da sollecitazioni esterne più o meno a lui vicine. Tuttavia egli ci ricorda che verso le religioni riconosciute dallo Stato tutti sono tenuti
al rispetto secondo gli obblighi legislativi. Poi va da sé che tale
rispetto viene espresso nei confronti dell’una o dell’atra delle fedi
nella misura e a seconda del grado di sensibilità personale. A tale
proposito vorrei azzardare un prudente e modesto personale punto di
vista suggerendo al legislatore l’abolizione del reato di vilipendio
alle religioni, ovviamente non perché poi le si possa vilipendere impunemente, ma perché la professione delle idee tanto politiche quanto religiose, liberamente esercitate, è già garantita dalla Costituzione
con tutto quello che ne consegue giuridicamente; ribadirlo nel Codice
Civile o Penale appare come una palese debolezza, una non fiducia
nel senso morale e civile deì cittadinì.
Venendo al cristianesimo e più precisamente al cattolicesimo guardiamo, a grandi linee, in che modo sono state costruite le solide basi
che reggono il suo sacro edificio. Per esempio dall’esito delle “sacre
guerre” di religione, titolo o dicitura che nel medioevo (tralasciamo
per il momento sia Costantino che il susseguirsi di repressioni contro
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le “eresie” dei primi secoli o la cristianizzazione forzata nei paesi
germanici, con conseguenti stragi di intere popolazioni operate da
Carlo Magno per portare alla fede cristiana quei popoli restii ad abbandonare la propria, oppure i secoli delle crociate, non solo quelle
contro l’islam, ma tutte quelle combattute contro le varie devianze
“eretiche” originate in seno alla stessa chiesa cristiana: non passò
secolo che non se ne vedesse più d’una, non abbiamo che l’imbarazzo della scelta: la sacra crociata contro gli albigesi, ovvero i catari,
contro i dolciniani, ecc.. . Ma sappiamo che le tipiche guerre di
religione furono quelle che insanguinarono l’Europa dopo la Riforma
protestante, che si trascinarono fino alla guerra dei Trent’anni, pure
se, per par condicio, ai contrasti confessionali si aggiunsero anche
quelli di ordine sociale e politico.
La prima di queste sacre guerre, terminata nel 1531, ebbe per teatro
la Svizzera dove oltremodo cruento fu lo scontro fra i cattolici e i
protestanti e dove nella battaglia di Kappel ci lasciò la buccia lo stesso riformatore Zwingli il quale, affine, ma non del tutto, a Lutero,
aveva presentato nel 1523 la sua dottrina riformata in 67 tesi.
Un altro sacro conflitto fu quello che vide, nel 1546, l’imperatore
Carlo 5° opposto alla lega di Smalcada, la cittadina della Germania
orientale ai piedi della selva Turingia, dove i prìncipi tedeschi protestanti avevano in precedenza concluso un patto per la difesa della
religione riformata. L’esito sortito dalla guerra si concretizzò con il
primo riconoscimento del luteranesimo.
Un ulteriore conflitto sacro, ma anche politico, fu quello lunghissimo, durato dal 1566 al 1648, chiamato la guerra degli Ottant’anni,
che vide la Spagna contrapposta ai Paesi Bassi: Filippo 2° nel tentativo, poi fallito, di attuare nei Paesi Bassi una riforma, o per meglio dire, una controriforma cattolica, mise in atto tutta una serie di azioni
autoritarie, non ultima la persecuzione contro i riformati, ma tali misure ebbero come conseguenza una così intensa e caparbia opposizione da favorire per la prima volta in quei paesi l’unione del popolo
con i borghesi e la nobiltà, i quali in un crescendo di manifestazioni
sempre più incisive e aperte, dove non mancarono né gli scioperi né
le sommosse, espressero il loro dissenso fino a quando nel 1566 alcu-
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ni facoltosi borghesi di religione calvinista formarono una lega per
combattere apertamente l’oppressivo strapotere spagnolo.
A questa sacra guerra ne seguì, o meglio, se ne innestò un’altra,
quella dei Trent’anni, 1618 – 1648, che ebbe strascichi anche oltre a
questa ultima data e che coinvolse anche territori e genti dell’Italia
settentrionale e tali vicende romanzate furono raccontate anche dal
Manzoni nel suo capolavoro “I Promessi Sposi”, quando nel 1629 le
truppe imperiali invasero la Valtellina per andare all’assedio di
Mantova. Sempre in Valtellina nove anni prima accadde un fatto che
i nostri libri di storia, spesso ossequiosi nel celare verità scomode per
motivi che, una volta svelate, bene si comprenderanno, ancora oggi si
mostrano restii nello svelare accadimenti che renderebbero più arduo
alle nostre odierne “guide” religiose muovere accuse a altre fedi di
essersi imposte con la spada, e se poi a codesti “storici” viene mosso
un appunto per tali “dimenticanze” si giustificano col ritenere tali avvenimenti poco rilevanti. Voi raccontateli! Sarà poi il lettore a valutare e giudicare.
Il fatto in questione fu ricordato con l’appellativo di “il Sacro Macello” che avvenne, sempre per fatti relativi alla guerra religiosa e
politica dei Trent’anni, tra il 19 e il 23 luglio del 1620 allorquando
guppi armati valtellinesi di confessione cattolica, su sollecitazione, o
meglio istigazione, del governatore spagnolo di Milano, compirono
un massacro di gente di fede protestante oscillante fra le 400 e le 600
persone, nelle località di Teglio, Tirano e nella città di Sondrio. Sempre nello stesso anno si registrò la vittoria asburgica nella battaglia
della Montagna Bianca, in Boemia, dove la lega Cattolica e della
Spagna, comandata dal generale Tilly, sconfisse le raccogliticce truppe protestanti boemo-palatine guidate dal principe Cristiano 1° di
Anhalt Benburg.
Altre guerre sacre di rimarchevole importanza furono quelle combattute in Francia dal 1562 al 1598 che videro, a partire dal massacro
dei protestanti di Vassey del primo novembre del 1562, un crescendo
di episodi sanguinosi articolati in otto guerre intestine. In realtà si
trattò di una sola grande e lunga lotta armata generale fra cattolici e
protestanti, o come si chiamarono, ugonotti. Il calvinismo in Francia
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aveva attecchito piuttosto rapidamente, ma fu ferocemente e sistematicamente represso fino alla sua quasi totale scomparsa.
Ma i sacri conflitti non finirono con questo ultimo elencato e lo si
comprenderà spostandoci dalle terre continentali alle isole britanniche e quindi diremo ora delle due rivoluzioni inglesi del 1642 / 1648
e del 1688 / 1689. In realtà i problemi religiosi in Gran Bretagna cominciarono subito dopo la morte della regina Elisabetta prima, 1603,
ultima discendente dei Tudor, che non aveva lasciato eredi. A lei subentrò Giacomo 1°, degli Stuart, il quale unificando i tre regni di
Inghilterra, Scozia e Irlanda diede la stura al manifestarsi dei problemi causati dalle differenti tradizioni sociali, politiche e religiose presenti in ciascuno di essi e già il primo di questi problemi si manifestò allorquando la cosiddetta “Congiura delle Polveri”, accumulate,
per farle deflagrare al momento opportuno, in uno scavo sotto le
mura del castello reale, ordita da un gruppo di cattolici, fu sventata in
extremis e parecchi dei congiurati furono poi condannati a morte. Il
risultato fu che i cattolici vennero estromessi dalla vita politica del
paese. Seguirono vicende turbolente e drammatiche di ordine politico
e religioso che si protrassero fino alla prima Rivoluzione Inglese capeggiata da Oliver Cromwell, (svoltasi tra il dicembre del 1648 e il
gennaio del 1649), l’intransigente puritano anticattolico il quale in
Irlanda fra morti e deportati come schiavi ne eliminò 40.000, affossò la monarchia e instaurò la repubblica. Gli anni a seguire furono
anni che favorirono il consolidamento della Gran Bretagna quale
grande potenza marittima. Morto Oliver Cromwell gli succedette il
figlio Richard, 1658, che però non si dimostrò all’altezza del genitore
e dovette abbandonare il governo del paese. Il vuoto di potere venutosi a creare fu presto colmato con la restaurazione della monarchia –
aiutata in questa manovra dalle truppe scozzesi che con quell’aiuto
probabilmente si aspettavano di essere ricambiate con atti che conferissero maggiore autonomia al loro paese -. In un primo momento
salì al trono Carlo 2°, figlio del re Carlo 1°, deposto e condannato a
morte da Cromwell nel gennaio del 1649, poi, dopo un conflitto sorto
per questioni di successione, il trono fu preso da Giacomo 2°. Il regno sembrava pacificato, ma poco dopo ricominciarono i conflitti
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religiosi perché il sovrano aveva tentato di reintrodurre e imporre la
religione cattolica nel paese. Si giunse così alla seconda Guerra Sacra
o seconda Rivoluzione Inglese, 1688 / 1689, che vide il re costretto a
fuggire in Francia presso la corte di Luigi 14°.
A fare da corollario a tutte queste sante o sacre guerre, quindi in
contemporanea di queste, ma anche prima e dopo di esse, si ebbe in
aggiunta la Santa Inquisizione che provocò per secoli (in buona
sostanza dalla metà del dodicesimo secolo fino a tutto il diciottesimo
anche se in questo ultimo fu sempre meno attiva fino a scomparire)
vittime a non finire. Il Tribunale dell’Inquisizione cessò tuttavia di
fregiarsi con tale titolo solamente nel 1966, non però per essere abolito, ma per cambiare il suo nome con uno che nell’intenzione doveva sembrare più presentabile e cioè Congregazione del Sant’Uffizio,
ovvero Congregazione per la Dottrina della Fede, organo di cui il
nostro attuale papa fu illustre segretario fino alla sua elezione al
soglio di Pietro. Ogni organismo, naturalmente, si fregia dei titoli che
meglio crede, tuttavia se in Vaticano fossero stati accorti, ma pare
incredibile non lo siano stati, non avrebbero mancato di notare come
tale dicitura non era la migliore possibile in quanto dotata di tutti i
crismi per apparire quanto meno provocatoria; va infatti rammentato
che il più feroce e tragico Tribunale dell’Inquisizione europeo, quello
spagnolo, prese appuno il nome di Tribunale del Sant’Uffizio su richiesta di quei due grandi campioni difensori della fede che furono
Ferdinando il Cattolico e la di lui moglie Isabella prima di Castiglia e
Leon che, prodigandosi affinché fossero estirpati i nemici della fede,
si peritarono affinché questo tribunale potesse funzionare al meglio
affidandone la gestione all’abominevole zelo del domenicano Torquemada, che personalmente potè vantare migliaia di vittime fatte
perire nei modi più disparati e fantasiosi che mente bacata e criminale potesse immaginare: uno di questi, il rogo, contò circa 8.000 morti
e va ricordato che prima del rogo i condannati venivano “ammorbiditi” nelle membra con la tortura in modo che il fuoco era affrontato
come una liberazione. Ma non è mia intenzione fare qui, ora, la storia
dell’inquisizione, nemmeno stringata, non ne avrei neanche lo spazio, per cui invito il lettore curioso ad attingere a fonti, in verità non
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molto numerose, che trattano l’argomento in maniera doviziosa.
Noi torniamo alle guerre di religione facendo notare che queste sopra citate non hanno ricevuto il battesimo di sacre dalla forzatura di
chi sta ora scrivendo, né da nessun altro autore contemporaneo, ma
ricevettero tali epiteti per unanime riconoscimento dei belligeranti di
tutti i fronti allora impegnati e siccome ancora nessuno ha sentito il
bisogno di declassarle al livello dei tanti e normali scannatoi umani
succedutesi nella storia, dobbiamo continuare a onorarle e rispettarle
come tutte le cose sacre di questo mondo. E allo stesso modo continueremo a onorare come sacre un mucchio di altre cose che degli
uomini investitisi tra loro di poteri, ovviamente anche questi sacri, si
sono arrogati il diritto di decretare quali di queste dovevano o potevano essere o diventare sacre e quindi onorate da tutti come tali.
Intendiamoci, nulla di nuovo sotto il sole, dato che è soltanto la
continuazione con altri attori di una commedia recitata sempre uguale da millenni, la continuazione di quanto, sotto questo profilo e fino
dall’antichità, tutte le religioni, quelle defunte comprese, hanno più o
meno fatto seguendo sempre i medesimi canoni e schemi: “mi ammanto di sacro e acquisto il potere!”
Ad ogni modo se ho parlato della religione che va per la maggiore
nel mio paese è solamente perché, per quanto poco, è quella che conosco meglio delle altre.
Dicevo essere queste, cose che vengono da lontano e a riprova di
come fino dall’antichità siano state combattute altre famose “guerre
sacre”, pongo all’attenzione quelle disputate per la salvaguardia del
santuario di Apollo e per la punizione di coloro che questo santuario
avessero violato. Il motivo principale che le scatenava era in realtà
quello classico e venale delle potenti città-stato della Grecia che miravano a ottenere il potere di controllo sull’oracolo di Delfi e per
questo motivo furono combattute una serie di guerre, in realtà non
continuative, e infatti poi gli storici le divisero in quattro distinti e
precisi periodi; nondimeno durarono dal 600 circa a.C. al 338 a.C..
E dunque noi, a partire dal tempo degli antichi dei e delle antiche
religioni, fino a arrivare a quelle di oggi, abbiamo accumulato montagne di sacro, molto in verità finito “nella discarica” perché vetusto
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e non più adeguato; ciononostante è ancora moltissimo quello che ci
rimane. Perciò oltre a ogni dio che salverà la sua parte di “elettori”,
troveremo in cielo schiere di arcangeli e di angeli, di santi e di beati,
mentre quaggiù in terra possediamo gli strumenti, “le scale” che ci
consentiranno di raggiungere il cielo: i templi e le chiese, che i rappresentanti terricoli degli dei consacrano, o sconsacrano a seconda
delle esigenze. Nelle chiese troveremo gli arredi, anch’essi sacri, poi
i dipinti e le sculture che, una volta superato il problema iconoclasta,
hanno potuto ricevere l’imprimatur della sacralità e a ciascuna di
queste figure, secondo la simpatia, il fedele si rivolge come se fosse
quella il suo dio principale. Poi ci sono le sacre reliquie: un chiodo
della croce, una spina della corona, la mandibola di un santo , la tibia
di una beata, che se vengono toccate, guardate, adorate, invocate,
guariscono dai mali terreni e aiutano a raggiungere le mete ultraterrene. Poi ci sono i sacramenti che, lo dice la parola stessa, sono sacri. E
tra le arti sacre c’è anche la musica che per essere tale va distinta fra
quella che può o deve essere eseguita nelle chiese e quella invece che
non può e non deve e a tale proposito accade che su qualche brano
“ambiguo”ci si accapiglino fior di prelati e teologi. E i libri che contengono le “verità” sono sacri; e ancora c’è la Sacra Famiglia e la Sacra Rappresentazione e i luoghi sacri: i santuari, ecc… E l’acqua con
cui il credente si segna è santa e l’olio del viatico è sacro e il crisma
per ungere i preti è sacro e il pane e il vino delle funzioni sono sacri.
Tutto ciò e altro ancora è sacro per chi crede. E per chi non crede? Lo
sapevate che nella mia città, Conegliano, un pittore che si chiamava
Riccardo Perucolo, il quale essendosi convertito al luteranesimo sosteneva essere l’ostia non il corpo di Cristo, ma del semplice pane, fu
arso sul rogo come eretico nel 1568? E si sa che a tale motivo non fu
l’unico. Questi abomini perpetrati contro la libertà di pensiero sono
per fortuna cessati grazie al prevalere dello spirito laico ereditato dal
razionalista e illuminista secolo dei lumi. Ma si coglie, sia da parole
e atti, che dentro i cuori e le menti di ancora troppi uomini di chiesa
lo spirito prevaricatore non è per niente morto: lo stanno a indicare
tutte le recenti azioni contro la libertà degli individui.
Per concludere una riflessione che vorrebbe essere anche un invito
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che, mi rendo conto, fatto da un non credente può dare adito al legittimo sospetto di partigianeria giacché proposto da una persona che
difende un territorio che sta sulla sponda opposta a quello delle fedi e
delle sacralità. L’invito è: e se cominciassimo a pensare all’abolizione del sacro? D’accordo, sono poco credibile! Allora mi permetto di
prendere in prestito le parole di un uomo, un religioso con lo sguardo
rivolto in avanti: padre E. Balducci il quale ci dice che “va eliminata
la sacralità come funzione del potere, del dominio e della espropriazione dell’uomo. Non ci può essere cultura di pace se non con la eliminazione del sacro: la fine del sacro è la fine della cultura della
guerra”. Parole di devastante potenza che, ne sono certo, saranno bellamente ignorate.
394
Libro 17°
IL SECONDO CONFLITTO MONDIALE
Mi rendo certo conto che parlare di guerre non è proprio il più
ameno degli argomenti che possa essere proposto; meglio sarebbe
raccontare barzellette, ma non sapendolo fare mi astengo. Ho un amico che è un fenomeno nel genere e per come si compenetra nel testo
e per gli atteggiamenti che assume ti fa ridere ancora prima della
battuta finale. Non c’è niente da dire, è un dono! Anche un certo
leader politico che conosciamo, il quale anela a essere ricordato come un grande statista, è convinto di avercelo questo dono (in realtà è
convinto di avere tutti i doni in somma misura) e quando racconta le
storielle sui malati di aids o sugli ebrei nei campi di sterminio, sui
kapò o sulle donne stuprate, ecc.., giacché si ritiene irresistibile, oltre
a divertircisi un mondo, induce alla grassa risata l’entourage cortigianesco di cui si circonda, che riderebbe per qualunque “puttanata” il
nostro raccontasse, purchè prima fosse avvisato che si tratta di una
barzelletta.
Raccontare storielle divertenti è un’ottima cosa e chi lo fa è un benemerito della società, perchè il mondo ha bisogno di ridere e anche
nei periodi meno allegri si dovrebbe sempre potere ritagliare un po’
di spazio per una sana risata.
Anche raccontare i fatti di guerra per mettere in luce i suoi lati più
deleteri, come ad esempio i campi di sterminio, ritengo sia doveroso
e se da ciò anche una sola persona in più dovesse maturare verso la
guerra un sentimento di riprovazione e rifiuto, si sarebbe creato un
piccolo nuovo spazio da riservare al buonumore. Qui adesso non mi
metterò certo a fare la storia della seconda guerra mondiale, dato che
non sarebbe solo lo spazio a difettarmi, ma soprattutto il bagaglio
delle conoscenze, per cui mi limiterò a evidenziare certi essenziali
passaggi e eventi, alcuni magari poco noti, per fermarmi poi in
luoghi e tempi già visti, vissuti e raccontati da quello straordinario
narratore che si chiamava Mario Rigoni Stern, spesso anzi gli cederò
direttamente la parola perché non ci sarebbe modo di raccontare
alcuni fatti in maniera migliore di come lo seppe fare lui.
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Sappiamo che la seconda guerra mondiale iniziò con l’aggressione
alla Polonia da parte della Germania nazista il primo giorno di settembre del 1939.
A ben guardarlo questo conflitto presentava alcune significative
affinità con quello precedente del 1914 / 1918: entrambi videro all’inizio un’alleanza franco-britannica; entrambi iniziarono nell’Europa
orientale, quasi che quella parte del continente fosse rimasta una
questione sospesa e non risolta di importanza vitale; entrambi si conclusero con la sconfitta degli aggressori e sostanzialmente la vittoria
di quasi gli stessi stati della guerra precedente. Ho detto quasi perché
ci furono delle differenze, anche abbastanza significative: ad esempio
l’Italia e il Giappone furono fra le nazioni perdenti dato che in questa
guerra si erano alleate alla Germania con quel famoso patto dell’Asse
detto anche comunemente ROBERTO dalle prime lettere iniziali
delle tre capitali Roma, Berlino e Tokio, questa ultima già impegnata
fino dal 1937 in una guerra di aggressione alla Cina. Un’altra differenza non trascurabile dipese dal fatto che questo conflitto risultò essere molto più allargato rispetto a quello precedente, infatti gli stati
coinvolti a titolo più o meno diretto furono addirittura 97 mentre le
battaglie, anche fra le più cruente, non videro per teatri solo località
europee, ma in pratica tutti i continenti ne furono coinvolti, con prevalenza, oltre all’Europa, dell’Asia, dell’Africa e di numerose zone
del Pacifico.
Già prima di occupare la Polonia la Germania si era premunita contro un possibile attacco dall’est sottoscrivendo un patto, (Patto Ribbentrop – Molotov, del 23 agosto del 1939), con l’Unione Sovietica,
in cui questa ultima assicurando la sua neutralità avrebbe incamerato
in cambio alcuni territori polacchi. Ma anche in precedenza l’espansionismo germanico si era manifestato con l’annessione dell’Austria,
anschluss, del 15 marzo del 1938 e con loccupazione della Cecoslovacchia e l’annessione, da questa, della zona dei Sudeti, ( 1 / 10 ottobre 1938), senza che il mondo libero, il quale forse sperava che il
dittatore della Germania si sarebbe limitato a questo, muovesse un
dito. L’occupazione della Polonia fece comprendere tutta la drammaticità della situazione e le reali intenzioni di Hitler.
396
Le modeste armate polacche furono annientate in meno di un mese,
in quella che il fuhrer chamò la “guerra lampo”, blitzkrieg, e sempre
ipotizzando questa forma di conflitto si apprestò a invadere il resto
dell’Europa.
La Francia pensava invece ancora a una guerra di logoramento con
la mente rivolta alle superate strategie della prima guerra mondiale.
Nel frattempo il dittatore italiano, Mussolini, si manteneva neutrale
e seguiva lo sviluppo degli avvenimenti, ma dopo i colloqui avuti
con Hitler al Brennero, la località del passo alpino che segnava i confini fra il territorio italiano e quello germanico, il 18 marzo del 1940,
decise l’entrata dell’Italia nel conflitto a fianco dell’alleato germanico, il che avvenne il 10 giugno dello stesso anno.
Gli avvenimenti intanto erano precipitati e già dal marzo il Reich
aveva invaso la Danimarca, dopo di che puntò sulla Norvegia e di seguito, nel maggio, toccò all’Olanda, che la regina Guglielmina dovette in fretta abbandonare riparando a Londra. Quindi fu la volta del
Belgio e del Lussemburgo e infine la vittima successiva fu tutta la
Francia del nord e dell’ovest: il centro-sud fu lasciato alla gestione
del governo fantoccio collaborazionista di Vichy del maresciallo di
Francia Pétain.
Il 10 maggio in Gran Bretagna avveniva il cambio del primo ministro, con la nomina di Winston Churchill che sostituiva al governo il
precedente Chamberlain.
Di fronte alle armate della Wehrmacht anche l’esercito francese cedeva rovinosamente e fra il 4 e il 9 giugno il fronte francese grazie, o
a causa, del collaudato binomio bellico tedesco panzer und stukas,
cioè carri armati e aerei, fu completamente annientato e il 22 dello
stesso mese la Francia fu costretta a firmare la resa, come sappiamo,
nel preciso identico luogo dove la Germania aveva firmata la sua nel
1918, vale a dire nella medesima carrozza ferroviaria presso la
stazione di Rethondes, nella foresta di Compiègne. Due giorni più
tardi la Francia firmò l’armistizio anche con l’Italia, che nel frattempo ne aveva occupato alcune zone marginali oltreconfine e litoranee.
Consolidata l’occupazione sul continente Hitler si rivolse poi contro l’Inghilterra con una massiccia offensiva aerea che, secondo i
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suoi disegni, doveva rappresentare il preludio all’invasione dell’isola,
ma questa volta fu contrastato da una ancora più caparbia, orgogliosa
e sanguinosa resistenza della R.A.F. in quella che restò famosa come
“La Battaglia d’Inghilterra” che indusse il dittatore tedesco a desistere per il momento dai suoi propositi di invasione.
L’Inghilterra poi, aiutata finanziariamente dagli Stati Uniti d’America, avviò un’offensiva navale sul Mediterraneo contro la marina
italiana; in seguito il conflitto si allargò all’Africa: in Sudan, Egitto,
Somalia e Libia.
Mussolini, visti i primi repentini successi militari di Hitler, verso il
quale non intendeva apparire un comprimario, quando qusti il 7 ottobre entrò in Romania, (in realtà non fu una vera occupazione in
quanto la Romania , considerata già prima della guerra il paese più
antisemita d’Europa, di fatto fu una nazione alleata della Germania e
entrò ufficialmente in guerra al suo fianco nel febbraio del 1941), per
non essere da meno, il 28, preceduto da un’altra delle sue “famose”
frasi a effetto: <<spezzeremo le reni alla Grecia>>, dette il via alla
campagna di Grecia attingendo uomini anche dai contingenti che già
si trovavano in Albania, occupata nel ‘39. Presto però si trovò in difficoltà perché non si sarebbe mai aspettato di cozzare contro una resistenza così ostinata da parte dei greci, che poi passarono all’offensiva, mentre gli inglesi, nel novembre sbarcavano a Creta.
A proposito della campagna di Grecia venerdì 14 marzo 2008 su
History Channel andò in onda un film documentario di Giovanni
Donfrancesco sulle vicende belliche italiane in Grecia dal titolo “La
guerra sporca di Mussolini”, prodotto da G a e A. Production, che
indagava su un oscuro, vergognoso e inconfessabile episodio, per
molti versi simile a quello accaduto a Roma Alle Fosse Ardeatine e
consegnato all’oblio dalle autorità governative italiane, perseveranti
nel non volere inficiare o scalfire il propagandato mito degli italiani
brava gente tanto in guerra quanto nelle colonie. In realtà corrisponde
pure al vero che in quella querrra i soldati italiani non furono fra i più
barbari, ma episodi di ferocia gratuita furono compiuti anche da loro
e non possono essere cancellati semplicemente nascondendoli.
Si faceva riferimento all’eccidio di Domenikon, piccolo paesino
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della Tessaglia, dove il 16 febbraio del 1943 i soldati dell’esercito,
dopo che in seguito a un attentato della resistenza greca erano morti
nove soldati italiani, per rappresaglia questi trucidarono 150 civili
maschi, dai 14 anni in su. La direttiva della rappresaglia venne da
una circolare del generale Mario Roatta, classe 1887, che si era reso
tristemente famoso fino dalla guerra civile in Spagna del 1936 / 37,
dove gli era stato affidato il comando delle forze fasciste, dei volontari italiani, alleate del dittatore spagnolo generale Franco. Roatta,
dopo essere stato battuto a Guadalajara, venne sostituito dal generale
E. Bastico. Dal 1942 all’anno successivo questo campione di razza
del regime comandò prima la seconda armata in Croazia distinguendosi per i suoi metodi spicci e brutali contro gli oppositori, (anche la
Croazia fu una stato fantoccio alleato della Germania nazista), poi gli
fu affidata la sesta divisione in Sicilia. Arrestato nel 1944 per crimini
relativi ai suoi metodi di guerra e per non avere difeso Roma dopo
l’8 settembre del 1943, (infatti ritenendo la capitale perduta se ne era
scappato, come fece il re, dopo aver affidato il comando al generale
Carboni). Fu condannato a trent’anni di reclusione, ma nel frattempo,
prima della sentenza, era riuscito a fuggire in Spagna. Graziato nel
1948, tornò in Italia solo nel 1966, anno in cui morì.
Tornando alla famosa circolare del suddetto generale, questa ordinava fosse effettuata la repressione, però non secondo l’idicazione
biblica dell’occhio per occhio, ma secondo la sua personale – ma fu
anche attribuita al generale Graziani – di “testa per dente”, vale a dire
per ogni italiano morto, il dente, dovevano morire tanti greci quanti
erano i denti in una testa, o meglio in una bocca. La proporzione non
fu rispettata perché il paese era troppo poco popolato, ma il concetto
rimaneva chiaro.
L’inconfessabile azione sarebbe finita nell’oblio se uno dei greci
scampati all’eccidio, a quel tempo bambino, Stathis Psomidias, che
nella rappresaglia aveva perduto il nonno, recuperato poi nella fossa
comune dove era stato gettato assieme a tutti gli altri fucilati, volle
raccogliere le testimonianze del fatto affinché il massacro perpetrato
dall’esercito occupante italiano non finisse per essere dimenticato.
Non fu comunque l’unico episodio di comportamento brutale contro
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le popolazioni civili in Grecia e ultimamente stanno venendo alla
luce scritti, testimonianze e libri che finalmente ci dovrebbero indurre a fare fino in fondo i conti con il nostro passato e le nostre responsabilità del periodo colonialista e bellico: si racconta di villaggi della
Grecia bruciati, di saccheggi di vettovaglie spinti in maniera tale da
causare, solo per questo motivo, più di 40.000 morti per carestia. Crimini di guerra che non furono perseguiti perché la mutata collocazione dell’Italia nel dopoguerra, non più nemica degli Stati Uniti
d’America, ma alleata nella guerra fredda contro il blocco sovietico,
fece sì che venisse steso un velo di oblio su tutte queste azioni che
tuttavia, per la loro efferatezza, non potevano rientrare nell’ambito
dell’amnistia togliattiana del 1948 e quindi, di fatto, possono ancora
essere perseguibili per legge. Così è stato, a più di sessant’anni dai
fatti, per la strage nazista di Marzabotto, che con sentenza emessa dal
tribunale di La Spezia, il 7 maggio del 2008, ha inflitto, tra l’altro,
nove ergastoli per omicidio plurimo continuato e aggravato, tre dei
quali definitivi nei confronti di diciassette ufficiali e sott’ufficiali delle S.S. del 16° reparto esploratore, comandato dal maggiore Reder,
per l’eccidio che causò la morte di oltre 800 civili fra il 29 settembre
e il 5 ottobre del 1944. molti dei processati non sono più in vita, ma
per i superstiti la procura territoriale di Monaco di Baviera, riconoscendo la sentenza italiana, ha chiesto che la pena sia scontata agli
arresti domiciliari.
Ma torniamo agli anni della guerra e spostiamo l’attenzione sul teatro orientale estremo, precisamente in Indocina, dove il Giappone
aveva occupato parte del Tonkino, regione del Vietnam del nord,
confinante con la Cina la quale, anch’essa assalita, continuava a resistere contenendo con buona efficacia l’aggressione nipponica.
A questo punto, in Germania, Hitler ruppe il patto di non belligeranza con l’Unione Sovietica – questo fu il suo primo grosso e tragico errore – contro la quale aveva preparato, sul finire dell’anno, un
piano d’attacco battezzato “Barbarossa”. Il 7 dicembre 1941 intanto
avvenne che gli Stati Uniti d’America subirono l’improvviso attacco
giapponese a Pearl Harbor e queto fatto provocò la loro diretta entrata nel conflitto.
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Il 1941 si era aperto con la difficile situazione delle truppe italiane
sulle montagne del fronte greco-albanese, le quali da attaccanti erano
diventate attaccate. Solamente nell’aprile, con l’intervento tedesco in
aiuto agli italiani, la grave situazione si sbloccò e le truppe dell’asse
poterono scendere fino a Corinto e ad Atene; nel frattempo il re della
Grecia Giorgio 2° si era ritirato a Creta sotto la protezione Britannica. Poco prima e precisamente il 28 marzo, sul Mediterraneo accadde
che la flotta italiana dovette patire una pesante sconfitta a Capo
Matapan ad opera della marina britannica la quale aveva dotato le
sue unità del radar, lo strumento che si rivelò determinante alla vittoria: le navi italiane, che ne erano ancora sprovviste, erano diventate
un facile bersaglio in quanto potevano essere individuate sia di notte
che di giorno prima di entrare in contatto visivo.
Il 22 giugno l’esercito tedesco della Wehrmacht fece scattare l’operazione Barbarossa contro l’Unione Sovietica occupando rapidamente i paesi Baltici, la Russia Bianca e l’Ucraina: questo fu l’ultimo atto
della Blitzkrieg, perché da quel momento tutto cominciò a diventare
molto più lento e difficile, a partire dal fallimento della tentata presa
di Mosca nel dicembre di quell’anno.
Anche l’Italia, nell’agosto, con le truppe dell’armata CSIR, era entrata nel settore meridionale sovietico.
La situazione di pesante stallo venutasi a creare provocò la crisi dei
comandi tedeschi che costarono la destituzione dei generali Von
Bock, Von Branchitsh e Von Rumdsted, sostituiti dallo stesso Hitler
che prese direttamente nelle sue mani il comando delle operazioni.
Ed è qui sul fronte russo che ora mi fermo perché intendo cedere la
parola al ricordo di uno dei diretti protagonisti di quell’epopea, uno
di quelli che raccontarono del destino dei soldati italiani, in particolare degli alpini e più precisamente di quelli che condivisero con questo testimone e protagonista la campagna di Russia e poi la tragica
ritirata. Sto parlando di Mario Rigoni Stern, il grande autore da poco
scomparso, che critici di levatura nostrani e stranieri , (i suoi libri
sono stati tradotti in quasi tutte le lingue e diffusi in ogni continente),
hanno paragonato chi a un nostrano Tolstoj , chi a Hemingwey, magari di costoro un poco più paesano e d'altronde egli non è mai stato,
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né si è mai considerato un letterato o un erudito e la sua prosa scorre
rapida sostenuta da una struttura semplice e diretta, estremamente efficace e coinvolgente ed egli racconta con viva partecipazione le sue
esperienze allo stesso modo in cui narrerebbe a voce agli amici boscaioli, cacciatori, allevatori e agricoltori riuniti attorno al fuoco di
un camino scoppiettante in una delle tante nevose serate invernali del
suo altopiano di Asiago, le esperienze di quei tragici e insieme epici
e intensi momenti che non potevano non segnarlo profondamente per
il resto della sua vita.
Mario Rigoni Stern fu mandato per due volte in Russia: la prima
volta in una breve campagna durata dal 13 gennaio alla primavera del
1942, la seconda volta partì nel luglio dello stesso anno e tornò
l’anno successivo, dopo la drammatica odissea della disastrosa ritirata, la gran parte fatta a piedi attraverso le steppe ghiacciate del terribile inverno russo.
Da “Il sergente sulla neve”: Inverno rigidissimo, dai 30 ai 40 gradi
sottozero; una postazione tenuta dagli alpini in riva al Don completamente ghiacciato, in un punto dove le due sponde non sono molto
distanti l’una dall’altra. Sulla riva opposta la postazione tenuta dai
soldati russi. Le ore buie del crepuscolo e della notte presentano i pericoli maggiori per il rischio di incursioni di pattuglie nemiche che
possono agevolmente attraversare il fiume sullo spesso strato di
ghiaccio formatosi in superfice e infatti sia da una parte, come anche
dall’altra, si era tentato più volte di sorprendere il nemico con furtive
sortite, talora, a seconda del soggetto in questione, coronate da successo e qualcuno su entrambe le sponde ci aveva lasciato la pelle.
Stavolta furono i russi a provarci, ma gli alpini che stavano di guardia se ne accorsero quasi subito e diedero l’allarme. Ne nacque una
sparatoria che costrinse i russi sorpresi allo scoperto a ritirarsi in
fretta. Alcuni di questi, colpiti, giacevano feriti sul fiume gelato e gemendo tentavano di trascinarsi sulla loro sponda o verso il riparo di
qualche cumulo di neve: <<sentimmo uno che rantolava e chiamava
mamma mamma….Mamma! Mamma! Chamava il ragazzo sul fiume
e si trascinava lentamente, sempre più lentamente sulla neve. Dalla
sua voce sembrava un ragazzo. Proprio come uno di noi, disse un al-
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pino: Chiama mamma>>. L’alpino dice queste parole con candido
stupore, sorpreso che quel “feroce nemico” non sia altro che un giovane uomo come lui, forse coetaneo, il quale di fronte alla morte che
lo sta ghermendo invoca la madre, un comportamento che probabilmente anche lui avrebbe uguale nella medesima circostanza. Qua si
coglie tutta intera l’abominevole insensatezza della guerra e l’infame
protervia di chi pretende che dei ragazzi delle città, dei paesi, dalle
riviere o dealle vallate montane, figli di gente mite e semplice, siano
strappati dalle loro case, dai loro lavori o dai loro studi per essere
mandati, da aggressori, ad ammazzare un nemico dipinto come perverso, barbaro e senza dio, che minacciando i valori di una “civiltà
superiore” merita di essere vinto, domato e sottomesso.
Ora il giovane alpino si rende conto, improvvisamente, che il nemico rantolante steso sul ghiaccio è una persona esattamente uguale a
lui: un giovane che come lui ama la vita, come lui costruisce sogni e
progetti, ora infranti da quanti, aggressori e armati, hanno invaso il
suo paese e lui è dovuto andare a difenderlo, uccidendo o rimanendo
ucciso. Anche i progetti dell’alpino però sono stati sconvolti, perché
nemmeno lui aveva mai sognato per il suo futuro i momenti che
stava vivendo; anche nei suoi confronti è stata commessa una ingiustizia da quel suo governo che avrebbe dovuto essere molto più saggio. Ma lui è un soldato e deve obbedire anche se ora si rende conto
che non c’erano proprio motivi perché quel suo coetaneo dovesse per
forza essegli nemico e lui dovesse per forza ammazzarlo e quelle
cose che prima gli erano parse troppo grandi per lui ora invece gli si
rivelavano di una semplicità infinita. Però di tutto ciò, in questo momento, lui deve in qualche modo tentare di farsene una ragione, una
ragione che gli renda ovvio e naturale il suo essere là e il pensare che
la sua pelle valga più di quella di quel suo nemico, e poi tutto il resto
non deve contare, a tutto il resto non deve pensare.
Sempre la medesima postazione sul Don: <<C’erano gli esploratori
di Collio Valtrompia, tutti parenti fra loro e dalla parlata tutta particolare. Andarono incontro ai russi nella notte fredda, dopo una raffica di mitra russo si sentì un tenente degli alpini che chiamava un
altro e gli chiedeva a gran voce come si chiamava la sua fidanzata.
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L’altro disse il nome. Il nome di una ragazza italiana gridato nella
notte mentre sparavano i mitra russi. E gli alpini ridevano. I due
tenenti si facevano, contrariamente a come sarebbe uso, le loro confidenze gridando nella notte. S’era capito perché. Anche i russi avevano capito. “Diavolo! Piantiamo qui tutto, ci sono tante belle ragazze e
vino buono, no, Baroni? Loro hanno le Katiusce e le Maruske e la
vodka e i campi di girasole; e noi le Marie e le Terse vino e boschi
d’abeti”>>. Su questo passo non trovo commenti da fare perché da sé
già dice tutto, semmai più che dire mi pare che induca a pensare.
Pag. 87: <<Quella notte il tenente Cenci era di retroguardia col suo
plotone. A un certo punto si erano fermati in un’isba isolata per riposare, ma se le donne non li avessero svegliati in tempo per riprendere
in fretta il cammino sarebbero stati sorpresi dai russi che erano già in
vista dell’isba>>. Qua un commento mi sembra doveroso. Voglio dire: noi eravamo andati in casa loro ad ammazzargli i figli, forse anche proprio quelli di quelle donne, ma la loro pietà verso quei ragazzi
che assomigliavano tantissimo ai loro figli era talmente grande che
non si sentivano di ripagare gli invasori (ora in ritirata) con la stessa
moneta usata da questi. Ma non fu un caso isolato, giacché ciò che
stupiva era la prorompente semplice, naturale, spontanea ospitalità
della povera gente dei villaggi russi; una cosa che lo stesso Rigoni
ebbe modo di sperimentare di persona più volte. A tale proposito egli
racconta che tra i soldati tedeschi in ritirata e gli italiani, nei rapporti
con le popolazioni locali c’era differenza. Forse ci sarà stata un po’
di partigianeria nelle sue parole però nella sostanza non c’è da
dubitare di quanto dice; e egli racconta che i soldati tedeschi l’ospitalità generalmente la pretendevano, come gli fosse dovuta e siccome
penso che di base gli uomini, come i popoli, sono in genere tutti
uguali, ne deduco che ai tedeschi gliela dovevano avere inculcata
piuttosto a fondo la convinzione secondo la quale loro erano la razza
superiore. Non che il regime fascista non ci avesse provato con
qualche buon risultato anche da noi e infatti in Russia c’erano anche i
reparti delle “camicie nere” della milizia fascista che verso la popolazione russa compirono azioni criminose al di fuori delle regole pure
atroci della guerra. A tale proposito sono allo studio documentazioni
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rinvenute recentemente in un secondo “armadio della vergogna” che
dovrebbero svelare verità scomode finora tenute nascoste. Ebbene,
costoro, in Russia, con gli alpini non legarono praticamente mai. Daltronde quando sopra una nazione si spargono i veleni del razzismo,
finisce inevitabilmente che un certo numero di persone ne resti “intossicato”. Anche oggi in questa nostra Europa, finalmente pacificata, continuano a esistere dei partiti che hanno fatto della discriminazione fra la gente la loro ragione di vivere e prosperare, i quali si
dovrebbero rendere conto delle responsabilità che si assumono nel
soffiare sul fuoco della barbarie razzista.
Comunque se in qualche villaggio russo i soldati germanici trovavano la popolazione particolarmente ostile e il perché di questa ostilità aveva una motivazione, una volta domata la resistenza, poteva
benissimo capitare che dopo averci pernottato, al mattino, andandosene, quel villaggio lo dessero alle fiamme. Allora quanto detto sopra circa il fatto che tutti i popoli sono sostanzialmente uguali è sbagliato? Ci sarebbe dovuta essere una spiegazione. E infatti c’era. Ho
detto dei reparti italiani “speciali” delle camicie nere che operarono
in Russia. Anche la Germania aveva dei reparti “speciali” che fiancheggiavano l’esercito e che si incaricavano dei lavori più sporchi
che questo non avrebbe mai fatto. Erano bene organizzati e addestrati, formati da persone che da borghesi erano state dei criminali con
pendenze con la giustizia, ma erano però comandati da ufficiali quasi
tutti laureati e provenienti da famiglie della “buona” borghesia: il
perché di questo intreccio andrebbe pescato nella perversione delle
menti dei nazisti che questi reparti avevano ideati. Operarono nelle
zone europee dell’est e in Russia ed erano incaricati di sterminare
popolazioni borghesi di ebrei , zingari, comunisti e oppositori in genere, “lavoro” che compirono con solerzia fucilando sommariamente
una gran quantità di persone (che finivano in fosse comuni) rastrellate a gruppi e che per vari motivi era difficoltoso avviare ai campi di
sterminio, ma anche perché le <<capacità di assorbimento>> delle
camere a gas certe volte erano”limitate”. Queste formazioni erano gli
Einsatzgruppen che la filosofa Hannah Arendt citò e descrisse molto
bene in più punti del suo libro “La banalità del male”.
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Queste azioni gli italiani in Russia non le fecero; certo non le
fecero gli alpini, almeno ciò non è mai risultato. Resta il fatto che
episodi del genere non furono infrequenti durante l’occupazione più
che ventennale, dopo la prima guerra mondiale, della Slovenia e
parte della Croazia, durante i tentativi di italianizzazione forzata di
qulla terra. Una differenza non marginale stette anche nel fatto che i
soldati tedeschi fecero la ritirata disponendo di maggiori mezzi
motorizzati rispetto ai nostri soldati che la fecero per lo più a piedi e
questo fatto certamente influì dando ai primi maggiore baldanza e ai
secondi maggiore preoccupazione e prudenza, con relativi conseguenti defferenti comportamenti sia degli occupanti che degli occupati. Ad ogni modo una differenza comportamentale fra gli alpini e le
camicie nere c’era ed era anche netta e gli stessi alpini la vollero
rimarcare. I soldati italiani e in particolare gli alpini quando incontravano un villaggio l’ospitalità la chiedevano, che passare una notte
all’aperto con temperature prossime ai meno trenta o quaranta era
davvero terribile e lo stesso Mario Rigoni si domanda stupito come
abbiano fatto quelli che sono tornati a resistere a uno degli inverni
russi più rigidi, quasi ci si fosse di proposito accanito a voler punire
gli invasori. Tutto questo con gli equipaggiamenti inadeguati e le
scorte di cibo a un certo momento praticamente esaurite: in pratica
furono gli stessi russi con il loro cibo e il loro alloggio che permisero
a quanti ce la fecero di sopravvivere e tornare.
Pag. 91 <<…Busso, la porta torna ad aprirsi, si affaccia una donna
russa e mi fa cenno di entrare…>>.
Pag. 155. in un’isba Carlo e il suo amico Rino, vecchio compagno
di scuola: <<Ti ricordi Rino, quella volta che l’insegnante di francese
disse: “Una mela guasta può far marcire una mela sana, ma una mela
sana non può sanare una mela guasta?” “E la mela guasta ero io e la
sana tu. Ricordi Rino? E prendevo sempre quattro e tre>>. Due amici, due alpini, lontanissimi dalla loro casa che, scordando per un attimo la situazione tragica che li sovrasta, ricordano con gioia gli anni
della loro serena giovinezza e formulano filosofiche considerazioni
sulle mele sane e su quelle marcie paragonate agli uomini. D’accordo, finché si tratta di usare le metafore per poter rendere un’idea può
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andare anche bene, purchè non si finisca con il convincersi che gli
uomini e le mele sono la stessa cosa, per cui, dato che così non è, chi
può assolutamente negare che una mela sana non ne possa sanare una
marcia?
Pag. 176: <<Corro e busso alla porta di un’isba. Entro. Vi sono dei
soldati russi là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa
sul berretto! Io ho il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con un cucchiaio di legno
da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a
mezz’aria. “Mnié khocestia iestj” dico, (dammi da mangiare). Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio
un passo avanti, mi metto il fucile sulla spalla e mangio. Il tempo non
esiste più. I soldati russi mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio sul piatto. E d’ogni mia boccata. “Spaziba”
(grazie) dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il
piatto vuoto. “Pasausta” mi risponde con semplicità. I soldati russi
mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano dell’ingresso
vi sono delle arnie. La donna che mi ha dato la minestra è venuta
come per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi un favo di
miele per i miei compagni. La donna mi da il favo ed esco. Così è
successo questo fatto, ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma
naturale, di quella naturalezza che una volta dev’esserci stata tra gli
uomini>>. Comprendo pienamente che Mario Rigoni Stern avendo
vissuto una tale avventura parli di quella naturalezza che una volta
dev’esseci stata tra gli uomini ma, anche guardando alla storia, dubito ci sia mai veramente stata, perché, in fondo, sono un ottimista e
fosse vero quanto suppone Rigoni, significherebbe che gli uomini col
tempo sono addirittura peggiorati. Penso però che sia proprio a questa naturalezza a cui dovremmo mirare, sforzandoci di rispettare (lo
so che è terribilmente difficile perché mi rendo conto anch’io di fare
una fatica boia e non sempre ci riesco) le idee degli altri, specialmente le più lontane dalle nostre. Quanto all’episodio sopra raccontato
che dire? Ne sarebbe potuta nascere una sparatoria; forse Mario, che
aveva in mano il fucile, avrebbe potuto ammazzare qualcuno dei
407
russi, ma sarebbe stato sopraffatto anche lui. Però al di là di questi
rapidi calcoli, che assai probabilmente tutti fecero in quel momento,
la civiltà ebbe il sopravvento, perché erano tutti ospiti in quell’isba e
il luogo era diventato “sacro”, inviolabile, perciò la tregua diventò un
fatto scontato, naturale. Poi, se magari fuori si fossero rincontrati,
avrebbero ricominciato a scannarsi.
Pag. 188. Rigoni parla di alcuni suoi compagni che sono morti:
<<…Nemmeno Moreschi è ritornato… E neanche Pintossi, il veccho
cacciatore è arrivato a baita a cacciare i cotorni. Sarà morto pure il
veccio cane, ora. E tanti e tanti altri dormono nei campi di grano e di
papaveri e tra le erbe fiorite della steppa assieme ai vecchi delle
leggende di Gogol e di Gorky>>. Anche Rigoni dice dei compagni
morti che non avranno nessuno che porterà loro dei fiori , ma questi,
le erbe fiorite della steppa, le spighe dorate del grano maturo e i papaveri, ancora i papaveri, come quelli del poema di John Mc Crae, si
prenderanno l’incarico di ornare le anonime sepolture sperdute nelle
lontane infinite steppe della Russia.
Anche Fabrizio De Andrè, che assai probabilmente aveva letto “Il
sergente nella neve”, in una delle sue bellissime ballate dal titolo “La
guerra di Piero”, nel ritornello ricorda il soldato morto in guerra in
questa maniera:
<<Dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fa veglia all’ombra dei fossi
ma sono mille papaveri rossi>>.
E ancora in un’altra ballata dedicata a un soldato morto in guerra,
Fabrizio esprime una volta ancora tutta la sua repulsione per le guerre e la caustica critica nei confronti della stomachevole retorica patriottica di coloro che mandano i figli della povera gente a morire,
poi, in pompose e enfatiche cerimonie, tra inni nazionalisti e distribuzioni di medaglie si tacciono le misere coscienze. Non è un caso che
in questo canto De Andrè esprima i medesimi concetti che la maestra
di Cison di Valmarino Plinia Friggieri de Poloni, sul finire del 1916
mise nelle semplici rime dialettali di “La morte di Tonin”, concetti
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che sono il grido degli spiriti liberi che rivendicano la libertà per tutti
gli esseri umani e condannano la spietata efferatezza di chi pretende
di prosperare mettendo in gioco le vite degli altri.
La ballata dell’eroe
Era partito per fare la guerra
per dare l’aiuto alla sua terra
gli avevano dato le mostrine e le stelle
e il consiglio di vender cara la pelle
e quando gli dissero di andare avanti
troppo lontano si spinse a cercare
ora che è morto la patria si gloria
d’un altro eroe alla memoria
ma lei che lo amava
aspettava il ritorno
di un soldato vivo
di un eroe morto che ne farà?
se accanto nel letto
gli è rimasta la gloria
di una medaglia alla memoria?
Pag. 197: <<Un giorno passiamo per un villaggio; c’è ancora il sole
alto, dalle finestre di un’isba delle donne battono sui vetri e ci fanno
cenno di entrare. “Entriamo”? Domanda il mio compagno. “Entriamo” dico. L’isba è bella con tendine ricamate alle finestre e le icone
adorne con fiori di carta. Tutto è pulito e caldo e le donne fanno bollire due galline per noi, ci danno da bere il brodo e mangiare la carne
con patate lesse. Dopo ci preparano da dormire. Verso sera entrano
anche dei sottufficiali dell’Edolo. Chiedo loro di Raul. Così per
chiedere, perché vedo dalla nappina che sono del suo battaglione. “E’
morto” mi rispondono “è morto a Nikolajewka. Andava all’assalto su
un carroarmato e saltando a terra si prese una raffica”. Io non dico
nulla. Quando la mattina devo muovere i primi passi sono costretto a
fare piano. Cric crac mi fanno le ginocchia, piano piano fino a che si
scaldano>>.
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Le donne russe! Ancora madri che accolgono giovani soldati in
ritirata, nemici del loro paese e dei loro soldati, forse i figli che esse
aspettano e non torneranno. Li accolgono quasi come fossero figli
propri, li rifocillano, gli danno da dormire, sperano che quei giovani
nemici che esse sanno incolpevoli – i colpevoli sono quelli con il culo al caldo, seduti dietro le grandi scrivanie di legno pregiato – possano tornare vivi alle loro case tra i loro affetti.
Scusate ma ora mi viene in mente una bella ballata che racconta
degli alpini in Russia, scritta da un grande autore, probabilmente il
maggiore autore contemporaneo di canti per cori, un vicentino, della
provincia: sto parlando di Bepi De Marzi, padre, fra l’altro, della
celeberrima “Signore delle Cime” che forse sta nel repertorio di tutti
i cori di canti popolari del mondo, ma farei bene a levare il forse.
Da anni ormai, a partire dal giorno 20 giugno circa, si celebra in
Val Pusteria, stupenda vallata dolomitica della provincia di Bolzano ,
a un tiro di schioppo dall’Austria, una settimanale rassegna per cori
alla quale partecipano tutti gli anni un centinaio di cori provenienti
da tutte le parti del mondo, tutti con i loro repertori tipici e spesso
con i loro costumi della tradizione, una autentica stupenda immersione muticulturale. Ebbene, la domenica, nel grande raduno collettivo
finale di tutti i cori partecipanti, che nella settimana tra rassegne,
concerti e canti per tutte le località della vallata hanno allietato turisti
e valligiani, nel paese di Sesto, incorniciato dalle dolomitiche Cima
Undici, I tre Scarperi, Croda Baranci e Cima Nove, dove vengono
consegnati gli attestati di partecipazione, (non ci sono classifiche), il
canto con il quale i cori all’unisono prendono commiato gli uni dagli
altri – vedi uomini e donne piangere senza ritegno come vitelli – è
“Signore delle Cime”, che i partecipanti, qualunque sia il loro paese
di provenienza e il loro idioma, conoscono perfettamente a memoria
in italiano.
Ora, a proposito di Bepi De Marzi e Mario Rigoni Stern, mi permetto una breve divagazione, senza però uscire dal tema, per dire che
nel libro di quest’ultimo “Il sergente nella neve”, lo scrittore fa più
volte i nomi dei suoi commilitoni e si nota come uno di questi sia un
De Marzi. “Vuoi vedere”, mi dissi, “che si tratta del nostro contem-
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poraneo poeta e autore di canti popolari per cori? Entrambi notissimi
esponenti della cultura della provincia vicentina, è possibilissimo che
si conoscano personalmente, innanzitutto per alcune affinità , una di
queste l’amore per la montagna, che non è poco!” C’era una cosa
però che non mi tornava e era la seguente: pure non sapendo
esattamente l’età del nostro Bepi, mi pareva tuttavia che nel 1943
difficilmente egli avrebbe potuto essere più che adolescente per cui
non poteva essere quel De Marzi nominato da Mario Rigoni, tanto
più che non mi risultava ci fossero stati all’epoca fra quei soldati
nemmeno dei diciottenni, come accadde nella prima guerra mondiale
dove anche mio zio Vittorio, casse 1899, nel ’17 - lui era il più vecchio dei fratelli e mia madre che ne aveva cinque di anni ricordava
ancora chiaramente il giorno che lo vide partire – fu mandato a morire a quell’età e a casa mio nonno “Tono” e mia nonna “Tona”, (così
li chiamavamo le mie due sorelle e io quando eravamo bambini),
aspettarono invano col cuore straziato il suo ritorno.
Il dubbio però mi restava anche perché il canto “Joska la rossa”,
che parla di questa mitica ragazza russa incontrata dagli alpini in uno
dei rari e brevi momenti di stasi o di pausa fra le azioni di guerra e
spostamenti su quel fronte orientale, sembrava proprio tratto da un
episodio di vita di un soldato che questi momenti li aveva vissuti in
prima persona. Mi proposi di trovare risposte a questi quesiti rivolgendomi direttamente a Bepi De Marzi che avrei potuto facilmente
rintracciare, dato che abita in una provincia limitrofa alla mia; e poi
ci avrei tenuto a conoscerlo anche per l’ammirazione che provo nei
suoi confronti essendo che anche nel mio caso, oltre al comune amore per la montagna, esiste un altro fattore di affinità, che si sarà forse
compreso, e che ora confessando rendo palese: canto da basso (in
realtà tendo al baritono) nel coro misto “Sottoselva” di Santa Lucia
di Piave, limitrofa alla mia città, anticamente chiamata Subsilva, cittadina famosa per la più che millenaria fiera annuale che vi si tiene
nei giorni di dicembre. Nel repertorio del mio coro, come del resto di
ogni altro coro di canti popolari, non mancano mai alcuni brani di
questo straordinario e fecondo autore.
Solo una remora mi frenava , temevo cioè che chiedendogli un
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appuntamento per una sorta di breve intervista si sarebbe potuto seccare di un rompiscatole che gli avrebbe fatto perdere del tempo con
delle domande banali, perciò tergiversavo e il tempo passava. Sicché
accadde che il 5 maggio del 2007, alla rassegna “Canta Maggio” organizzata in un teatro cittadino dal locale “Coro Conegliano” alla
quale come ospite partecipava anche la corale friulana G. Coceancigh
di Ippis, Udine, diretta dalla maestra M. E., fu invitato in qualità di
presentatore il nostro Bepi, (Giuseppe), De Marzi.
Presi la palla al balzo e già oltre una mezz’ora prima dell’inizio
della rassegna, assieme a mia moglie, mia figlia e il suo compagno,
arrivai al teatro, dove dovetti constatare che già c’era difficoltà a
trovare quattro posti di seguito perché il teatro era già per più di tre
quarti occupato – parecchia gente dovette poi restare fuori – questo
per dire del richiamo esercitato sia dai cori importanti, sia dalla presenza di De Marzi stesso: un mito per gli amanti del canto corale.
Individuato il maestro vicino al palco mi avvicinai e appena ebbe
finito di parlare con una signora della prima fila gli chiesi sommessamente se poteva dedicarmi un paio di minuti. Mi rispose affabilmente
in modo affermativo e dato che si stava avviando dietro le quinte mi
invitò a seguirlo. Gli dissi il mio piacere di conoscerlo mentre mi
presentavo, ma siccome il mio nome non poteva dirgli niente, gli
dissi che ero un corista e fattogli il nome del mio coro e del maestro
C. Di B., egli mi disse che sapeva perfettamente di chi stavo parlando
e con ciò entrammo in un’atmosfera molto più cordiale. Gli dissi che
nel nostro repertorio avevamo diversi dei suoi brani e andando al
nocciolo della questione che mi premeva , dato che al momento stavo
esaminando un suo particolare canto, gli dissi che gli sarei stato grato
se avesse potuto illuminarmi su un paio di questioni che non avevo
ancora compreso, anzi la seconda mi era del tutto oscura. La prima
riguardava lo svelarmi del significato di una semplice parola, un
aggettivo che per me veneto che parla il dialetto della provincia
trevigiana richiedeva la traduzione di lui veneto che parla il dialetto
della provincia vicentina: si trattava dell’ultima parola di una delle
strofe finali del canto laddove dice: <<Joska la rossa , amor, rosa
spania>>. Egli spiegò bonariamente a questo ignorante, con il suo
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modo di fare gentile e pacato che “spania” significa sbocciata. Gli
chiesi poi, arrivando al secondo quesito, se quel canto così carico di
intensità e di pathos lo avesse tratto dalla esperienza diretta e nominandogli il libro di Mario Rigoni Stern , che faceva riferimento a un
De Marzi, suo commilitone in Russia, gli chiesi se per caso quel
soldato non fosse stato lui. Si mise a ridere e mi disse che no, non era
lui e il suo sguardo fattosi ironico tradiva un: “ma insomma! Non
vorrai mica farmi più vecchio di quanto sono?” Tacitamente mi diedi
dello stupido e rimasi imbarazzato. Fu lui a rompere il silenzio e lasciando intendere di conoscere Rigoni Stern mi disse che sapeva
bene di quel suo libro di ricordi di guerra e anche degli altri, poi aggiunse che anche lui ne aveva scritti un paio, uno dei quali di rimembranze legato alle sue scorribande giovanili in bicicletta; poi, sempre
dandomi del tu, come si fa tra persone con le quali per mille motivi si
entra subito in sintonia, dopo alcune parole sulla rassegna che stava
per cominciare, con garbo mi congedò perché gli impegni incombevano e ci lasciammo: lui sparì dietro il palcoscenico e io tornai al mio
posto contento di averlo conosciuto ma anche un po’ inquieto per la
sensazione di non aver usato con lui il migliore tatto possibile; ma
ora il piccolo tarlo non mi rodeva più, mi seccava però, faticando a
assolvermi, il pensare che anch’io avevo fatto uso della vecchia machiavellica formula secondo la quale il fine giustifica i mezzi.
I due cori furono all’altezza della loro fama, ma prima di iniziare la
tornata il maestro direttore del primo, D. T., dopo i convenevoli di
rito, raccontò che durante la loro recente tournée in Finlandia erano
stati accolti dai cantori che li ospitavano con il brano di De Marzi
“Signore delle Cime”, un canto davvero internazionale. Poi toccò a
Bepi presentare i canti, per uno dei quali spese qualche parola in più,
non perché si distaccasse per qualche motivo particolare dal filone
rispetto agli altri, il testo in realtà è molto semplice: si tratta di un
canto di A. Baggiani dal titolo “Non aprite quella porta”, che non è
altro che la messa in musica di un vecchio proverbio che si rifà alla
antica saggezza popolare ed è appunto rifacendosi a questa assennatezza della gente semplice che De Marzi ci spiegò come i proverbi
vengano veramente da lontano e come anche nella Bibbia ci sia una
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parte di questa chiamata “Il Libro dei Proverbi” ; poi sempre col suo
parlare pacato, quasi flemmatico, condito in quel momento da un velo di tristezza, ci spiegò come in realtà sia così poco o per niente
conosciuto questo libro in questo paese che si vuole di “credenti” e
quanto i cattolici nostrani siano ignoranti perché non conoscono la
loro religione poiché pochissimi hanno letto il Vecchio e il Nuovo
Testamento, poi, sempre pacatamente ma in modo tranciante, affermò che questi nostri cattolici in realtà non sono cristiani credenti ma
solo superstiziosi. Io forse non sarei stato così severo, né così totalizzante, ma tant’è. Frase meditata comunque, che a sua volta dovrebbe
far meditare, detta da una persona che il cristianesimo evidentemente
lo vuole intendere nella sua essenza più autentica, avulsa dagli aspetti
e dagli orpelli esteriori e dai legami con quei poteri temporali che
oggi hanno fatto della cruna dell’ago un arco di trionfo sotto il quale
far passare le schire vittoriose degli dei degli eserciti.
Ma torniamo al nostro canto, che ricordando proprio gli eserciti, la
guerra e i suoi orrori vuole essere un monito affinché questa razionalmente sia rigettata e rifiutata, come rifiutata dovrebbe essere l’idea
che vede nella guerra un altro modo per fare politica.
Il canto di cui voglio dire ci racconta nel dialetto vicentino di tutti
quegli alpini che hanno vissuto le fasi drammatiche della guerra in
Russia, anche se in particolare parla di questa bella ragazza, ( la storia pare non raccontare un fatto reale, ma episodi simili possono benissimo essere accaduti più e più volte), che viveva in un’isba, in uno
dei tanti villaggi sperduti nelle infinite steppe di quella terra, un’isba
forse linda e accogliente come quella descritta da Rigoni a pag. 197.
una ragazza russa, Joska, dai grandi occhi mori, che per gli alpini,
che avevano il campo presso il villaggio, era un po’ madre, un po’
sorella, ma nei sogni di molti era anche “morosa” e amante e rappresentava quel legame, ora forzosamente interrotto, con la casa, la
famiglia, la vita serena e normale dei tempi di pace. Quando la sera
c’era qualche momento di tregua gli alpini, per sentirsi più uniti, intonavano le canzoni di casa loro, accompagnati dal suono di qualche
armonica a bocca, e Joska la rossa dalla pelle vellutata saltava lesta il
muretto della sua isba, andava al campo e danzava per gli alpini e
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qualcuno più audace la invitava a ballare con lui, finché gli ultimi
fuochi del campo si spegnevano e per tutto quel tempo magico s’era
stati come dentro a un sogno e la guerra non c’era più.
Joska la rossa (dialetto vicentino) di Geminiani – De Marzi
El muro bianco drio de la to casa
ti te saltavi come un oseleto
Joska la rossa, pèle de bombasa
tute le sere prima dé nà in leto.
Te stavi li, co le to scarpe rote
te ne vardavi drio dai oci mori
e te balavi alegra tuta note
e i baldi alpini te cantava i cori oh!
Joska, Joska, Joska,
salta la mura!
Fin che la dura
Joska, Joska, Joska,
salta la mura!
Bala con mi! Oh! (ritornello ripetuto un’altra volta)
Ti te portavi il sole ogni matina
e dei alpin ti geri la morosa
sorela, mama, boca canterina
oci de sol, meravigliosa rosa
xe tanto e tanto nù, ca te zerchemo
Joska la rossa, amor, rosa spania.
Ma dove situ andà? Ma dove andemo?
Semo ramenghi. O morti. E così sia oh!
Joska, Joska….
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Busa con crose. Sarà sta i putei?
La par ‘na bara e invece xe ‘na cuna,
e dentro dorme tuti i to fradei,
fermi, impalà, co i oci ne la luna
Joska, Joska….
“”
“”
Joska, Joska…
“”
fermate là.
Joska la rossa (italiano)
Il muro bianco dietro la tua casa
tu saltavi come un uccellino
Joska la rossa, pelle di bambagia
tutte le sere prima di andare a letto
Stavi lì, con le tue scarpe rotte
ci guardavi dietro agli occhi mori
e ballavi allegra tutta la notte
e i baldi alpini ti cantavano i cori oh!
Joska, Joska, Joska,
salta il muro
finché lo puoi fare
“”
“”
balla con me! Oh!
Tu portavi il sole ogni mattina
E degli alpini eri la fidanzata
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sorella, mamma, bocca canterina
occhi di sole, meravigliosa rosa
è tanto e tanto (sai) che ti cerchiamo
Joska la rossa, amore, rosa sbocciata.
Ma dove sei andata? Ma dove andiamo noi?
Siamo raminghi. O morti. E così sia. Oh!
Joska, Joska….
Buca con croce. Saranno forse i bambini?
Sembra una bara e invece è una culla,
E dentro dormono tutti i tuoi fratelli
fermi, irrigiditi, con gli occhi nella luna
Joska, Joska…
fermati là.
………………………………………………………………………...
Voglio ricordare ora un altro fatto accaduto a Mario Rigoni Stern,
raccontato nell’altro suo libro “Ritorno sul Don”.
Essendosi egli ritardato dal suo reparto, durante la ritirata, a causa
del dolore a un piede mezzo congelato, perché lo scarpone si era rotto, si ritrovò a camminare da solo nella tormenta di neve; ogni tanto
cadeva a terra perché non riusciva a reggersi e pensava che quella
volta forse non ne sarebbe uscito vivo. Verso sera arrivò in un villaggio e per non farsi notare s’era messo a camminare rasente agli
steccati che lungo la strada cingevano le isbe. Si avvicinò a una casa
dalla quale proveniva della musica e sbirciando da una finestra vide
che dentro c’erano dei soldati tedeschi che parevano festeggiare
assieme ad alcune ragazze. Stava per decidersi a entrare quando da
dietro un angolo sbucò un vecchio alto e rinsecchito che lo chiamò e
gli disse di non entrare, perché quella notte in quella casa sarebbero
arrivati i partigiani. Lo invitò invece ad andare in fondo al villaggio,
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nell’ultima isba e chiedere di Magda dicendole che lo mandava Piotr
Ivanovic. Egli trovò l’anziana donna, che forse pareva più vecchia
della sua età effettiva a causa degli stenti per la guerra, che lo accolse
– e qui Mario manifesta tutto il suo stupore sentendo che lei gli
parlava dolcemente, come si faceva con i bambini -. Gli offrì delle
patate cotte e delle pagnottine morbide e calde, appena sfornate, poi
lo invitò a fermarsi la notte. Egli si tolse il fucile, la coperta a tracolla
e il pastrano. Fuori, pure nel pungente gelo della notte, c’erano delle
compagnie che cantavano, perchè era Natale e Mario accompagnato
dai canti che sembravano nenie fatte apposta per lui, sfinito si addormentò. Dopo poco però fu destato di soprassalto e non appena aprì
gli occhi vide due stivali accostati al suo giaciglio e una canna di
mitra Parabellum puntata in basso, verso di lui. Il mitra stava stretto
nella mano di un giovane uomo, che indossava un lungo pastrano, e
costui stava parlando confidenzialmente con la donna indaffarata
attorno ai fornelli. Mario alzò gli occhi e incontrò quelli del giovane:
stettero a guardarsi un poco in silenzio poi il russo gli fece cenno,
con un gesto amichevole, di restare disteso, quindi si sedette su uno
sgabello e cominciò a mangiare le stesse cose che anche lui aveva
poc’anzi mangiate, e intanto continuava a parlare con la donna che
gli rispondeva con la stessa estrema dolcezza che aveva usato con
lui. Quando il giovane ebbe finito di mangiare si calò il berretto di
pelo sulla testa e riprese il Parabellum: <<La donna lo segna di croce
alla maniera russa…>>. Accennò un saluto a Mario e uscì. La donna
gli spiegò che era suo figlio e che ora poteva rimettersi a dormire.
Durante la notte nel villaggio ci fu una sparatoria e Mario lascia
intendere che i partigiani, tra i quali c’era il figlio della donna, erano
andati ad ammazzare i soldati tedeschi. Quando al mattino Mario si
svegliò era ancora buio, ma non nevicava più. Si vestì, si mise in
spalla il fucile e la coperta calda, lasciata ad asciugare la notte
accannto ai fornelli. Magda gli fece bere un infuso di erbe, gli mise
in tasca tre patate calde e intanto continuava a parlargli con dolcezza
come si parla a un bambino, poi lo segnò con la croce alla maniera
russa, lo accompagnò alla porta e gli disse che i suoi compagni erano
passati per il villaggio la sera prima e se avesse camminato svelto
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avrebbe potuto raggiungerli prima del giorno.
Non si è riusciti a sapere esattamente il numero, ma sono stati certo
moltissimi (si dice forse 84.000) i soldati italiani morti in Russia, nei
combattimenti, o di freddo, di stenti, o finiti in prigionia, ma forse
molti russi avevano compreso che pure essendo nemici, quei ragazzi,
in particolare quelli che portavano una penna nera sul cappello, quei
“boce” dai volti semplici e puliti, che parevano bambini cresciuti in
fretta, erano sulla loro terra non certo per convinzione o smania di
conquista, ma per via di quel dovere che è proprio dei soldati.
Riguardo alle perdite umane subite in Russia, nemmeno Mario
Rigoni Stern fa dei numeri ma nel libro “Ritorno sul Don” ricorda di
una battaglia verso il Caucaso, tra la fine di agosto e i primi di settembre, in un luogo che non risultava segnato in nessuna carta. Quando al mattino, prima della battaglia, partì con la sua squadra, alla sera, a battaglia conclusa, si ritrovò, lui sergente maggiore, comandante
dell’intera compagnia, se così ancora la si poteva chiamare, la maggior parte formata da lombardi, perché di essa restavano solo tre
squadre, mentre tutti gli ufficiali che la componevano erano morti.
Solo alcuni giorni dopo arrivarono i rinforzi e erano quelli del settimo reggimento della Julia, veneti del bellunese e del feltrino, del trevigiano e provincia, del solighese e di Vittorio Veneto, ecc…
Nei primi anni del dopoguerra, lassù sul suo altopiano, quando arrivava l’inverno e scendeva la prima neve, Mario era preso per tutto il
tempo da una infinita malinconia e passava intere giornate ammutolito, pensieroso, cupo, chiuso in sé stesso. La gente diceva che era
perché aveva la luna di traverso, ma invece il motivo stava nel fatto
che non riusciva a scordarsi la Russia, tutti gli amici e i commilitoni
che erano rimasti là e lui si sentiva quasi in colpa per essere rimasto
vivo. Non riusciva a scordare Nikolajewka, il luogo così battezzato
dagli alpini ma che forse non aveva nessun nome, o ne aveva un altro, chissà…, dato che poi quando anni dopo Mario tornò in Russia e
a fatica riuscì a ritrovare il luogo, che volle rivedere forse per dare finalmente pace al tormento dei suoi fantasmi, (ma anche mettere nelle
pagine quei fatti gli fu d’aiuto), la gente del posto non usava quel
nome che gli avevano dato gli alpini, né quasi si riconoscevano più le
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tracce dove si era combattuta una delle battaglie più sanguinose nella
quale morirono migliaia di soldati, moltissimi dei quali alpini. In pochi anni di certo i contadini avevano bonificato il terreno e poi arato i
campi e la natura aveva ripreso il sopravvento sullo scenario che era
rimasto impresso nella mente di Mario.
Restava il fatto che egli d’inverno, quado il paesaggio dell’altopiano si faceva simile a quello russo, rivedeva e riviveva tutto come
fosse stato il 26 gennaio del 1943 e i giorni seguenti e ricordava
l’inferno dei combattimenti dove caddero tantissimi della Julia e del
Cervino; ne rivedeva i volti e ricordava i nomi e fra questi quello di
un sopravvissuto come lui, il cappellano don Carlo Gnocchi, che
dopo la guerra fondò l’”Opera”.
E ancora nell’altro libro “Il bosco degli urogalli”, a pagina 33, il
racconto di un’altra cruenta battaglia e il ricordo si fa più surreale e
insieme più nitido: <<…E la campagna era tutta piana, erba verde,
campi di frumento e di girasoli che da mesi aspettavano di essere raccolti. Gli uomini al posto delle falci e dei trattori, usavano mitragliatrici e carriarmati e chi raccoglieva era la morte>>.
Pagina 114: <<…Ma quella notte non dormì. In un angolo del
vagone, accompagnato dal ritmo delle ruote sulle rotaie, pensava, per
la prima volta in vita sua, al destino della povera gente, alla guerra
che pretende che la povera gente s’ammazzi a vicenda…>>.
420
Libro 18°
CREDERE O NON CREDERE
Forse non esiste una spiegazione esauriente da dare al mio ateismo,
il quale peraltro non mi crea problemi di tipo esistenziale. Il problema caso mai è esterno ed è originato da una realtà che ho imparato a
sopportare abbastanza bene, ma che talora mi indispone se proprio
non mi indigna ed è causata dalla carenza di umanità con cui questo
mondo di credenti dichiarati, in particolare gli apparati e le gerarchie,
tranne poche individualità per lo più mal tollerate o emarginate, di
sostanzialmente tutte le religioni, (con l’eccezione, forse, di quella
buddista la quale più che una religione con tutti i suoi bei dogmi, crismi e comandamenti, per vari aspetti sembra piuttosto una proposta
per un percorso o una filosofia di vita), le quali con cinica e fredda
prepotenza, saturante ogni loro interstizio che non lascia spazi a dubbi di sorta, si arrogano il diritto, in quanto possessori di “verità assolute”, di manipolare menti e coscienze di donne e uomini con calcolata sottigliezza fin da quando questi sono nella tenerissima età, imponendo loro un credo e un dio al quale prostrarsi, o per interposta
persona all’apparato gerarchico che lo dovrebbe rappresentare, verso
il quale la genuflessione dovrà essere tanto più profonda quanto più
alto sarà il grado di questi cosiddetti delegati del divino.
“Altrimenti, se non accetterai tutto questo sarai dannato in eterno”,
ovviamente la tua anima sarà dannata in eterno, quella cosa cioè che,
come l’araba fenice, nessuno esattamente sa cosa sia, ma alla quale
molti cercano in qualche modo di dare una identità o una fisionomia,
dato che se una cosa ha ricevuto un nome dovrà pure essere immaginata in qualche modo; che ne so…, come un pensiero, ma i pensieri
sfumano, passano e si perdono e invece l’anima si dice che resta. Puro spirito allora, ma si vorrà ammettere che un concetto astratto è arduo da afferrare e allora potresti immaginare una cosa simile a un
ectoplasma, un fantasma che vaga per gli spazi siderali anche dopo
che sei morto e non possiedi più un corpo, oppure il tuo intelletto, la
tua mente disgiunta dal corpo che continua a esistere ma alla quale
non puoi più dare voce meccanica, oppure la coscienza di te e degli
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altri, ma si dice non essere probabilmente nemmeno questo.
Ad ogni modo tu non hai creduto e pertanto sarai dannato per
l‘etrenità.
Intanto che cosa significa sarai o sei dannato! Quale pena, quale
tormento, quale castigo riceverai per avere semplicemente fatto uso
delle facoltà razionali che possiedi e liberamente hai usate senza nuocere ad alcuno; quindi per avere pensato e poi deciso di non credere e
per non avere creduto in quanto prima hai pensato. E poi “in eterno”,
che come per il concetto di anima anche questo ci è del tutto astratto,
inconcepibile al nostro intendere limitato dato che, ci piaccia o no,
possediamo solo l’idea del finito. Ma proviamo comunque a ragionare: noi umani viviamo su questo pianeta che, come tutto il resto del
cosmo, è stato originato da una infinitesima particella della grande
nube gassosa e dalle polveri cosmiche raffreddatesi dopo lo scoppio
del Big Bang avvenuto intorno ai 13,6 - 13,7 miliardi di anni fa; e
dopo un tempo appena un attimo, in senso relativo, inferiore a quei
13,6 miliardi di anni da quell’evento, in un remoto angolo dell’universo, in una galassia dell’ammasso della Vergine, la Via Lattea,
contenente circa cento miliardi di stelle, nel terzo pianeta ruotante attorno a una piccolissima stella chiamata Sole, è apparso un microscopico essere che ora si definisce homo sapiens, anzi sapiens, sapiens.
Non so esattamente da quado gli uomini o meglio gli ominidi hanno
cominciato a usare il loro cervello in maniera “migliore” rispetto agli
altri animali, o per così dire in maniera razionale; c’è stata comunque
una evoluzione, - oggi in una sorta di integralista rigurgito religioso,
che la dice lunga sui tempi che viviamo, cristiano e anche mussulmano, facendo largo uso di risorse mai prima viste in tale misura, c’è
chi questa teoria evoluzionista la rimette in discussione -. Devo dire
che talora, sentendo certi discorsi, il dubbio prende anche me. Mettiamo che i nostri antenati abbiano iniziato a pensare in maniera più
evoluta degli scimpanzè o degli oranghi, per fare un esempio di primati che conosciamo, tre o quattro milioni di anni fa, centomila anni
in più o in meno non fa differenza perché sono grandezze elevate ma
anche relative, se si pensa ad esempio che la Terra sembra avere una
età intorno ai quattro miliardi e mezzo di anni e che probabilmente,
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secondo le previsioni degli scienziati, ne dovrebbe vivere circa altrettanti prima di essere fagocitata dal Sole che nella sua fase finale si
espanderà fino a inglobarla e distruggerla.
E ora una piccola divagazione, non del tutto fuori tema, alla quale
poi mi aggancerò per ritornarci, spero, in maniera più compiuta. Nel
settembre dell’anno 2006 i più potenti telescopi terrestri registrarono
nell’universo la morte di una stella il cui nome in codice era S N
2006 g y, distante 240 milioni di anni luce dalla Terra e 2,3 milioni
di miliardi di chilometri dalla nostra galassia. Si trattava di una supernova, vale a dire di una stella che collassando su sé stessa emanava una luce vivissima e si ritiene che avesse una massa superiore di
150 volte il nostro sole, che è una nana gialla. Per esplodere ha
impiegato 70 giorni, un tempo brevissimo: un lampo. Il suo deflagrare naturalmente è avvenuto 240 milioni di anni fa, ma la sua luce, che
viaggia a 300.000 Km./sec., ci è arrivata solo ora. Mille anni prima di
questa, cioè nel 1006, i cinesi registrarono un’altra di queste esplosioni che emanò una luminosità talmente intensa da permettere alla
gente di leggere anche di notte. Le supernove collassando distruggono ogni pianeta loro vicino, ma questo è il meccanismo attraverso il
quale nell’immensità del cosmo si possono formare, creare, gli elementi pesanti che saranno poi indispensabili, qualora se ne presentassero le condizioni favorevoli, al formarsi e all’evolversi della vita.
Tali drammatici sconvolgimenti cosmici di dimensioni spazio temporali talmente enormi da non potersi compiutamente afferrare, ci richiamano comunque alla finitezza delle cose: come potremmo mai
parlare di infinito e di eternità con la arrogante presunzione che siano
cose proprie del nostro bagaglio?
Comunque questo è ora il nostro problema, il grande grattacapo
senza soluzioni; proviamo a farci domande: Se l’uomo esiste da qualche milione di anni, fra qualche altro milione esisterà ancora? Professerà una qualche religione, magari quella legata alla vicenda terrena
di un tale Gesù di Nazaret che tre milioni di anni prima era morto
sulla croce per tutti i miliardi e miliardi di esseri nel frattempo vissuti
e riscattati per la gloria sua e di suo padre unico dio; oppure legata
alla vicenda di quel profeta che si chiamava Maometto, nato alla
423
Mecca, sempre tre milioni di anni prima e che invitava tutti gli uomini a credere in Allah unico dio e così via per tutte le altre religioni,
ognuna delle quali l’unica, ognuna delle quali la vera? Oppure se la
razza umana dovesse ancora esistere, non essendosi magari scannata
e autodistrutta già molto prima, perché i seguaci delle une religioni
avranno voluto imporre le loro verità ai seguaci delle altre verità,
pure quelle assolute; se la nostra stirpe dovesse ancora esistere, dicevo, si ricorderà ancora di tutte quelle storie e amenità raccontate tre
milioni di anni prima da quegli uomini che avevano la presunzione di
definirsi sapiens, sapiens?
Nel frattempo la mia anima, che non so esattamente cosa sia, starà
patendo da tre milioni di anni, che sono molti ma anche pochi perché
tutto è relativo, e dopo cinque miliardi di anni, che sono un bel po’ di
più, ma sempre una misura relativa, quando cioè della Terra non ci
sarà più traccia, la mia anima, e anche tutte le altre dannate in eterno,
starà ancora patendo e così sarà per milioni di miliardi di anni e
quindi il conteggio dovremmo farlo con altre unità di misura, e continuerà a patire all’infinito, o meglio, come dicono i preti, in eterno,
cioè un tempo inconcepibile da quando i miei incolpevoli genitori mi
generarono e vissi per quell’attimo; tutto ciò perché in origine, in
quell’attimo della mia nascita e vita, a chi mi disse di credere, pena la
mia dannazione eterna, risposi che non accettavo che degli insopportabili … (ho pensato un epiteto che non dico ma che, credetemi, ci
sta tutto e se ho rischiato di sfiorare la volgarità non la tocco per non
farmi torto) usassero su di me tutta la loro protervia, tutta la loro
bassezza, tutta la loro violenza, tutto il loro sadismo, tutto il loro
cinismo, tutta la loro brama di prevaricazione e il loro gratuito
abusare di uomini sugli uomini, nell’ergersi a pastori e controllori di
greggi e coscienze umane.
Così, non potendo ideare grandi patimenti per i non soggiogati,
dato che se spinti oltre i vitali limiti fisici, questi conducono alla
morte e a un morto non si può usare ulteriore violenza, hanno escogitato una tortura eterna, al di là della vita; e si comprende il terrore
generato tra gli uomini, quegli che costoro vogliono poveri di spirito,
che sono stati distolti dal concetto di finitudine della vita – vale a dire
424
prima non erano, ora sono, poi non saranno, o meglio saranno altra
materia o sostanza, dato che tutto si trasforma – e messi di fronte alla
condanna della perdizione eterna, ricatto bestiale con tutto il rispetto
per le bestie e allora diremo ricatto abominevole frutto della protervia più bieca.
Ad ogni modo a me non si è manifestato nessun dio a chiedermi di
essere adorato e domando: quale bisogno avrebbe poi un dio, quale
piacere dovrebbe mai provare ad essere amato e adorato da una
nullità, un grumo di atomi perduto nel cosmo e per di più sotto ricatto? Provate a pensare, se potete, per un momento solo un poco più in
grande, uscendo, se potete, dalla gabbia che attorno vi hanno costruita; provate a immaginare un essere avulso dai difetti umani, cosa se
ne farebbe del nostro amore e adorazione, per di più estorti pena la
condanna eterna?
Tutto ciò non ha niente di divino, moltissimo invece di umano e
certo tutt’altro che dell’umano migliore.
Detto questo ribadisco che forse non esiste una spiegazione al mio
ateismo, ancorché non indiscutibilmente certo, dato che se da un lato
mi trovo concorde con il superamento di quella visione filosoficometafisica che fu il fondamento essenziale delle antiche concezioni
dottrinarie, coerentemente non posso poi sostenere un mio ateismo
assoluto e indiscutibile proprio, tra l’altro, in un ambito dove la ragione non ha mai potuto dimostrare alcunché di assoluto, con buona
pace di chi, con pervicacia, contando sul suo millenario credito persuasivo, vuole continuare a sostenere il contrario; per cui pure forte
delle mie convinzioni non posso scartare l’idea che queste possano
anche essere errate. Da qui poi a concedere senza riserva patenti di
distinzione, elevatezza, serietà, onestà e buona fede a credenze e fedi
i cui propositi e fini ultimi sono sempre stati quelli di esercitare un
controllo arbitrario, tarpando le ali alle libertà individuali del pensiero umano, per ingabbiare gli intelletti e le coscienze dentro visioni e
spazi predeterminati, esclusivi e ferocemente escludenti verso coloro
che non accettano di essere irreggimentati, ce ne passa.
Recentemente i cristiani cattolici si sono indignati esprimendo il
loro disappunto e preoccupazione, con una manifestazione a Roma
425
che voleva denunciare all’opinione pubblica come, pure in questo
tempo che vede i cristiani largamente dominanti in Occidente e nel
mondo, in alcune specifiche aree del globo tuttavia sono ancora oggetto di discriminazione e anche di persecuzione, come è accaduto
nell’agosto del 2008 in India, dove alcune chiese sono state assalite e
date alle fiamme e dei religiosi e fedeli sono stati assassinati da parte
di induisti che li accusavano di invadere i loro spazi e fare proselitismo incalzante. Verso queste vittime, come verso tutte le vittime
frutto di qualsiasi forma di odio, che non ha mai da essere giustificato, va espressa la più grande solidarietà. Andrebbe tuttavia fatto
rilevare come sia nel buddismo, così come nell’induismo, non esiste
il concetto religioso occidentale o anche medio-orientale, di proselitismo, per cui le fedi di altra concezione che si dovessero muovere in
quell’ambito dovrebbero tenere conto di questi fattori, usare rispetto,
prudenza e sensibilità, senza indugiare al comodo pensiero che
questo fatto possa rendere più facile approfittare della situazione; e
sappiamo che verso l’Oriente estremo la chiesa romanna ha, nei secoli, commesso errori sia di valutazione che di presunzione assai rilevanti, errori che in verità hanno anche portato insegnamenti e conseguenti comportamenti, che però sono dipesi più dalla sensibilità e
dall’acume di chi in quel momento stava alla sua guida, che da una
linea di condotta generale.
Del resto sempre in India nel corso del medesimo anno si sono verificati una serie piuttosto nutrita di attentati dinamitardi sia a Nuova
Delhi, che in altre città, con morti e feriti a centinaia, rivendicati da
integralisti islamici, o ad essi attribuiti.
In India tensioni e scontri, talora molto violenti fra induisti e islamici sono quasi una costante, anche se a scatenarli concorrono più
spesso fattori economici che religiosi: covano per un certo tempo sotterranei come vulcani dormienti, poi esplodono improvvisi e devastanti. I cristiani, forse perché piccola minoranza, quasi insignificante
e forse perché, memori di antichi fallimenti, si sono sostanzialmente
sempre mossi con grande prudenza e salvo sporadiche vicende non
erano finora stati fatti oggetto di episodi di particolare efferatezza.
Ma anche in Europa in questi ultimi anni, fin’anche al presente, si
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sono verificati episodi sanguinosi di intolleranza religiosa e etnica e
non mi risulta che i fedeli della chiesa di Roma abbiano manifestato,
ad esempio, contro gli atti di sistematica distruzione delle chiese e
dei monasteri cristiani ortodossi, rasi al suolo in numero ormai superiore ai 150 in una regione, il Kosovo, dove quando c’era il comunismo ateo furono protetti e dove ora, dopo la devastante guerra dei
Balcani, si è insediata una “disattenta” forza NATO che non riesce a
bloccare, o finge di non vedere gli attentati politici e civili contro la
popolazione serba ancora residente. Nel frattempo 250 moschee sono
sorte a prendere il posto delle chiese cristiane distrutte. Chiesa
scaccia chiesa dunque, e lo scempio o, a seconda di chi lo guarda,
l’insediamento di una fede “vera” al posto di una “falsa” non è ancora arrivato a conclusione.
Si può in qualche modo comprendere che il ricordo ancora fresco
di barbari torti subiti continui a alimentare il rancore di molti kosovari, (come pure di molti bosniaci), ma non è più giustificabile che a
guerra finita da più di un decennio sia permesso l’accanimento criminoso su una minoranza che se continua a restare in quel paese è perchè quello è anche il suo paese e perché non si è macchiata di nessun
delitto, giacché se l’avesse fatto sarebbe da un pezzo fuggita.
Comunque la “pulizia etnica” in quella guerra è stata praticata da
tutti i soggetti coinvolti: alcuni con maggiore intensità e ferocia, altri
con meno, ma da tutti.
Allora se queste cose accadono nel cuore dell’Europa, nell’indifferenza generale,non sarà perché a subire sono dei cristiani ortodossi e
non cattolici ed essendo i primi, per i secondi, figli di un dio minore
non meritano di fare notizia e ancora non fanno notizia perché l’Occidente, leggi Europa e America, avendo condotto una guerra orrenda
in maniera pessima, se mai una guerra si potesse condurre in maniera
ottima, e avendo gestito pure in modo pessimo il dopoguerra, ora,
vergognandosene, fa di tutto con accondiscendente complicità generale: destra, sinistra, preti e media, con eccezione dei soliti pochissimi, affinché di questa sporca faccenda se ne parli il meno possibile.
Le religioni, che nei confronti delle guerre hanno spesso mantenuto
un pensiero e un atteggiamento ambiguo, in linea teorica non possie-
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dono nei loro impianti dottrinari insegnamenti e principi espliciti di
violenza ma avendo, nei fatti, ogni religione l’obbiettivo (recondito o
palese) di catechizzare,“evangelizzare”, far proseliti, crescere, diventare maggioritaria, anzi unica, totalizzante ed esclusiva, finirà anche
per essere escludente, al di là di tutte le belle parole, verso le rivali
minoritarie delle quali teme l’antagonismo e la concorrenza.
Per questi motivi ogni religione che proclamando la pretesa certezza di essere ispirata dagli dei, è di fatto condotta dagli uomini, diventa fisiologicamente repressiva , persecutoria e violenta nella misura,
nei modi e nelle forme consentite e tollerate dalle legislazioni operanti e dal grado di civiltà e cultura presente paese per paese. I suoi
atti saranno autoassolutori perché compiuti nel nome di una autorità
“superiore”.
Non esiste una sola fede religiosa che si sia mai sottratta a questa
legge fisica.
È ad ogni modo comprensibile che sia naturale e logico risentirsi
quando per oggettive situazioni e condizioni ci dovesse toccare di vestire i panni nella parte dei perseguitati, sapendo però che a condizioni e situazioni ribaltate vestiremmo, pure giustificandolo, come è
spessissimo accaduto, quelli dei persecutori.
Non è quindi esatto affermare che le religioni hanno sempre e
comunque rigettato la guerra, dal momento che l’hanno anche praticata in prima persona: il popolo d’Israele si insedia nella terra di
Canaan dopo averne sterminate le popolazioni, vecchi, infanti e animali compresi, e nel 2008, distruggendo la Striscia di Gaza e massacrando più di 1.000 persone, vecchi, donne e bambini compresi: si
para ancora dietro a quelle logiche,(religiose?), che videro nella distruzione di un popolo che si volle nemico, la conquista dello spazio
vitale per il proprio?
L’islam si espande in tre continenti con tutta una serie di conquiste
armate.
Il cristianesimo si fa strada con la spada, da Costantino a Carlo
Magno, ma lo stesso Stato della Chiesa espande i suoi confini attraverso le guerre e il sangue; Giulio 2° ne è il papa forse più emblematico ma certo non il solo.
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Per contro nessun regno, impero, o stato politeista, che gli dei in
guerra li ha certo invocati, si è mai espanso per loro conto.
Il fatto è che della chiesa – parlo di quella del mio paese che conosco meglio – abbiamo spesso avuto una visione distorta, sia perché
indotta dalla stessa, ma anche per una sorta di connivenza e complicità acritica – le due cose sono connesse e una supporta l’altra – per
cui, per fare un esempio, è stato confortevole e confortante vederla
sempre come portatrice di pace, anche quando i suoi esaltati predicatori percorrevano l’Europa istigando i cristiani a fare strage degli infedeli per liberare il Santo Sepolcro.
Nei tempi poi la chiesa si è trasformata, di fatto sempre trainata, a
rimorchio della società civile le conquiste di libertà e eguaglianza
della quale ha poi impudentemente rivendicato come ne fosse stata
l’autrice, la progenitrice o l’ispiratrice: ne era invece stata la palla
frenante al piede e per moltissimi versi ancora lo resta.
Chi dunque la vede oggi con l’immagine che di se stessa essa si da,
supponendo che così sia sempre stata prende un terribile abbaglio,
giacché anch’essa è secolare esattamente come il mondo secolare, dal
quale strenuamente e con successo innegabile si è voluta distinguere,
e ha attraversato il naturale e materiale percorso storico del normale e
materiale contesto umano.
Per questi motivi la chiesa non è stata sempre contro la guerra, non
è stata sempre contro la pena di morte, non è stata sempre contro la
tortura, non è stata sempre contro lo schiavismo, tutte cose che anche
essa ha praticato senza remore.
Non è nemmeno sempre stata a favore dell’uguaglianza ne a favore
dei diritti umani e continua a non esserlo. Alla fine dell’anno 2008
siamo stati testimoni di una ulteriore presa di posizione vaticana
sull’iniziativa francese, che a nome dell’Unione Europea aveva presentato all’ONU la proposta di depenalizzazione del reato di omosessualità, ( questo la dice lunga sul livello di civiltà finora esistente nel
contesto umano, in particolare di certi organismi che pretenderebbero
di ergersi a esempi e guide di fratellanza e uguaglianza ), in base al
principio di eguaglianza dei diritti di tutte le persone, indipendentemente dal loro orientamento sessuale. Abbiamo purtroppo dovuto
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apprendere che i paesi che prevedono nei loro codici il “reato” di
omosessualità sono addirittura 91 e di questi alcuni puniscono tale
“reato” con pene che vanno dal carcere, ai lavori forzati, alla tortura.
Una decina di stati prevede addirittura la pena di morte per impiccagione o in modi anche più brutali. Il Vaticano si è messo di traverso,
negando l’approvazione di questa proposta, spiegandoci “candidamente” per bocca del suo rappresentante alle Nazioni Unite, mons.
Celestino Migliore, che la chiesa è contraria al fatto che gli omosessuali siano discriminati, però…, pure concordando con questa istanza
politica che chiede agli stati di aumentare il numero delle categorie
da tutelare, si corre il rischio che vengano create nuove discriminazioni. Una ennesima disinvolta arrampicata sugli specchi; ma a parte
questi vuoti bizantinismi che nascondono timori per noi incomprensibili e per la chiesa, probabilmente, inconfessabili, cosa centrano
questi veti con il cristianesimo? Perché la chiesa che si proclama di
Gesù Cristo si pone dalla parte di quelle dittature e di quei governi
oscurantisti che negano i più elementari diritti umani? Perché si
mette dalla parte di chi toglie la vita a persone considerate criminali
della peggiore specie a causa del loro orientamento sessuale? Chi
predica del “valore della vita” o è coerente su “tutta la linea” o non
ha molto titolo per parlare. È davvero questa la chiesa misericordiosa
che ha fatto propri gli insegnamenti di Cristo o non è piuttosto un
organismo simile a altri organismi temporali, centri di potere che si
muovono secondo convenienze di bassa politica e di consenso da
sondaggio. Tutto ciò perché teme che cadendo il “reato” di omosessualità possa poi cadere anche la barriera che attualmente ancora
impedisce a persone dello stesso sesso apparente di sposarsi, sia pure
con rito civile. Mi chiedo con quale faccia, con quale coraggio un sacerdote che concorda col permanre di una tale inumanità possa senza
turbamenti guardare negli occhi un semplice fedele e se questo, per
via del suo credo è comunque sempre disposto obbediente a accettare
per buona ogni presa di posizione vaticana, anche quando questa va
palesemente contro ogni elementare criterio di diritto e di giustizia.
Presa di posizione non commentabile né definibile con alcun aggettivo, perché lo stupore e così grande che diventa davvero difficoltoso
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trovare parole adeguate.
Si pensava che per il 2008 ciò potesse bastare, ma ci sbagliavamo,
perché c’era dell’altro. Dopo pochi giorni – eravamo ai primi di dicembre e ci si apprestava al Natale – arrivò il bis. Accadde cioè che
sempre all’ONU la Santa Sede si rifiutò ancora una volta di porre la
sua firma sulla Convenzione dei Diritti dei Disabili. In realtà il
comportamento vaticano risultò essere piuttosto elusivo, per non dire
ambiguo, dal momento che da un bollettino di Radio Vaticana il
mondo apprendeva che la convenzione ONU era considerata <<un
passo importante sulla via delle pari opportunità>>, però non la si era
voluta firmare perché nel testo si coglieva il sussistere della condizione affinché potesse anche essere praticato l’aborto, poniamo, se
fossero state accertate imperfezioni, di una certa gravità, nel feto.
Questo, pare, lo scoglio perché ai diversamente abili venisse negata
la firma vaticana.
Non dipenderà certo dalla mancata firma della Santa Sede se persone fisicamente o mentalmente svantaggiate saranno in futuro più o
meno discriminate, ma la firma di un membro autorevole dell’organismo delle Nazioni Unite, anche se solo osservatore, su quel suo
importante documento avrebbe di certo aiutato.
È pacifico che se il Vaticano si assume l’onere di queste prese di
posizione lo fa a (sua) ragion veduta e i motivi principali che da fuori
si colgono sembrano stare in misura maggiore nell’ostinato ossessivo
bisogno di controllo sulla sessualità, femminile in particolare; ma
non basta perché tale pretesa di controllo esercitata fino all’insistente
molestia, è parimenti rivendicata nell’esercizio di controllo delle
menti. È una questione vitale per la chiesa, per le chiese: è questo
abuso di potere di uomini su donne e uomini che non possono permettersi di lasciarsi sfuggire e, sia chiaro, il termine abuso non vuole
indicare il superamento della misura, ma la misura stessa, violata attraverso l’appropriazione indebita di un ruolo che non compete né a
loro né a nessun altro.
La chiesa ha percorso questo itinerario verso le libertà e i diritti
della società civile quasi sempre trascinata, a rimorchio, spesso recalcitrante. Tra gli stati che hanno abolito la pena di morte è arrivata tra
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gli ultimi e non è ancora del tutto esente dal concetto di ripudio della
guerra: nel catechismo del 1992 è presente e legittimata la cosiddetta
“guerra giusta”, per cui l’Occidente che in questo ultimo ventennio
ha scatenato le due guerre nell’Iraq, quella sui Balcani e quella in
Afganistan, avendole battezzate tutte, oltre che con altri appellativi,
anche con quello di “guerre giuste” può, di conseguenza, dormire i
sonni del giusto! La prima domanda alla quale, essendo sinceri, si
potrebbe dare una immediata e ovvia risposta è la seguente: “le
guerre occidentali contro l’Iraq, in particolare la seconda; quella
contro l’Afganistan e quella minacciata dall’amministrazione G. W.
Bush contro l’Iran, che pure ha un leader pericoloso, irresposabile e
dopo le elezioni del 2009 probabilmente anche abusivo, sono state
condotte dalla mera (così ci raccontarono) intenzione di combattere il
terrorismo, oppure: 1) dalla smania di potere e di controllo sul mondo e sulle sue risorse e, 2) dalla volontà di attuare quello scontro di
civiltà, che a parole si nega, ma nei fatti si è voluto perseguire per
imporre al pianeta quel pensiero unico che si voleva o credeva essere
quello dei più forti”? Seconda domanda: “quel terrorismo che si diceva di voler combattere, agendo in codesto modo non è invece stato
alimentato”? Terza domanda: “ci sarà stato pure qualcuno del nostro
mondo occidentale e ancora ci sarà, che si sarà chiesto come potevano essere vissute e subite dal mondo mussulmano queste guerre di
aggressione”?
Assai probabilmente, con scellerata leggerezza e incuranti del fatto
che si stava giocando con le vite di migliaia di persone, si pensò che
con una fava si potevano prendere addirittura tre piccioni, ma la realtà è stata ben differente. La seconda guerra in Iraq è costata oltre
5.000 morti fra i soldati americani e oltre 600.000 fra la popolazione
irachena: solamente a fine mandato il presidente Bush, meditando su
queste cifre e sul suo fallimento ha dovuto ammettere che “probabilmente” aveva commesso un errore. Oggi gli americani sconfitti nei
loro obbiettivi, dovranno solo trovare i modi e i tempi per ritirarsi
dall’Iraq senza perdere troppo la faccia e in effetti il nuovo presidente Obama lo ha già annunciato. Non ha invece annunciato un analogo
provvedimento per la guerra in Afganistan che è tuttora in pieno
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svolgimento, anzi sta subendo di mese in mese quella che con termine assai eloquente in Viet Nam fu chamata “escalation”, con tutto
quello che il termine significò. Ogni tanto ci giunge notizia di gruppi
di talebani annientati; ma quasi sempre poi trapela che si trattava di
povere famiglie di civili, in maggioranza donne, vecchi e bambini,
fatti passare per combattenti talebani da una stampa asservita che rinunciando a fare il suo mestiere di informare ci spaccia per successi
militari orrendi massacri di povera gente giacché gli uomini giovani
a validi sono nella guerriglia, pardon, da noi si deve dire terrorismo.
Guerra alla quale, in barba al dettato costituzionale, noi italiani contribuiamo. Nel 2008 abbiamo mandato di rinforzo tre caccia, ci
dissero col compito di ricognitori: vogliamo bere anche questa? E beviamola! Nel 2009 il nostro contingente è aumentato ancora di oltre
500 unità e pure l’armamento,(elicotteri), nel 2010 manderemo altri
1500 uomini e mezzi, con soddisfazione del nostro ministro della difesa, del nostro premier, di quello americano e con un po’meno soddisfazione del popolo afgano. Non so il tempo che ci metterà Obama
a capire in che ginepraio si è andato a cacciare, intanto i morti, anche
fra i soldati della coalizione, aumenteranno e saranno morti veri.
La realtà è che i talebani , nonostante siano formati da gruppi guidati dai cosiddetti “signori della guerra”, spesso nemmeno in accordo fra loro, se all’inizio del conflitto contrlollavano una piccola fetta
del territorio, oggi controllano circa i tre quarti del paese il quale ha
come principale risorsa il commercio della droga. L’ottanta per cento
della produzione mondiale della droga ricavata dal papavero da oppio proviene dall’Afganistan. In pratica, e non è nemmeno uno sproposito, le coltivazioni del papavero stanno quasi a ridosso delle basi
militari occidentali e dei loro campi di aviazione i cui aerei ben si
guardano dal bombardare, pure sapendo benissimo che i proventi
della droga servono alla guerriglia per l’acquisto di armi, fatto questo
che dovrebbe far sorgere degli interrogativi che evidentemente nessuno intende porsi.
Nel marzo del 2009 il presidente fantoccio afgano Hamid Karzai,
installato a Kabul dagli americani al posto dei talebani, in rapidissimo calo di consensi e ovviamente di potere, tant’è vero che viene
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chiamato “il sindaco di Kabul” perché la sua influenza non si espande oltre il perimetro della capitale, per riguadagnare un poco di consenso (per essere rieletto) dei gruppi religiosi più oltranzisti ha fatto
approvare una legge la quale oltre a impedire alle donne di uscire di
casa senza il permesso dei mariti, legalizza lo stupro in famiglia: vale
a dire che le donne non potranno più, per legge, opporre un rifiuto
alle richieste sessuali del marito. Ma non ci si venne a raccontare a
suo tempo che noi occidentali saremmo andati in Afganistan anche
per far cessare queste iniquità e altre ancora perpetrate dagli allora
governanti talebani nei confronti delle donne? E quanti dei nostri
giornali e telegiornali nazionali ci hanno dato questa ultima notizia?
Ma torniamo al problema di quei cristiani, italiani e non, in missione all’estero, i quali sentendosi vittime perseguitate dall’odio delle
altre fedi, si stava parlando dell’India, sollecitarono la solidarietà di
quanti poi manifestarono a Roma in loro favore affinché il “troppo
tiepido” mondo cristiano reagisse e facesse cessare queste violenze.
Giusto! Purchè non si proponga di ripagare i rivali o concorrenti, in
questo caso gli induisti, con la stessa moneta.
La nazione indiana, quasi 11 volte la superfice dell’Italia, ha superato il miliardo di persone, una cifra davvero imponente. L’80% della
sua popolazione è hindu, il 14% è mussulmana, quasi tutto il resto è
buddista e probabilmente uno zero virgola qualche cosa è cristiano.
Non penso quindi che questa piccola minoranza possa rappresentare
un problema o peggio una minaccia di tipo religioso per le altre fedi
presenti in India, a meno che, in alcune zone del paese i cristiani non
si dimostrino un po’ troppo “zelanti”, vale a dire, in parole povere,
che non cerchino di fare proselitismo in maniera troppo spinta,
ostentata, giacché questo modo di agire, bisognerebbe saperlo, può
diventare molesto o anche provocatorio nei confronti di credenti che
rispetto alla loro fede non contemplano la pratica del proselitismo,
almeno così pare, anche se mi permetto di sollevare qualche piccolo
dubbio in quanto in un siffatto contesto di fare nuovi seguaci forse
non ne hanno bisogno dato che la situazione religiosa è, per così dire,
statica, ingessata e rigidamente impostata su un apparente inamovibile conservatorismo. Pertanto, chiunque tenti di modificare questo
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status quo può incorrere in problemi più grossi di quanto avrebbe immaginato. Non mi pare però che nei confronti di cristiani in India si
verifichino atti ostili, sistematici, reiterati e diffusi sul territorio.
Caso mai se nel paese vi sono stati episodi di discriminazione religiosa questi sono stati rivolti per lo più verso i mussulmani, che sono
sì minoranza, ma minoranza considerevole e per una parte di hindu
pare proprio che rappresentino un problema. Gli scontri fra le due
comunità ormai non si contano e finora fra questi il più grave in assoluto è stato il progrom antimussulmano di Gujarat del 2002 ed è purtroppo prevedibile che questi scontri continueranno anche nel futuro.
I motivi sono molteplici e endemici (discriminazioni, insofferenza,
intolleranza al proselitismo, ecc…) e a questi si è aggiunto il problema del Kashmir, la regione contesa fra India e Pakistan. Nella
parte del paese occupata dagli indiani la minoranza mussulmana è
oggetto di forti discriminazioni, che vanno dagli arresti arbitrari, ai
pestaggi, alle torture; angherie anche peggiori di quelle subite dai
tibetani da parte del governo e l’esercito cinese, contro le quali, giustamente si è ampiamente manifestato anche in Occidente. Lo stesso
Occidente però rimane indifferente per quanto avviene in Kashmir:
forse perché male e poco informato, ma forse anche perché è stato
irretito per almeno un paio di decenni all’antipatia e alla paura verso
quel mondo mussulmano che in realtà siamo stati noi a molestare.
Là dove una religione è maggiormente radicata e praticata, la pressione aggressiva verso le fedi concorrenti minoritarie, specie se vivaci e intraprendenti, è più netta e pesante, arrivando finanche a negare
a queste, ad esempio, i luoghi di culto, e non aggiungo altro.
Laddove le convinzioni religiose sono meno rigorose o esercitate
con il distaccato equilibrio di una filosofia di vita piuttosto che come
una rigida osservanza di regole dogmatiche, la tolleranza verso le
altre fedi è certamente più ampia.
Poi ci sono i non credenti. Come viene tutelata la loro autonomia,
libertà e indipendenza, in modo particolare in quei paesi dove se una
persona si dichiara non credente negli dei colà venerati diventa automaticamente un peccatore o addirittura un nemico della società?
Come cercare di comprendere e come regolarsi quindi di fronte a
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atti o dichiarazioni di capi religiosi che condannano, senza provare
alcun senso di inquietudine, quando salendo con i piedi su entrambi i
piatti della bilancia, quello dei pesi e quello delle merci, l’uno che si
riterrebbe proprio della sfera religiosa, l’altro di quella laica, secolare
e civile, pretendono da quell’insolita e idebita posizione di impartire
lezioni di una materia e anche dell’altra?
Il riferimento è al viaggio di Benedetto 16° in Francia, in occasione
del 150° anniversario dell’apparizione della madonna di Lourdes.
A Parigi, nel refettorio cistercense di Bernardins, di fronte a 700 invitati fra politici, religiosi e intellettuali, il papa con la consueta fermezza dettata dalle sue certezze dogmatiche e, in verità, in perfetta
armonia con il presidente Sarkosy, ha tenuto la sua consueta ennesima lectio magistralis, imperniata sul rapporto tra fede e ragione –
tema per lui ricorrente – affermando che: << una cultura senza Dio è
la capitolazione della ragione>> e, secondo tema, sul significato di
laicità, del termine cioè che in quel paese, più che in ogni altro in
Europa, è stato la piattaforma di base sulla quale si costruì la fortezza
che permise di vincere la deriva cruenta dovuta alle lotte di religione
che insanguinarono il paese per secoli e dalla quale si dettarono le
leggi che stabilirono le sfere di competenza al fine di una convivenza
laica e religiosa pacificate, cose assolutamente note a Benedetto 16°:
se è andato proprio in Francia (nelle tana del lupo) a mettere in discussione i principi che hanno permesso all’Europa una pace religiosa ormai secolare o è perché era molto sicuro del suo agire o era
altrettanto sicuro di compiere un’operazione provocatoria poco assennata, ma che gli era garantita dal consenso presidenziale, consenso di un uomo indubbiamente francese, che però non poteva trarre
linfa dalle radici culturali e laiche profonde del paese, non avendo
nello stesso antenati che abbiano saputo trasmettergliela: la Francia è
un paese estremamente aperto e, proprio per i suoi principi, pronto a
offrire la sua cittadinanza a chiunque desideri diventare francese, ma
è evidente (questo vale in linea generale) che per sentirsi veramente
francesi, o cittadini di qualsiasi altro paese, fino al midollo, una sola
generazione probabilmente talora non è sufficiente.
Per il papa la laicità così come è pensata dai laici odierni non va
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più bene e va quindi ripensata, pertanto a questo proposito dice che:
<<una nuova riflessione sul vero senso dell’importanza della laicità è
ormai necessaria>>. E non ha nemmeno usato giri di parole nell’affermare necessaria e insostituibile la funzione della religione nella
costruzione delle coscienze.
Il laicismo della Francia moderna ha già ricevuto scossoni notevoli
e l’attuale inquilino dell’Eliseo, come sopra si diceva, ci ha messo
parecchia farina del suo sacco con la teoria sulla “”laicità positiva”.
Cosa penserà il cittadino, in particolare quello poco informato: “Se
dice positiva non verrà mica a svantaggio, ti pare?” Potenza delle
parole! Ma nel concreto che cosa intende? La faccenda, o il piano
non è stato ancora del tutto sviscerato e forse non ce n’è nemmeno
bisogno: sono sufficienti gli atti a farcelo intendere e i temi sul tappeto sono quelli della bioetica, del finanziamento statale delle scuole
religiose private, dell’insegnamento della religione: per fare un
esempio concreto, copiare in Francia quello che che sta facendo il
governo Berlusconi in Italia, o meglio quello che non sta facendo,
(sul testamento biologico le cose stanno ancora in alto mare ma non
si intravede nulla di buono, anzi!). Per la verità nemmeno nei due
anni del precedente governo Prodi di centrosinistra si è avuto il coraggio di fare qualcosa. Copiare dall’Italia dove da un lato il governo
taglia il numero degli insegnanti, ma lascia intatto quello degli
insegnanti di religione che sono circa 15.000, praticamente un prete
su due: ovviamente non insegnano tutti - ci sono anche insegnanti di
religione laici – ma tutti percepiscono lo stipendio. Ulteriori tagli
sono stati fatti per i fondi a favore dello spettacolo che passano dai
567 milioni del 2008 ai 378 del 2009. anche in Francia era stata
tentata una manovra simile ma i lavoratori dello spettacolo si sono
mobilitati con una serie di proteste e il governo ha dovuto desistere.
L’unica spesa che aumenta nel mio paese è quella per la guerra in
Afganistan, con soddisfazione del governo e buona pace del papa,
dei cittadini assuefatti al fatto che si violi la costituzione andando ad
aggredire un altro paese, e di chi dovrebbe esserne garante.
In queste brecce che il presidente francese ha aperto il papa ha
naturalmente infilato i suoi cunei, anche se non tutti i vescovi france-
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si si sono detti d’accordo.
In tempi come questi di insicurezze economiche, tensioni sociali e
cambiamenti politici epocali, l’Europa si muove con estrema difficoltà, con preoccupazione e con prudenza. Perciò anche la Francia risente del clima che s’è venuto a creare ed è come un mastino stanco bisognoso di un sonno ristoratore: sembra che qualcuno malaccorto
abbia deciso che questo è il momento giusto per prenderlo a calci.
Non si pensi che non mi randa conto di avere iniziato parlando del
mio ateismo e sono finito con il parlare dei calci inferti alla laicità,
ma le due cose in realtà non mi paiono tanto distanti.
Ad ogni modo agli uomini ossessionati dal loro “dopo”, che bramano avere un dio cui aggrapparsi e trovare consolazione, suggerirei di
farsene uno personale al quale rivolgersi, col quale avere un rapporto
diretto, senza mediazioni di preti, di vescovi, di santi, di chiese, di
passaggi per vie gerarchiche, anche queste per niente divine. E a questi signori, a questi conduttori di greggi con la verità in tasca, non a
tutti comunque, concedo la buona fede, ma li esorto a pensare. Riguardo poi al rispetto, è ovvio che c’è, ma non in quanto credenti o
agnostici o non credenti o aderenti a una “verità” o a un’altra, praticanti o non, certi o dubbiosi, ma semplicemente in quanto donne e
uomini di questo mondo.
So bene che parlare di fede e di anima è una questione molto delicata che andrebbe affrontata con il massimo del tatto possibile.
Il brano qui sopra esposto stava volgendo alla conclusione quando
mi capitò di leggere “L’anima e il suo destino”, il libro del teologo e
filosofo Vito Mancuso, prima edizione 2007, Raffaello Cortina
Editore – che però io lessi alla metà del 2009 -; libro arricchito dalla
prefazione di una lettera del cardinale, in pensione, o per meglio dire
in volontario esilio a Gerusalemme, Carlo Maria Martini, il quale
ringrazia Mancuso per il coraggio avuto <<a scrivere dell’anima>>,
anche se per le tesi sostenute dallo scrittore, autore di altri libri di
natura teologica e filosofica, spesso in contrasto con le tesi ufficiali
della Chiesa Cattolica, alla quale come laico egli appartiene, il
cardinale Martini talora non concorda con l’autore.
Ritengo che questo libro, che il filosofo dedica in misura maggiore
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ai laici, per l’impegno, la profondità e l’intelligenza profuse nell’affrontare questi argomenti sia senza alcun dubbio un’opera importante
che consiglio di leggere sia ai non credenti ma, mi permetto di dire
soprattutto ai cosiddetti credenti cattolici, quelli che Bepi De Marzi
ha definito superstiziosi, affichè, se possono, si scuotino dal loro placido torpore che li porta a delegare il sacro, sul quale peraltro ho già
detto, agli aspersori di acqua santa, che lavando il gregge passivo e
inerte tutto lo beatifica e tutto lo deresponsabilizza dal pensare e
dall’agire, agnello per agnello, nel rapporto personale col divino; sicché andrebbe rifiutata – è solo un suggerimento non potendomi permettere di più – ogni passiva delega, rifuggendo dalle mediazioni pastorali che ad ogni agnello fanno da schermo impedente.
Dopo aver letto il libro non mi sono sentito di modificare quanto
sopra avevo scritto, anche se qualcosa nelle forma poteva essere aggiustato, non però nella sostanza, tuttavia ho moltissimo apprezzato il
notevole e profondo sforzo del lavoro di Mancuso, le cui opinioni ,
come egli stesso dice: <<che risultano eterodosse rispetto alla
dottrina ufficiale della Chiesa, da me ritenute invece pienamente ortodosse rispetto alla verità immutabile di Dio…>>. Convinzioni e
opinioni che gli vengono da lontano, ma che gli si sono vieppiù
rafforzate dal confronto fecondo con gli scritti e le idee di persone
come Simone Weill, Dietrich Bonhoffer, Paul Florenskij, Pierre
Teilhard de Chardin e altri teologi e filosofi, a partire dagli antichi
greci, Platone e Aristotele per passare, fra i numerosissimi altri, ad
Agostino e a Tommaso d’Aquino, dai quali molto ha attinto, ma anche dai quali ha inteso marcare una distanza netta muovendo loro
delle critiche circa alcune loro visioni che devono essere superate
perché nei fatti, per Mancuso, eterodosse rispetto all’oggettività
dell’infinita misericordia divina, per proporre al mondo cattolico –
compito assai arduo visto lo stato e l’impianto cristallizzato di questa
chiesa, ma direi di tutte le chiese (l’autore si preoccupa della sua) –
una visione nuova nel rapporto tra gli uomini, la loro anima e il
divino.
Tesi argute dicevo, meditate, profonde e anche suggestive, nonché
singolari, argomentate anche dal punto di vista “fisico”, chiamando
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in soccorso anche la scienza, per esempio Einstein e altri importanti
uomini di scienza, anche non credenti, dai quali estrapola alcuni
passi di loro scritti o discorsi indubbiamente di grande importanza e
se vogliamo anche fondamentali, ma che tuttavia a me pare, se posso
azzardare, non possono fornire un quadro, se questo era l’intendimento, della filosofia che muoveva questi uomini.
Non posso che augurargli che le sue argomentazioni facciano
breccia e contribuiscano alla discussione smuovendo la vischiosa immobilità che sta paralizzando il mondo cattolico e che nel suo ambito
finiscano per dichiararsi tali uomini e donne che avendo superato la
mera passiva adesione fideistica lo siano per convinzioni scaturite da
riflessioni e conoscenze più approfondite del loro impianto teologico:
ne guadagnerebbe moltissimo quel dialogo che dentro la chiesa per
convenzione si invoca, ma che nei fatti si considera un inutile orpello
perché la via scelta per la trasmissione della “conoscenza” resta quella classica, non ci sono motivi per cambiarla: è l’indottrinamento.
Nei primi giorni dell’ultima decade di marzo del 2009 il papa è andato in Africa “a portare a quelle popolazioni la parola del Vangelo”;
così si era espresso Benedetto 16° la settimana prima del viaggio dal
balcone di piazza San Pietro, le parole esatte non le ricordo ma
questo era il senso: era andato a insegnare.
Sempre intorno alla metà di marzo don Ciotti, intervistato da
Corrado Augias, nel corso della sua rubrica di primo pomeriggio di
Rai 3, diceva di andare in mezzo ai poveri e ai diseredati a imparare.
Come si vede in seno alla Chiesa , rispetto a temi analoghi, esistono
posizioni diverse, anzi contrapposte, ma in questo caso la seconda,
che io considero la più autenticamente rispondente al pensiero e allo
spirito cristiano, appartiene a uomini come, appunto, don Ciotti, don
Gallo o padre Zanotelli, tenuti dai loro vertici ai margini di questa
chiesa, mentre altri uomini ancora, come taluni religiosi sudamericani che ho già avuto modo di nominare in questo volume, sono stati e
sono ancora addirittura emarginati, guardati con sospetto e talora
anche rigettati dai vertici vaticani perché hanno il torto di vivere e
condividere il Vangelo da poveri fra i poveri. Se mai persone come
queste venissero fatte papa – non temete, non si verificherà – potrei
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anche essere tentato di guardare al cattolicesimo con l’occhio meno
dubbioso, anche se non con quello del fedele, sentendolo comunque
più vicino. Quanto alla fede, per quella è necessario essere “toccati”,
che non significa essere matti ma toccati da quel qualcosa che il sottascritto non ha incontrato. Ma così permanendo le cose più tengo un
certo distacco, (distanza), più mi sento tranquillo.
Intendiamoci, anche fra le persone comuni che incontriamo tutti i
giorni vi sono dei cristiani autentici e io ho avuto la fortuna di conoscerne alcune e ancora vi sono poi persone bravissime e buone che
non praticano fedi e non frequentano chiese.
Sulle vicende papali ruotanti attorno al primo scorcio del 2009: il
caso della revoca della scomunica al vescovo negazionista della
Shoà, Willianson, la presa di posizione del papa, con la sua condanna, sull’uso del preservativo, in Africa, come deterrente contro la diffusione dell’Aids e alle conseguenti critiche che sono piovute sul
pontefice da mezzo mondo non intendo ora fare commenti e forse
nemmeno più avanti, perché già molto è stato detto. Non posso però
non ricordare che in aggiunta, su queste tematiche di carattere etico,
la primavera si è aperta con la sentenza del Tribunale Costituzionale;
(la Consulta), che ha bocciato la legge 40: la legge sulla procreazione
assistita, approvata nel 2004, definendola parzialmente incostituzionale. Qua rilevo solamente che la Conferenza Episcopale Italiana,
riunitasi per difendere il papa dalle critiche, a suo giudizio eccessive,
benchè del tutto legittima nella sua azione mi domando cosa altro si
poteva aspettare. È risaputo, ad ogni modo, come al suo interno sia
chiaramente divisa fra conciliaristi e anti-conciliaristi e che finora
sta prevalendo la seconda posizione, che nelle parole e nei fatti viene
pubblicamente espressa come se all’interno il fronte fosse compatto.
Ma se all’interno le posizioni dissenzienti esistono, benchè non
trapelino, perché nel mondo esterno, fatto di infinite posizioni, si
dovrebbe tacere senza muovere critiche? In base a quale principio?
Ma torniamo a Vito Mancuso e al suo “L’anima e il suo destino”
dicendo che trovo strano che egli elaborando le sue tesi “eterodosse”
– in altri tempi si sarebbe parlato di eresie, e di fatto, secondo il metro di misura ufficiale sin qui usato dalla chiesa, lo sono – continui a
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rimanere nel cattolicesimo, e ultimamente ne faccia da sponda, anche
se di questo, oltre alle molte cose che non condivide, altre non comprende e non di certo perché limitato, ma perché cose relative ai famosi “misteri”, peculiari delle religioni, che nessuno sa spiegare ma
che devono essere accettati e non discussi così come sono stati proposti e tramandati, altrimenti la “fede” andrebbe a farsi “benedire”.
Ho detto che trovo strano, non che non comprendo e per spiegarmi
faccio un paragone forse banale che accumuna il sacro al profano, ma
al momento non ne trovo un altro: quando sul finire del 1972 mi
allontanai dal PSI lo feci attraversando un conflitto interiore dato che
fu un po’ come disconoscere la “madre”. Aderii, come dissi, per
qualche anno al Pdup, dopo di che, pure restando a sinistra, non ebbi
più referenti politici di partito: ultimamente concordavo spesso con
Fausto Bertinotti, che continuo a stimare per la lucidità delle sue
analisi, il quale forse è rimasto vittima di una certa sua dose di
narcisismo, ma quanti politici, anche di nessun valore, non lo sono?
Ciò che non riesco a condividere con Mancuso, al di là del fatto
che lui è un credente e io no, differenza che anche lui tende a marcare nei confronti dei non credenti, specie in un passo del suo libro e in
un modo che a dire il vero non mi è parso molto rispettoso, è la sua
assoluta certezza di un universo il quale viaggia verso una meta o un
fine tendente vieppiù all’ordine, giacché Dio non poteva (può) non
aver pensato che a questo disegno, ma del resto è questa, e forse non
la sola, la dicotomia che separa il credente dal non credente.
Anche Mancuso peraltro cita la terza legge della termodinamica,
che parrebbe proprio dimostrare il contrario di quanto egli afferma,
cioè che le cose, tutte le cose, se non continuamente corrette e aggiustate tendono, naturalmente, inesorabilmente all’antropia, cioè al disordine, al caos. Qui il filosofo e soprattutto il teologo non sembra
avere grandi argomenti scientifici per confutare la legge se non quelli
della fede e di una logica che regge solo se regge Dio e questi per il
credente, ovviamente, non può che reggere (essere).
È singolare come questa legge della termodinamica in questi ultimi
tempi sia diventata così popolare e sia così tanto citata: ad esempio
nel recente libro di Nicola Armaroli e Vincenzo Balzani “Energia per
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l’astronave Terra”, di cui dirò più avanti in un altro “capitolo”, ma
anche da Piergiorgio Odifreddi, in uno dei suoi ultimi lavori, e altri
ancora. Legge di moda, dibattuta, che si presta tanto alle discussioni
di carattere scientifico quanto a quelle filosofiche e teologiche, come
sembrerebbe.
Ad ogni modo il filosofo e teologo Mancuso ci dice che l’uomo per
salvarsi, salvare la sua anima, non è necessario che santifichi le feste,
frequenti le chiese, vada alla messa, aderisca e rispetti i sacramenti,
se fa tutto ciò meccanicamente, perché gli è stato insegnato e chiesto
e perché questo gli dovrebbe permettere di raggiungere un qualche
premio finale.
Il pregare invece lo ritiene essenziale, per le anime del purgatorio.
Ma qui la faccenda si complica e secondo il mio parere su questo
punto si palesa una contraddizione, o una nuova eterodossia, ma dato
che per spiegarla bene dovrei sintetizzare un intero capitolo, il che
non è davvero facile, proverò a semplificare all’osso sperando di non
banalizzare: la preghiera non servirebbe allo “sconto di pena”, pena
che l’anima non riceverà (o riceverebbe) nel Giudizio Universale
finale, che non ci sarà in quanto superfluo, ma la pena arriverà subito
dopo la morte e quella sarà e quella resterà. La preghiera non servirà
quindi a “mercanteggiare” sconti con Dio ma farà si che l’anima troverà consolazione non sentendosi abbandonata.
Sulla durata delle pene il teologo prefigura tempi non misurabili
con i nostri metri e non percepibili o immaginabili con i nostri sensi,
per cui anche un tempo ritenuto “lungo” potrebbe apparire brevissimo o addirittura, secondo quanto mi pare di aver inteso, un “non
tempo”. Sulla questione del tempo le sue teorie sono suggestive, anche se non so quanto possano reggere con le leggi fisiche e matematiche; certo i termini eterno e infinito non reggono, si ha bisogno di
altre leggi che si chiamano Dio. Ma a questo punto, per approfondire,
rimando il lettore al suo libro.
Per Mancuso quindi non sono necessarie tutte le manifestazioni
esteriori che caratterizzano l’attuale credente; indispensabile è invece
che l’uomo abbia sempre di mira il giusto e il vero e operi nella sua
vita a questi fini.
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Giusto e vero, due parole che si ritrovano in oltre la metà delle 317
pagine del suo libro e in questi due termini sta un altro dei punti di
discrepanza, se non di disaccordo, giacché pare che Mancuso sappia
con certezza cos’è il giusto e cos’è il vero, mentre io so, forse con
altrettanta certezza, di non essere sicuro cosa sia l’una cosa e cosa sia
l’altra, non esattamente almeno. Noi umani sappiamo all’incirca e
sappiamo anche che talora ciò che è dato per giusto e per vero e magari anche per bene oggi, poteva non esserlo ieri e potrebbe non
esserlo domani, ma dirò di più giacchè ci sono cose, al presente, che
per taluni sono giuste e vere e per altri sono false e errate.
Il filosofo ha usato anche la parola amore, non poteva non usarla,
ma molto meno delle altre due: io ritengo che sia questa ultima parola la formula fisica, chimica e matematica in grado di confutare la
terza legge della termodinamica: o questa o nessun’altra.
Infine anche le anime dannate e condannate all’inferno dovranno
essere salvate, questo perché Dio nella sua infinita misericordia non
potrebbe condannare nessuno per l’eternità, in quanto ciò facendo
verrebbe a fallire il suo stesso disegno: qui Mancuso dissente nettamente da Agostino, da Tommaso d’Aquino e dalla Chiesa ufficiale e,
pure partendo dalla piattaforma costruita da questi due campioni,
padri e dottori della suddetta, Mancuso ritiene che questa piattaforma
sia ormai inadeguata a causa di alcune loro visioni anacronistiche e
ormai del tutto superate e quindi propone alla comunità cattolica,
(che è la sua comunità), di compiere lo sforzo di salire a un livello
più alto e adeguato al tempo presente e guardare al destino delle anime con occhi nuovi.
Anche le piante e gli animali hanno un’anima, dice Mancuso, lo indica la nostra lingua: sono esseri animati. Rispetto alle piante, che
hanno un’anima vegetativa, gli animali hanno un’anima a livello superiore, sensitiva, che contiene anche quella vegetativa.
Più si sale sulla scala evolutiva più gli animali presentano un’anima maggiormente <<raffinata, più ricca, più sensibile>>. “L’analogia tra uomini e animali non deve scandalizzare, <<visto che la pasta
è la stessa>>, tutti, piante, animali e uomini veniamo da un progenitore comune. Ma nell’uomo c’è qualcosa di superiore, egli riesce a
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capire il mondo anche se la sua capacità di comprensione varia da individuo a individuo: questa è l’intelligenza.
Ci sono vari tipi di intelligenza e l’uomo può propendere più verso
una o un’altra: musicale, letteraria, del diritto, scientifica, filosofica,
ecc… Ma ciò non basta: come uomini comprendiamo il mondo e
questo fatto lo trasformiamo in sapere e questa consapevolezza che
acquisiamo si esprime con il termine di “mente”, dentro al quale ci
stanno i termini intelligenza, coscienza, ragione. Ma non è ancora finita, perché la mente producendo un grado superiore di ordine, derivato da informazione e libertà, è a sua volta produttrice di in livello
superiore, lo spirito, che è più della mente, così come la mente è più
del cervello. Perché? Perché il sapere manifestato nella mente è di
qualità diversa rispetto <<all’insieme di particelle – atomi – molecole
– cellule di cui è costituito il cervello. Lo è perché contiene più informazione. La torta è più dei suoi ingredienti>>.
Lo spirito è quindi più della mente, è l’emozione dell’intelligenza,
è la <<punta dell’anima>> e <<Agisce nella cultura umana a tutti i
livelli>>.
L’anima dell’uomo moderno – la cui origine, o manifestazione a
quel tale livello sopra espresso, Mancuso fa risalire a 160.000 anni fa
circa, comparsa dell’homo sapiens -,(io ho parlato di un tempo più
ampio, 3 / 4 milioni di anni, ma avevo chiarito che mi riferivo agli
ominidi, il livello qualitativo dell’anima dei quali non so dire, ma
dissi che cominciarono a esprimersi a un livello diverso “superiore”
rispetto ai primati), secondo il nostro teologo si colloca su diversi
livelli: quella del neonato è diversa, più semplice o a un livello più
basso rispetto a quella dell’adulto, ma varia anche tra adulto e adulto.
Anche l’anima di una persona con uno “svantaggio” mentale, per
nascita, per trauma, malattia, ecc.., sarebbe collocata su un livello più
“semplice”, se non si vuole dire inferiore; non è però detto che
un’anima di un adulto molto intelligente sia migliore e a questo
proposito Mancuso dice: <<A volte, qualche animale è persino meglio di qualche uomo, perché gli uomini essendo liberi, possono fare
il male, mentre gli animali, legati alla natura sono guidati dalla sua
innocenza>>. Questa visione del diverso livello o grado qualitativo
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di anima del resto viene da lontano e la troviamo espressa già da
molti pensatori antichi, e il teologo elenca diversi nomi.
Non essendo un intenditore della materia, trovo comunque che discriminare sulla qualità e livello delle anime non sia per niente
”democratico”: nella mia ignoranza e se l’ipotesi potesse avere fondamento, mi farei una idea, che potrebbe eventualmente essere quella di un dio onnipotente e giusto, che rispetto alle anime dovrebbe
tenere un metro di assoluta uguaglianza.
Ad ogni modo riguardo al problema del sapere con certezza ciò che
è giusto e vero e ciò che non lo è propongo anch’io il nome di un sapiente antico: Platone.
Nel primo libro delle “Leggi” troviamo tre uomini che mettono a
confronto le leggi dei rispettivi stati per veder di capire quali possano
essere più giuste e quali meno. A questo proposito spero di essere
compreso se esprimo la mia perplessità rispetto alla certezza di chi
saprebbe esattamente cosa è giusto e vero e cosa non lo è, e faccio un
esempio calzante con quanto andremo a dire di seguito: se in paesi
diversi, rispetto ad un unico argomento, vi sono leggi diverse, significa che il concetto di giustizia e quindi anche di verità è opinabile.
C’è un ateniese, (lo stesso Platone, anche se il suo nome non compare mai), un cretese di nome Clinia e uno spartano di nome Megillo.
Discutono attorno a un argomento piuttosto banale , ma comunque di
valenza significativa pari di un altro e infatti ne affronteranno di
seguito anche altri, per stabilire ciò che si sono prefissati, vale a dire
in questo primo caso, se sia bene e giusto che durante un simposio si
beva del vino, ( il cretese e lo spartano mettono in dubbio anche la
liceità dell’organizzare un simposio, nel quale è scontato per un
ateniese che si berrà del vino; ma nei paesi dei primi due questa pratica non è in uso).
Clinia dice che al paese suo si fa poco uso del vino e chi lo beve,
specialmente se si ubriaca, è malissimo visto fra la sua gente e a tale
proposito vi sono leggi che puniscono l’ubriachezza.
Megillo dice che a Sparta c’è una legge che proibisce di bere il vino, in qualsiasi quantità, quindi nessuno lo deve bere.
L’ateniese, (Platone), dice che nella sua città è permesso bere del
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vino, ma bisogna che il privato cittadino sappia non far diventare
questa sua libertà un vizio: In un simposio uno dei partecipanti è designato dagli altri a stabilitre la quantità – moderata – di vino, allungato con acqua, spettante a ciascuno dei commensali partecipanti,
(significativo il “Simposio” dello stesso Platone, (o Senofonte, Plutarco e altri), dove Socrate in persona è colui che è stato scelto a stabilire la quantità di vino che potranno bere i convitati, in modo tale
che, aggiunge l’ateniese, questo renda intense le senzazioni, i piaceri
e anche i dolori; mentre invece questi saranno completamente abbandonati in una persona del tutto piena di vino e la “condizione della
sua anima diventerà identica a quella di quand’era bambino”. Anche
Platone quindi distingue la qualità dell’anima del bambino da quella
dell’adulto e più avanti ne darà ulteriore conferma. Il problema è se
entrambi (Platone e Mancuso) si riferiscono a un’entità della stesa
“sostanza”, ma sembrerebbe che il pagano e il cristiano non siano
molto lontani l’uno dall’altro e infatti anche il nostro contemporaneo
più avanti dice di sì affermando che <<Per i greci, come anche altri
pensatori più vicini, ad esempio Hegel, dire spirito equivale a dire
Dio, e l’uomo perfetto è l’uomo spirituale>>. Per cui secondo questa
argomentazione, Mancuso non lo afferma esplicitamente ma lo lascia
intendere, se lo spirito è Dio e l’uomo spirituale equivale ad esso,
anche l’uomo è Dio o, se sembra troppo forte, anche l’uomo è divino.
Ora però prima di proseguire dobbiamo chiudere l’argomento che
avevamo aperto, vale a dire rispondere alla domanda se l’uomo è in
grado di sapere e distinguere con precisione ciò che è giusto e vero e
ciò che non lo è. Si può rispondere che molto spesso egli crede di
saperlo e quando afferma ciò lo fa in base alle sue personali convinzioni, che ora non discutiamo se o meno in buona fede. Ma la realtà è
diversa, perché sembrerebbe proprio che rispetto a queste “certezze”,
la relatività, la parzialità, la soggettività – gli esempi dei tre greci
antichi di fronte allo stesso problema, (Platone poi proseguiva con
altri esempi) – la facciano da padrone e provano caso mai come sia
perlomeno arduo stabilire con assoluta certezza cosa sia vero e giusto
e cosa non lo sia.
Nella trasmissione televisiva “Ulisse” di sabato 18 aprile 2009,
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condotta da Alberto Angela, veniva ipotizzato lo scenario di cosa accadrebbe alla Terra se improvvisamente venissero a mancare tutti gli
uomini. Gli esiti immediati sarebbero catastrofici, dato che verrebbero immediatamente a mancare i controlli sulle fonti energetiche: ad
esempio sulle centrali nucleari, che fuori controllo finirebbero per
scoppiare trasformandosi in micidiali ordigni nucleari. O ancora la
mancata alimentazione degli animali domestici e da allevamento e
così via.
Ma poniamo pure il caso meno traumatico di una scomparsa umana
non improvvisa ma progressiva, seppure rapida e che la centrali nucleari possano essere spente e gli animali dipendenti dall’uomo
possano essere prima accuditi e poi liberati, eccetera. Ad ogni modo
accadrebbe che tutto ciò che l’uomo aveva costruito invecchierebbe e
preda degli elementi della natura si consumerebbe, cadrebbe a pezzi
e scomparirebbe; forse per ultime le piramidi egizie che erano anche
fra i manufatti più antichi. I bacini idroelettrici non più controllati nei
flussi finirebbero per riempirsi e le dighe si spezzerebbero riversando
a valle, sulle costruzioni degli uomini milioni di tonnellate di acque
che cancellerebbero le tracce delle civiltà. Le foreste e i deserti si riprenderebbero i loro spazi naturali ricoprendo il tutto facendo scomparire i segni della presenza di questo essere che fra tutti era stato
quello di gran lunga il più intelligente, ma anche quello che più di
ogni altro aveva sconvolto la natura e gli equilibri del pianeta che lo
aveva ospitato. La natura quindi si prenderebbe la rivincita su colui
che l’aveva sfregiata e “padroni” della Terra tornerebbero a essere gli
animali e le piante, come era stato un tempo, prima che arivasse l’uomo e tutto questo senza rimpianti per la scomparsa di quel’essere che
aveva compromesso gli equilibri e l’armonia.
La Terra dunque continuerebbe tranquillamente a girare su sé stessa e attorno al Sole ancora per quattro o cinque miliardi di anni fino
al momento in cui si andrebbe a compiere il suo ciclo vitale, ovvero
il ciclo vitale dell’intero sistema solare.
E gli dei? E le anime la cui “essenza” sarebbe stata uguale a quella
degli dei? E il disegno di questi: la creazione di tutto l’Universo in
funzione di quel grumo di atomi – uomo – che fece la sua comparsa
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su quel pianetino, frammento microscopico di fango schizzato nel
cosmo in seguito alla grande esplosione che diede origine al tutto?
Mi si risponderà, a ragione, che questa è stata solo una suggestiva
ipotesi fantasiosa e che gli uomini non scompariranno improvvisamente ma resteranno sulla Terra, anche se non si sa per quanto; si
evolveranno, il loro pensiero evolverà, e i pensatori ci prospetteranno teorie filosofiche e teologiche sempre più “alte”. Molto più avanzate di quelle di Agostino, di Tommaso d’Aquino e di Vito Mancuso
i quali, per ora, continuano a dirci che tutto l’intero Universo, il suo
principio e la sua fine, sono il disegno armonico di un dio, concepito
in funzione di noi uomini. Nemmeno il paragone della montagna e
del topolino reggerebbe il confronto: tanto spreco di energia per la
salvezza delle anime di un’unica specie, e nemmeno di tutte secondo
le “verità” dei suddetti dottori della chiesa. Le anime di quel pianetino che andranno gaudenti a glorificare – e a questo punto sarebbe
proprio il minimo che gli si potrebbe chiedere – il loro creatore.
Ma in questo sconfinato universo ci potrebbero essere altri mondi,
altri “sistemi solari” con altri pianeti dove le condizioni ambientali
hanno permesso l’evoluzione di specie intelligenti e pensanti simili o
uguali a quella umana? In teoria ritengo di sì e assai probabilmente
potrebbe essere anche nella pratica. E quanti potrebbero essere questi pianeti…, qualche decina, qualche migliaio, o milione? E tutte le
eventuali anime di tutti questi eventuali esseri avranno avuto in un
passato, hanno ora o avranno in un futuro – dipendendo tutto questo
dalla fase dell’evoluzione cosmica, biologica e anche storica di
questi eventuali pianeti – la disposizione di un Gesù Cristo che le riscatti , da cosa poi non sono mai riuscito a comprenderlo, salvo non
si voglia insistere sulla favola di una tale povera Eva che con la sua
disobbedienza ha inguaiato l’umanità intera in eterno. E se negli altri
mondi questa Eva replicata fosse stata più virtuosa della nostra?
Gli scenari potrebbero essere aperti e gli dei figli di padri, della
“sostanza” dei padri, figli e ache padri, molteplici. Si potrebbe ancora
parlare di dio uno e bino o trino o piuttosto di dio uno e multiplo?
Noi uomini abbiamo la facoltà di pensare e il nostro pensiero ci
conduce a toccare mete incredibili, straordinarie. Sarebbe una buona
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cosa se fra noi li scambiassimo questi pensieri, li confrontassimo, li
dibattessimo, facendo però sempre attenzione di non farli mai diventare dogmi da imporre ai nostri simili: gli toglieremmo la libertà.
Rispetto quindi per coloro che credono i quali, persuasi dell’immortalità dell’anima credono anche nella salvezza o perdizione eterna di questa. Ma rispetto anche per gli atei che, non convinti di
questa “verità”, credono, (sono credenti anche loro quindi), che una
volta cessate le loro funzioni vitali cessino anche le funzioni (la vita)
delle loro “anime”. Se davvero ci sarà rispetto reciproco allora anche
le leggi che gli uomini si daranno non potranno non tenere conto di
ciò. Se così non sarà continuerà a prevalere l’arbitrio, l’ingiustizia, la
sopraffazione, la barbarie.
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Libro 19°
LA QUESTIONE LINGUISTICA EUROPEA
C’è in Europa una importante questione che data la sua improbabile possibilità di essere portata a una soddisfacente soluzione a breve
o medio termine sembra essere, nei fatti, “prudentemente” accantonata in attesa di tempi migliori, o meglio in attesa che siano proprio i
tempi con il loro lento macinare, a farla maturare risolvendo il problema in maniera “naturale”. Mi sto riferendo alla questione della
lingua europea che non c’è.
Con ciò non voglio dire che questa delicatissima faccenda sia stata
in qualche modo rimossa e del resto non potrebbe dal momento che
viene continuamente alla ribalta in conseguenza delle quotidiane
relazioni umane che si intrecciano fra i cittadini del continente, a
partire dagli stretti rapporti che intercorrono fra i membri del parlamento europeo i quali provenendo da tutti i paesi dell’Unione si vengono a trovare in un luogo che almeno da un punto di vista può benissimo assomigliare alla cosiddetta torre di Babele. D’accordo, ci
sono gli apparecchi che traducono in simultanea e i documenti ufficiali circolano stampati solo in poche lingue, non piu di tre o quattro
e questo sia per non produrre tonnellate cartacee di doppioni inutili,
sia per risparmiare sulle spese, anche se il fatto potrebbe provocare
disappunti di quei paesi le cui lingue non vengono usate. Però il problema rimane e non è certamente solo dei parlamentari ma di tutti i
cittadini europei, vale a dire dell’enorme massa di intrecci e relazioni
culturali, sociali, economiche, sportive, turistiche, ludiche ecc.. e tale
esigenza di rapporti, connessioni e interscambi è inevitabilmente
destinata a aumentare in volume e qualità, per cui il problema di un
idioma unico europeo per quanto lo si voglia differire nel tempo,
essendo una autentica “gatta da pelare,” è comunque ineludibile.
Non una questione rimossa dunque ma solo di difficile soluzione,
che ad ogni modo deve essere affrontata. In effetti il dibattito o i
dibattiti, sia pure informali, sono aperti, però le soluzioni paiono
essere lontane. Ad esempio qualche tempo fa, come dissi sopra, fu
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proposto di eliminare dalle traduzioni dei documenti la lingua italiana, lasciandone solo tre di ufficiali. Naturalmente l’Italia protestò
vivacemente e la proposta rientrò. Come si vede la questione è delicata e tutt’altro che semplice e per risolverla vanno cercate soluzioni
le meno traumatiche possibili.
Se facciamo una panoramica sopra l’intero pianeta e quindi stringiamo un po’ l’obbiettivo sui grandi stati o le grandi confederazioni ,
talora di dimensioni vicine a interi continenti: Russia, Cina, India;
Stati Uniti, Messico, Brasile, ecc.., possiamo vedere come in ognuna
di queste grandi realtà territoriali gli idiomi ufficiali parlati siano uno
o al massimo un paio. Poi, naturalmente dentro a questi stati le varie
lingue o i dialetti parlati localmente, più o meno tutelati, possono
essere molti, anche centinaia, come in India o in Cina, ma resta il
fatto che anche in quei paesi la lingua ufficiale e comune sia una o al
massimo ne venga ufficializzata un’altra, accettata per ragioni storiche, culturali o per motivi endemici particolari.
Per venire all’Europa, la domanda che i suoi cittadini potrebbero
porre da qui a non molto, ma è ipotizzabile che per un certo numero
di essi sia già più che in fieri, potrebbe essere la seguente: “Sarà possibile per noi cittadini dell’Unione Europea poter disporre a breve di
una lingua comune a tutti da poter utilizzare in qualsiasi paese ci si
voglia spostare senza avere la necessità di dover apprendere decine
di idiomi diversi”?
È chiaro e assolutamente vero che se per un verso ogni lingua, dialetti compresi, rappresenta per il continente europeo una indubbia
ricchezza e per tale motivo è giusto che non vada dispersa e i modi e
i mezzi per farlo non mancano, è altrettanto vero però che in una
Europa ormai priva di barriere e frontiere, dentro la quale i suoi cittadini circolano con una intensità quale mai in precedenza, (il perché
è lapalissiano), s’era verificata e dove, ad esempio, un cittadino che
nella medesima giornata si dovesse spostare con i propri mezzi o con
quelli pubblici e attraversasse agevolmente tre o quattro paesi, o anche di più, in ognuno dei quali si parla una lingua diversa, questo
fatto potrebbe rappresentare per questo cittadino un serio motivo di
difficoltà nella comunicazione e anche pure ritenendolo un aman-
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te e studioso delle lingue straniere, difficilmente potrebbe conoscere
tutte le lingue parlate in Europa. Un ostacolo dunque, che si paleserebbe di volta in volta nelle difficoltà di comprensione e si tradurrebbe, ma possiamo levare il condizionale, anche in un successivo
problema di carattere tanto culturale che integrativo giacché appare
chiaro che il fatto di doversi di continuo relazionare con persone che
parlano una lingua diversa dalla propria rappresenta una indubbia
barriera che può indurre a rinunciare ad allacciare relazioni le quali,
sotto molteplici aspetti, non fanno che arricchire le persone. Per tali
motivi questa barriera, che pure non essendo fisica ma culturale,
rappresenta un sicuro ostacolo a una maggiore integrazione ed è pertanto un bene che quanto prima possa essere rimossa.
Facile a dirsi, difficile a farsi. In effetti la questione relativa a una
eventuale scelta di un idioma comune europeo è di difficile soluzione
in quanto ogni nazione non si renderà facilmente disponibile a rinunciare alla propria lingua, che è un po’ come rinunciare alla propria
storia, in favore di un’altra lingua, qualsiasi essa sia.
Se, per fare un esempio, il Parlamento europeo decretasse che la
lingua ufficiale del continente fosse quella italiana, assai probabilmente la maggioranza dei miei connazionali ne sarebbe lusingata e
felice ma – al di là dei sentimenti contrari espressi dalla maggioranza
dei cittadini delle altre nazioni – comprenderebbe benissimo che verrebbe consumata una ingiustizia verso tutte le altre nazioni, la loro
lingia, la loro cultura, la loro storia. Nascerebbero di sicuro delle proteste e probabilmente anche delle rivolte.
Se dovessimo seguire una linea “pratica e realistica” e anche piuttosto arida, che comunque non eviterebbe gli scontri con tutta una
serie di sentimenti patriottici violati, si potrebbe dare seguito a ragionamenti che seguissero linee di pensiero che potrebbero parere più
logiche o “ragionevoli” rispetto ad altre: ad esempio far diventare
l’inglese la lingua di tutti gli europei perché da alcuni decenni, per
motivi storici, economici, politici, diplomatici, ecc.., che tutti conosciamo, nonostante non sia la lingua più parlata al mondo si è, nei
fatti, conquistata, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, il
primato di lingua internazionale, cioè di lingua attraverso la quale
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sono ormai diffuse nel mondo tutti i tipi di informazioni: dalla politica alla cultura, dagli affari alla scienza, dalle arti allo sport, ecc..,
in pratica la lingua della “globalizzazione”. Quidi l’inglese dicevamo e questo al di là del fatto che il paese europeo dove questa
lingua è parlata sia il paese che con un po’ di alterigia è di fatto il
meno propenso a una più stringente integrazione, infatti continua a
mantenere una sua valuta nazionale diversa, oltre naturalmente , al
tenere la sinistra sulle strade, ai pesi e le misure differenti e così via:
chiari segnali politici di distinzione e distacco.
La seconda ipotesi potrebbe vedere privilegiare la candidatura della
lingua tedesca in quanto dal punto di vista relativo già ora è l’idioma
più parlato in Europa: la Germania ha più di ottanta milioni di abitanti e se a questi aggiungiamo quelli di Austria e Svizzera, pure se non
sta dentro l’UE, e le minoranze in altri paesi, siamo oltre i cento milioni; inoltre l’area dove si parla oltre ad essere quella centrale del
continente, dopo l’ingresso dei paesi dell’est, è enche quella economicamente e politicamente più solida e ricca .
Se dovessimo invece ragionare per famiglie o guppi linguistici, saremmo chiamati a considerare almeno tre o quattro alternative.
La prima formata dalle lingue latine: Francese, italiano, portoghese, spagnolo e anche rumeno lingua che, pure avendo subito nei secoli le interferenze di varie influenze extralatine, resta in sostanza una
lingua neolatina. Stiamo pertanto parlando di un numero di cittadini
europei pari a circa 200 milioni di persone. Questo al di la del fatto
che nel mondo sia lo spagnolo che il portoghese otre che a essere le
lingue ufficiali dell’intera America Meridionale, Centrale e in parte
anche Settentrionale - Messico - , nonché dell’area caraibica, Haiti,
Cuba, ecc.., sono lingue, (in questo caso solo lo spagnolo), che sono
diventate la seconda lingua negli Stati Uniti d’America, specialmente in tutta la fascia degli stati meridionali: California, Arizona,
New Mexico, Texas e anche Florida: in questi stati lo stesso idioma
anglo-americano sta subendo processi alquanto marcati e diffusi di
latinizzazione.
Il secondo grande gruppo idiomatico europeo, in parte già nominato, è quello germanico o anglo-sassone, le cui lingue si distinguono
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In:(1), occidentale, con l’inglese da un lato e il tedesco e neerlandese
(olandese e fiammingo) dall’altro; (2), nordico, con l’islandese, il
norvegese, lo svedese e il danese.
Al terzo gruppo appartengono le lingue baltoslave, con le slave:
(a), orientali, come il bielorusso, il russo e l’ucraino, nazioni che non
fanno ora parte dell’Europa dei ventisette; (b), meridionali, con lo
sloveno, il serbo-croato, il bulgaro, il macedone, nazioni in parte
nella UE; (c), occidentali, con il ceco, lo slovacco, il polacco e altre
unità minori. Sempre al terzo gruppo appartengono anche le lingue
baltiche come il lettone, il lituano e l’estone. Anche il finlandese
appartiene al gruppo baltoslavo ma in quello stato convivono anche
significative minoranze di ceppo e lingua svedese e altre di lingua
russa. Poi vi è l’ungherese il quale appartiene a un ceppo linguistico
detto uralico dovuto probabilmente a migrazioni di popolazioni
provenienti da zone asiatiche meridionali.
Fatta questa panoramica, pure massimamente semplificata, si comprenderà come sia illusorio, quando non ingannevole proporre soluzioni semplificatorie giacché se soluzioni vanno trovate queste non
possono prescindere dalle legittime esigenze di ciascun paese, anche
se bene si comprende che i ceppi linguistici più consistenti o “dominanti” hanno, naturalmente, maggiori chance per prevalere.
E la lingua greca, quella antica, che è la madre della maggior parte
dei nostri idiomi? La risposta più ovvia che mi pare si possa dare è
che se mai si dovesse approdare a un idioma comune europeo, qualunque esso dovesse essere, questo non dovrebbe mai nè prescindere
né distaccarsi da questa comune radice che già ora fa da collante naturale fra le diverse lingue, collante che caso mai andrebbe ancora di
più rafforzato.
Ogni tanto poi c’è ancora qualcuno che propone o ripropone questa
lingua artificiale e internazionale che è l’Esperanto la cui età data
ormai oltre 120 anni, essendo stata pubblicata da L. L. Zamenhof per
la prima volta nel 1887; ma pure essendo stata la più fortunata delle
lingue artificiali non ha mai raggiunto una apprezzabile diffusione
nel mondo: si ritiene infatti che oggi l’Esperanto, che nell’idea del
suo creatore avrebbe potuto rappresentare una sintesi pressochè quasi
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perfetta delle principali tendenze idiomatiche occidentali, sia parlata
da da poco più di un centinaio di migliaia di persone nel mondo. Il
fatto è che una lingua per poter aspirare a diventare un sentito e consolidato patrimonio popolare, oltre che ad avere alle spalle un cementato retroterra culturale, deve possedere innanzitutto un’anima, che
piano piano le è stata infusa e plasmata dalle stesse persone che assieme al loro idioma hanno percorso il cammino della loro storia. Ma
adesso, rispetto al vissuto storico del proprio paese, ogni cittadino
europeo si sentirà chiamato in qualche misura a entrare in un nuovo
ordine di idee giacché sempre di più si renderà conto che i grandi avvenimenti del passato: le invasioni “barbariche”,il cristianesimo, il
medioevo, Carlo Magno, l’islam, le crociate, il rinascimento, la riforma luterana, le scoperte oceaniche dei nuovi mondi, le guerre di
religione, l’illuminismo, la rivoluzione francese, Napoleone, la
formazione degli stati, la rivoluzione industriale, l’imperialismo, la
guerre mondiali, la democrazia, sono stati avvenimenti che hanno
interessato allo stesso modo, anche se in misura differente, tanto il
suo quanto gli altri paesi di una Europa che nonostante e forse a causa di tutti questi tumultuosi eventi continuava a rimanere divisa. Ma
ora non più ed egli, adesso, per conoscere meglio la sua storia dovrà
per forza allargare la sua visione sul continente perché la storia di
questo sarà d’ora in avanti anche la sua. Di conseguenza Omero,
Eschilo, Sofocle, Euripide, Socrate, Platone, Aristotele, Archimede,
Shakespeare, Cervantes, Rabelais, Andersen, Cartesio, Copernico,
Voltaire, Dikens, R. Bacone, Kant, Moro, Goethe, Linneo, Bach,
Mozart, Beethowen, Chopin, Wagner, Durer, Goya, Picasso, Darwin,
Einstein e molti altri che non ho detto ma non dimenticato, che non
sono nati nel mio paese, l’Italia, io li sento ogni giorno che passa
sempre più miei, perché senza di loro la mia crescita spirituale, ma
anche sociale, civile, culturale e etica, per quanto modesta possa essere, lo sarebbe stata certamente molto di meno. Per contro persone
nate nel mio paese quali Dante, Leonardo. Michelangelo, Galileo,
Rossini, Verdi, Fermi, sono persuaso che sono diventate patrimonio
di ogni paese e di ogni cittadino di questa nuova Europa Unita.
A ben vedere quindi, sia pure a passi talmente piccoli da non essere
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nemmeno percepiti, e magari ricevendo talora qualche spallata ostile
che sembra ributtare all’indietro tutto il faticoso cammino fatto, il
percorso verso un maggiore amalgama integrativo degli europei pare
sia cominciato. Restano tuttavia ancora degli ostacoli e fra questi uno
che si palesa nettamente ogni qual volta due o più cittadini di paesi
diversi dell’Unione si rivolgono fra loro parlando ognuno la propria
lingua madre: alla lunga finiranno per intendersi, ma quanta fatica!
Quale soluzione prendere allora? Naturalmente poiché nessuno
possiede la bacchetta magica per risolvere in modo facile e naturale
la questione, per forza di cose si dovrà ripiegare almeno su tempi
medio-lunghi, non però biblici; e dato che gli anni passano e proposte che non siano draconiane, traumatiche o penalizzanti per alcuni
gruppi linguistici piuttosto che per altri pare non se ne siano udite,
proverei a formularne una che, se non risolutiva, avrebbe comunque
il pregio o il merito di dare un contributo e una piccola accelerata al
processo di integrazione linguistica in Europa, processo che una volta avviatosi potrebbe trovare, come l’acqua di una nuova sorgente si
scava da sola il suo alveo, con maggiore naturalezza e rapidità la via
verso un idioma parlato e compreso da un numero sempre maggiore
di cittadini del continente. Si tratterebbe ad ogni modo di passare per
fasi di “avvicinamento” intermedie.
Se si considera che in ogni singolo paese esistono molteplici forme
dialettali, quando non veri e propri idiomi diversi, legate a singolari
contesti e a sviluppi storici locali, è facilmente prevedibile che una
parlata unica europea, anche al di la delle differenti lingue ufficiali di
ogni singolo paese, passerebbe per fasi dove i cittadini possessori dei
loro attuali idiomi, acquisendo e donando, dalla propria posizione,
termini e modi espressivi differenti finiranno comunque per plasmare in loco forme espressive di tipo “dialettale” o per tipi di “accenti o cadenze” differenti paese per paese o regione per regione, ma
l’attraversamento di una fase temporale dove ogni singola lingua si
trasformerebbe in una sorta di parlata regionale o “dialettale” in metamorfosi verso una meta maggiormente unitaria, non rappresenterebbe di certo un problema.
Se vado in un paese europeo che non sia il mio e vengo individuato
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come italiano, se non sanno come chiamarmi perché non conoscono
la mia lingua, è facile che taluno mi apostrofi ironicamente col termine spaghetti e io so che si stanno riferendo a me, anche se in
realtà, restringendo il campo, nel mio paese quelli delle mie parti li
chiamano polentoni, ma forse all’estero questo non lo sanno.
Se un tedesco viene in Italia e non so come comunicare, ( in effetti
alcuni anni fa frequentai un corso di lingua tedesca, ma il tempo
gioca inesorabile contro la memoria), ironicamente potrei chiamarlo
krauti ed egli sa che mi sto riferendo a lui.
Questo per banalizzare, dato che, ovviamente, sono moltissimi gli
europei che conoscono più o meno bene le lingue straniere e fra
quelli che le conoscono meno bene purtroppo ci siamo noi italiani;
detto questo è chiaro che ciò non può bastare dal momento che non è
possibile che tutti conoscano le lingue di tutti.
Pertanto, (fermo restando il fatto essere decisamente un bene che
così permanendo la situazione, tutti i cittadini europei cerchino di
imparare almeno una lingua straniera), proporrei come inizio di
inserire nelle lingue nazionali di ogni paese della Comunità , e naturalmente nei rispettivi dizionari, libri di testo scolastici di letteratura
e di altre materie, ma anche giornali, riviste, programmi radiofonici,
televisivi, internet, ecc.., con frequenza annuale, biennale, ecc.., o comunque di volta in volta da stabilire, un certo numero di vocaboli,
anche questi da stabilire, partendo da quelli, fra il maggiore numero
di lingue possibili, più somiglianti fra loro per scrittura lettura e
significato, con conseguenti chiarimenti rispetto alla pronuncia dei
termini così come sono usati nei rispettivi paesi d’origine.
Ad esempio in Germania tutti i termini stranieri che entrano a far
parte della lingua di quel paese non vengono quasi mai mutati, o per
meglio dire “germanizzati”, sia per quanto riguarda la scrittura sia
per quanto riguarda la pronuncia che tende a restare per quanto possibile uguale a quella del paese d’origine della parola: in Germania
cioè le parole straniere vengono generalmente rispettate per come
sono, anche se nel paese, a causa delle regole grammaticali, si leggerebbero e pronuncerebbero in maniera differente. Per fare un esempio chiarificatore prendiamo la parola Wien, che è il nome della
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capitale austriaca Vienna e la parola Italien, che significa italiano.
Premesso che la lettera w in tedesco si legge v, prendiamo le successive due vocali ie, che in tedesco si leggono i, quindi Wien si legge
Vin (in italiano si sentirà questa pronuncia). La parola Italien, (I maiuscolo), in tedesco non diventa Italin, ma resta Italien, come si pronuncerebbe in italiano.
In Italia la tendenza è mista: talora i termini restano nella scrittura e
nella pronuncia così come ci arrivano dall’estero, talora vengono
“italianizzati”, ma questo indirizzo si riscontra assai meno nei neologismi di carattere scientifico o culturale. Non è così, ad esempio,
rispetto ai nomi geografici, in particolare quelli riferiti alle città,
regioni, fiumi, ecc.., per vari motivi di grande importanza, i quali
vengono, ma è meglio dire venivano, dato che la tendenza va attenuandosi,”italianizzati”, secondo me sbagliando, mentre per le entità
geografiche minori restano i nomi così come sono nei propri paesi.
Quindi London in Italia diventa Londra; Paris, Parigi; Berlin,
Berlino; Beograd, Belgrado; Rhein, Reno; Seine, Senna; Thames,
Tamigi; Provance, Provenza; Bayern, Baviera, ecc…Pertanto come
europei dovremmo cominciare a chiamare ogni località geografica
del continente con lo stesso nome e pronuncia di come è chiamata
nella lingua del suo paese: sarebbe una facilitazione e una semplicicazione e un modo di integrare già molto importante. A questo proposito faccio un altro esempio chiarificatore: se girassi la Germania,
(cosa che qualche volta ho fatto con grande piacere), usando una
carta geografica acquistata in Italia e quindi scritta in italiano e
quindi con la traduzione nella mia lingua delle località germaniche,
arrivando davanti ad un cartello dove sta scritto Regensburg, o
Mainz, o Trier, non sarei mica immediatamente sicuro di trovarmi
alla periferia di Ratisbona, o Magonza, o Treviri. Ma se avessi imparato a conoscere i nomi di quelle città così come sono scritti e detti
nella loro lingua originale avrei fugato immediatamente ogni dubbio.
D’accordo, oggi le carte giografiche sono diventate una cosa arcaica,
dato che usiamo il “satellitare”, però il problema di dovere o meno
tradurre nella propria lingua le indicazioni geografiche straniere
rimane e lo si può risolvere solo nella maniera qui sopra indicata.
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Lo stesso discorso, ovviamente, varrebbe per il cittadino, ad esempio germanico o di ogni altro paese della Comunità, che venendo in
Italia invece di dire Rome, Milan, Venedig, Florence, Naples, ecc..,
sarebbe opportuno che chiamasse queste città, e le altre, i fiumi, i
laghi, i monti, ecc.., allo stesso modo di come li chiamiamo noi nella
nostra lingua. Di conseguenza, a partire dai dizionari di ogni paese, i
termini stranieri dovrebbero essere inseriti così come si scrivono e
pronunciano nelle loro rispettive lingue madri.
Per quanto riguarda i neologismi, questi andrebbero assunti come
arrivano, mi pare ad ogni modo che la tendenza oggi sia questa, da
qualsiasi paese, senza essere tradotti ma adottati così come stanno,
scrittura e pronuncia.
Ecco! Quanto ho detto per ciò che riguarda la fase “preliminare” o
di apertura dell’operazione “Impariamo l’Europeo”, per la quale potremmo anche adottare anche l’altra parola europea ouverture – in inglese si dice opening, ma il termine inglese usato ad esempio nella
tecnica fotografica è aperture - , termini molto simili nell”architettura” sintattica oltre che uguali nel significato, da potere usare indifferentemente, l’uno come sinonimo dell’altro.
Da questa prima fase, ma anche in contemporanea, si tratterebbe di
compiere poi il passo successivo e entrare nel “primo atto” e diventa
ovvio che qui il testimone dovrebbe essere passato ai linguisti e ai filologi, ossia a coloro che scientificamente si dedicano allo studio
delle lingue attraverso le testimonianze letterarie; ai linguisti e
glottologi, ossia i ricercatori delle leggi del linguaggio; agli etimologisti, vale a dire coloro che attendono all’origine e alla ricostruzione
storica delle parole; ai grammatici, ossia coloro che sono preposti
all’insieme delle forme e delle regole che formano una lingia scritta e
parlata. Tutti costoro dovrebbero cioè sviluppare le tematiche relative
al futuro dell’idioma continentale, sotto l’egida dell’Assemblea parlamentare di Strasburgo, ovvero Strasbuorg, o Strassburg, da decidere come chiamarla.
Riguardo al metodo, o sistema, con cui procedere proverò ora solo
a suggerire un’idea facendo alcuni brevissimi esempi, dato che è
ovvio essere questa una materia complessa la quale andrà trattata dai
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suoi naturali esperti.
Scendendo nel concreto si tratterebbe di inserire nell’insegnamento
letterario europeo: libri di testo, dizionari, ecc.., di ogni paese membro della U.E. un certo numero di termini, ai quali ne andranno aggiunti degli altri di anno in anno, o anche con un intervallo temporale
più ampio, a partire da quelli molto simili fra loro nelle varie lingue
per scrittura, pronuncia e significato, indicando o dando privilegio a
quelli che più si avvicinano a un termine comune, senza escludere gli
altri che, ma non è detto, forse diventeranno arcaici con il tempo, ma
che all’inizio gli saranno sinonimi.
Come individuare nella prima fase, oltre all’informazione mediatica, i nuovi termini comuni da inserire in un libro di testo, un dizionario, un giornale, un romanzo o il monitor di un computer, non sarebbe un problema: il carattere di stampa diverso; il colore della parola
diverso, ecc.., da mantenere finchè si ritenga siano stati assimilati.
Si potrebbe iniziare con un numero ridotto di parole, ad esempio
poche decine e via via che diventassero patrimonio comune i testi
sararebbero integrati con termini nuovi che, ovviamente, potrebbero
essere uguali a quelli che usiamo, simili, o differenti e alternativi.
Dicevo che sarebbe opportuno iniziare da parole di più facile comprensione e per rendere più chiara la questione sarà opportuno che
faccia degli esempi.
Prendiamo il termine italiano mamma o madre: in spagnolo si scrive e si dice madre o mama; in francese si scrive Mère o Maman; in
inglese si scrive mother o mummy (la o della prima parola e la u della seconda si leggono come la a delle lingue neolatine); in tedesco si
scrive Mutter o Mutti e si legge come leggerebbe un “latino”.
Ora prendiamo la parola padre o papà o babbo, che in spagnolo si
scrive e si pronuncia esattamente padre o papà; in francese Père o
Papa; in inglese father o dad o daddy; in tedesco Vater (la V si pronuncia F), o Vati o Papa.
La parola italiana sole, diventa sol in spagnolo (come nel mio dialetto), Soleil in francese, Sonne in tedesco, sun ( la u si legge a) in inglese.
La parola italiana oro in spagnolo fa oro, in francese or, in inglese
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fa gold e pure in tedesco fa Gold (leggi golt): qui esiste una variazione fra il neolatino e il germanico o anglosassone e le opzioni sono
sostanzialmente due ma potrebbero essere adottate entrambe. In rumeno il termine è invece nuovamente latino, anzi il più vicino alla
lingua madre antica, essendo aur (aurum latino, simbolo au).
Una parola a caso: orizzonte; in tedesco fa Horizont; in francese
horizon; in inglese horizon; in spagnolo horizonte.
Sui nomi degli animali le diversità si fanno più accentuate, del resto basta pensare ai nostri dialetti dove un animale può cambiare
nome da regione a regione, ma può essere chiamato in varie maniere
anche all’interno di una stessa regione, tuttavia di alcuni sia la
scrittura che la pronuncia sono molto simili: maiale o porco fa pork
anche in rumeno; in inglese fa pig, (animale vivo) e pork se ci si
riferisce alla carne dell’animale morto; in spagnolo fa cerdo o
puerco, mentre in tedesco il termine varia completamente diventando Schwein, ei si pronuncia ai.
E le lingue slave? Si penserà che sia più difficoltoso trovare similitudini fra queste e le anglo-sassoni o le neolatine e in qualche misura
questo corrisponde al vero, ma non così tanto come si supporrebbe.
Una grossa difficoltà di comprensione nella lettura deriva certo dal
fatto che sia in Russia, ma per esempio anche in Serbia si fa tuttora
uso dell’alfabeto cirillico che, se non viene studiato e imparato apposta, per noi europei occidentali risulta completamente incompresibile e di conseguenza anche le parole impossibili da leggere. Però
nella maggior parte delle nazioni dell’Europa dell’est è usato il nostro alfabeto
Prendendo a caso un esempio in campo commerciale troviamo che
termini “slavi” serbo croati come produzéce, transport, spediciju; in
italiano produzione, trasporto, spedizione; in francese production,
transport, expedition; in inglese production, transport, expedition o
sending, scritti quindi nella identica maniera di quelli francesi, anche
se nella pronuncia o fonia differiscono, ma poi non di molto, come
del resto nemmeno dai nostri, solo va fatta abitudine o orecchio al
“suono”, (sound inglese, son francese, sonido spagnolo); in tedesco
sono Produktion, Transport, Beforderung o sendung, ma anche Expe-
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dition; mentre in spagnolo abbiamo production, transporte, envio,
simile all’italiano invio; ma sono comprensibili anche i corrispettivi
termini usati anche in altre lingue come ad esempio l’olandese dove
troviamo productie, (leggi proodoksi), zending, transport.
Tornando alle lingue slave c’è da dire che queste presentano variazioni fra le varie nazioni ma ora non intendo addentrarmi nemmeno
un poco in questa strada perché paleserei solo, mi si creda sulla
parola, la mia totale ignoranza, mi si permetta solo far notare che se
mai vi fosse capitato di ascoltare discorsi alla radio, ad esempio un
giornale-radio, o conversazioni fra persone in lingua “slava”, dentro
la maggioranza dei termini assolutamente incomprensibili ogni tanto
avrete di sicuro colto una parola del tutto famigliare, di fatto uguale
anche nella pronuncia, a una nostra nazionale, per cui sarete riusciti
perlomeno a intendere l’argomento trattato: non è affatto vero quindi
che le lingue slave si discostano in modo particolarmente netto dagli
altri gruppi di lingue europee: una distanza c’è, ma le distanze così
come possono essere aumentate, allo stesso modo possono essere ridotte e i primi passi che vanno compiuti dovranno andare proprio in
questa direzione: la riduzione delle distanze. Ora permettetemi solo
di fare un paio di esempi: madre in russo è Matb (leggi Mat’); in sloveno è màti; in serbo e anche in croato è Majka: la radice ma è la medesima che si usa in quasi tutte le altre lingue europee.
Tecnica in russo fa technika, ( in cirillico ovviamente è scritto in
maniera differente); in sloveno e in serbo téhnika; in croato tehnicki.
Potrei continuare con altri esempi, ma ciò che intendevo far notare
era quanto in fondo siano fra loro più vicine lingue ritenute assai
diverse e distanti da quanto abitualmente usiamo pensare dopo un
frettoloso e superficiale esame. Sono le pronuncie, gli accenti, i suoni, che differendo per infiniti motivi, allontanano la comprensione di
parole che se pronunciate con particolare lentezza o isolate dal contesto del discorso risultano essere comprensibilissime. Ma è possibile
cominciare a ovviare il problema, ad esempio, come dissi, a partire
dai termini geografici, trascrivendoli tutti e apprendendoli così come
sono detti nella loro lingua madre, poi facendo circolare nella Comunità le parole che dovranno diventare comuni, iniziando da quelle più
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simili in grafia e fonia dentro al maggior numero di paesi possibili.
Alla fine, per molteplici ragioni, alcune parole prenderanno la supremazia su altre, come a dire che tutte quelle che avranno più filo
tesseranno più tela e diventeranno i nuovi termini comuni europei; lo
diventeranno in maniera naturale, anche se le altre localmente continueranno a sopravvivere. In seguito, al secondo “atto” potrebbero
comparire sui dizionari, testi, ecc.., termini con radici simili ma
anche del tutto diverse per indicare il medesimo significato e la loro
acquisizione o sopravvivenza dipenderebbe dalla facilità, dalla simpatia o dal grado di attrazione con cui verrebbero acquisiti.
Sembrerebbe tutto piuttosto facile, quindi? Per quanto riguarda la
cosiddetta prima fase probabilmente sì, poi la navigazione si troverebbe ad affrontare la presenza degli scogli rappresentati dalle singole grammatiche nazionali: i modi di costruire la frasi, i verbi, i modi e
le coniugazioni, ecc.., problemi tutt’altro che semplici, non per questo irrisolvibili; problemi da affidare agli esperti della materia i quali
dovranno essere in grado, anche sintetizzando, razionalizzando, o
mantenendo opzioni diverse, di poter offrire agli europei una lingua
scritta e parlata la quale senza equivoci possa essere definita comune.
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Libro 20°
AMBIENTE E ENERGIA
L’Italia, dice il nostro presidente del Consiglio, on. Berlusconi, è
una nazione popolata in questo momento da troppi pessimisti, mentre
invece è in tempi come questi, nei quali la crisi economica mondiale
e nazionale morde il fondoschiena, che bisogna reagire con ottimismo. In quale modo? Ma spendendo, naturalmente, consumando!
Non so se qualcuno dell’entourage governativa – io temo proprio di
no, visto che pare proprio formato esclusivamente da selezionati “yes
men” – ha provato a spiegare al nostro primo ministro Paperon De
Berlusconi che gli italiani avendo ormai raggiunto l’ultima posizione
europea, consolidata, per redditi da lavoro dipendente, già nel corso
dell’anno 2008 e riconfermata nel 2009, fra tracolli finanziari mondiali che ne hanno coinvolti una parte falcidiando fette di loro risparmi volatilizzatisi col crollo delle borse, fra licenziamenti di centinaia
di migliaia di lavoratori dipendenti, a partire dai precari che essendo
stati i primi a fare le spese della crisi si sono ritrovati di botto senza
alcun reddito, e fra altre centinaia di migliaia di lavoratori messi in
cassa integrazione che dovranno contare su salari e stipendi decurtati,
non hanno a disposizione poi così tanto denaro da far compiere al
p.i.l. quel balzo miracoloso che egli si aspetterebbe. E pensare che
solo all’inizio del 2008, (ma quel nostro segugio politico non l’aveva
fiutata la crisi?), assieme, all’ex socialista, ministro Sacconi, (ex socialista Cicchitto, ex comunista Bondi, ex comunista Maroni e certo
ancora molti altri, compresi taluni consiglieri esterni ex comunisti di
cui avrei sulla punta della lingua un paio di nomi, che però non dico
per non fare torto a quelli che dimentico.., ma non saranno mica tutti
questi pericolosi ex rossi a fargli andare male il governo?), venne a
dire trionfalmente a quei lagnosi di lavoratori che recriminavano di
non avere abbastanza soldi per arrivare alla terza settimana, che lui, a
questi ingrati, la ricetta per rimpinguargli le buste paga gliel’ aveva
trovata: bastava che facessero gli straordinari; in fondo era “l’uovo di
Colombo” e questi straordinari gli avrebbero fruttato anche più che
nel passato perché sarebbero stati tassati in percentuale minore che
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in precedenza grazie a una legge ad hoc appena varata dal governo di
Sua lungimiranza.
Purtroppo e non serviva un profeta, i radiosi benefici non si sono
potuti apprezzare perché non bastano le sole idee, siano esse anche
buone, a riempire gli stomaci, è necessario che esistano le condizioni
affinché queste si possano tradurre in fatti concreti e le condizioni
proprio non esistevano. Non era pertanto colpa del destino cinico e
baro, nè degli dei che avevano voltato le spalle al paese e nemmeno
dei lavoratori che avevano perduto il gusto del fare la cose con entusiasmo; molto più semplicemente ci si trovava davanti a persone che,
consapevoli, mistificavano, o a degli insipienti, o a entrambe le cose.
Quanto alla causa della crisi, questa va ascritta tutta ai risultati delle
politiche ultraliberiste, insofferenti di leggi e regole, che hanno permesso a bande di speculatori senza scrupoli, (che contano milioni di
epigoni sparsi per il mondo, i quali continuano a chiedere venga loro
affidata la fiducia, e quel che è peggio la ottengono), di far crollare le
economie mondiali.
Dice ancora il cavaliere che è in momenti come questi che nel
paese devono avvenire i grandi cambiamenti per fare sì che esso esca
dal tunnel profondamente modificato e, naturalmente, più bello e più
grande che pria. Peccato che il suo sguardo sia rivolto a un passato
autoritario di tempi in cui i bambini vestivano da giovani balilla, anziché a un futuro che egli proprio non riesce, nemmeno se si alza
sulle punte, non dico a vedere ma nemmeno a concepire.
E affinché si compia il suo disegno, che è poi quello antico e mai
scordato del suo gran maestro Licio Gelli, come intende intervenire?
1), modificando anche la prima parte della Costituzione perché, dice,
è stata concepita guardando al modello Sovietico: quello del suo amico fraterno Putin? 2), attraverso l’attuale legge elettorale, nella quale
non sono previsti i voti di preferenza ( alla maniera di come funzionava sempre quel modello Sovi