Speciale Convegno - Diocesi Suburbicaria Velletri
Transcription
Speciale Convegno - Diocesi Suburbicaria Velletri
Mensile a carattere divulgativo e ufficiale per gli atti della Curia, pastorale per la vita della Diocesi di Velletri-Segni Registrazione al Tribunale di Velletri n. 9/2004 del 23.04.2004 - Redazione: C.so della Repubblica 343 - 00049 VELLETRI RM - 06.9630051 - fax 96100596 - [email protected] Anno 5 - numero 2 (40) - Febbraio 2008 IN QUESTO NUMERO: Speciale Quaresima Speciale convegno Caritas Grandi Temi - Convegno Pastorale Diocesano - Rassegnarsi alla povertà - Quaresima - L’aborto e la grande Testi e commenti dei la grande moratoria di Vangeli Ferrara Concilio Vaticano II Diaconato - La collegialità episcopale - Perchè è importante diventare diacono oggi Speciale comunità Diritto e Matrimonio - Parrocchia di S. Bruno - Il Matrimonio nel Diritto Canonico Colleferro Febbraio 2008 2 Speciale Convegno ? Mons. Vincenzo Apicella Il Convegno diocesano appena concluso ha mostrato, ancora una volta, il vero volto della nostra chiesa, fatta di persone motivate e attente, vivaci e, al tempo stesso, consapevoli della loro responsabilità. D’altra parte, il tema trattato, “Gli organismi di partecipazione nella chiesa”, era proprio tagliato su misura dell’assemblea, composta da presbiteri, diaconi e congregazioni religiose, ma soprattutto dai laici, delegati dalle parrocchie e dalle aggregazioni della diocesi. Ma l’espressione che rimane più profondamente nella mia memoria è una frase, detta quasi incidentalmente, del professor Diotallevi: “la chiesa non è il primo problema della chiesa”. Tutto il cammino che stiamo percorrendo, infatti, non ha come scopo primario quello di elaborare programmi e progetti che facciano funzionare meglio una organizzazione o rilanciare una immagine più accattivante della comunità cristiana. Alla base c’è una vocazione ed una missione che abbiamo ricevuto, la vocazione è quella di seguire Gesù Cristo e la missione è quella di rendere concreta ed efficace la sua presenza nella nostra storia e in quella dei fratelli. Il problema non è, allora, quello di progettare ma di rispondere, diceva il relatore, è di scegliere secondo il Vangelo e, quindi, di discernere ciò che il Signore oggi ci chiede, relativizzando noi stessi e non mettendoci al centro della scena. Cristo risorto opera sempre nella sua chiesa e, nello Spirito Santo, continua a parlare al nostro cuore: per questo non ci perdiamo d’animo e sap- piamo di non cominciare da zero, abbiamo la sua Parola, i Sacramenti, in special modo l’Eucarestia, che richiede da noi la stessa “presenza reale”, assicurataci da parte sua dal Signore. Questo rapporto continuo è scandito dall’Anno liturgico, che ci fornisce il nutrimento necessario al tempo opportuno e, quest’anno, ci sta portando velocemente alla Quaresima e alla Pasqua. Proprio nella Quaresima siamo chiamati a scoprire sempre più profondamente la portata del nostro battesimo, non solo come singoli, ma anche come comunità, confrontandoci anzitutto con la tentazione, necessaria e provvidenziale per Cristo come per noi e per la chiesa, poiché solo in questo modo possiamo renderci conto di ciò che abbiamo nel cuore. Anche alla chiesa viene proposto di cambiare le pietre in pane, quando pensiamo di accontentarci senza sforzi della solita routine, di mettere in piedi una bella organizzazione Mons. Apicella durante i lavori del convegno di servizi, magari utili e “filantropici”, dimenticandoci che per vivere occorre nutrirsi anzitutto della Parola di Dio, che sempre ci sorprende e ci sospinge sempre oltre. Anche la chiesa è tentata di dare spazio a ciò che è “spettacolare”, che “fa colpo”, nelle varie forme, tradizionaliste o progressiste, col rischio di voler essere noi a dettare al Signore i tempi e i modi con cui attuare e manifestare la sua opera di salvezza. Non è, infine, troppo difficile riconoscere che anche nella chiesa esiste la tentazione del potere e della ricchezza, magari “a fin di bene” e con le migliori intenzioni, ma che porta inesorabilmente all’idolatria e al tradimento di Cristo, che ci ha arricchito con la sua povertà e ci rende forti per mezzo della debolezza della sua croce:…”vi mando come agnelli in mezzo ai lupi…”(Lc.10,3), e quante volte ci lamentiamo della mancanza di mezzi umani per attuare le nostre lodevoli iniziative! Un ascolto attento della Parola di Dio in questa Quaresima illumina il nostro cammino di chiesa e ci fa salire sul monte della Trasfigurazione, per farci scoprire che solo attraverso la passione si giunge alla gloria che risplende sul volto del Risorto e che, come ci ha ricordato recentemente Benedetto XVI, “nella speranza siamo salvati”, una speranza che non delude, poiché lo Spirito di Cristo è stato riversato nei nostri cuori, che sono stati confermati e resi capaci di “ascoltarlo”, cioè di seguirlo, nell’obbedienza al Padre. E’ lo stesso Spirito, acqua zampillante in eterno dal costato di Cristo e in cui siamo stati battezzati, che ci rende veri adoratori di Dio nella chiesa e, liberandoci dalle nostre infedeltà, ci permette di amare e di annunciare l’amore ricevuto, mostrandoci lo sconfinato campo di lavoro e la inaspettata messe, in attesa degli operai che se ne prendano cura. Infine i grandi segni della guarigione cieco nato e della resurrezione di Lazzaro ci aiuteranno a liberarci dalla presunzione dei farisei, che pretendono di vedere senza amare, e dalla rassegnazione iniziale di Marta e Maria, con le quali dovremo scoprire che nessun sepolcro è definitivo e nessuno, compresi noi, è tanto morto da non poter essere risvegliato dalla vita, che è Cristo risorto. Il cammino quaresimale, quindi, non sarà solo individuale e personale, ma anche comunitario e sociale (cf. SC 110), accompagnando, anche quest’anno, i catecumeni adulti che, durante la veglia pasquale, entreranno a far parte a pieno titolo della nostra chiesa, da cui attendono la testimonianza che il nostro battesimo ci rende veramente “segno e strumento” della presenza del Signore. Febbraio 2008 Speciale Convegno 3 La Chiesa in Italia è viva e vivace con problemi che derivano dalla difficile situazione della società italiana della quale fa parte Mons. Luigi Vari Fra il 18 e 20 gennaio si è celebrato il convegno diocesano, appuntamento che ormai da anni è un punto fermo nel cammino della nostra diocesi. Un convegno serve soprattutto ad incontrarsi per riflettere su temi che si considerano importanti per la vita della Chiesa. Riflettere, guidati da persone che, su campi specifici hanno una particolare competenza, aiuta a dare corpo alle intuizioni, e, pure se questo non appare immediatamente, a progettare cammini che aiutino a vivere meglio la propria esperienza. L’anno appena trascorso ha visto la diocesi, ad esempio, riflettere sulla Parola di Dio , riprendendo la riflessione della Dei Verbum. L’utilità di quella riflessione sta nel passaggio dall’intuizione per cui occorrerebbe più Bibbia nella vita pastorale alla convinzione che ne occorre di più ed anche all’acquisizione di strumenti che possono rendere possibile la maggiore presenza della Parola nella vita delle diverse comunità. Il convegno, pensato in questa maniera è una risposta ad una domanda diffusa che, a sua volta, chiede una risposta alle comunità della diocesi che fanno tesoro delle indicazioni per poterle poi verificare, modificare ed arricchire. Ad un convegno, quindi, si deve solo chiedere che tracci una pista verso obiettivi condivisi , sono poi le parrocchie che decidono di percorrere quella pista e danno significato alla riflessione, oppure di ignorarla e di non utilizzarla. L’ultimo incontro ha avuto come tema quello della partecipazione. L’attualità della domanda nasce dall’esperienza che vede una crisi forte delle strutture di partecipazione in molte parrocchie, infatti, come più volte è stato sottolineato , le forme delle partecipazione stentano a decollare; i consigli pastorali faticano, i consigli degli affari economici sono spesso ridotti al lumicino.. Ci si domanda se questo sia la punta di un iceberg , cioè se mancano le forme della partecipazione perché la gente non partecipa alla vita della Chiesa in generale, oppure se sia un problema di malinteso senso di delega da parte di molti laici che, protagonisti nella vita della Parrocchia, non ritengono di doversi far carico di tutta la vita parrocchiale pensando che questo sia un problema del parroco. Il convegno ha risposto attraverso lezioni e testimonianze che hanno evidenziato alcuni elementi, hanno, cioè tracciato una pista. La prima risposta nasce da una riflessione sulla Chiesa che ha dominato la prima serata del convegno , è apparso con chiarezza che la Chiesa in Italia è viva e vivace con problemi che derivano dalla difficile situazione della società italiana della quale fa parte, attenta ad essere presente senza voler diventare parte o controparte del potere politico. Certamente il clima di sospetto e del tutti contro tutti nel quale si vive in Italia tende ad esasperare parole e comportamenti, ma il comandamento di esse- Pastorale non dice: ci vorrebbe un oratorio, ma: facciamo un oratorio. La mattina del Sabato ha visto un intervento molto interessante sulle strutture di partecipazioni al quale è seguito il lavoro dei gruppi che hanno dato delle indicazioni e delle testimonianze molto profondei delle quali è stata fatta la sintesi nel pomeriggio di Domenica. L’indicazione, però più coinvolgente è venuta dalle testimonianze previste per la sera del Venerdì e per il pomeriggio della Domenica. La sera del 18 i giovani animatori dell’associazione nata a Locri: “ed ora ammazzateci tutti”, reduci di una giornata passata di fronte al palazzo del CSM dove si decideva del giudice De Magistris, hanno portato una ventata di passione e dalle loro considerazioni nate anche da drammi personali, nasceva la domanGruppi di studio al lavoro da ai cristiani di re nel mondo senza essere del mondo ha sempre essere presenti nel territorio con coraggio, con schietcreato qualche tensione e sempre deve essere com- tezza di parole e di comportamenti. Non una richiepreso. La Chiesa dunque c’è. L’altro problema che sta generica dal momento che essa poneva come nasce e che nel convegno è apparso, riguarda l’ar- esempio positivo l’opera del Vescovo di Locri, mons. monia delle diversità che formano la Chiesa; alcuni Bregantini. Molto bella la loro provocazione che inviconvegnisti sono rimasti un po’ perplessi da alcuni tava, ma è un tema che si sta facendo strada anche accenni fatti ai movimenti ed ai cammini. Credo che per opera di molti missionari, a difendere la vita, tutsu questo tema non dobbiamo essere ideologici; per- ta la vita, nel suo iniziare e finire e nel suo svolgerché prendersela con chi, di fatto, in molte realtà con- si. tinua l’azione missionaria della Chiesa? È vero che Emozionante è stata la testimonianza del dott. Paolo la Parrocchia è la somma di tutto, ma, spesso, quan- Giuntella che ha concluso i lavori, da questo giordo mancano anche i movimenti, la somma degli adden- nalista, scout, membro del Consiglio pastorale deldi rischia di essere zero. Allora come fare perché ci la sua parrocchia, sono venute parole che hanno spiesiano addendi da sommare? Qui entra il discorso del- gato che cosa significhi appassionarsi del Vangelo le Parrocchie che devono ricominciare a riflettere su e della sua debolezza. Un invito a cercare tutti i mezse stesse, sul loro mandato di evan- zi per portare Cristo a tutti, ma a farlo con povertà, gelizzare e che, per far- con umiltà, mostrando più il sorriso che i muscoli. lo, non si posso- In un convegno nel quale la domanda iniziale semno affidare solo alle brava essere un po’ burocratica centrata come era intuizioni del par- sulle forme della parteroco. Nasce la cipazione, si è finito per necessità di un parlare di evangelizzazione consiglio pastorale e di testimonianza a dire che aiuti a com- che non si fanno consiprendere le stra- gli pastorali per moltiplide da percorrere care le riunioni, ma per e che si faccia cari- aiutarci ad essere più testico di creare le con- moni e più evangelizzadizioni per farlo. tori. Il Consiglio Gruppi di studio al lavoro 4 Speciale Convegno Febbraio 2008 mancanza di un minimo di progettualità pastorale. In qualche parrocchia non c’è il CPP. mons. Luigi Vari Nella mattinata di sabato 19 gennaio c’è stato, dopo la relazione di Mons. V. Peri sugli organismi di partecipazione nella Chiesa, un lavoro per gruppi sulla partecipazione e corresponsabilità che si sperimenta negli consigli pastorali delle nostre parrocchie. I gruppi erano otto di circa 10-15 persone per gruppo. Ecco la sintesi dei lavori. La chiesa e gli organismi di partecipazione la prima parte del lavoro di ieri mattina è stata dedicata ai motivi del perché gli organismi di partecipazione (si è fatto riferimento al CPP) fanno fatica a funzionare. Un primo gruppo di motivazioni è legato ai membri del CPP: la loro presenza non sempre è rappresentativa della realtà parrocchiale (i giovani non sono molto presenti in esso e anche i religiosi); si nota una fatica ad un ricambio generazionale o anche a crearne le condizioni; in molti casi si ha l’impressione di girare a vuoto, e cresce una sorta di insoddisfazione del lavoro svolto. Si avverte, insieme alla necessità di una formazione alla vita spirituale (le motivazioni della presenza e dell’agire); la carenza all’ ascolto dell’altro che pensa ed agisce diversamente, e la fatica ad agire in unità. Questo porta anche ad un abbandono dell’impegno preso o ad un calo di tono e di qualità di tempo rispet- 2. Quali i passi da compiere (iniziative, scelte di fondo, atteggiamenti, ecc) perché parole e concetti forti quali: <comunione>, <corresponsabilità>, <partecipazione>, <luogo di scelta ecclesiale> diventino prassi ecclesiale? Il richiamo alla formazione sembra essere il ritornello cantato da tutti i gruppi: è una formazione alla vita spirituale, occorre crescere nella imitazione di Gesù Cristo (ascolto della Parola, preghiera, vita comunitaria,ecc). La scelta dei membri del CPP (chi li sceglie? Come vengono scelti?), è un passaggio fondamentale per il cammino e per gli stimoli che esso sarà in grado di offrire alla comunità parrocchiale. È stata richiamata più volte la necessità di un progetto pastorale diocesano verso il quale il CPP si pone a servizio nella diversità dei territori in cui sono presenti le parrocchie. Questo potrebbe aiutare i CPP a lavorare con un po’ di capacità progettuale. A questo proposito si potrebbe fare qualche incontro a livello diocesano tra rappresentanti dei diversi CPP per confrontarsi sulla identità e sul metodo di lavoro e per far circolare qualche esperienza di partecipazione più matura e efficace. Favorire la partecipazione del laico nella fase del- to allo slancio iniziale. Nessun gruppo di lavoro ha sottolineato posizioni decisioniste o autoritarie del parroco all’interno del CPP, in qualche si è invece sottolineato la delega al parroco nel fare proposte o indicare soluzioni. Forse i membri del CPP non hanno conoscenza del territorio? Si è spenta la loro vena creativa? Manca il coraggio? C’è poco tempo? Non ci si sente all’altezza del compito? Un secondo blocco di motivazioni le possiamo raggruppare sull’identità del CPP. In molti casi non c’è chiarezza condivisa circa le finalità e le funzioni. Allora c’è il rischi per non sentirsi dire che <qui non si fa niente e si conclude poco> di diventare un luogo operativo (ad es. in molti CPP ci si incontra per organizzare la festa o incontri comunitari). Gruppi di studio al lavoro Il provare ad esercitare la responsabilità con il discernimento lo studio di un problema, nella elaborazione dele far maturare le decisioni sembra essere un tra- le possibili soluzioni e nel dare forma alla decisione. guardo non troppo vicino. Gli argomenti all’o.d.g. In questo modo il CPP assicura la continuità del vengono talvolta percepiti non corrispondenti alle lavoro pastorale anche di fronte ad un cambio del esigenze delle persone e della comunità parroc- parroco. In alcuni gruppi (due per la precisione) chiali: chi fa l’o.d.g.?. In molte parrocchie l’o.d.g. è stata fatta notare la necessità che il CPP sia visi(cioè l’elenco dei temi/problemi fatti oggetto di dis- bile nella comunità parrocchiale per favorire il suo cussione) rivela un procedere a piccoli passi e la essere luogo di comunione. Febbraio 2008 Stanislao Fioramonti La giornata conclusiva del Convegno Pastorale Diocesano, domenica 20 gennaio nel Teatro Aurora di Velletri, ci ha donato la testimonianza del dr. Paolo Giuntella, il noto giornalista del TG1. Paolo Giuntella è nato a Roma il 5 ottobre 1946. Suo padre Vittorio (1913-1996) è stato docente di Storia alla “Sapienza” e cattolico impegnato in politica (nella DC con Moro e Dossetti) e per i diritti umani, in particolare per l’Opera Nomadi. Da giovane Paolo ha frequentato lo scoutismo cattolico (Agesci), è stato attivo nei gruppi cattolici ed è stato anche dirigente nazionale dell’Azione Cattolica. Si è laureato in Storia Contemporanea alla “Sapienza” ed ha approfondito i suoi studi di Storia economica grazie a una borsa di studio del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche). Ha iniziato a lavorare come giornalista “free lance” (libero professionista), poi fu assunto all’”Avvenire” come redattore parlamentare, quindi al “Mattino” di Napoli come capo della pagina culturale e dei supplementi. Nel 1998 è entrato nella RAI al TG1, nella redazione del “TG7”, il settimanale di attualità del quale poi fu nominato curatore; dal 1993 al ’94 è stato capo degli speciali del TG1, quindi inviato speciale. Dal 1999 è il quirinalista della testata, e ci informa dell’attività del Presidente della Repubblica Giorgio Napoletano, dopo aver seguito il suo predecessore Carlo Azeglio Ciampi. Giuntella è stato uno dei fondatori ed è il presidente della “Rosa Bianca”, associazione culturale impegnata fin dai primi anni ’80 nel dibattito socio-politico e nel dialogo interreligioso, cui aderiscono anche persone non cattoliche o non credenti; la sede dei corsi o conferenze o altre attività dell’associazione è spesso il monastero toscano di Camaldoli. Il suo lavoro lo ha spesso portato in aree calde del nostro tempo, come l’Irlanda del Nord, la ex-Jugoslavia e in particolare il Kosovo, l’Albania della quale ha raccontato la difficile situazione e la lenta evoluzione verso la democrazia. Da queste esperienze professionali o da esigenze personali più profonde sono ispirati i suoi libri: Dossier Irlanda (1974); E’ notte a Kukas: storie di profughi, volontari e cronisti (RAI-ERI 1999); Kukas (Marietti-Nuova ERI, 1999); Il Concilio raccontato ai miei figli; E Dio suonò il sax (Marietti, 2002) nel quale, con un linguaggio semplice e brillante, si affrontano argomenti di controversa attualità (guerra, profughi e rifugiati, ricerca della pace, problemi giovanili come la precarietà e la paura del futuro); Strade verso la libertà, il Cristianesimo spiegato ai giovani (Edizioni Paoline, 2004). Paolo Giuntella è una vecchia conoscenza dei gruppi cattolici, giovanili e non, della nostra diocesi; lo ricordiamo nel 1977 come uno dei relatori del convegno su don Milani, organizzato a Valmontone dal Centro Giovanile Interdiocesano nel decennale della morte del curato di Barbiana; qualche tempo dopo, invitato da mons. Bernini, partecipò a Gavignano Speciale Convegno 5 a un incontro giovanile diocesano; infine dopo circa venti anni è tornato a Valmontone per parlare a uno degli incontri quaresimali della parrocchia di S. M a r i a Maggiore. Giuntella ha iniziato a parlare dicendosi molto contento di essere a Velletri, sia perché ritrovava mons. Apicella, che era stato vescovo del suo settore quando era ausiliare di Roma, sia perché il primo vescovo di VelletriSegni, mons. Dante Bernini, era stato alunno di un suo amato prozio nel seminario di Viterbo. Ha detto di non aver nulla da insegnare a nessuno, di sentirsi un peccatore, un cristiano comune che fa parte del Consiglio Pastorale della sua parrocchia romana di Cristo Re a piazza Mazzini. Il suo impegno morale attuale è quello di trovare il modo di risolvere l’interrogativo sentito da uno storico francese: si può trasmettere il piacere di essere cristiani? Per secoli, ha detto, i cristiani hanno ecceduto in pessimismo, in moralismo, mentre specie in un mondo come il nostro dovrebbero vivere la loro condizione con allegria perché, cita un pensatore francese, “la bellezza e l’amore ci riscattano dal banale”. Dobbiamo allora recuperare la dimensione dell’amore, parola che oggi è talmente sfruttata da sembrare retorica, ma che invece si deve rivalutare nel suo significato più vero. E la comunicazione dell’amore comincia dall’amicizia, ha proseguito citando il “Vi ho chiamato amici” del Vangelo di Giovanni; chi crede nell’unità del genere umano, che si compirà, sono proprio i cristiani. Diceva Vittorio Bachelet nel 1947, in piena guerra fredda: i cattolici devono combattere il male, ma non possono essere nemici degli uomini, anche se sono al servizio del male. E Charles de Foucault ricordava che Gesù ci ha insegnato ad essere caritatevoli, uniti, umili con tutti, a non essere contro nessuno. E i monaci morti per la fede in Algeria anni fa hanno amato e pregato fino all’ultimo per la gente musulmana. Anche Paolo Giuntella, per una malattia che contrasta tenacemente (e ironicamente, tanto da definirsi un… diversamente sano), per la perdita di due sorelle, per le esperienze della sua vita, ha capito che un cristiano deve unire profezia e mitezza, lui che per tanto tempo ha lottato animosamente per riunire tutte le pecorelle smarrite nell’ovile di Cristo. Ha capito che il bene si fa con discrezione, che si deve amare con discrezione; sempre studiando, ricercando, dialogando, sempre pronti ma senza invadenza. Ha però anche avvertito di non ridurre il cristianesimo alla filantropia da pianerottolo, di fare attenzione a quei cristiani devoti, convinti di essere nel giusto, ormai già convertiti e quindi non più convertibili; forse sono migliori i non credenti o i non cristiani. Il cristiano deve invece considerarsi dentro una grande, globale avventura; anche se gli sembra di fare poco (ha parlato proprio di pulire il sedere a un vecchio infermo o cambiare il pannolino a un bambino…), deve sentirsi ogni giorno insieme a tutti quelli che nel mondo – missionari, medici, laici anche non credenti – lottano per l’uomo in nome di Cristo; anche noi lottiamo insieme a tanti che spendono la vita per la giustizia, la pace, la liberazione degli oppressi. A conclusione dell’incontro è stata citata una storiella ebrea riportata da Bruno Forte in una sua operetta teologica. Il vero cristiano, ha notato Giuntella, condivide con l’ebraismo la condizione dell’esilio, del nomadismo verso la vera vita, perché per tutti la condizione dell’esilio è la condizione umana. Allora se, come il saggio della storiella, i cristiani davvero saltassero e ballassero il Vangelo, davvero potrebbero sentirsi guariti e pronti per il Regno. Parole che, dette da un sessantenne pienamente attivo benché in lotta per riguadagnare la sua salute fisica, sono davvero una bella testimonianza di fede e di speranza. Febbraio 2008 6 Speciale Convegno La Chiesa, mistero di comunione: dialogo tra don Dario Vitali e Luca Diotallevi Il Convegno pastorale diocesano si è aperto con una particolare forma di intervento. Invece di due relazioni sul tema della Chiesa, una dal punto di vista sociologico, l’altra a carattere più teologico, i due relatori hanno tentato un discorso a due voci, un dialogo o, se si vuole, un’intervista. La particolarità, peraltro, è stata che il teologo ha interrogato il sociologo, e non viceversa. A partire dai dati consolidati in dottrina, l’intenzione è stata quella di interrogare la situazione presente, domandando al sociologo – e Luca Diotallevi è sociologo di fama nazionale – di fornire la lettura della Chiesa in Italia nel periodo post-conciliare, per verificare la recezione del modello di Chiesa come mistero di comunione. Il punto di partenza è stata la constatazione dell’assenza di un modello condiviso di Chiesa che ispiri la prassi ecclesiale. Al di là delle affermazioni di circostanza sull’ecclesiologia di comunione, il consenso sulla formula è più che altro formale. Il problema non è di poco conto, perché ha come esito un linguaggio – e quindi una comprensione – della Chiesa a dir poco ambiguo: i molti soggetti che compongono la compagine ecclesiale possono tutti parlare di «ecclesiologia di comunione», intendendo tutti un significato diverso! Con la conseguenza che termini come partecipazione e corresponsabilità assumono spesso un valore ideologico, che alza i toni delle rivendicazioni e quindi del conflitto, più che costruire la comunione ecclesiale. Il prof. Diotallevi ha indicato un processo, che non è solo ecclesiale, capace di lumeggiare molto questa situazione. Si tratta di quel processo di diversificazione sociale che ha conosciuto l’Italia nel dopoguerra, e del concomitante processo di diversificazione interna che ha contrassegnato il cattolicesimo in Italia nella stagione post-conciliare. Si tratta di un processo di individuazione, con una forte crescita dei soggetti, che si traduce in una altrettanto forte richiesta di partecipazione. Naturalmente, questo processo non è una disgrazia; è un dato di fatto, che costituisce una sfida di maggiore maturità per tutti; è un tempo propizio per proporre la sfida della comunione ecclesiale come modello e criterio dell’esperienza ecclesiale. Il discorso sui livelli di diversificazione interna del cattolicesimo italiano rimandano alla stagione postconciliare, segnata da un’attuazione prima e da una recezione poi sicuramente faticosa. Don Dario ha ricordato le due ermeneutiche del concilio proposte da Benedetto XVI: quella della continuità e della riforma contro quella della discontinuità e della rottura. Di fatto, due sparute minoranze (quella tradizionalista e quella progressista) hanno monopolizzato la scena e condizionato il processo di recezione. Peraltro, la polemica intorno ad alcuni nodi dottrinali del Vaticano II ha finito per polarizzare i modelli ecclesiologici in alternative di carattere inutilmente polemico: ChiesaPopolo di Dio contro Chiesa-corpo di Cristo, carisma contro istituzione. La domanda al sociologo è qui d’obbligo: c’è parallelo tra il processo di recezione del concilio e quello di diversificazione dei livelli del cattolicesimo italiano? Il Vaticano II, a parere di Luca Diotallevi, è stato un evento di fedeltà a Dio e di fedeltà all’uomo. Che è avvenuto attraverso il rinnovamento stesso della Chiesa. I documenti del concilio costituiscono la testimonianza dello sforzo che ha fatto la Chiesa per rinnovare se stesso, in un tempo di forte cambiamento della società stessa a livello mondiale. Se si può fare un rilievo, è che il Vaticano II è stato troppo tempestivo: di fronte alla crisi delle istituzioni e delle norme, il concilio aveva proposto la via del dialogo, dell’incontro. Via che a molti è sembrata una dissoluzione della Chiesa e delle sue istituzioni. Ma senza questa scelta profetica, cosa ne sarebbe stato della Chiesa di fronte alle rivoluzioni del nostro tempo? E comunque, il processo di diversificazione interna del cattolicesimo italiano nasce da qui, ed è segnato da una coscienza ecclesiale molto più forte rispetto alla stagione pre-conciliare. A livello ecclesiologico – è stata l’affermazione dell’ecclesiologo – questo può essere letto in molti modi, addirittura alternativi: da una parte si parla di un tessuto ecclesiale vivace, plurale, capace di tante esperienze nuove e diversificate (identificabili grosso modo con le esperienze dei movimenti), dall’altro si vede la medesima situazione come massimamente frammentata, con esperienze ecclesiali chiuse in compartimenti stagni, fortemente autoreferenziali. Il diverso giudizio dipende, naturalmente, dall’idea di Chiesa che si persegue: la domanda è se il modello ecclesiologico non sia stato piegato a questa situazione ipotizzando una Chiesa a carattere universalistico come una grande cornice o un grande contenitore dove tutti hanno uno spazio e un potere garantito, purchè stiano dentro e purchè mantengano alto il numero e quindi la visibilità della Chiesa stessa. Il sociologo ha sottolineato il rischio di trasformare la Chiesa in una holding, con imprese parallele (i movimenti e le associazioni) senza connessione tra loro. Con il rischio per la Chiesa di trasformarsi essa stessa in un movimento. Si possono distinguere due fasi di questo processo: la prima, caratterizzata da una fortissima domanda di identità, ha portato alla moltiplicazione dei soggetti ecclesiali, e quindi alla emersione dei movimenti; la seconda, caratterizzata da una forte visibilità, che ha portato molti a identificare la Chiesa nei movimenti. A fronte di questa evoluzione, che oggi manifesta caratteri di problematicità, i vescovi italiani hanno insistito sull’elemento di continuità che è la parrocchia. In un mondo che cambia, le comunità parrocchiali sembrano esprimere ancora l’aspetto tipicamente popolare del cattolicesimo italiano, dove le comunità si caratterizzano per la presenza di tutti, senza distinzione di élites, strutturate come sono intorno ad alcuni elementi di normalità condivisa. Bisogna tornare alla realtà delle Chiese locali: è questo l’elemento di continuità, che c’è da sempre e che garantisce la missione della Chiesa dentro la storia. Su questa forma di Chiesa, fondata sul rapporto necessario del vescovo con il Popolo di Dio a lui affidato si fonda un cammino di Chiesa che voglia vivere secondo i principi della comunione, della corresponsabilità, della partecipazione. Don Dario Vitali Febbraio 2008 Sara Bianchini Caritas Diocesana Velletri-Segni L’incontro inizia con un po’ ritardo, venerdì 18 gennaio, di sera. Aldo Pecora e Rosanna Scopelliti vengono da Roma, ma girano ormai in tutta Italia, portando la loro testimonianza di cosa voglia dire vivere la legalità ed educare ad essa. Parlano come “rappresentanti” del movimento nato dai giovani di Locri “Ed ora ammazzateci tutti”. Quella che portano è soprattutto un’esperienza personale. Troverete di seguito solo il resoconto di quanto hanno affermato. Aldo Pecora, che studia giurisprudenza all’università di Roma, inizia con la lettura di una petizione che il giorno precedente aveva diffuso con altri suoi colleghi, per dissociarsi formalmente dalla non-accettazione del papa nell’ateneo. Fare antimafia significa oggi scontrarsi dovunque con persone abituate alla clientela: i discorsi non devono volare alto, devono invece tenere presente che il clientelismo è già mafia. Chiedere un favore per avere anticipati i tempi di una TAC, significa implicitamente non credere che la TAC sia un nostro diritto. E ciò avviene per un difetto di comunicazione, perché cioè in Italia oggi non si parla di alcune cose, come per esempio i problemi legati alla giustizia. Riteniamo comunemente in relazione alla magistratura, che il problema principale sia la divisione delle cariche. In realtà i problemi sono anche e soprattutto altri: p.e. con la riforma attuale se un magistrato vuole arrestare un mafioso non può farlo “immediatamente”, perché il suo mandato di cattura deve essere controfirmato dal procuratore capo. Questo è un modo per rallentare la giustizia. In Italia la presa in giro dei cittadini arriva a tutti i livelli: abbiamo inquisiti che siedono in commissione anti-mafia, proscritti che rappresentano il paese in tutto il mondo,. Pecora è passato poi al racconto più diretto della loro esperienza, cercando di calibrarlo molto sul tema del convegno che riguardava la partecipazione. Quando il loro movimento ha preso coscienza che la ‘ndrangheta in Calabria era lo specchietto per le allodole per spiegare perché le cose vanno male, ed ha iniziato a riflet- Aldo Pecora Speciale Convegno 7 tere sul rapporto fra malaffare e malapolitica, le simpatie verso questo movimento sono iniziate a diminuire. La Chiesa dovrebbe assumere una presa i posizione netta contro la mafia, arrivando a supplire alla crisi di coesione sociale che c’è oggi in Italia. Chi combatte per la giustizia e per il bene, è spinto da qualcosa, allora la Chiesa dovrebbe arrivare a queste persone, laddove le istituzioni non lo facciano. La Chiesa può dare organizzazione là dove ci sono contenuti non organizzati, avendo il vantaggio di essere diffusa su tutto il territorio. Un esempio concreto è stato quello dell’operato di Mons. Bregantini: creare lavoro dove non c’era, coinvolgendo chi nel lavoro legale non era coin- Rosanna Scopelliti volto (una cooperativa con a capo un ragazzo che aveva in precedenza scontato 15 anni di galera per associazione mafiosa). Da questo è nato per Pecora stesso, come sottolinea, il sentimento forte di dovere parlare con tutti, particolarmente con queste persone che hanno un passato di delinquenza (tenendo presente che in carcere finisce soprattutto la bassa manovalanza giovanile e non chi la assolda e comanda). Dalla parola nasce la comunicazione, dalla comunicazione nasce la partecipazione. Il movimento “Ammazzateci tutti” è composto da ragazzi che non sono funzionari dello Stato, ma che girano per l’Italia, per riattualizzare il significato della testimonianza di chi è morto per alcuni valori. Sono volontari della parola, il cui obiettivo è restituire a cittadini la palla, nella consapevolezza che la lotta alla criminalità non è portata avanti solo dalle forze dell’ordine. È troppo facile pensare che siano gli altri che fanno le cose per me. È storia solo se il futuro è passato da noi. Rosanna Scopelliti è figlia di un magistrato di cassazione, che si era occupato di processi contro il terrorismo e contro la mafia. Del padre racconta che credeva nella giustizia vedendola come un forma di redenzione: le persone che hanno sbagliato possono correggersi. Che aveva reso partecipe la sua famiglia di tutta la sua vita, anche delle situazioni di pericolo. È stato ucciso il 9 agosto del 1991, quando lei aveva 7 anni. Lei sapeva bene che il padre era in pericolo, perché egli stesso glielo aveva fatto presente. Proprio nell’ultimo anno della sua vita, il padre decide di tornare a vivere da solo in Calabria, senza famiglia e senza scorta. Aveva deciso di non avere paura, come scelta esistenziale, al di là della paura normale che tutti comunque hanno. Perché si fidava della Calabria. Quando il padre è stato ucciso, la reazione di Rosanna è stata dura: ha pensato che egli avesse fatto la scelta sbagliata preferendo il lavoro a loro; si è sentita ferita per la non reazione della Calabria. Lei stessa ha deciso di non tornare in Calabria. Il processo in secondo grado e in cassazione, ha assolto i mandanti dell’omicidio (fra cui Provenzano, Riina). Di questo Rosanna dice di non avere accettato: il fatto che la cronaca non abbia parlato di questa soluzione e che nessuno si sia indignato per questo. Si è trovata di fronte ad una scelta: continuare a fare finta di nulla o ricercare la giustizia per suo padre, facendo qualcosa. Ma non sapeva cosa. Concretamente sapeva di dovere tornare in Calabria, ma non voleva. Il cambio si è avuto quando ha visto la partecipazione dei giovani calabresi contro l’omicidio di Fortugno. E soprattutto quando ha visto che questa partecipazione continuava e non si era fermata alle prime manifestazioni dopo l’omicidio. Rosanna afferma che raccontare del padre è per lei un modo di sentirselo ancora vicino e per le persone (almeno è quello che lei desidera) un modo di spronarsi a partecipare. Questi sono alcuni degli spunti tratti dalla loro testimonianza. Ritengo personalmente che vadano approfonditi e soprattutto contestualizzati alle nostre personali e comunitarie situazioni. Il rischio è che la commozione e l’indignazione frutto dell’ascolto di queste testimonianze non mettano radici e non si concretizzino. Parleremo di questo in un prossimo numero. Febbraio 2008 8 Chialastri don Cesare direttore Ad ottobre 2007 è stato presentato a Roma il VII Rapporto sulla povertà e esclusione sociale in Italia, curato dalla Caritas Italiana e dalla Fondazione “E. Cancan” dal titolo: Rassegnarsi alla povertà, ed. il Mulino, Bologna. Partendo da questo documento cercheremo di rispondere ad alcune domande: chi sono oggi i poveri in Italia? Per quali motivi molte famiglie sono a <rischio povertà>? Quali scelte politiche aiuterebbero a contrastare la povertà? Infine ci sembra utile riflettere sulla provocazione del titolo: l’Italia si sta rassegnando alla povertà? Prima di entrare nella presentazione di alcuni dati che emergono dal Rapporto e delle proposte concrete per un piano di lotta alla povertà, ci sembra utile richiamare alcune premesse sottolineate da G. Pasini, presidente della Fondazione Zancan: “La povertà non esiste in natura, ma è conseguenza è conseguenza di situazioni in cui la politica non frequenta la giustizia. Essa non è limitata a singoli casi pur numerosi, ma costituisce un vero fenomeno sociale che perdura, quasi immutato da decenni e che riguarda circa 7,5 milioni di cittadini, ossia l’12% della popolazione. Preoccupano, in questo quadro, l’inerzia dello Stato e la sua mancanza di iniziative. C’è davvero la sensazione di essere in presenza di una certa rassegnazione diffusa, come quando ci si trova di fronte ad un problema insolubile, oppure c’è l’illusione che il problema in qualche modo si risolva da solo. È certo che la soluzione di un così grave problema non può essere affidata esclusivamente ad agenzie di carità e di solidarietà”. Dunque secondo gli ultimi dati dell’Istat sono circa 2.623.000 famiglie, vale a dire 7.537.000 persone (il 12% della popolazione), si trovano in stato di povertà relativa (la soglia si calcola sulla base di un valore convenzionale che individua il valore di spesa per consumi al di sotto del quale una famiglia definita <povera> in termini relativi. La soglia della povertà, secondo i calcoli dell’ Isae, nel 2004 era pari a 815 euro). I dati fanno emergere una novità. In questi anni si assiste ad un fenomeno di cui la società italiana è poco consapevole: stanno notevolmente aumentando le famiglie che non sono definite come povere solo perché superano la soglia della povertà per somma minima che va da 10 a 50 euro al mese. Questi nuclei familiari <a rischio povertà>, che secondo i dati Istat sono circa 900.000, nonostante abbiano un lavoro e un reddito, ricorrono ai centri assistenziali per poter far fronte alle loro necessità. Ciò che può determinare una situazione di povertà, secondo il Rapporto, sono alcuni fattori: la presenza di bambini piccoli; la presenza di anziani ammalati; il basso livello di istruzione; la scarsa capacità di partecipare al mercato del lavoro. Attraverso il servizio delle Caritas diocesane, fatto di mense sociali, centri di accoglienza notturna, poliambulatori per minori, stranieri, per malati di Aids, il Rapporto ha elaborato i dati di 30.453 persone in difficoltà nel semestre aprile-settembre 2006 facenti capo a 264 centri di ascolto, appartenenti a 134 diocesi italia- ne. Questo ci permette di tracciare un quadro significativo e reale delle situazioni e dei bisogni. Il 60% delle persone che vanno al centro di ascolto sono stranieri, a fronte di un 40% che sono cittadini italiani (nel nostro centro di ascolto di San Lorenzo a Velletri gli italiani salgono al 55%). Per questi ultimi i problemi più gravi sono quelli familiari dovuti a separazioni e divorzi (pari al 19,9%), mentre per gli stranieri è del 12,0%, e quelli legati alla mancanza di istruzione: solo il 9,8% degli italiani che si sono recati al centro di ascolto aveva conseguito la licenza media superiore, rispetto al 31,6% di immigrati. In generale emerge dal Rapporto che gli italiani in difficoltà economiche chiedono un sussidio (24,3%), mentre gli stranieri cercano un lavoro (28,8%). I due terzi delle persone che si sono rivolte alla Caritas sono disoccupati e chiedono beni e servizi materiali per fronteggiare le necessità quotidiane (41% di italiani, 54% di stranieri). Molti (circa il 13%) risulta in condizioni di grave precarietà abitativa. C’è davvero un fossato che separa chi sta bene da chi sta male: rispetto agli altri paesi europei, il nostro paese presenta grandi differenze fra chi vive in un più che discreto benessere, chi lotta ogni giorno per non oltrepassare la soglia della povertà e chi dentro la povertà ci sta da tempo e non vede nulla di nuovo nel futuro. Nel Rapporto non mancano molte pagine di speranza, come ad esempio, quelle in cui si raccontano i percorsi di uscita da situazioni di povertà (sono narrate 124 storie di persone: 53 italiani e 71 stranieri). Mentre per gli italiani il “punto di svolta” è stato determinato dall’aver avviato un’attività produttiva e aver risolto il problema della casa; per gli stranieri ciò che ha permesso di uscire dalla situazione di povertà è stata l’opportunità di avviare un’attività in proprio, risolvere il problema dell’alloggio, ricongiungersi con i familiari e decidere di restare nel nostro paese impegnandosi con più forza nel processo di integrazione e inserimento sociale. Tutto ciò è accompagnato dal sostegno morale degli operatori Caritas e per molti è stato l’inizio di una nuova fase di consapevolezza. Il Rapporto arriva a formulare la sua proposta per contrastare la povertà. Occorre innanzitutto dire che il denaro per le spese sociali non manca, al punto che quasi un quarto del Pil annuale (il 26,1%) viene destinato per la protezione sociale. Siamo poco di sotto alla media europea che è del 27,3%. La spesa destinata all’assistenza sociale è di un volume complessivo di 44 miliardi e 540 milioni di euro, e da un suo peso specifico pari a 750 euro pro capite. Nonostante tutto questo, afferma T. Vecchiato, direttore della Fondazione Zancan, le caratteristiche dl welfare del nostro paese:<si basano su squilibri interni evidenti: più della metà della spesa sociale (56,1%) è destinata alla voce “Pensioni in senso stretto e Tfr”. Il resto è ripartito tra le voci “Assicurazioni sul mercato del lavoro” (6,6%), “Assistenza sociale” (11,9%), “Sanità” (25,4%). Gran parte delle risorse vanno all’ultima fase della vita, e molto meno alla prima e al sostegno delle responsabilità familiari”. I curatori dello studio, propongono che vengano fatte scelte politiche coraggiose, affinché, sottolinea T. Vecchiato, si trasferiscano progressivamente i fondi destinati “a livello regionale e locale, vincolando la loro gestione ad azioni prioritarie di contrasto alla povertà. Attuando così non più politiche basate soltanto sul sostegno economico e sui trasferimenti di reddito, ma su piani di inserimento lavorativo e sociale, con sostegno al reddito”. Ad oggi, purtroppo, ai Comuni è permesso di gestire, di questi fondi, solamente 5 miliardi e 11 milioni di euro, con una spesa pro capite media di 86,15 euro, mentre la parte restante, pari a circa 664 euro, è gestita dallo Stato o da amministrazioni da esso controllate. Oltre agli investimenti in servizi sociali nel Sud, propongono il diritto ad un minimo reddito, l’accoglienza di prima necessità per quelli che perdono l’abitazione, aiuti più consistenti alle famiglie con disabili o anziani non autosufficienti. Questo progetto ambizioso non può essere affidato solo alla politica, ma chiama in causa anche le forze sane della società civile. Siamo arrivati alla conclusione della breve presentazione del Rapporto sulla povertà in Italia. Alcuni punti essenziali ci sembra che debbano essere oggetto di riflessione: A) il tasso della povertà non è sceso, i poveri restano una percentuale alta (circa il 1315% della popolazione). Non si ha solo a che fare con la povertà <classica>, legata alla disoccupazione, all’insufficienza del reddito, alle difficoltà abitative, ma ci sono i nuovi poveri, e molti italiani non lo sono per poco; B) il volto del povero che ne esce fuori, va molto al di là dell’immaginario collettivo: oggi, infatti il povero può vestire in giacca e cravatta, essere il nostro vicino di casa, può avere un cellulare e prendere la pensione. Nessuno, data l’apparenza imposta dalla società dei consumi, potrebbe accorgersi che non ce la ad arrivare alla fine del mese. E di fatto, molte famiglie italiane possono improvvisamente ritrovarsi povere per una grave malattia di un familiare, per la precarietà del lavoro o a causa degli oneri finanziari sempre maggiori; C) queste nuove condizioni di sofferenza devono spingere, non solo la Chiesa, ma anche il volontariato e il Governo, a creare nuovi percorsi di giustizia e di solidarietà che intendono favorire condizioni di uguaglianza e di pari opportunità per tutti; altrimenti il divario tra coloro che stanno bene e coloro che non ce la fanno diventerà sempre più profondo fino a minacciare la pace sociale e la sicurezza. È davvero una grande sfida: dare, attraverso politiche di giustizia e di equità, una dignità permanente a chi fa più fatica. La caritas e le comunità parrocchiali non possono tirarsi fuori. Febbraio 2008 Grandi Temi 9 Pier Giorgio Liverani «Gutta cavat lapidem», scriveva il poeta latino Ovidio. La goccia scava anche la pietra: nel nostro caso il cuore di pietra (ricordate Ezechiele?) di tanti uomini e di tante donne. Insomma, basta insistere per ottenere qualche risultato. Sono trent’anni, da quando una legge ha legalizzato gli aborti, che il Papa e i Vescovi sul piano del magistero e il Movimento per la vita su quello politico e culturale e, soprattutto, su quello dell’impegno concreto dell’aiuto alle madri in difficoltà, insegnano e testimoniano il valore e l’amore alla vita. Circa 85.000 bambini, in questi anni, sono stati salvati dall’aborto e, insieme, le loro madri dal tradimento della loro missione e spesso da paurose depressioni. I Cav (Centri di aiuto alla vita) dimostrano che l’aborto non è un destino inevitabile e che i problemi di una nascita non desiderata o addirittura temuta non sono insuperabili. In più moltissime donne che avevano abortito sono oggi fortemente impegnate in questa stessa azione. Tanto può la grazia di Dio quando assume intelligenza, mani e cuori umani. Sembrava – così dicevano gli abortisti – che essere contrario agli aborti significasse essere cattolici o, meglio, che l’opposizione all’aborto fosse soltanto un aspetto della religione, un dato di coerenza con la propria fede (“abortire è peccato”), e che, quindi, che non fosse o non si sentisse cattolico potesse sentirsi libero di abortire o di sostenere il “diritto” di aborto. Ora, però, qualche cosa cambia, qualcosa si muove anche in campo “non cattolico”. I milioni di creature innocenti uccise al primo fiorire della loro vita – qualche centinaio di migliaia l’anno in Italia, 40-50 milioni nel mondo, forse un miliardo da quando sono cominciate le legislazioni abortiste nei vari Paesi (l’Urss nel 1917 e poi la Gran Bretagna nel 1967, il Canada, i Paesi Scandinavi, la Danimarca, la Svizzera, poi ancora gli Stati Uniti nel 1973, la Francia nel 1975) si sono per così dire sedimentati in molte coscienze “laiche” fino a quando il loro peso è diventato “culturalmente” insopportabile. Un simile genocidio perpetrato, quali che siano le motivazioni particolari di ogni singolo aborto, nell’indifferenza, anzi con la complicità degli Stati e di tanta parte dell’industria farmaceutica costituiscono un terribile atto d’accusa: è l’umanità che uccide se stessa, che pregiudica il proprio futuro. Già Publio Ovidio Nasone, il poeta pagano contemporaneo di Cristo, in una delle sue elegie: «Se la stessa usanza fosse parsa opportuna alle madri di un tempo, la stirpe umana si sarebbe perduta per questa colpa e bisognava trovare qualcuno che di nuovo gettasse nel mondo vuoto le pietre origine della nostra specie». Chissà che la «grande moratoria» contro l’aborto lanciata da Giuliano Ferrara e dal suo Il Foglio non possa in qualche modo, almeno simbolicamente, diventare una di queste pietre. Lo dico ricordando una frase di Madre Teresa di Calcutta: «L’aborto è il primo gesto di guerra. Sono sicura che, se ci fosse un giorno in cui nel mondo non si compisse nessun aborto, Dio regalerebbe all’umanità un’era di pace». Di sicuro non bisogna farsi grandi illusioni, anche se la proposta di Ferrara è andata crescendo nei giorni della sua «dieta liquida»: dalla richiesta di «garantire fondi al movimento per la vita e ai centri di assistenza che lavorano contro l’aborto, come ha chiesto ieri (la vigilia di Natale) il giornale dei vescovi (Avvenire) e come dovrebbero chiedere i giornali borghesi e laici», alla proposta, contenuta in una lettera alle Nazioni Unite, di fare della moratoria un’iniziativa internazionale e di aggiungere all’art. 3 della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo di sessant’anni fa («Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona») le parole «fin dal concepimento». È bene ricordare che quest’anno cade il sessantesimo anniversario dell’approvazione da parte dell’Onu della Dichiarazione: 10 dicembre 1948. Dopo l’approvazione della moratoria sulla pena di morte (una semplice sospensione, si badi bene), basata sul principio che la vita dell’uomo – anche quella di Caino – è sacra e intangibile, dovrebbe essere logica conseguenza anche una moratoria per l’aborto volontario, cioè per la pena di aborto inflitta milioni di volte ad Abele, l’innocente. Certo non bisogna farsi illusioni che la richiesta venga accolta, perché ormai si è diffusa nel mondo l’assurda idea che l’aborto costituisca un vero “diritto” della donna e, nell’attuale clima di pluralismo e di relativismo etico, che ognuno possa costruirsi la propria morale. Tuttavia anche il solo lancio di questa duplice proposta (finanziamento al MpV e ai Cav e moratoria mondiale) ha provocato l’interesse e dibattito tra i cosiddetti “laici”: ne parlano tutti i giornali e tutte le tv (lo stesso segretario del Partito Democratico, Veltroni, sia pure ribadendo che «la legge 194 è una conquista di civiltà e dev’essere difesa» (!), ha scritto a Ferrara per dirgli «parliamone») e dal giorno d’inizio della «dieta liquida» del suo Direttore, Il Foglio pubblica quotidianamente intere “paginate” di lettere di adesione e di manifestazioni di consenso. Naturalmente neanche la proposta della grande moratoria costituisce una soluzione: Essa ha il merito di aver posto la “questione aborto” sul piano culturale e non su quello religioso (la sacralità della vita umana non si fonda sulla fede, ma sulla ragione, vale a dire sulla idea di uomo; la fede aggiunge ulteriori e straordinari motivi per considerarla sacra) e proprio per questo ha sicuramente anche una valenza educativa oltre che politica. Ha anche il merito, forse, di aver per così dire “superato” il discorso sulla legge 194, che, per il fondamentalismo dei suoi sostenitori, blocca tuttora qualsiasi discorso. Fa correre il rischio, però, di mandare nel dimenticatoio questa legge, che è una delle principali cause di tanti aborti; oppure di far penare che, siccome alcune sue (pochissime) parti hanno contenuti positivi (il tentativo di dissuadere la donna, la collaborazione del volontariato) peraltro quasi mai applicati, la legge possa essere considerata “buona” mentre non bisogna stancarsi di agire su tutti i piani per sostituirla con una di preferenza per la vita, oppure per rivederla, oppure per ottenerne almeno l’applicazione delle “parti buone”. Infine la moratoria non prende in considerazione la necessità, sempre quanto mai urgente, che le donne tentate di abortire hanno bisogno di essere accolte, comprese, sostenute; di veder condivisa la propria pena o di capire l’errore che stanno per compiere. E tutto ciò il solo “piano della cultura” o la sola politica non sono capaci di fare, se non si continuerà a suscitare, in quello che Giovanni Paolo II ha chiamato “il popolo della vita” (Evangelium Vitæ, n. 79), la passione della carità cristiana, dell’accoglienza, della condivisione. Le sole che sanno far rinascere la speranza (Spe salvi, di Benedetto XVI) nelle anime e nei cuori dolenti. Le sole che sanno testimoniare il valore che ogni vita ha non soltanto per chi la vive, per la madre che la coltiva, ma anche e, sotto certi profili, soprattutto per gli altri. Per tutti. Febbraio 2008 10 Commenti a cura di Don Roberto Mariani parroco della cattedrale doc di S. Scrittura I Domenica (Gen 2,7-9; 3,1-7 Mt 4,1-11) Commento Nella prima domenica di Quaresima la liturgia della Parola ci fa incontrare due luoghi, molto cari alla tradizione biblica, ma in contrasto fra loro: il giardino e il deserto. C’è però un elemento che accomuna questi luoghi ed è l’arrivo del tentatore. La prima lettura, tratta dal libro della Genesi, ci racconta di Adamo ed Eva posti dal Signore nel meraviglioso giardino dell’Eden. A loro era stato donato tutto e dei frutti degli alberi nel giardino ne potevano mangiare, anche dell’albero posto al centro, quello dalla vita, ne potevano mangiare. Dio aveva solo ordinato: «Di tutti gli alberi del giardino tu puoi mangiare; ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiarne, perché, nel giorno in cui tu te ne cibassi, dovrai certamente morire» (Gn 2,16-17). Il tentatore arrivando mette nel cuore della coppia un terribile sospetto…non è vero che Dio è buono e generoso, al contrario, è geloso dell’uomo, ha paura che l’uomo strappi a lui il suo potere…mangiate, non morirete affatto, anzi diventerete come Dio… La voce del tentatore accarezza i sensi e non fa’ più ragionare né con il cuore e né con la mente, «Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, seducente per gli occhi e attraente per avere successo; perciò prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche a suo marito, che era con lei, ed egli ne mangiò» (Gn 3,6) …ma anziché diventare come Dio (avevano dimenticato di essere già fatti a immagine e somiglianza di Dio), si ritrovano nudi, senza niente, soli… Questa storia continua nella nostra. Quale voce ascoltiamo? Di quale parola ci fidiamo? Da chi e da che cosa ci lasciamo guidare nelle nostre scelte? La storia dell’umanità iniziò in un giardino, al contrario Gesù all’inizio del suo ministero pubblico è condotto nel deserto dallo Spirito. Il deserto, di cui si parla nel Vangelo, è probabilmen- Prima domenica Vangelo Mt 4, 1-11 Testo In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo. E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame. Il tentatore allora gli si accostò e gli disse: «Se sei Figlio di Dio, dì che questi sassi diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”» . Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio e gli disse: «Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo, ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede”». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: “Non tentare il Signore Dio tuo”». Di nuovo il diavolo lo condusse con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai». Ma Gesù gli rispose: «Vattene, satana! Sta scritto: “Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto”». Allora il diavolo lo lasciò ed ecco angeli gli si accostarono e lo servirono. te il deserto di Giuda (80 per 25 Km), calcareo, roccioso, formato da monti, da valli e da altopiani. I rabbini ebrei dicono che dal vocabolo «dabar» (= Parola) deriva il vocabolo «midbar» (= Deserto), per cui il deserto è il luogo del silenzio in cui risuona la vera Parola quella capace di parlare al cuore e trasformare la vita. Il deserto si presenta ancora oggi come ciò che è solo l’indispensabile, in altre parole la realtà spogliata di tutto, fuorché della sua essenza. Il deserto esige poi, umiltà e distacco. Vuol dire ancora silenzio, vale a dire atteggiamento di ascolto, quell’atteggiamento che caratterizza la spiritualità ebraica e cristiana: «Ascolta, o Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo» (Dt 6,4). Solo allora Dio è libero di sedurre e di parlare al cuore, ma ad un cuore libero e disponibile, e dona quello che i mistici chiamano «la rugiada dello Spirito» l’unica capace di far rifiorire un terreno arido e roccioso. Entriamo, o meglio lasciamoci anche noi guidare nel deserto, lasciamo che sia il silenzio e la semplicità a prevalere in questo tempo di quaresima…allora anche in noi la Parola trasformerà il nostro deserto in un giardino dove come all’inizio della storia con l’uomo Dio «passeggiava nel giardino alla brezza del giorno» (Gn 3,8). Febbraio 2008 II Domenica (Mt 17,1-9) Commento Dopo il deserto siamo invitati, in questa seconda domenica, a salire il monte della trasfigurazione. Il monte è il luogo prediletto delle rivelazioni divine. Possiamo ricordare il monte Sinai e il monte Sion della prima alleanza per convincerci. Il Vangelo di Matteo conosce diversi monti: il monte della tentazione (4,8), il monte delle beatitudini (5,1), il monte della preghiera (14,23), il monte della trasfigurazione (17,19, il monte degli ulivi (24,3) e il monte della missione universale (28,16). È un luogo molto caro, allora, anche alla tradizione cristiana…è un luogo che dobbiamo ricordare che appartiene al nostro cammino di fede, anche noi siamo chiamati a salire i diversi monti della vita spirituale, necessari per crescere nella fede, senza dimenticare cha anche sul “monte” si può incontrare la tentazione e la prova. Il Vangelo di questa domenica c’immerge anche nella luce, o meglio Q u a r e s i m a 11 è anche colui che la tradizione del popolo d’Israele attendeva perché avrebbe preparato la strada al Messia. È vero, allora, che è la luce del Cristo trasfigurato ad illuminare i due personaggi, ma è anche vero che la Legge, rappresentata da Mosè, e i Profeti (rappresentati da Elia) permettono di vedere la gloria del Cristo…«Dio, dunque ispiratore e autore dei libri dell’uno e dell’altro testamento, ha sapientemente disposto che il nuovo fosse nascosto nell’antico e l’antico diventasse chiaro nel nuovo» (Dei Verbum 4,16). Dunque la gloria, lo splendore di Gesù è visibile fra Mosè ed Elia, fra la Legge e i Profeti ovvero le Sacre Scritture. Possiamo dire che sul monte della trasfigurazione non appare il Cristo della fantasia religiosa, il Cristo che ognuno di noi si può fare, ma il Cristo di Dio, il Cristo delle Scritture. È molto facile anche per noi la tentazione di costruirci un Cristo secondo il nostro modo di pensare, di vivere. Un cristo che ben si adatta a quanto noi siamo disposti a credere e a vivere. Saliamo il monte, lasciamoci guidare dalla Scrittura per scoprire il vero volto del Signore, per entrare nella sua luce capace di illuminare anche i nostri cammini. La chiave di lettura del nostro brano è l’invito che udiamo dal Padre «Questi è il mio Figlio diletto nel quale ho posto la mia compiacenza: ascoltatelo» (Mt 17,5). Ascoltare Lui, questo è l’invi- Seconda domenica Vangelo Mt 17, 1-9 c’inonda con la luce che da Gesù s’irradia e illumina Mosè, Elia e gli apostoli, e attraverso loro anche noi: « E apparve trasfigurato davanti a loro: la sua faccia diventò splendida come il sole e le vesti candide come la luce. Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia in atto di conversare con lui.Allora Pietro prese la parola…» (17,2-4). Ma cosa vogliono dire i due personaggi che stanno ai lati di Cristo? Mosè è colui che guida il popolo d’Israele, liberato dalla schiavitù egiziana, verso il monte Sinai per ricevere il dono delle “Dieci Parole”. Elia è il padre dei profeti, ma Testo In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. Pietro prese allora la parola e disse a Gesù: «Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando quando una nuvola luminosa li avvolse con la sua ombra. Ed ecco una voce che diceva: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo». All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò e, toccatili, disse: «Alzatevi e non temete». Sollevando gli occhi non videro più nessuno, se non Gesù solo. E mentre discendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, finché il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti». to del Padre in questa seconda domenica. Ascoltarlo e non solo sul monte, ma anche quando ci chiede di “scendere a valle” e di seguirlo sulla via della croce. Ascoltarlo nelle Scritture, dentro il tuo cuore, nel silenzio dell’Eucaristia, nel fratello…questo ci trasfigurerà. III Domenica (Es 17, 3-7 Gv 4,5-42) Commento Il Vangelo di questa domenica ci parla dell’acqua, non la semplice, umile acqua che tocchiamo ogni giorno, ma quella viva. L’acqua che non solo toglie la sete, ma dona anche la vita. Anche nella prima lettura possiamo trovare il tema dell’acqua…il popolo mormora contro Mosè e contro Dio a causa della sete, della mancanza d’acqua « Il popolo mormorò contro Mosè e disse: - Perché ci hai fatto salire dall’Egitto, per far morire me, i miei figli e il mio bestiame di sete?- Mosè gridò al Signore, dicendo: - Che cosa farò a questo popolo? Ancora un po’ e mi lapiderà». (Es 17,3-4). Mosè gridò al Signore che gli ordina di percuotere con il bastone, con cui aveva aperto le acque dell’esodo, una roccia…e da quella roccia scaturisce l’acqua che salva il popolo. Per san Paolo quella roccia è figura di Cristo «tutti hanno bevuto la stessa bevanda spirituale (bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava: quella roccia era Cristo» (1Cor 10,4), il quale, colpito dalla lancia, farà scaturire “acqua” dal suo costato per dare la salvezza dei suoi. Cristo accompagna sempre il nostro cammino per essere la roccia cui aggrapparsi nei momenti della prova e da cui ricevere la vera acqua che salva e dona la vita. Nel Vangelo Gesù è in viaggio da Gerusalemme verso la Galilea per la strada centrale che passa per la regione chiamata Samaria. È mezzogiorno (circa l’ora sesta), quando arriva alle porte di un villaggio di nome Sicar. I discepoli erano andati in città a comprare qualcosa da mangiare. Gesù invece dice l’evangelista Giovanni: «affaticato com’era dal viaggio, si era seduto sul pozzo; era circa l’ora sesta. » (Gv 4,6). Possiamo immaginarcelo Gesù, Febbraio 2008 12 Q u a r e s i m a seduto sul bordo del pozzo di Giacobbe che aspetta…i discepoli? No, una donna. Di questa donna non è detto il nome, non importa, lei rappresenta il suo popolo, i samaritani, che accanto al Dio di Giacobbe avevano accolto altri déi…rappresenta tutti noi quando accanto al Signore permettiamo ad altri di condividere il primo posto, quando non ci preoccupiamo più di tanto se accanto (qualche volta al posto) del Signore ci mettiamo “altro”. Proprio come quella donna che era passata a cinque “mariti”. Eccola arrivare, ad un’ora insolita per attingere l’acqua. La gente è a casa a mangiare…forse lei viene proprio per questo: non vuole incontrare nessuno. Probabilmente stanca delle chiacchiere sulla sua storia. Ma al pozzo incontra qualcuno che parla a lei e non del suo passato o presente, ma per chiedergli: «dammi da bere» (Gv 4,7). Meraviglioso! Colui che vuole donare l’acqua viva chiede lui per primo dell’acqua. Apre con la samaritana un dialogo che porterà la donna a scoprire la verità su se stessa «non ho marito » (Gv 4,17) e a scoprire l’identità dell’uomo che seduto sul pozzo di Giacobbe è venuto a portare l’acqua viva a tutti i popoli…non c’è più bisogno di un pozzo scavato nella terra, Cristo è la vera sorgente e tutti possono attingere da lui per bere la “vera acqua”. Quando arrivano i discepoli si meravigliano di trovare Gesù a parlare con una samaritana…non era conveniente per un Maestro parlare con una donna. Ma non fanno domande. Del resto la samaritana fugge via, si dimentica perfino della brocca che si era portata per attingere l’acqua…ormai non ne ha più bisogno, l’acqua viva che Gesù le ha donato non ha bisogno di recipienti, chi beve di quest’acqua diventa a sua volta una sorgente… «Colui invece che beve dell’acqua che gli darò io, non avrà mai più sete; ma l’acqua che gli darò diverrà in lui una sorgente di acqua che zampilla verso la vita eterna» (Gv 4,14). Gesù attende anche noi per darci l’acqua viva, ci chiama a fare verità dentro la nostra vita cosicché riempiti della sua acqua diventeremo sorgenti per gli altri. Terza domenica Vangelo Gv 4, 5-42 Testo In quel tempo, Gesù giunse ad una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era il pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso mezzogiorno. Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua. Le disse Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli infatti erano andati in città a far provvista di cibi. Ma la Samaritana gli disse: «Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non mantengono buone relazioni con i Samaritani. Gesù le rispose: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli disse la donna: «Signore, tu non hai un mezzo per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo gregge?». Rispose Gesù: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore, gli disse la donna, dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». Le disse: «Và a chiamare tuo marito e poi ritorna qui». Rispose la donna: «Non ho marito». Le disse Gesù: «Hai detto bene “non ho marito”; infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». Gli replicò la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta. I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali ado- ratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa». Le disse Gesù: «Sono io, che ti parlo». In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna. Nessuno tuttavia gli disse: «Che desideri?» , o: «Perché parli con lei?». La donna intanto lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?». Uscirono allora dalla città e andavano da lui. Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». Ma egli rispose: «Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcuno forse gli ha portato da mangiare?». Gesù disse loro: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Non dite voi: Ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. E chi miete riceve salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché ne goda insieme chi semina e chi miete. Qui infatti si realizza il detto: uno semina e uno miete. Io vi ho mandati a mietere ciò che voi non avete lavorato; altri hanno lavorato e voi siete subentrati nel loro lavoro». Molti Samaritani di quella città credettero in lui per le parole della donna che dichiarava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto» . E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregarono di fermarsi con loro ed egli vi rimase due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e dicevano alla donna: «Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo». Febbraio 2008 IV Domenica (Gv 9,1-41) Commento Il tema di questa domenica è la luce. Gesù si è manifestato come luce del mondo, «Gesù parlò di nuovo, dicendo: Io sono la luce del mondo. Chi mi segue non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12), venuto non solo per illuminare il cammino d’ogni uomo, ma per guarire la sua cecità. La disgrazia peggiore non è il buio degli occhi, ma è quello della mente e del cuore. È la mancanza di senso che Q u a r e s i m a 13 molto spesso prende l’uomo d’oggi. Abbiamo bisogno di luce, abbiamo bisogno di Cristo che guarisce le nostre cecità. Il racconto inizia con Gesù che è in cammino, non però, un correre senza prestare attenzione a chi c’è e a quanto avviene intorno a lui. «Ora, mentre passava, vide un uomo cieco dalla nascita» (Gv 9,1), è il camminare attento, è il camminare che non tira dritto, ma sa “vedere”…sa lasciarsi fermare da chi sta accanto…anche noi camminiamo, meglio, siamo sempre presi dalla fretta di arrivare (dove?), ma guai a fermarsi e non ci accorgiamo più di chi ci sta accanto, di chi ha bisogno di noi, preoccupati solo di noi stessi. Il Signore “vede”, non passa oltre o fa finta di non vedere, non acquieta la coscienza con i nostri “non spetta a me...tanto non posso fare niente…tanto qualcun altro lo farà”. Il Signore cammina, vede, si ferma…aiutaci Signore a rallentare i nostri passi a non passare oltre i tanti fratelli e sorelle che camminano con noi e che attendono che noi ci accorgiamo di loro…essere invisibili è la cosa peggiore. Quanti per noi sono invisibili? Anche i discepoli vedono e rivolgono al Maestro la domanda «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?» (Gv 9,2)…quanto ci rassomigliano questi discepoli, anche noi quando ci accorgiamo di qualcuno che ha bisogno non troviamo di meglio che parlare per individuare le cause, per cercare chi dovrebbe occuparsene, per discutere delle mancanze di strutture adeguate…Gesù vede un uomo concreto, in una situazione di bisogno, spazza via la mentalità di coloro che legano la malattia al comportamento e dà all’incontro con il cieco nato, un valore salvifico: essere nato cieco non è per un castigo di Dio, al contrario Dio vuole che ogni uomo sia libero e abbia luce, come Gesù manifesterà nel miracolo. Gesù compie dei gesti semplici ma espressivi: « Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva e spalmò il fango sugli occhi di lui. Poi gli disse: Va’ e làvati alla piscina di Siloe, (che significa “inviato”)» (Gv 9,6-7), sembra di ascoltare la pagina della Genesi in cui si parla della creazione dell’uomo dal fango. E’ questa la creazione dell’uomo nuovo formato dal fango (= carne) e saliva (= lo Spirito di Gesù). Gesù pone sugli occhi del cieco questo fango, cioè sulla sua realtà di tenebra, ma non basta questo…l’uomo può essere nella luce solo se lo vuole. Egli liberamente potrà andarsi a lavare o meno nella piscina per riacquistare la vista. E Gesù lo dice espressamente “Va’ e làvati alla piscina di Siloe” interessante il nome della piscina “Siloe” cui volutamente l’evangelista dà il significato “inviato”. Chiaramente per san Giovanni l’Inviato di Dio è Gesù. Comprendiamo allora: il cieco per vederci deve andare a bagnarsi nell’acqua di Gesù. Il cieco obbedisce prontamente «andò, si lavò e ritornò che vedeva.» (Gv 9,7). Ecco il cammino di guarigione che siamo invitati a fare anche noi in questa domenica di quaresima, anche a noi il Signore c’invita a lavare i nostri occhi nella sua acqua perché passino dalle tenebre alla luce, anche a noi chiede di fidarci della sua Parola-luce per squarciare le tenebre che avvolgono la nostra esistenza. L’evangelista racconta che proprio quando il cieco comincia a vedere iniziano per lui i guai…non scoraggiamoci allora se, dopo esserci lavati nell’acqua del Cristo e guariti dalle nostre cecità, iniziano i guai anche per noi…vale la pena anche soffrire se questa è la condizione per avere ed essere luce. Quarta domenica Vangelo Gv 9, 1-41 Testo In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio. Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare. Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Và a lavarti nella piscina di Siloe (che significa “Inviato”)». Quegli Febbraio 2008 14 Q u a r e s i m a andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, poiché era un mendicante, dicevano: «Non è egli quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «E’ lui» ; altri dicevano: «No, ma gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli chiesero: «Come dunque ti furono aperti gli occhi?». Egli rispose: «Quell’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: “Va’ a Siloe e lavati!”. Io sono andato e, dopo essermi lavato, ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è questo tale?». Rispose: «Non lo so». Intanto condussero dai farisei quello che era stato cieco: era infatti sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come avesse acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha posto del fango sopra gli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri dicevano: «Come può un peccatore compiere tali prodigi?». E c’era dissenso tra di loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu che dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «E’ un profeta!». Ma i Giudei non vollero credere di lui che era stato cieco e aveva acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «E’ questo il vostro figlio, che voi dite esser nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori risposero: «Sappiamo che questo è il nostro figlio e che è nato cieco; come poi ora ci veda, non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi; chiedetelo a lui, ha l’età, parlerà lui di se stesso». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagòga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età, chiedetelo a lui!». Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quegli rispose: «Se sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero di nuovo: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non mi avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Allora lo insultarono e gli dissero: «Tu sei suo discepolo, noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo infatti che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo è strano, che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Ora, noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno è timorato di Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non s’è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?». E lo cacciarono fuori. Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori, e incontratolo gli disse: «Tu credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Tu l’hai visto: colui che parla con te è proprio lui». Ed egli disse: «Io credo, Signore!». E gli si prostrò innanzi. Gesù allora disse: «Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo forse ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane». V Domenica (Gv 11,1-45) Commento Il Vangelo di questa quinta domenica ci porta a Betania.Qui c’è la casa degli amici di Gesù: due sorelle, Marta e Maria, e il loro fratello Lazzaro. Gesù capitava spesso a Betania, di ritorno dai viaggi nella terra di Palestina e la casa dei suoi amici era il luogo del riposo, della gioia, del ritrovarsi. Ora quella casa è in lacrime, perché Lazzaro è morto…è già sepolto. Proprio ora Gesù è assente. Non passa inosservato che, all’annuncio della gravità della malattia, Gesù non si precipita da Lazzaro per guarirlo, non dice nulla, al contrario « quando sentì che era ammalato, rimase ancora due giorni nel luogo in cui si trovava. Solo dopo dice ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea.» (Gv 11,6-7). A Betania ci va quando sa che il suo amico è morto ed è già da quattro giorni nel sepolcro. Allora comprendiamo la reazione di Marta e di Maria: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto» (Gv 11,21)…possiamo immaginare il silenzio carico di dolore, di paura e forse di delusione di Lazzaro (protagonista silenzioso di tutto il racconto). Possiamo immaginarci le tante domande nella mente di queste sorelle: sull’amore di Cristo, sul loro amare ed accogliere Cristo, se poi quando la morte entra nella tua casa il Signore è nel silenzio. La fede di Marta, così come quella di Maria, fino a questo punto, è una fede imperfetta legata alla presenza fisica di Gesù, «Signore se tu fossi stato qui» (vv. 21.32), al suo potere taumaturgico e alla sua preghiera d’intercessione. Gesù vuole condurre le due sorelle, e attraverso di loro anche noi, ad una fede totale in Lui, ad una completa fiducia in Lui e nel suo progetto salvino. Questo sarà il cammino che Marta farà nel dialogo con Gesù…a volte dimentichiamo che solo il dialogo-preghiera con il Signore si cresce nella vita spirituale, si dissolvono i dubbi, scompaiono le paure, si esce dalle nostre tiepidezze spirituali…«Le disse Gesù: «Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se morisse, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai. Credi tu a ciò?» (Gv 11,25-26). Gesù rivela a Marta, e a questo punto a tutti noi, che Egli comunica la vita eterna a chi crede in Lui e questo libera l’uomo dalla morte fisica (anche se si dovrà sperimentarla) «se uno morisse, vivrà», sia spirituale « chiunque vive e crede in me, non morirà mai». Marta risponde: « Sì, Signore. Io ho creduto che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, quello che deve venire nel mondo » (Gv 11,27). Allora proprio perché il Figlio di Dio è venuto che la vita, il germe della resurrezione è qui nel nostro mondo. La vita di Dio non è più al di fuori del nostro mondo, perché il Figlio è venuto tra noi per donarcela (Maggioni). Questa è la fede matura, che non poggia più nell’uomo taumaturgo, ma solo sulla parola di colui che riconosciamo come “Messia”, Febbraio 2008 “Figlio di Dio”, “Colui che viene nel mondo”. Lasciamoci afferrare per mano da Marta e percorriamo anche noi il cammino della fede attraverso l’ascolto e il dialogo con il nostro Signore. Non abbiamo paura dei silenzi e delle apparenti assenze del Signore, non si è dimenticato di noi, non ha posto la sua attenzione ad altro è accanto a noi, meglio dentro di noi perché i nostri occhi vedano prima e meglio quello che gli altri nel buio della loro vita fanno fatica a cogliere. Q u a r e s i m a 15 Quinta domenica Vangelo Gv 11, 1-45 Testo In quel tempo, era malato un certo Lazzaro di Betania, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella. Maria era quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dirgli: «Signore, ecco, il tuo amico è malato». Foto: Angeli della Passione, di A. Mariani 1927; Velletri, Cattedrale S. Clemente, Cappella S. Cuore. All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro. Quand’ebbe dunque sentito che era malato, si trattenne due giorni nel luogo dove si trovava. Poi, disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se invece uno cammina di notte, inciampa, perché gli manca la luce». Così parlò e poi soggiunse loro: «Il nostro amico Lazzaro s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se s’è addormentato, guarirà». Gesù parlava della morte di lui, essi invece pensarono che si riferisse al riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, perché voi crediate. Orsù, andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse ai condiscepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!». Venne dunque Gesù e trovò Lazzaro che era già da quattro giorni nel sepolcro. Betania distava da Gerusalemme meno di due miglia e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria per consolarle per il loro fratello. Marta dunque, come seppe che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risusciterà». Gli rispose Marta: «So che risusciterà nell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo». Dopo queste parole se ne andò a chiamare di nascosto Maria, sua sorella, dicendo: «Il Maestro è qui e ti chiama». Quella, udito ciò, si alzò in fretta e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei che erano in casa con lei a consolarla, quando videro Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono pensando: «Va al sepolcro per piangere là». Maria, dunque, quando giunse dov’era Gesù, vistolo si gettò ai suoi piedi dicendo: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora quando la vide piangere e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, [ si commosse profondamente, si turbò e disse: «Dove l’avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Vedi come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Costui che ha aperto gli occhi al cieco non poteva anche far sì che questi non morisse?». Intanto Gesù, ancora profondamente commosso, si recò al sepolcro; era una grotta e contro vi era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, già manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni» . Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dài ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». E, detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti in bende, e il volto coperto da un sudario. Gesù disse loro: «Scioglietelo e lasciatelo andare». Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di quel che egli aveva compiuto, credettero in lui. Febbraio 2008 16 Q u a r e s i m a CANTARE LA MESSA: TEMPO DI QUARESIMA. Tutta la liturgia del tempo quaresimale è una grande catechesi battesimale, che ci invita a vivere e a recuperare il desiderio di uscire da sé stessi per incontrare Cristo lungo il cammino del deserto, per riconoscere la sua voce e vivere i segni della sua presenza nel mondo. Nell’immaginario collettivo la Quaresima è tempo di penitenza e di rinuncia, ma ridurla solo a questi aspetti è semplicemente riduttivo. La liturgia ci propone altri temi ben più ricchi e significativi. Il credente si avvia verso la Pasqua percorrendo un itinerario di conversione e di riscoperta del proprio battesimo, per giungere rinnovato nel cuore e nello spirito incontro al Risorto. E il protagonista, come sempre, non è l’uomo, ma Cristo. Lui è la guida che apre il cammino alla chiesa verso la conoscenza sempre più profonda del suo mistero. Le risorse dell’uomo, da sole, non possono condurre alla salvezza, perché essa è dono del Risorto, dono gratuito della grazia di Dio. E questo cammino si realizza necessariamente nella dimensione ecclesiale, dove il singolo credente cammina assieme ai fratelli nella fede, perché la comunità dei salvati, il popolo della nuova alleanza è la chiesa nel suo insieme. I canti e una scelta appropriata, aiutano a scoprire il significato di questo tempo prezioso e a gustarne la bellezza. Per le indicazioni pratiche, prima di tutto valgono i medesimi criteri più volte ribaditi per gli altri tempi liturgici. I princìpi esposti sono sacrosanti, non dimentichiamocelo mai! Anche per la Quaresima, il canto di ingresso potrebbe essere una canto-sigla, che accompagna le cinque settimane. Il Repertorio Nazionale propone Attende Dorina e Nicolino Tartaglione La speranza ci indica il cammino, la direzione della vita, per raggiungere ciò che si è già compiuto in Gesù morto e risorto. Questo percorso si concretizza in una modalità specifica del vivere che è la carità e nel matrimonio assume una realtà specifica che è la vita di coppia. “La carità coniugale è il modo proprio e specifico con cui gli sposi sono chiamati a vivere la carità stessa di Cristo che si dona sulla croce” (Familiaris Consortio 13), Nel matrimonio qualunque tipo o forma di carità senza la carità coniugale non è vera. Se nel sacramento i due diventano una carne sola, ancor di più la virtù della carità non può essere pensata e vissuta da soli. Sul piano pratico questo può accadere, qualcuno può anche pensare che ciò sia la norma, tuttavia essere accoglienti e generosi con gli altri, senza esserlo prima con il coniuge, forse inficia l’au- tenticità della testimonianza. Quale servizio alla comunità verrebbe offerto da chi, magari, non “sopportando ” la moglie o il marito svolge attività pastorali o catechetiche? “Se ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta e va’ prima a riconciliarti con lui” La carità coniugale è l’identità della coppia: porto l’amore agli altri partendo dall’amore di chi mi sta accanto, dell’amore familiare, che non significa assenza di problemi, difficoltà, “litigi”, ma significa che prima di tutto viene sempre l’a- Domine nella bella versione in italiano: Signore ascolta, ma va bene anche Chi mi seguirà di A. Parisi. Altri brani adatti: Miserere e Benedici il Signore di M. Frisina, Se Dio è con noi e Apri le tue braccia di D. Machetta, Donaci, Signore, un cuore nuovo di L. Deiss. Un rito previsto e raccomandato è l’aspersione con l’acqua benedetta, come alternativa all’atto penitenziale. Il canto che accompagna l’aspersione può benissimo essere Il Signore ci ha salvati di L. Capello. Importante: in Quaresima non si canta l’Alleluia. Come acclamazione al vangelo suggeriamo Cristo Signore, gloria e lode a Te di F. Raino E, prima di concludere: in Quaresima è “quasi obbligatorio” sottolineare con la musica l’Atto penitenziale e l’Agnello di Dio alla frazione del pane. È inutile qualsiasi indicazione perché ogni Comunità e Coro parrocchiale sa bene come comportarsi. P.S. Come sempre, si possono richiedere gli spartiti dei brani indicati al seguente indirizzo: [email protected] more. La fede permette agli sposi di dire che Dio li ha pensati ed amati, per dire nel mondo che Dio è l’amore vero; la speranza dà loro l’obiettivo dell’amore, rendendoli consapevoli della potenza esplosiva dell’amore di Dio, nel senso che l’amore di Dio traspare attraverso il loro amore, come la luce illumina, l’acqua bagna ed il fuoco brucia; la carità è la manifestazione storica di quest’amore, è vivere o, almeno tendere a vivere, una qualità d’amore come Cristo. L’imitazione di Gesù per gli sposati passa nel vivere la dimensione sacerdotale, profetica e regale di Gesù, a cui sono stati incorporati con il Battesimo, (Lumen Gentium n. 31), secondo le modalità ed il contenuto che derivano dall’essere coppia . “E’ nell’amore coniugale e familiare che si realizza ed esprime la partecipazione della famiglia cristiana alla missione profetica, regale e sacerdotale di Gesù Cristo e della sua Chiesa”( Familiaris consortio n. 50) Febbraio 2008 B o l l e t t i n o D i o c e s a n o 17 Decreti Prot. VSCA 03/2008 DECRETO DI NOMINA DEI MEMBRI DEL C.D.A DELL’ISTITUTO DIOCESANO PER IL SOSTENTAMENTO DEL CLERO A norma dell’art. n° 7 dello Statuto dell’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero (=I.D.S.C.) della Diocesi di Velletri-Segni, approvato dal Ministero dell’Interno in data 23.04.1987 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 21.05.1987, NOMINO CONSIGLIERI DELL’I.D.S.C. I SEGUENTI SIGNORI: Mons. Paolo PICCA, designato dal Clero, nato a Velletri il 12.03.1938 Mons. Luciano LEPORE, designato dal Clero, nato Colleferro il 5.05.1945 Rag. Italo SAVO, nato a Velletri il 6.02.1924 Avv, Carlo PALLICCIA, nato a Roma, il 21.10.1954 Rag. Nando DI CORI , nato a Artena il 21.03.1941 NOMINO Mons. Paolo PICCA, PRESIDENTE dell’I.D.S.C. Rag. Italo SAVO, VICE-PRESIDENTE dell’I.D.S.C. Velletri, 18.01.20 ? Vincenzo Apicella Prot. VSCA 04/2008 DECRETO DI NOMINA DEL DELEGATO VESCOVILE PER IL DIACONATO PERMANENTE La nostra Chiesa locale da moltissimi anni ha arricchito la sua azione pastorale con l’apporto dei Diaconi permanenti. Attualmente il gruppo dei diaconi si compone di ben undici membri e altri candidati sono inseriti nel cammino di formazione e discernimento. Il vescovo che è stato e rimane sempre il punto di riferimento per ogni diacono e per ogni candidato, si avvale dell’opera di un suo delegato per seguire più assiduamente la formazione. Sino ad oggi questo compito è stato svolto in modo meritevole dal vicario generale Mons. Angelo Lopes, per questo servizio la Diocesi lo ringrazia. Volendo proseguire con l’opera costante e continua della formazione, ben conoscendo le tue doti umane, sacerdotali e culturali nomino te Don Roberto Mariani Parroco della Cattedrale di San Clemente I, p.m. Delegato Vescovile per il Diaconato Permanente Nell’adempiere questo importante e delicato compito ti di nomina accompagni la mia personale benedizione, l’intercessione dei Santi Patroni Clemente I, p.m. e Bruno. Velletri, 18.01.2008 ? Vincenzo Apicella Prot. VSCA 05/2008 DECRETO DI NOMINA DEL DIRETTORE DELL’UFFICIO CATECHISTICO DIOCESANO Nella propria Chiesa i Vescovi sono “i primi responsabili della catechesi, i catechisti per eccellenza” (CT 62,2). A questo riguardo essi hanno un duplice compito: normativo e promozionale. Spetta ad essi regolamentare l’attività catechistica e favorire e coordinare le attività e le iniziative catechistiche. A questo scopo ho ritenuto opportuno istituire un Servizio Diocesano per la Formazione Cristiana che si prenda cura di tutti gli ambiti della formazione e catechesi. Avendo il direttore dell’ambito della catechesi, don Roberto Mariani, nel frattempo assunto altri incarichi, con il presente Decreto nomino te Don Daniele Valenzi Parroco di S. Maria Assunta in Gavignano Direttore dell’Ufficio Catechistico e Catecumenato degli Adulti nel Servizio Diocesano per la Formazione Cristiana Velletri, 18.01.2008 ? Vincenzo Apicella Prot. VSCA 06/2008 DECRETO DI NOMINA DELL’INCARICATO PER IL SERVIZIO DIOCESANO DI PASTORALE GIOVANILE Con la nomina ad altro incarico del rev.do Valenzi Don Daniele, si è reso vacante l’Ufficio dell’Incaricato della pastorale giovanile. Con il desiderio di dare continuità al cammino intrapreso ma anche maggiore vitalità in sintonia con l’azione pastorale più generale della diocesi, essendoci ben note le tue attitudini, per la facoltà concessami dal C.I.C. nomino te Rev.do FANFONI Don Corrado nato a Palestrina il 06.09.1977; ord. il 21.06.2002 Incaricato del Servizio Diocesano per la Pastorale Giovanile In questo compito ti assistano i santi patroni Clemente I e Bruno vescovo. Alessandro Gentili E’ il titolo di un servizio fotografico realizzato da Gianfranco Angelico Benvenuto. Il tema è doloroso: la paraplegìa. Dodici ragazze hanno accettato di posare nude per attirare l’attenzione. Molte associazioni di volontariato vorrebbero riproporlo. Pare che sia stata un’idea geniale, allora, dato il grande successo! E così abbiamo scoperto che a tutt’oggi il nudo fa ancora notizia. E così abbiamo scoperto che per attirare l’attenzione sulla sofferenza bisogna ancora fare scandalo. Ma, ci si chiede, fa scandalo ancora il nudo? O l’eccessiva “offerta” ha portato a un’indifferenza generale? O, peggio ancora, il presunto scandalo soffoca e nascon- de il vero intento per cui è stato realizzato? A noi il servizio ha generato molta tristezza: questi corpi “mutilati” sono pur belli, ma le altre? Quelle che non si possono permettere di comparire senza veli? Una doppia “mutilazione”? Lo scandalo si nasconde altrove. Il fotografo detiene il ghiotto copyright. L’ennesimo oltraggio al pudore, che è o dovrebbe essere il nostro primo vestito, fa sorridere e si rischia di essere bol- Velletri, 18.01.2008 ? Vincenzo Apicella Prot. VSCA 07/2008 DECRETO DI NOMINA DEL COODIRETTORE DEL CENTRO DIOCESANO VOCAZIONI La pastorale vocazionale è un dovere che grava su tutta la comunità cristiana, … ma in special modo sul vescovo diocesano, (cfr can 233). Conscio di questo particolare compito, volendo affiancare all’attuale direttore del Centro Diocesano Vocazioni Mons. Leonardo D’Ascenzo un valido collaboratore, con il presente decreto nomino te rev.do FIORE Don Marco parroco di S. Pietro in Montelanico Co-Direttore del Centro Diocesano Vocazioni Nell’adempiere questo importante e delicato compito in sintonia con Don D’Ascenzo, ti accompagni la mia personale benedizione, l’intercessione dei Santi Patroni Clemente I, p.m. e Bruno. Velletri, 18.01.2008 ? Vincenzo Apicella Prot. VSCA 08/2008 DECRETO DI NOMINA MEMBRI COMMISSIONE DIOCESANA PER I BENI ARTISTICI E CULTURALI Dopo la nomina del nuovo Direttore diocesano degli Uffici Beni Culturali e l’Arte Sacra e Delegato Vescovile per i Rapporti con le Soprintendenze, nella persona del Rev.do Nemesi Don Marco, si ritiene necessaria la costituzione di una commissione che collabori nella gestione con il Direttore. Con Il presente decreto si istituisce la Commissione Diocesana per i Beni Artistici e Culturali e se ne indicano i membri: Direttore Membro Membro Membro rev.do Nemesi Don Marco Sig. Tullio Sorrentino Cav. Fausto Ercolani Sig. Alfredo Serangeli Velletri, 18.01.2008 Il Cancelliere Vescovile Mons. Angelo Mancini ? Vincenzo Apicella lati come bacchettoni. Ci faranno sapere gli effetti collaterali di questo successo? La solidarietà vive ormai di questi espedienti. Si è costretti a ricorrere all’immagine scandalistica per attivare un briciolo di attenzione. Attorno al letto di un malato terminale, si affaccendavano amici e parenti. L’argomento principale era il medesimo: “ Sono sicuro che ce la farai. Quando starai meglio faremo quel viaggetto di cui abbiamo parlato tante volte”. Nessuna parola di speranza. Solo vuote parole attorno all’unica cosa di cui sappiamo cincischiare e usare malamente: il nostro corpo. 18 S p e c i a l e P a r r o c c h i e Parrocchia S. Bruno di Colleferro Febbraio 2008 la vita. Il tutto è riconducibile al mistero della libe- la Canonica, restauro della Chiesa parrocchiara elezione divina: “non voi avete scelto me, ma le in tutte le sue parti e restauro dell’Organo a io vi ho scelto voi e vi ho costituiti perché andia- canne e, non in ultimo la costruzione della Chiesa te e portiate frutto e il vostro frutto riman- sussidiaria della Madonna del Buon Consiglio ga” (Gv 15, 16). Cresciuto, si può dire, in Contrada Forma. Da un punto di vista più pastoall’ombra del campanile, attraverso un rale questi anni per me sono stati molto intenpercorso molto normale in quei tempi, si, per il contatto diretto con la gente, con cui sono entrato in seminario da subito: scuo- ho condiviso totalmente i problemi del territorio. le medie a Segni e poi il Liceo Durante questo periodo ho avuto la responsaClassico e il Corso teologico-filosofico bilità dell’Ufficio Catechistico Diocesano e ho anche ad Anagni. Sono diventato prete all’e- espletato l’incarico di Insegnante di Religione Cattolica tà di 24 anni, il giorno 13 settembre 1980, a Colleferro, a Segni, a Gavignano e ovviamente ed ho celebrato la Prima Messa all’in- a Montelanico, impegno che ho assolto con entudomani nel giorno della Festa siasmo fino al 2007 e che mi ha consentito di dell’Addolotata appuntamento molto caro ai segni- allargare molto l’orizzonte della mia formazione e che mi dato occasione di stabilire collaborazioni Abbiamo rivolto ni. educative extraparrocchiali anche grazie all’eFatta eccezione del primo biennio del alcune domande al mio ministero, appoggiato al Seminario, in cui sperienza del Composcuola con le tende ad Ovindoli. parroco ho avuto modo di girare abbastanza la Diocesi Intorno a questa iniziativa, frutto delle mia granDon Augusto Fagnani impegnato nel Centro Giovanile Interdiocesano, de passione per la montagna, ho scoperto preche così si presenta: e in cui ho potuto frequentare il Pontificio Accademia ziosissime collaborazioni, ho potuto trasmetteAlfonsiana per la specializzazione in Teologia re valori cristiani, ma anche stimolare l’interesSono nativo di Segni, cit- Morale, che però non ho completata, praticamente se per il problema della tutela e del rispetto per tà nella quale hanno visto ho trascorso un quarto di secolo a Montelanico. il creato. la luce tanti preti, poco In Diocesi più di mezzo secolo fa, sono tuttora memil 23 giugno 1956. Nella bro del Consiglio mia famiglia (mamma, Presbiterale e ho il papà e il sottoscritto) ho titolo di Cappellano trovato da subito quel clid’onore di Lourdes ma di amore necessa. Per quanto riguarrio per lo sviluppo della da il grado di colvocazione. La storia laborazione e di personale della propria amicizia con gli chiamata chi la conosce? altri sacerdoti ritenCertamente non sfugge go di avere un a Dio che ne è l’artefibuon rapporto con ce. Per dirla, con una tutti, visto anche il espressione molto cara mio carattere mite, a Giovanni Paolo II, ma credo che si “ogni vocazione sacerdebba fare un po’ La chiesa parrochiale di San Bruno dotale è un grande di più da parte di tutmistero, è un dono che In questo paese sono stato mandato nel 1982 ti, sforzandoci di sentirci parte di un presbiterio supera infini- come viceparroco e poi dal 1986 come parro- che è la vera nostra famiglia. tamente l’uo- co fino al 2006. Mi sono impegnato ad essere mo” (Dono e uno di loro ed ho cercato in tutto di dare del mio b) riguardanti la parrocchia S. Bruno mistero, LEV meglio, impegnandomi soprattutto in una ope- Dal 22 ottobre 2006, chiamato a nuovo incari1996, p. 9). ra di ricostruzione sia materiale che spirituale. co da Mons Vincenzo Apicella, sono stato nomiOgnuno ne E così, a poco a poco, con la collaborazione del- nato parroco di San Bruno ove sono stato accolfa più o meno la gente, hanno visto la luce alcuni importanti to con rispetto ed encomiabile amicizia. La Parrocchia, esperienza lavori: restauro del Santuario della Madonna del eretta canonicamente il 2 marzo1985, ha celetutti i giorni nel- Soccorso, realizzazione di un piccolo edificio con brato la dedicazione della sua Chiesa il 20 aprile diverse cir- giardino annesso al Santuario, Sistemazione del- le 1997. Il complesso parrocchiale è davvero noteDon Augusto Fagnani costanze del- Febbraio 2008 vole: è stato realizzato dall’Ing Gianfranco Siniscalchi sotto la guida di Mons Franco Fagiolo il parroco che praticamente ha accompagnato la nascita di questa Comunità e al quale di deve sincera gratitudine per aver gettato solide fondamenta nella comunità. Il territorio della Parrocchia, sul quale insiste una popolazione di circa 7.000 abitanti, si trova nella zona sud/ovest di Colleferro, nei pressi del Cimitero. Le abitazioni sono quasi tutte costruite di recente salvo quelle adiacenti alla zona del “Murillo” e di Valle Purera”. La popolazione nel suo insieme è molto eterogenea: accanto ad un nucleo più stabile ed originario, molti provengono dalle più diverse parti d’Italia e mi sembra che siano molto bene integrati e costituiscono sicuramente un fattore di arricchimento culturale. Come è la presenza degli immigrati? E’ notevole, ma per lo più non desta problemi: alcuni di essi, un trentina, sono assistiti ogni settimana dallo sportello della caritas. Mi impegno personalmente e suggerisco anche agli altri di esprimere sempre relazioni cordiali con tutti, stimolando la capacità di stimarsi a vicenda, atteggiamenti che incoraggio ad assumere specie verso coloro che appartengono ad una fede diversa. Nello svolgimento del lavoro pastorale sono coadiuvato dal viceparroco Don Angelo Prioreschi che è anche amministratore parrocchiale di S. Gioacchino e dal diacono Vito Cataldi. Tutte le domeniche vengono celebrate cinque Sante Messe, una prefestiva di sabato e quattro la domenica stessa. La partecipazione dei fedeli alla eucaristia domenicale credo che si attesti intorno al 15%. Per quanto riguarda invece la partecipazione attiva alla vita della parrocchia posso dire che è matura e costante con una forte impronta di corresponsabilità. Non ci sono Istituti di vita consacrata che risiedono nella Parrocchia. Coltivo quotidianamente il sogno e l’impegno di ricambiare la fiducia e la collaborazione accordate dal folto gruppo dei catechisti, ministri straordinari della comunione ai membri del Comitato, al personale volontario addetto alle pulizie, ai membri della Caritas, al Coro, agli educatori dell’Azione Cattolica, dal nuovo Gruppo Amici di Padre Pio”. Nella nuova comunità mi sento, comunque, chiamato a ripensare la mie posizioni su molte cose: anzitutto devo far fronte a relazioni con molte più persone, molte delle quali di fatto non vivono un cristianesimo di tipo sociologico e che vanno oltre civiltà che potremmo chiamare “parrocchiale”. Come raggiungerli? Non S p e c i a l e P a r r o c c h i e 19 so ancora, ma di certo sarà necessario trovare tempo e strategie. Sono numerosi i gruppi, le onlus, le associazioni culturali, sportive e ricreative che operano in città e che pur non facendo parte della parrocchia in senso stretto, comunque con essa si relazionano. Penso francamente che la Parrocchia, accanto alla ingente attività interna alla vita della Chiesa, molta della quale è espletata da alcuni membri del Comitato, debba essere molto più impegnata a coltivare speranza, fraternità, senso e valori di fronte ad un’epoca che prova disagio rispetto al futuro. Sarà necessario sviluppare, secondo le indicazioni del recente Convegno Ecclesiale di Verona, una pastorale “sempre più integrata” tra i diversi soggetti ecclesiali in campo: tra la parrocchia e la Diocesi, tra la parrocchia e i vari gruppi, tra la parrocchia e le altre parrocchie nella città e nel vicino territorio, vincendo la tentazione di incappare in personalismi o competizioni che possono risuonare solo di scandalo. Ritengo indispensabile una azione di discernimento per individuare e mettere in campo tutte le energie presenti nel territorio per meglio lavorare insieme sui grandi temi di oggi: vita, lavoro, pace, giustizia, devianze giovanili e non, salvaguardia dell’ambiente, sicurezza, ecc…. In parrocchia già opera una realtà in questa direzione: il Centro Ricerche Sociali “Vittorio Bachelet”, che grazie all’intuito e alla buona volontà del suo presidente Claudio Gessi, ha promosso nel tempo diverse ed interessanti iniziative. Mi piacerebbe però che aves- Quali iniziative sono presenti per le fasce di età 6-8 9-11 12-14 15-17 18-22? In genere interviene l’azione dell’equipe dei catechisti a cui si affianca o si sostituisce l’azione degli educatori di azione cattolica. Quest’ultimi si riuniscono ogni settimana secondo le fasce di età, svolgono i campi estivi diocesani all’Acero e partecipano ad altre iniziative diocesane tipo le “Notti di Nicodemo”. Lo scorso anno si sono svolti degli incontri di formazione esclusivamente per i giovani, mentre per questo nuovo anno si è preferito estenderli anche agli adulti, vale a dire a tutti coloro che voglio avviare una fede più matura. Nel breve tempo del mio mandato come parroco non mi è stato possibile andare oltre. Credo comunque di aver dato molto agli adulto e agli anziani anche in occasione delle numerose gite o pellegrinaggi che hanno radunato moltissime persone. Come viene svolta l’azione caritativa nella Parrocchia? Senza alcun dubbio in un modo trasversale, vale a dire che tutti nel loro specifico ambito cercano di risponde alle varie esigenze della carità, dai sacerdoti, ai catechisti, ai ministri straordinari della comunione, ai fedeli tutti. Comunque c’è in parrocchia un organismo Caritas molto attivo, con un suo Responsabile Alfio Brischetto, un Segretario Ruggero Chiostri e una squadra di collaboratori che operano tutto l’anno e che ogni settimana aprono uno sportello di ascolto e di carità diretto a beneficio dei poveri e che tengono vivi i legami con la Diocesi. C’è un collegamento con l’amministrazione comunale? Si. Ed è anche continuativo ed improntato da uno stile di rispetto reciproco e mutua La celebrazione per la nomina del nuovo parroco, don Augusto collaborazione. E’ se un po’ più di seguito. stata la sensazione che ho percepito sin dal pri- Febbraio 2008 20 S p e c i a l e P a r r o c c h i e mo istante del mio insediamento come Parroco di San Bruno. Che cosa consiglieresti al Sindaco di Colleferro? Una cosa che con tutta probabilità egli si sforza di fare: di essere il sindaco di tutti, di collaborare con tutte le forze in campo, di cercare convergenze per il bene comune. E se mi venisse accordata la possibilità di indicare un aspetto all’amministrazione per migliorare la vita sociale della città? Incentiverei l’azione del volontariato sociale quello autentico che non coltiva scopi utilitaristici, ma si colloca come dono alla città. Se potessi parlare con il Papa che cosa gli chiederesti? Quando era ancora Cardinale fui incaricato di porgergli una domanda sulla catechesi durante un convegno diocesano. La sua risposta mi sembrò, per la verità, un po’ enigmatica. Oggi mi basta ascoltarlo. Trovo che le sue parole sono sempre efficaci. E’ un artista della parola. E’ un profondo conoscitore di Dio e dell’uomo. “Benedetto chi usa la sapienza”! Infine una richiesta/proposta per vivere o riscoprire la fede da lanciare alle diverse componenti della parrocchia? La fede, si dice, è dono e impegno, non è un fatto che tocca solo il campo delle conoscenza; il Papa direbbe che essa è “performante”. Un luogo e uno spazio di apprendimento ed esercizio della fede è il silenzio sempre più castigato, tra i giovani come in famiglia e persino nelle nostre Chiese. Decisamente allora è da proporre per tutti una ri-educazione al silenzio e all’ascolto. Parrocchia S. Bruno di Colleferro Abbiamo chiesto a Claudio Gessi, laico impegnato da sempre in parrocchia e in diocesi, di parlare un po’ della sua parrocchia San Bruno di Colleferro. Questa la sua presentazione: Claudio Gessi, 52 anni, diploma maturità scientifica, diploma in Scienze Religiose, dirigente sindacale della Cisl, proveniente da famiglia operaia (mio padre era un lavoratore edile, come gran parte dei miei parenti, mia madre casalinga) Presidente del Comitato Parrocchiale, Claudio Gessi Presidente del Ce.R.S. (Centro Ricerche Sociali) “Vittorio Bachelet”, centro culturale collegato alla Azione Cattolica Diocesana e riconosciuto dalla Conferenza Episcopale Italiana. Presidente Diocesano di Azione Cattolica dal 1995 al 2002, in tale veste ho promosso la nascita della Consulta Diocesana delle Aggregazione Laicali. Componente del Consiglio Pastorale Diocesano dal 1992 al 2002. Attualmente Incaricato Diocesano insieme a Mons. Luciano Lepore della Pastorale Sociale e del Lavoro, campo nel quale sono componente dell’Esecutivo della specifica Commissione Regionale presieduta dal nostro vescovo Mons. Apicella. Collaboro con l’Ufficio Nazionale della Pastorale Sociale e del Lavoro in qualità di coordinatore del Gruppo di Lavoro dei “Sindacalisti credenti”. In rappresentanza della nostra Diocesi ho partecipato ai Convegni Ecclesiali di Loreto (1985), Palermo (1996) e Verona (2006), ed alle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani di Torino (1993), Napoli (1997), Bologna (2003), Pistoia/Pisa (2007). Dal 1981 al 1990 ho svolto attività politica nella Democrazia Cristiana di Colleferro, prima come Consigliere Comunale (1981-1985) poi come Assessore al Personale ed allo Sport (1985-1990). Sono il coordinatore di “Humana Civitas” (Città dell’Uomo) associazione per la promozione della cultura politica e della partecipazione. Con altri amici ho fondato a Colleferro la Condotta di Slow Food. Ho iniziato la mia attività ecclesiale nel 1972, avevo 17 anni, e da allora ho partecipato con continuità alla vita delle mie comunità parrocchiali, prima in quella dell’Immacolata, poi, dal 1989, contribuendo alla nascita ed allo sviluppo di S. Bruno. La Diocesi mi ha visto sempre partecipe delle sue attività. Penso di aver costruito con il clero, non solo di Colleferro, ma diocesano in genere, un forte rapporto di dialogo e di confronto, nel pieno rispetto dei rispetti ruoli, funzioni, responsabilità e carismi. Colleferro è una realtà sociale relativamente giovane, essendo stata fondata nel 1935. Ha da sempre avuto il ruolo di fulcro socio-politico del territorio circostante, ricoprendo la funzione di luogo vocato al lavoro nella grande industria. A tale specificità sono dovute anche la presenza di diverse scuole superiori e di strutture ad alta funzione sociale (Ospedale, Inps, Centro per l’impiego, ecc.) Con la crisi degli anni ’80 la città ha in gran parte ridotto il numero dei posti di lavoro nell’industria, promuovendo diversi spazi di attività nel “terziario” e nei “servizi”. Attualmente conta poco meno di 25.000 abitanti, con 4 parrocchie attive sul territorio, tre di simile dimensione, con circa 7.500 abitanti ciascuna (S. Barbara, Immacolata e S. Bruno) ed una più piccola avendo a riferimento il quartiere di Colleferro Scalo (S. Gioacchino). S. Bruno è la parrocchia ultima nata a Colleferro. Giuridicamente nasce nel 1987, prendendo Febbraio 2008 in eredità l’azione pastorale condotta per oltre 15 anni dai frati minori conventuali della parrocchia Immacolata, che dal 1972 avevano iniziato l’attività pastorale nell’ormai “storico” garage della famiglia Parenti. L’azione pastorale vera e propria della nuova Parrocchia inizia nel 1989 con la nomina del suo Parroco “fondatore” Don Franco Fagiolo. In poco più di 15 anni la comunità ha compiuto passi da gigante, sia nella realizzazione di importanti opere architettoniche (Locali di Ministero Pastorale, Chiesa) sia nella promozione e concretizzazione di diverse attività pastorali e sociali, incentivando la partecipazione dei fedeli in tutti gli spazi di impegno. Da Ottobre 2006 la comunità ha un nuovo parroco, Don Augusto Fagnani, che con disponibilità ed attenzione si è inserito nella continuità dell’azione pastorale. La Parrocchia copre tutti gli ambiti tradizionali di attenzione alla Liturgia, alla Carità, alla Catechesi, con i rispettivi gruppi di impegno e di servizio. Ha promosso notevoli iniziative a carattere sociale attraverso il Ce.R.S. (nel 1981 il 100° anniversario della Rerum Novarum, presente l’allora Ministro del Lavoro Franco Marini, il 50° anniversario della morte di Alcide De Gasperi con una mostra fotografica, iniziative per ricordare le figure di Vittorio Bachelet, cui è dedicato il Salone Convegni, di Aldo Moro, di Paolo VI, ed ultimo il 40° anniversario della scomparsa di Don Lorenzo Milani. Inoltre è promossa costantemente una intensa attività culturale, particolarmente rivolta alla proposta musicale, con l’organizzazione di diversi concerti, che hanno visto la presenza dell’Orchestra Regionale del Lazio, dell’organista Daniele Rossi, di alcuni solisti di fama internazionale, e di tante “corali”. Sin dal suo nascere la Parrocchia ha organizzato momenti di coinvolgimento popolare: ne sono testimonianza la “Festa Parrocchiale” tradizionalmente fissata a metà Giugno, giunta alla sua XIX Edizione, e la “Festa dell’Esultanza”, vera ricorrenza religiosa in onore del santo patrono S. Bruno, in ricordo del suo ritorno a Segni proveniente da Montecassino. In parrocchia è presente sin dalla sua nascita l’Azione Cattolica, che svolge attività in tutti gli ambiti, con grande attenzione alle fasce dei ragazzi 6/8, 9/11, 12/14 e giovanissimi. E’ presente il gruppo giovani composto in buona parte dagli Educatori ACR. Essendo cresciuto in Azione Cattolica ho maturato una chiara idea della presenza dei laici nella vita ecclesiale, presenza fondata sullo stretto e vitale rapporto con la comunità parrocchiale e sulla corresponsabilità nell’azione pastorale. In tal senso il nuovo parroco Don Augusto Fagnani, dopo un doveroso ma intenso periodo di ambientamento, S p e c i a l e P a r r o c c h i e 21 ha promosso il rilancio degli Organismi di Partecipazione, partendo da quello a maggior funzione di coinvolgimento, il Consiglio Pastorale Parrocchiale. Al suo sforzo va la mia totale adesione, unita all’incitamento a non mollare di fronte ad ogni imprevisto e difficoltà. Va certamente realizzato un maggior dialogo e confronto tra le realtà ecclesiali presenti a Colleferro. Ad oggi vi sono alcune significative esperienze (Via Crucis cittadina, Pellegrinaggio annuale, corsi preparazione al matrimonio) ma è ancora troppo poco. E’ auspicabile la realizzazione di momenti di confronto periodico tra i Consigli Pastorali, una attenzione alla formazione riguardante la Pastorale d’Ambiente (penso alla Dottrina Sociale della Chiesa, alla cura dell’Ecologia e del Creato, alla Pace ed alla Giustizia) Ma è anche una priorità il rilancio di un’azione pastorale diretta ai giovani, in grado di risvegliare la partecipazione ed il confronto. Agli amministratori locali, vista la mia passata esperienza politica, chiedo solo di promuovere una reale e convinta azione di promozione di “partecipazione” dei cittadini alla vita pubblica, con spazi di coinvolgimento vero e non formale. Il distacco dalla politica è ben visibile anche a Colleferro. Un consiglio al Vescovo, anzi due: - Rilanciare un processo di integrazione reale tra le diverse anime della diocesi, a livello territoriale, tra le comunità parrocchiali, all’interno del presbiterio, tra i movimenti e le associazioni laicali, in uno spirito di “ecclesialità di comunione” condivisa e praticata (non solo predicata!) - Avvalersi in maniera costante e concreta delle tante intelligenze, competenze e disponibilità presenti in Diocesi nei vari ambiti, rendendo praticabili spazi di azione e proposta. Resto in trepida attesa della preannunciata prima Enciclica Sociale di Benedetto XVI. Il mio sogno, ispirato da una immagine magistrale di Don Tonino Bello, mio grande maestro di spiritualità, è quello di vedere viva una chiesa che fa della propria stola il grembiule, segno del servizio più umile ed esigente! Penso alla Chiesa come albero della vita e della speranza, con le radici saldamente radicate in “Lumen Gentium” ed il tronco sviluppato ed animato da “Gaudium et Spes”. Un messaggio al mondo laicale della nostra Diocesi: la chiamata alla “corresponsabilità” segna una svolta epocale ed una occasione irrinunciabile di impegno per ciascuno. Non lasciamola naufragare! Un’ultima cosa sul rapporto clero-laici. Ho fatto del detto: “fa più rumore un albero che cade che un bosco che cresce” un principio di vita e di azione. Di fronte a tante testimonianze di sacerdoti mirabili e straordinari non possiamo cedere a pochi esempi poco edificanti! In tal senso, avendo del sacerdozio in genere una grande stima e rispetto, costruisco con i sacerdoti che il Risorto mi dona di incontrare un rapporto franco, costruttivo, di forte confronto, basato sul riconoscimento reciproco, convinto che lavoriamo tutti per la “vigna del Signore”. Febbraio 2008 22 G r a n d i T e m i Stanislao Fioramonti Forse, tra pranzi e regali, non ci si è fatto troppo caso, ma a Natale e dintorni Benedetto XVI ha fatto discorsi davvero “pesanti”, su alcuni dei quali vale la pena di meditare, per cominciare il nuovo anno con il passo giusto. Ne ricorderemo almeno tre. Il primo è stato l’omelia della messa della Notte di Natale. Quella notte, come ogni anno da anni, ero davanti alla TV e vi confesso che ho sentito parole emozionanti. Accenneremo per brevità solo alla parte iniziale dell’omelia, che prendeva spunto dal Vangelo della messa (Lc 2,6s): “Per Maria si compirono i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo”. Commentando l’ultima frase il papa ha detto: “L’umanità attende Dio, la sua vicinanza. Ma quando arriva il momento, non ha posto per lui. E’ tanto occupata con sé stessa, ha bisogno di tutto lo spazio e di tutto il tempo in modo così esigente per le proprie cose, che non rimane nulla per l’altro – per il prossimo, per il povero, per Dio. E quanto più gli uomini diventano ricchi, tanto più riempiono tutto con sé stessi. Tanto meno può entrare l’altro”. E subito dopo, ricordando le parole dell’evangelista Giovanni (1,11): “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto”, si (ci) chiede: “Queste parole riguardano in definitiva noi, ogni singolo e la società nel suo insieme. Abbiamo tempo per il prossimo che ha bisogno della nostra, della mia parola, del mio affetto? Per il sofferente che ha bisogno di aiuto? Per il profugo o il rifugiato che cerca asilo? Abbiamo tempo e spazio per Dio? Può egli entrare nella nostra vita? Trova uno spazio in noi, o abbiamo occupato tutti gli spazi del nostro pensiero, del nostro agi- re, della nostra vita per noi stessi?”. Il messaggio natalizio “Urbi et Orbi” ha preso invece lo spunto dall’acclamazione al Vangelo della messa del giorno di Natale: “Oggi una splendida luce è discesa sulla terra”. Dio è luce, ha detto il papa con san Giovanni (1 Gv 1,5), e quando Gesù nacque dalla Vergine Maria, la Luce stessa è venuta nel mondo, e la Luce di Cristo è portatrice di pace! “Possa essa finalmente rifulgere, e sia consolazione per quanti si trovano nelle tenebre della miseria, dell’ingiustizia, della guerra; per coloro che vedono ancora negata la loro legittima aspirazione a una più sicura sussistenza, alla salute, all’istruzione, a un’occupazione stabile, a una partecipazione più piena alle responsabilità civili e politiche, al di fuori di ogni oppressione e al riparo da condizioni che offendono la dignità umana. Vittime dei sanguinosi conflitti armati, del terrorismo e delle violenze di ogni genere, che infliggono inaudite sofferenze a intere popolazioni, sono particolarmente le fasce più vulnerabili, i bambini, le donne, gli anziani. Mentre le tensioni etniche, religiose e politiche, l’instabilità, le rivalità, le contrapposizioni, le ingiustizie e le discriminazioni, che lacerano il tessuto interno di molti Paesi, inaspriscono i rapporti internazionali. E nel mondo va sempre più crescendo il numero dei migranti, dei rifugiati, degli sfollati anche a causa delle frequenti calamità naturali, conseguenza spesso di preoccupanti dissesti ambientali. In questo giorno di pace – ha concluso il papa quasi mettendo in chiaro le allusioni fatte – il pensiero va soprattutto laddove rimbomba il fragore delle armi: alle martoriate terre del Darfur, della Somalia e del nord della Repubblica Democratica del Congo, ai confini dell’Eritrea e dell’Etiopia, all’intero Medio Oriente, in particolare all’Iraq, al Libano e alla Terrasanta, all’Afghanistan, al Pakistan e allo Sri PAROLE DA RIPENSARE Stanislao Fioramonti Forse, tra pranzi e regali, non ci si è fatto troppo caso, ma a Natale e dintorni Benedetto XVI ha fatto discorsi davvero “pesanti”, su alcuni dei quali vale la pena di meditare, per cominciare il nuovo anno con il passo giusto. Ne ricorderemo almeno tre. Il primo è stato l’omelia della messa della Notte di Natale. Quella notte, come ogni anno da anni, ero davanti alla TV e vi confesso che ho sentito parole emozionanti. Accenneremo per brevità solo alla parte iniziale dell’omelia, che prendeva spunto dal Vangelo della messa (Lc 2,6s): “Per Maria si com- pirono i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo”. Commentando l’ultima frase il papa ha detto: “L’umanità attende Dio, la sua vicinanza. Ma quando arriva il momento, non ha posto per lui. E’ tanto occupata con sé stessa, ha bisogno di tutto lo spazio e di tutto il tempo in modo così esigente per le proprie cose, che non rimane nulla per l’altro – per il prossimo, per il povero, per Dio. E quanto più gli uomini diventano ricchi, tanto più riempiono tutto con sé stessi. Tanto meno può entrare l’altro”. E subito dopo, ricordando le parole dell’evangelista Giovanni (1,11): “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto”, si (ci) chiede: “Queste parole riguardano in definitiva noi, ogni singolo e la società nel suo insieme. Abbiamo tempo per il prossimo che ha bisogno della nostra, della mia parola, del mio affetto? Per il sofferente che ha bisogno di aiuto? Per il profugo o il rifugiato che cerca asilo? Abbiamo tempo e spazio per Dio? Può egli entrare nella nostra vita? Trova uno spazio in noi, o abbiamo occupato tutti gli spazi del nostro pensiero, del nostro agire, della nostra vita per noi stessi?”. Il messaggio natalizio “Urbi et Orbi” ha preso invece lo spunto dall’acclamazione al Vangelo della messa del giorno di Natale: “Oggi una splendida luce è discesa sulla terra”. Dio è luce, ha detto il papa con san Giovanni (1 Gv 1,5), e quando Gesù nacque dalla Vergine Maria, la Luce stessa è venuta nel mondo, e la Luce di Cristo è portatrice di pace! “Possa essa finalmente rifulgere, e sia consolazione per quanti si trovano nelle tenebre della miseria, dell’ingiustizia, della guerra; per coloro che vedono ancora negata la loro legittima aspirazione a una più sicura sussistenza, alla salute, all’istruzione, a un’occupazione stabile, a una partecipazione più piena alle responsabilità civili e politiche, al di fuori di ogni oppressione e al riparo da condizioni che offendono la dignità umana. Vittime dei sanguinosi conflitti armati, del terrorismo e delle violenze di ogni genere, che infliggono inaudite sofferenze a intere popolazioni, sono particolarmente le fasce più vulnerabili, i bambini, le donne, gli anziani. Mentre le tensioni etniche, religiose e politiche, l’instabilità, le rivalità, le contrapposizioni, le ingiustizie e le discriminazioni, che lacerano il tessuto interno di molti Paesi, inaspriscono i rapporti internazionali. E nel mondo va sempre più crescendo il numero dei migranti, dei rifugiati, degli sfollati anche a causa delle frequenti calamità naturali, conseguenza spesso di preoccupanti dissesti ambientali. In questo giorno di pace – ha concluso il papa quasi mettendo in chiaro le allusioni fatte – il pensiero va soprattutto laddove rimbomba il fragore delle armi: alle martoriate terre del Darfur, della Somalia e del nord della Repubblica Democratica del Congo, ai confini dell’Eritrea e dell’Etiopia, all’intero Medio Oriente, in particolare all’Iraq, al Libano e alla Terrasanta, all’Afghanistan, al Pakistan e allo Sri Lanka, alla regione dei Balcani e alle tante altre situazioni di crisi, spesso purtroppo dimenticate. Il Bambino Gesù porti sollievo a chi è nella prova e infonda ai responsabili di governo la saggezza e il coraggio di cer- Febbraio 2008 care e trovare soluzioni umane, giuste e durature”. L’ultimo messaggio papale che ci sembra importante non dimenticare è quello dato il 10 gennaio agli amministratori della Regione Lazio, della Provincia di Roma e del Comune capitolino, in occasione del tradizionale scambio di auguri per il nuovo anno. L’appuntamento, ha esordito il papa, “ci offre l’opportunità di riflettere su alcune materie di comune interesse e di grande importanza e attualità, che toccano da vicino la vita delle popolazioni di Roma e del Lazio. Quindi si è fatto “interprete dei sentimenti e dei legami che hanno unito attraverso i secoli i successori dell’apostolo Pietro alla città di Roma, alla sua provincia e a tutta la regione Lazio”. E poi, individuando nella centralità della persona umana il criterio fondamentale sul quale convenire nell’adempimento dei loro diversi compiti, ha evidenziato quattro emergenze sulle quali riversare, ciascuno nel proprio ambito di lavoro, il proprio impegno immediato. Esse sono: a) L’emergenza educativa. Benché l’educazione e la formazione della persona siano oggi di importanza decisiva, ha detto il papa, è oggi sempre più difficile proporre in maniera convincente alle nuove generazioni solide certezze e criteri su cui costruire la propria vita. Lo sanno bene i genitori e gli insegnanti, che spesso sono tentati di abdicare ai propri compiti educativi, anche perché la società relativista e nichilista non offre loro sicuri punti di riferimento che li possano guidare nell’impegno. Sono così in gioco le basi stesse della convivenza e il futuro della società. Al riguardo il papa ha ringraziato la Regione per il sostegno offerto a oratori e centri d’infanzia promossi dalle parrocchie e per la realizzazione di nuove parrocchie nella regione. E ispirandosi alla centralità della persona umana il papa ha detto che l’attuale emergenza educativa si può affrontare se si dà importanza primaria al rispetto e al sostegno concreto della famiglia fondata sul matrimonio, nella certezza di operare così per il bene comune. b) L’emergenza povertà. Essa aumenta soprattutto nelle grandi periferie urbane, ma comincia ad essere presente anche in altri contesti e situazioni che ne sembravano al riparo. E ciò è dovuto soprattutto ad alcuni fattori: aumento del costo della vita, specie dei prezzi degli alloggi; mancanza di lavoro; salari e pensioni spesso inadeguati, che rendono dif- G r a n d i T e m i 23 ficili le condizioni di vita di tante persone. c) L’insicurezza e il gravissimo degrado di alcune aree di Roma. Il papa ricorda l’uccisione di Giovanna Reggiani a Tor di Quinto e dice necessaria un’opera costante e concreta che garantisca la sicurezza dei cittadini e assicuri a tutti, in particolare agli immigrati, almeno il minimo indispensabile per una vita onesta e dignitosa. Ricorda in questo campo l’impegno della Chiesa, mediante la Caritas e il volontariato laicale e religioso, ma sottolinea l’indispensabilità e l’insostituibilità dei pubblici poteri. d) La sollecitudine verso gli ammalati. Questa deve esserci sia da parte della Chiesa che delle istituzioni. Pur conoscendo le difficoltà della Regione Lazio in campo sanitario, il papa afferma che spesso è drammatica la situazione di strutture sanitarie cattoliche anche prestigiose e famose. Chiede dunque che nella distribuzione delle risorse esse non siano paralizzate, non per interesse della Chiesa, ma per non compromettere un servizio indispensabile alle nostre popolazioni. Lanka, alla regione dei Balcani e alle tante altre situazioni di crisi, spesso purtroppo dimenticate. Il Bambino Gesù porti sollievo a chi è nella prova e infonda ai responsabili di governo la saggezza e il coraggio di cercare e trovare soluzioni umane, giuste e durature”. L’ultimo messaggio papale che ci sembra importante non dimenticare è quello dato il 10 gennaio agli amministratori della Regione Lazio, della Provincia di Roma e del Comune capitolino, in occasione del tradizionale scambio di auguri per il nuovo anno. L’appuntamento, ha esordito il papa, “ci offre l’opportunità di riflettere su alcune materie di comune interesse e di grande importanza e attualità, che toccano da vicino la vita delle popolazioni di Roma e del Lazio. Quindi si è fatto “interprete dei sentimenti e dei legami che hanno unito attraverso i secoli i successori dell’apostolo Pietro alla città di Roma, alla sua provincia e a tutta la regione Lazio”. E poi, individuando nella centralità della persona umana il criterio fondamentale sul quale convenire nell’adempimento dei loro diversi compiti, ha evidenziato quattro emergenze sulle quali riversare, ciascuno nel proprio ambito di lavoro, il proprio impegno immediato. Esse sono: a) L’emergenza educativa. Benché l’educazione e la formazione della persona siano oggi di importanza decisiva, ha detto il papa, è oggi sempre più difficile proporre in maniera convincente alle nuove generazioni solide certezze e criteri su cui costruire la propria vita. Lo sanno bene i genitori e gli insegnanti, che spesso sono tentati di abdicare ai propri compiti educativi, anche perché la società relativista e nichilista non offre loro sicuri punti di riferimento che li possano guidare nell’impegno. Sono così in gioco le basi stesse della convivenza e il futuro della società. Al riguardo il papa ha ringraziato la Regione per il sostegno offerto a oratori e centri d’infanzia promossi dalle parrocchie e per la realizzazione di nuove parrocchie nella regione. E ispirandosi alla centralità della persona umana il papa ha detto che l’attuale emergenza educativa si può affrontare se si dà importanza primaria al rispetto e al sostegno concreto della famiglia fondata sul matrimonio, nella certezza di operare così per il bene comune. b) L’emergenza povertà. Essa aumenta soprattutto nelle grandi periferie urbane, ma comincia ad essere presente anche in altri contesti e situazioni che ne sembravano al riparo. E ciò è dovuto soprattutto ad alcuni fattori: aumento del costo della vita, specie dei prezzi degli alloggi; mancanza di lavoro; salari e pensioni spesso inadeguati, che rendono difficili le condizioni di vita di tante persone. c) L’insicurezza e il gravissimo degrado di alcune aree di Roma. Il papa ricorda l’uccisione di Giovanna Reggiani a Tor di Quinto e dice necessaria un’opera costante e concreta che garantisca la sicurezza dei cittadini e assicuri a tutti, in particolare agli immigrati, almeno il minimo indispensabile per una vita onesta e dignitosa. Ricorda in questo campo l’impegno della Chiesa, mediante la Caritas e il volontariato laicale e religioso, ma sottolinea l’indispensabilità e l’insostituibilità dei pubblici poteri. d) La sollecitudine verso gli ammalati. Questa deve esserci sia da parte della Chiesa che delle istituzioni. Pur conoscendo le difficoltà della Regione Lazio in campo sanitario, il papa afferma che spesso è drammatica la situazione di strutture sanitarie cattoliche anche prestigiose e famose. Chiede dunque che nella distribuzione delle risorse esse non siano paralizzate, non per interesse della Chiesa, ma per non compromettere un servizio indispensabile alle nostre popolazioni. 24 C o n c i l i o V a t i c a n o I I Don Dario Vitali, Parroco e Teologo A unanime giudizio degli esegeti del concilio, il tema della collegialità è uno dei più delicati e decisivi del concilio Vaticano II. Quello, anzitutto, a cui è stato dedicato il maggior tempo in assoluto nelle discussioni in aula; quello che più di ogni altro ha radicalizzato le posizioni di minoranza e maggioranza al limite della opposizione ideologica; quello, infine, che più di ogni altro ha messo in questione l’iter stesso dei lavori, rischiando di far naufragare il concilio stesso. E si capisce perché: la Curia romana temeva che un riconoscimento di potere al collegio dei vescovi potesse compromettere il potere personale del papa, sancito al concilio Vaticano I con la costituzione Pastor aeternus (18. 07. 1870), dove si affermava invece il primato petrino e l’infallibilità del papa quando parla ex cathedra. Nonostante i tentativi di boicottaggio, tuttavia, il confronto serrato (dentro il quale ebbe un posto notevole mons. Carli, allora vescovo di Segni, come voce della minoranza) portò a una dottrina condivisa sulla collegialità, benché i timori della Curia si possano registrare nella Nota explicativa praevia, che per volontà di Paolo VI accompagna la Lumen Gentium. Quella nota – che contiene sostanzialmente i modi sui quali i Padri si sono pronunciati e che ha costituito i criteri fondamentali su cui si è basata la discussione in aula – fissa quattro passaggi: 1) anzitutto il significato del termine “collegio”, che non è da intendersi in senso strettamente giuridico, come «un gruppo di uguali, i quali abbiano demandato il loro potere al loro preside, ma come un gruppo stabile, la cui struttura e autorità devono essere dedotte dalla Rivelazione»; 2) la modalità con cui si diventa membro del collegio, cioè «in virtù della consacrazione episcopale e mediante la comunione gerarchica con il capo del collegio e con le membra»; 3) la chiarificazione dei soggetti che detengono un potere pieno e supremo nella Chiesa, vale adire «il collegio, che non si dà mai senza il capo, [che] è detto essere anch’es- so “soggetto di supremo e pieno potere” sulla Chiesa universale», e il romano pontefice singolarmente preso (ma la nota preferisce indicare due forme di potere supremo: quella del papa da solo e quella del papa in unione con il collegio); 4) l’esercizio di questo potere, che «il sommo pontefice, quale pastore supremo della Chiesa, può esercitare la sua potestà sempre, mentre il collegio, pur esistendo sempre come soggetto, non sempre agisce collegialmente». Si tratta di cautele che intendono affermare la dottrina della collegialità senza compromettere le affermazioni sul primato petrino. E, comunque, la dottrina sulla collegialità condensata nei nn. 22-23 è molto equilibrata: si tratta di due numeri intensi, dove ogni parola è pesata e limata. Anzitutto l’affermazione sull’esistenza del Collegio episcopale: «Come per decisione del Signore san Pietro e gli altri Apostoli formano un unico Collegio apostolico, in modo analogo sono uniti tra loro il Romano Pontefice, successore di Pietro, e i Vescovi, successori degli Apostoli» (LG 22). Il testo è costruito sul doppio parallelismo Pietro/papa – apostoli/vescovi. Pietro è insieme membro e capo del collegio e il collegio non può esistere sine Petro. D’altronde, questo emerge dalla Tradizione circa «il carattere e la natura collegiale dell’ordine episcopale»: che i vescovi dall’antichità comunicassero «tra di loro e con il vescovo di Roma nel vincolo dell’unità»; che si riunissero in concilio; che partecipassero alla consacrazione di un nuovo candidato all’ordine episcopale, sono argomenti che fondano la dottrina della collegialità. Anzi, chiariscono anche la modalità con cui un candidato viene assunto nel collegio, vale a dire «mediante consacrazione episcopale e mediante la comunione gerarchica con il capo e con i membri del collegio». A seguire il testo spiega che il collegio ha autorità sulla Chiesa unicamente a condizione di avere il papa come capo, il quale peraltro «conserva integralmente il suo potere primaziale su tutti, pastori e fedeli». Per cui esistono due soggetti che hanno auto- Febbraio 2008 rità sulla Chiesa: il papa, il quale ha personalmente «sulla Chiesa la potestà piena, suprema e universale», e l’ordo Episcoporum, che è esso pure «soggetto di piena e suprema potestà su tutta la Chiesa», esercitatile unicamente con il consenso del papa quale supremo pastore della Chiesa. Il concilio non ha recepito l’idea di chi, per salvaguardare le prerogative del papa, voleva riconoscere il collegio unicamente e solo a condizione della convocazione pontificia, ad esempio in un concilio generale, quasi che fosse un soggetto occasionale: per la Lumen Gentium il collegio è realmente e permanentemente soggetto di autorità suprema e piena nella Chiesa, che può esercitare sempre e solo in unione con il capo e mai senza di lui. La bellezza e la forza di questa dottrina risplende nell’affermazione, che illustra la natura esemplare e rappresentativa del collegio dei vescovi: «Questo collegio, in quanto composto da molti, esprime l’universalità e la varietà del popolo di Dio; in quanto raccolto sotto un solo capo, esprime l’unità del gregge di Cristo». Il testo fa salvi i diritti del papa e quelli del collegio, evidenziando la natura complessa dell’autorità nella Chiesa, che si fonda e deve obbedire al principio della communio hierarchica. Febbraio 2008 Antonio Galati «Egli, sceso dalla barca, vide una grande folla e sentì compassione per loro e guarì i loro malati. Sul far della sera, gli si accostarono i discepoli e gli dissero: “Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare”. Ma Gesù rispose: “Non occorre che vadano; date loro voi stessi da mangiare”. Gli risposero: “Non abbiamo che cinque pani e due pesci!”. Ed egli disse: “Portatemeli qua”. E dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci e, alzati gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. Tutti mangiarono e furono saziati; e portarono via dodici ceste piene di pezzi avanzati. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini» (Mt 14, 14-21). Il brano sopra citato ci dice che Gesù passa parecchio tempo con le persone che Lo seguono, cura i malati e, probabilmente (anche se il brano non ce lo dice), rivolge alla gente un discorso: si intrattiene con loro (Mt 14, 14). Questa è una caratteristica di Gesù che nei Vangeli è facile notare: il Signore sta in mezzo alle persone che ama1, cammina con loro2 e con loro si mette a tavola3. Questa stessa caratteristica dovrebbe essere presente in ogni cristiano e specialmente in coloro che, dal Signore, sono chiamati al sacerdozio per renderLo continuamente presente in mezzo a tutta l’umanità che Lui non ha mai smesso di amare e per la quale è morto e risorto4. Nel proseguo del racconto, i discepoli fanno notare al Maestro che si è fatta sera e che non c’è possibilità per la folla di saziare il loro bisogno di cibo se non congedandosi da Lui e andando a comprare del pane nei villaggi vicini. Notiamo, però, che il brano evangelico non ci dice che la folla si lamentava per qualche motivo. Viene in mente, allora, l’atteggiamento degli ebrei durante il cammino nel deserto che li ha portati dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della terra promessa: anche in quel caso Dio era presente in mezzo a loro5, ma loro, al contrario della folla che seguiva Gesù, non facevano altro che lamentarsi di tappa in tappa per qualcosa che mancava e non perdevano nessuna occasione per offendere Dio, rimpiangendo la loro condizione in Egitto e dubitando del fatto che era veramente Lui a guidarli. Dio, però, nel suo grande amore acconsentiva sempre ai loro bisogni e sembrava non curarsi del modo in cui il Suo popolo si comportava nei Suoi confronti6. Questo parallelismo con l’Antico Testamento ci permette di sottolineare un altro atteggiamento caratteristico del modo di comportarsi di Dio nei confronti dell’umanità e di ognuno di noi singolarmente preso: Dio ci ama nonostante tutto. L’amore, quando è vero e sincero, è sinonimo di accoglienza e di sacrificio verso l’altra persona che si ama e ciò non è condizionato dal modo in cui l’altra persona ripaga questo amore: corrisponde o no, si continua a amarla e si è sempre pronti a fare tutto ciò che si può per lei, anche se poi non dirà neanche grazie. Questo è l’amore che Dio prova nei nostri confronti e questo è l’amore che il chiamato alla vita sacerdotale deve provare per l’umanità tutta intera e per le persone che si trova accanto. Il compito della vita sacerdotale (ma anche semplicemente cristiana) sembra impossibile: il cristiano, il prete, è un uomo e deve V o c a z i o n i 25 fare i conti con la sua fragilità e con il suo carattere che seleziona le persone più simpatiche e quelle più antipatiche. Mentre con le prime l’amore si esercita più facilmente, con le seconde risulta più difficile e figuriamoci poi con chi la pensa diversamente e con chi apertamente si professa nemico o che egli sente tale7. Dio dice di amare anche questi ultimi, ma non lascia solo nessuno in questo compito e, come sempre, aiuta chi lo invoca e dà la forza per riuscire. Lo stesso brano evangelico sopra riportato ci mostra come Gesù interviene nella nostra vita per sostenerci nell’amore verso gli altri. Quello che chiede è che noi ci affidiamo a Lui. Vediamo come. Il brano evangelico, dopo l’intervento dei discepoli, continua con un breve dialogo tra Gesù e i suoi: «ma Gesù rispose: “Non occorre che vadano; date loro voi stessi da mangiare”. Gli risposero: “Non abbiamo che cinque pani e due pesci!”. Ed egli disse: “Portatemeli qua”» (Mt 14, 16-18)8. Di fronte all’immensità della folla (Matteo annota infatti, al versetto 21 dello stesso capitolo: «erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini») cosa sono cinque pani e due pesci? Dal tono della risposta dei discepoli a Gesù che gli dice di dare loro stessi da mangiare a tutti, comprendiamo che anche loro notano l’insufficienza delle loro risorse di cibo. Gesù però sa bene cosa fare: si fa dare dai discepoli tutto quel poco che hanno e lo benedice, gli aggiunge del Suo (Mt 14, 19). Dopo aver fatto questo riconsegna i pani e i pesci ai discepoli e i essi danno effettivamente da mangiare a tutti (Mt 14, 19), come Gesù aveva loro suggerito prima (Mt 14, 16). Addirittura «portarono via dodici ceste piene di pezzi avanzati» (Mt 14, 20). Per risolvere, allora, la difficoltà, o meglio l’impossibilità, umana di amare tutti nello stesso modo in cui ci ama Dio, basta parafrasare il testo e, al posto dell’invito rivolto da Gesù ai discepoli di dar da mangiare alla folla presente, leggiamo l’invito di Dio a amare tutta l’umanità che Egli rivolge a noi cristiani d’oggi, e in particolare ai sacerdoti e a coloro che si preparano a diventarlo o stanno discernendo in cuor loro la loro vocazione. La soluzione è quella di affidare al Maestro la nostra pochezza e i nostri limiti, sicuri che Egli li benedirà e ce li riconsegnerà pieni del Suo Amore e capaci di abbracciare tutto il genere umano e anche oltre. Per sintetizzare tutto il discorso fatto fino a ora, possiamo dire che il sacerdote è chiamato a riproporre Cristo in mezzo all’umanità e il Suo Amore che ama nonostante tutto. Questo lo può fare perché come cristiano è chiamato a amare tutti come Cristo stesso ha fatto, affidando a Lui la sua pochezza, e come sacerdote ha il potere di rendere presente il Maestro in mezzo ai Suoi, offrendo la pochezza del pane e del vino e donando la grandezza del Corpo e del Sangue re. 1 Mt 18, 20. Lc 24, 13-15. Mc 2, 15-17. 4 Messaggio di Sua Santità Benedetto XVI per la XLV giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, 5. 5 Es 13, 21-22. 6 Es 15, 22-27; 16, 1-15; 17, 1-7. 7 Mt 5, 43-48. 2 3 8 Sorvolo sull’affermazione centrale di Gesù «date loro voi stessi da mangiare» (Mt 14, 16), che riprenderò, per problemi di spazio, nel prossimo articolo. Febbraio 2008 26 A t t u a l i t à Sara Gilotta Non è certo facile comprendere le cause effettive che hanno spinto un esiguo numero di docenti dell’Università “La Sapienza” a rifiutare la presenza del Pontefice nel giorno dell’inaugurazione dell’anno accademico. E’ certo, tuttavia, che la loro “protesta” è nata dai loro convincimenti laici, che essi hanno visto messi in pericolo così come hanno temuto per la loro libertà di pensiero e di azione. Ma a che pro, per dimostrare che cosa? Ed ancora, davvero rispettabili docenti non certo giovanissimi, hanno potuto aver paura delle parole di Benedetto XVI? Ora per quanto si possa tentare di comprendere, è certo che l’atteggiamento assunto da essi, è stato solo il modo per provocare una situazione tanto più negativa, quanto meno essa risulta evidentemente giustificabile. Ma al di là di della cronaca, credo che per comprendere, sia necessario guardare al rapporto laici-cattolici, che tanto impegna in questo periodo intellettuali e teologi, tutti rivolti a cercare di stabilire un rinnovato colloquio tra i due modi di pensare, basato sul reciproco rispetto e sulle reciproca comprensione, nel rispetto della libertà di tutti. E, del resto il Pontefice nel discorso che avrebbe dovuto tenere, ha ribadito, come è tradizione della Chiesa Cattolica, di non voler imporre la fede, perché la fede deriva da una libera scelta, che spetta a ciascun individuo desideroso di riconoscersi in una realtà come quella che il Cristianesimo propone da più di due millenni e basata innanzitutto sul rispetto della persona e sull’amore che, legando tra loro gli uomini, li avvicina a Dio che non è se non Amore trascendente e perfetto, capace di abbracciare l’umanità tutta pur nelle sue debolezze ed incertezze. Il Cristianesimo è, infatti, apertura all’altro, come ha insegnato con la Sua vita e la Sua morte proprio il fondatore del Cristianesimo stesso Gesù, figlio di Dio. Un Dio che ha mandato Suo figlio a salvare l’umanità insegnando con la più perfetta semplicità principi rivoluzionari, mai prima sentiti dagli uomini di quel tempo e che, forse ancora da troppi, nemmeno oggi si può dire che sia- no davvero ed appieno compresi e seguiti. Anzi della Parola di Gesù ancora si ha paura, ancora si pensa che essa possa essere imposta con l’autorità o peggio con la forza. Ma se così fosse, allora non si potrebbe più parlare di Cristianesimo, che è la religione della libertà e non della sottomissione ad un Dio che impone le sue leggi e punisce chi le trasgredisce, anzi aderire alla Parola di Cristo ha significato per tutti divenire figli di Dio, che, appunto, ama come solo un padre tenerissimo può fare. Ecco perché chi veramente ha perso una preziosa occasione, per mostrare la capacità di affermare, accogliendo e non rifiutando il Pontefice, la sua libertà è stato il mondo laico, che in tal modo ha mostrato la propria debolezza, rafforzando l’importanza del messaggio cristiano sempre disponibile ad accogliere tutti e ad ascoltare tutti senza barriere o preconcetti di sorta, come è tipico, invece, di quelle ideologie che hanno voluto nei secoli imporre verità rigide e fondate su uno scientismo assoluto incapace di aperture di qualunque genere e che per questo sono presto tramontate, sempre sconfitte dalla necessità avvertita profondamente dall’uomo, che ha bisogno di nutrire il suo spirito, per uscire dagli stretti limiti di quei pensieri, che nel predicare la morte di Dio hanno proclamato anche la morte dell’uomo chiuso nei confini angusti dell’immanenza incapace, comunque, di dare valore alla vita e all’uomo stesso. E per ultimo si deve dire che, prima ancora della difesa della libertà laica, si è avuta paura di Benedetto XVI, dando vita in tal modo al peggiore dei pregiudizi, per il quale si rifiuta qualcosa o qualcuno apriori, senza neanche conoscerlo e senza nemmeno voler tentare in dialogo e un confronto, che certo il Papa non avrebbe rifiutato sia per il grande livello intellettuale, sia soprattutto perché come successore di Cristo non può che guardare all’altro in spirito di fraternità. Colleferro, S. Barbara 13 gennaio 2008 Giubileo Missionario di P. Angelo Ferrazza Dopo cinquant’anni, nella stessa chiesa di S. Barbara la celebrazione del Mandato ricevuto dal Redentore direttamente da Padre e con l’unzione dello Spirito santo, è stata estesa al mandato missionario del medesimo sacerdote, a cui il 15 gennaio 1858 il vescovo di Segni, Mons. Carli, consegnò il crocifisso di apostolo in terra di missione. Domenica, 13 gennaio 2008, mons. Luciano Lepore, il giorno prima che il P. Angelo Terrazza riprendesse il volo verso la sua missione nello Zambia, volle celebrare con i parrocchiani il giubileo d’oro di apostolato missionario. La s. messa fu allietata da un fraterno comunitario con molteplici doni per le opere evangeliche e umanitarie, che il p. Angelo conduce nelle sue quindici stazio- ni missionarie e ottanta comunità di base. La cerimonia giubilare riconferma sul giubilante il sentimento di benigna riconciliazione con cui il Buon Pastore assolve il suo servo dalle deficienze nel corso del suo mandato e lo riassume al suo servizio con vera e generosa benedizione. Il giubileo, come anno di grazia, non è elargito al giubilato da Dio come congratulazione e atto di pensionamento. E’ per il Signore l’occasione per adattare l’operaio ad un impegno più consono alla sua situazione attuale. Del P. Angelo Ferrazza si può dire a buon titolo che ha aiutato la giovane Chiesa di Ndala nello Zambia a crescere. Infatti mentre la diocesi di Ndala cresceva nel numero di vocazioni e quindi si rendeva capa- ce di autogovernarsi, il P. Ferrazza, andava per i villaggi a gettare le basi per la costruzione di comunità che da lì a poco sarebbe state prese in cura da sacerdoti locali. Questo però non ha risolto tutti i problemi, in parte di responsabilità dell’autorità di governo. Qui s’innesta la sensibilità e la generosità della comunità di Colleferro S. Barbara che nel corso degli anni ha mantenuto il legame con P. Angelo e ha risposto alle sue richieste di aiuto. Così si sono potuto realizzare luoghi per lo studio dei ragazzi, piccoli laboratori per il lavoro degli adulti, e mini ambulatori. Febbraio 2008 G i o r n a t a d e l M a l a t o 27 Cari fratelli e sorelle! L’11 febbraio, memoria della Beata Maria Vergine di Lourdes, si celebra la Giornata Mondiale del Malato, occasione propizia per riflettere sul senso del dolore e sul dovere cristiano di farsene carico in qualunque situazione esso si presenti. Quest’anno tale significativa ricorrenza si collega a due eventi importanti per la vita della Chiesa, come si comprende già dal tema scelto “L’Eucaristia, Lourdes e la cura pastorale dei malati”: il 150° anniversario delle apparizioni dell’Immacolata a Lourdes, e la celebrazione del Congresso Eucaristico Internazionale a Québec, in Canada. In tal modo viene offerta una singolare opportunità per considerare la stretta connessione che esiste tra il Mistero eucaristico, il ruolo di Maria nel progetto salvifico e la realtà del dolore e della sofferenza dell’uomo. I 150 anni dalle apparizioni di Lourdes ci invitano a volgere lo sguardo verso la Vergine Santa, la cui Immacolata Concezione costituisce il dono sublime e gratuito di Dio ad una donna, perché potesse aderire pienamente ai disegni divini con fede ferma e incrollabile, nonostante le prove e le sofferenze che avrebbe dovuto affrontare. Per questo Maria è modello di totale abbandono alla volontà di Dio: ha accolto nel cuore il Verbo eterno e lo ha concepito nel suo grembo verginale; si è fidata di Dio e, con l’anima trafitta dalla spada del dolore (cfr Lc 2,35), non ha esitato a condividere la passione del suo Figlio rinnovando sul Calvario ai piedi della Croce il “sì” dell’Annunciazione. Meditare sull’Immacolata Concezione di Maria è pertanto lasciarsi attrarre dal «sì» che l’ha congiunta mirabilmente alla missione di Cristo, redentore dell’umanità; è lasciarsi prendere e guidare per mano da Lei, per pronunciare a propria volta il “fiat” alla volontà di Dio con tutta l’esistenza intessuta di gioie e tristezze, di speranze e delusioni, nella consapevolezza che le prove, il dolore e la sofferenza rendono ricco di senso il nostro pellegrinaggio sulla tera. Non si può contemplare Maria senza essere attratti da Cristo e non si può guardare a Cristo senza avvertire subito la presenza di Maria. Esiste un legame inscindibile tra la Madre e il Figlio generato nel suo seno per opera dello Spirito Santo, e questo legame lo avvertiamo, in maniera misteriosa, nel Sacramento dell’Eucaristia, come sin dai primi secoli i Padri della Chiesa e i teologi hanno messo in luce. “La carne nata da Maria, venendo dallo Spirito Santo, è il pane disceso dal cielo”, afferma sant’Ilario di Poitiers, mentre nel Sacramentario Bergomense, del sec. IX, leggiamo: “Il suo grembo ha fatto fiorire un frutto, un pane che ci ha riempito di angelico dono. Maria ha restituito alla salvezza ciò che Eva aveva distrutto con la sua colpa”. Osserva poi san Pier Damiani: “Quel corpo che la beatissima Vergine ha generato, ha nutrito nel suo grembo con cura materna, quel corpo dico, senza dubbio e non un altro, ora lo riceviamo dal sacro altare, e ne beviamo il sangue come sacramento della nostra redenzione. Questo ritiene la fede cattolica, questo fedelmente insegna la santa Chiesa”. Il legame della Vergine Santa con il Figlio, Agnello immolato che toglie i peccati del mondo, si estende alla Chiesa Corpo mistico di Cristo. Maria - nota il Servo di Dio Giovanni Paolo II - è “donna eucaristica” con l’intera sua vita per cui la Chiesa, guardando a Lei come a suo modello, “è chiamata ad imitarla anche nel suo rapporto con questo Mistero santissimo” (Enc. Ecclesia de Eucharistia, 53). In questa ottica si comprende ancor più perché a Lourdes al culto della Beata Vergine Maria si unisce un forte e costante richiamo all’Eucaristia con quotidiane Celebrazioni eucaristiche, con l’adorazione del Santissimo Sacramento e la benedizione dei malati, che costituisce uno dei momenti più forti della sosta dei pellegrini presso la grotta di Massabielles. La presenza a Lourdes di molti pellegrini ammalati e di volontari che li accompagnano aiuta a riflettere sulla materna e tenera premura che la Vergine manifesta verso il dolore e le sofferenza dell’uomo. Associata al Sacrificio di Cristo, Maria, Mater Dolorosa, che ai piedi della Croce soffre con il suo divin Figlio, viene sentita particolarmente vicina dalla comunità cristiana che si raccoglie attorno ai suoi membri sofferenti, i quali recano i segni della passione del Signore. Maria soffre con coloro che sono nella prova, con essi spera ed è loro conforto sostenendoli con il suo materno aiuto. E non è forse vero che l’esperienza spirituale di tanti ammalati spin- Messaggio del Santo Padre Benedetto XVI in occasione della 16a Giornata Mondiale del Malato (11 febbraio 2008) ge a comprendere sempre più che “il divin Redentore vuole penetrare nell’animo di ogni sofferente attraverso il cuore della sua Madre santissima, primizia e vertice di tutti i redenti”? (Giovanni Paolo II, Lett. ap. Salvifici doloris, 26). Se Lourdes ci conduce a meditare sull’amore materno della Vergine Immacolata per i suoi figli malati e sofferenti, il prossimo Congresso Eucaristico Internazionale sarà occasione per adorare Gesù Cristo presente nel Sacramento dell’altare, a Lui affidarci come a Speranza che non delude, Lui accogliere quale farmaco dell’immortalità che sana il fisico e lo spirito. Gesù Cristo ha redento il mondo con la sua sofferenza, con la sua morte e risurrezione e ha voluto restare con noi quale “pane della vita” nel nostro pellegrinaggio terreno. “L’Eucaristia dono di Dio per la vita del mondo”: questo è il tema del Congresso Eucaristico che sottolinea come l’Eucaristia sia il dono che il Padre fa al mondo del proprio unico Figlio, incarnato e crocifisso. E’ Lui che ci raduna intorno alla mensa eucaristica, suscitando nei suoi discepoli un’attenzione amorevole per i sofferenti e gli ammalati, nei quali la comunità cristiana riconosce il volto del suo Signore. Come ho rilevato nell’Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis, “le nostre comunità, quando celebrano l’Eucaristia, devono prendere sempre più coscienza che il sacrificio di Cristo è per tutti e pertanto l’Eucaristia spinge ogni credente in Lui a farsi ‘pane spezzato’ per gli altri” (n. 88). Siamo così incoraggiati ad impegnarci in prima persona a servire i fratelli, specialmente quelli in difficoltà, poiché la vocazione di ogni cristiano è veramente quella di essere, insieme a Gesù, pane spezzato per la vita del mondo. Appare pertanto chiaro che proprio dall’Eucaristia la pastorale della salute deve attingere la forza spirituale necessaria a soccorrere efficacemente l’uomo e ad aiutarlo a comprendere il valore salvifico della propria sofferenza. Come ebbe a scrivere il Servo di Dio Giovanni Paolo II nella già citata Lettera apostolica Salvifici doloris, la Chiesa vede nei fratelli e nelle sorelle sofferenti quasi molteplici soggetti della forza soprannaturale di Cristo (cfr n. 27). Unito misteriosamente a Cristo, l’uomo che soffre con amore e docile abbandono alla volontà divina diventa offerta vivente per la salvezza del mondo. L’amato mio Predecessore affermava ancora che “quanto più l’uomo è minacciato dal peccato, quanto più pesanti sono le strutture del peccato che porta in sé il mondo d’oggi, tanto più grande è l’eloquenza che la sofferenza umana in sé possiede. E tanto più la Chiesa sente il bisogno di ricorrere al valore delle sofferenze umane per la salvezza del mondo” (ibid.). Se pertanto a Québec si contempla il mistero dell’Eucaristia dono di Dio per la vita del mondo, nella Giornata Mondiale del Malato, in un ideale parallelismo spirituale, non solo si celebra l’effettiva partecipazione della sofferenza umana all’opera salvifica di Dio, ma se ne possono godere, in certo senso, i preziosi frutti promessi a coloro che credono. Così il dolore, accolto con fede, diventa la porta per entrare nel mistero della sofferenza redentrice di Gesù e per giungere con Lui alla pace e alla felicità della sua Risurrezione. Mentre rivolgo il mio saluto cordiale a tutti gli ammalati e a quanti se ne prendono cura in diversi modi, invito le comunità diocesane e parrocchiali a celebrare la prossima Giornata Mondiale del Malato valorizzando appieno la felice coincidenza tra il 150° anniversario delle apparizioni di Nostra Signora a Lourdes e il Congresso Eucaristico Internazionale. Sia occasione per sottolineare l’importanza della Santa Messa, dell’Adorazione eucaristica e del culto dell’Eucaristia, facendo in modo che le Cappelle nei Centri sanitari diventino il cuore pulsante in cui Gesù si offre incessantemente al Padre per la vita dell’umanità. Anche la distribuzione ai malati dell’Eucaristia, fatta con decoro e spirito di preghiera, è vero conforto per chi soffre afflitto da ogni forma di infermità. La prossima Giornata Mondiale del Malato sia inoltre propizia circostanza per invocare, in modo speciale, la materna protezione di Maria su quanti sono provati dalla malattia, sugli agenti sanitari e sugli operatori della pastorale sanitaria. Penso, in particolare, ai sacerdoti impegnati in questo campo, alle religiose e ai religiosi, ai volontari e a chiunque con fattiva dedizione si occupa di servire, nel corpo e nell’anima, gli ammalati e i bisognosi. Affido tutti a Maria, Madre di Dio e Madre nostra, Immacolata Concezione. Sia Lei ad aiutare ciascuno nel testimoniare che l’unica valida risposta al dolore e alla sofferenza umana è Cristo, il quale risorgendo ha vinto la morte e ci ha donato la vita che non conosce fine. Con questi sentimenti, di cuore imparto a tutti una speciale Benedizione Apostolica. Febbraio 2008 28 S p i r i t u a l i t à Alessandro Gentili Chiesa povera o Chiesa per i poveri? Il dilemma continua ad animare le serate dei cristiani del mondo occidentale riuniti attorno alle tavole imbandite mentre fuori, a pochi passi, poveri, emarginati, carcerati, anziani, malati attendono fiduciosi la salvezza promessa dal Salvatore. La domanda vaga lungo una tranquilla serata tra altri argomenti: i mutui troppo alti, la sanità che non funziona, il petrolio troppo caro, le prossime ferie … Rovinare una così bella serata ci vuole veramente poco: basta, ad esempio, proporre arditamente una leggera, leggerissima variante alla prima beatitudine di Matteo che la Cei traduce così: “ Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli”. In uno straordinario libro (“Padre dei poveri” due volumi: Le Beatitudini-Il Padre nostro; euro 26,50) pubblicato dalla Cittadella, il Padre Servita Alberto Maggi, propone questa variante:“Beati i poveri PER lo spirito”. E si comprende bene il perché questa versione non è mai stata proposta ai fedeli riuniti in assemblea. La povertà alla quale invita la beatitudine della prima versione CEI, viene intesa come l’atteggiamento interiore di chi, pur restando saldamente in possesso dei propri beni, ne è “spiritualmente” distaccato: la povertà di spirito si trasforma in spirito di povertà. Immaginiamo dunque le reazioni di chi potrebbe ascoltare questo invito, quello, cioè, di farsi materialmente (e non solo spiritualmente) povero per soccorrere i fratelli bisognosi. Anche chi scrive potrebbe avere la tentazione di alzare i tacchi e andarsi a cercare una Chiesa più comprensiva, più UMANA. Peccato che i Padri della Chiesa abbiano sempre inteso nel loro cuore (e negli scritti) la versione per noi più dura da digerire (pensate ancora a quella bella tavola natalizia in cui si sa a che ora inizia il pranzo e non si sa a che ora termina la cena …). Per Agostino è umile chi sceglie volontariamente la povertà. Girolamo, Crisostomo, Giustino seguono la stessa versione e potrei elencare Leone Magno, Basilio di Cesarea e molti altri, ma sarebbe noioso. A che servirebbe? Per i duri di cuore, come dice Gesù nella parabola, neanche i morti che resuscitano sarebbero sufficienti alla conversione… La Chiesa primi- tiva amava designare se stessa come la “comunità dei santi-poveri”. Gesù non si accontenta di chiedere al ricco un distacco “spirituale” dai propri beni, ma un abbandono effettivo, radicale e immediato: “ … và, vendi quello che hai e dallo ai poveri …” (Mt 19,21). Nel Nuovo Testamento i ricchi e la ricchezza appaiono sempre sotto una luce negativa. Per costoro non c’è posto nel regno: “ … difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli …” (Mt 19,23). Soltanto Giuseppe di Arimatea e Zaccheo vengono presentati positivamente nei Vangeli e sono coloro che, una volta accolto il messaggio di Gesù, hanno coerentemente rinunciato alla ricchezza. Gesù invita i credenti a farsi volontariamente poveri perché nessuno lo sia. Modello di scelta volontaria è proprio il Signore che “…da ricco che era, si è fatto povero per voi …”(2Cor 8,9). Nel Vangelo di Luca, la proclamazione “Beati voi poveri” non ha un senso generico, ma ben determinato. Proclamando “beati” i poveri, Gesù non intende gratificare i miserabili di questo mondo, ma assicurarli che la loro indigenza è finita perché i suoi discepoli hanno scelto di condividere con loro quello che hanno. Discepoli!... Cristiani!... Penso all’umiliante beneficienza e alla facile filantropia di chi conteggia i propri beni e faticosamente mette via il superfluo per elargirlo e tacitare una coscienza sempre più addormentata dal grasso benessere. Ostacolo alla sequela di Gesù e all’ingresso nel regno, è la ricchezza. Non solo il possesso, ma lo stesso desiderio è causa di fallimento per il discepolo (“l’inganno della ricchezza” Mt 13,22). Ma torniamo, dopo questa antipatica omelia, alle nostre belle tavole, ai cenoni, alle feste di compleanno, alle prime comunioni ove molte famiglie si sono indebitate pur di invitare tanti ospiti. Torniamo dalla Messa domenicale ai nostri progetti di ampliamento di case e appartamenti, di auto nuove, di cellulari più sofisticati, di televisori al plasma, di computer, di borse e maglioni firmati. Evitiamo di rovinarci il quotidiano con progetti irrealizzabili, evitiamo di entrare dentro la Parola di Dio che giace ammuffita in libreria (Nella Bibbia di Gerusalemme, la più venduta, la più commerciale, andate a leggervi il commento alla prima beatitudine. Sì, anche lì, nelle ultime righe, proprio le ultime, giù in fondo, c’è l’ammissione che Gesù inviterebbe proprio a farsi materialmente poveri), e piantiamoci dinanzi all’ennesimo dibattito televisivo: Lady D è stata vittima di un complotto? Febbraio 2008 D i a c o n a t o 29 Diacono Pietro Latini Domenica 9 dicembre u.s. si è tenuto presso Villa Mater Dei in Lariano l’incontro dei diaconi, degli aspiranti al diaconato e delle loro famiglie; ha presieduto il Vescovo. Tutta la giornata è stata improntata alla riflessione sul diaconato come vocazione, sull’importanza di questo ministero nella vita della chiesa e sulle conseguenti responsabilità personali degli ordinati. Il vescovo in mattinata nell’omelia ha messo in relazione la figura di Giovanni Battista “che preparava le strade del Signore” con la figura del diacono che prepara le strade dei cuori a ricevere l’annuncio del Signore; i relatori nel pomeriggio hanno insistito sulla necessità di requisiti forti per la preparazione al diaconato. È stata una giornata bella e proficua che ha lasciato spazio e tempo ad una serie di domande tutte articolate tra loro: perché tanto rigore nelle ordinazioni diaconali? Se la preparazione deve essere uguale o simile per tutti, perché ordinare alcuni sacerdoti ed altri diaconi? Oltretutto i sacerdoti potrebbero essere più efficacemente impiegati nel ministero e potrebbero ricoprire un ventaglio più ampio di servizi. Perché sprecare tante energie sul diaconato a livello di preparazione, se poi ai diaconi è inibito l’accesso ad un ampio ventaglio di servizi? A che serve allora il Diaconato? A riempire i buchi vuoti? Oppure il grande impedimento è il matrimonio? Domande apparentemente superficiali che invece richiedono spiegazioni profonde perché la Chiesa non prevede scopi efficientistici nella propria azione, ma è tutta proiettata verso la lettura dei segni che lo Spirito gratuitamente dona. Pensieri tratti dalle riflessioni del Cardinal Martini nel ventennale del ripristino del diaconato permanente nella diocesi di Milano ci aiutano ad approfondire la nostra riflessione su queste domande. Il Cardinale ricorda che il diaconato permanente è dono dello Spirito, che lo Spirito non segue le logiche dell’uomo e che alcune volte spira diversamente da come l’uomo si aspetta, come è accaduto nella diocesi di Brescia, dove il diaconato permanente è stato reintrodotto dopo che la Conferenza Episcopale Lombarda si era pronunciata negativamente. In merito a questo contrasto il Vescovo responsabile, ai curiosi che lo stimolavano in proposito, ha precisato di essersi semplicemente dimenticato della precedente contrastante direttiva. È stato così che, per una dimenticanza del Vescovo, il diaconato permanente è stato reintrodotto prima a Brescia, poi a Milano e quindi in tutta la Lombardia. Noi, però, pensiamo che nella decisione del Vescovo di Brescia ci sia stata non dimenticanza ma ispirazione di Dio. Così come noi pensiamo che non è stato per caso che proprio in quel periodo sia capitato arcivescovo della diocesi di Milano colui che sarebbe diventato poi il Cardinal Martini: il Cardinale tanto benemerito per la Chiesa e tanto innamorato del diaconato. Per il Cardinale il diaconato permanente deve essere reintrodot- to nella Chiesa senza troppe domande, semplicemente perché Cristo vuole così. È la ragione cristologica, che trae fondamento dalla sacra Scrittura e dalla Tradizione. Questa ragione è indiscutibile perché non può essere discusso il modello che Cristo ci ha dato: se non ci fosse il diaconato permanente la Chiesa non sarebbe la stessa. Il modello va applicato, non discusso; ciò nondimeno va capito, rispolverandolo dalle incrostazioni e dalle sovrastrutture che il passato dell’uomo ha apportato, per restituirlo alla Chiesa nelle forme che Cristo ha pensato. A questa ragione cristologica si aggiungono per completezza le motivazioni ecclesiologica, evangelica e ministeriale. La motivazione ecclesiologica marca il diaconato come irriducibile presenza della Chiesa in mezzo al popolo. Il diacono in quanto consacrato incarna la Chiesa; in quanto sposo e lavoratore è inescludibilmente presente nel mondo, perché lo sposo ed il lavoratore fanno parte integrante delle dinamiche del mondo. In una società secolarizzata che si dimentica di Dio e della Chiesa il diaconato permanente nella doppia immagine di uomo che incarna la Chiesa e di uomo radicato nel mondo continua a garantire al mondo la presenza di Dio oltre le dimenticanze dell’uomo. La motivazione evangelica segna il servizio del diacono permanente come servizio di gratuità. Il Diacono esprime nella società il precetto evangelico della gratuità: <<gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date>> (Mt 10,8). Nella Chiesa ci sono già i sacerdoti che si dona- no totalmente; ma nella società secolarizzata c’è bisogno anche di un altro tipo di gratuità, che sia più vicina, più tangibile. Che il sacerdote si doni totalmente e gratuitamente è atto eroico che il mondo capisce ed apprezza perché appartiene ad una sua scelta eroica e diversa; ma che un padre di famiglia si doni gratuitamente la sensibilità moderna spesso tarda a capirlo. Di questo il diaconato permanente oggi deve essere segno. Ma oltre il bello delle immagini della incarnazione e della gratuità, la ragione ministeriale si chiede: c’è posto oggi nella Chiesa per il diaconato permanente? <<Che cosa fa il diacono che non possa fare il laico in circostanze particolari>>? Si può rispondere in tanti modi e si possono cercare spiegazioni articolate. Penso però che la risposta migliore sia il rovesciamento della domanda: <<che cosa durante i secoli il sacerdote ha preso per sé, mentre invece era dovuto al diacono?>>. È la domanda che il Cardinal Martini pone a se stesso ed alla riflessione della Chiesa. Solo così pensiamo possa restituirsi verità al diaconato e fulgore alla Chiesa. Resta da vedere se siamo capaci di questa purificazione. Febbraio 2008 30 S p i r i t u a l i t à L’”Instrumentum Laboris”1, documento base di studio, di riflessione, di riferimento per i Padri sinodali, si articola, come i “Lineamenta”, in tre parti, con un’introduzione ed una conclusione. Dopo il consueto sguardo alla situazione contemporanea (cf. I.L. 4-13), esso tratta del fedele laico nel mistero della Chiesa (cf. I.L. 14-33), e delle modalità, luoghi e ambienti della sua partecipazione alla missione della Chiesa di Cristo nel mondo (cf. I.L. 3478). L’”Instrumentum laboris” rappresenta il risultato delle risposte ai “Lineamenta” senza però esserne un vero e proprio riassunto.2 L’intero documento dichiara che il laico è considerato un cristiano in cammino verso la santità, sulla base della sua vocazione e con la propria originalità. La chiamata del laico trova la sua ragion d’essere proprio nel radicamento della sua esistenza sul modello cristologico dell’Incarnazione. Le vocazioni cristiane non sono qualcosa, per così dire, legata a dei carismi particolari, misteriosamente fatti avere a questo o a quel cristiano, attraverso questa o quella esperienza ecclesiale, ma sono tante forme personali d’inserimento nella storia, idonee a ripetere il modello cristologico dell’Incarnazione nel tessuto della vita quotidiana (cf. I.L. 35-36)A motivo di questa ampia prospettiva l’”Instrumentum Laboris” si presenta certamente come più ricco nei contenuti rispetto ai “Lineamenta”; in esso prevale più chiaramente il tema della comunione ecclesiale, più idonea a promuovere la spiritualità laicale: difatti essa lascia meglio vedere la figura del laico nella sua duplice relazione alla comunione con Dio e con il prossimo. Più esplicitamente egli è chiamato alla comunione on la Trinità e con la Chiesa; la risposta è la missione di dilatare la comunione ecclesiale a tutti gli uomini. In tale contesto L’”Instrumentum Laboris” riprende l’affermazione conciliare dell’indole secolare del laico fedele (cf. LG 31), sebbene lo faccia con pochi riferimenti3, tuttavia sufficienti a farcene comprendere tutto il valore. “Infatti, l’indole secolare dei fedeli laici li rende attori particolarmente attendibili nella missione della Chiesa nel mondo; essi la vivono partecipando a tutte le realtà di cui è tessuta l’esistenza degli uomini. Sono così necessariamente coinvolti nelle complesse dinamiche della storia contemporanea”4. Per realizzare questo programma l’”Instrumentum Laboris” esige per il laico cristiano “la partecipazione, in un determinato modo, ai tre uffici di Cristo, inaugurata dal battesimo, accresciuta dalla Confermazione ed esercitata pienamente grazie all’Eucarestia”5. A tal fine, il documento domanda ai Pastori della Chiesa di preoccuparsi di offrire ai fedeli laici”la possibilità di una formazione permanente con approfondimenti in diversi campi (biblico, teologico, mora- le, liturgico, spirituale). Così i fedeli laici potranno affrontare con spirito cristiano le loro responsabilità sociali, economiche e politiche e inculturare il Vangelo nelle situazioni particolari della loro vita quotidiana”.6 L’importanza riconosciuta alla formazione dei laici cristiani ha spinto il documento presinodale a proporre la creazione di nuovi centri per lo sviluppo e la crescita della vita spirituale dei laici. Il documento, inoltre, presenta alcuni luoghi della formazione laicale: Il primo e il più importante è la famiglia, perché in essa si compie la prima esperienza d’amore, di perdono e di gioia; Il secondo luogo educativo è la parrocchia, come pure le diverse comunità e le diverse associazioni cristiane (azione cattolica, movimenti), che costituiscono per tutti i fedeli laici, soprattutto per i giovani, un ambiente familiare di grande valore per l’autentica crescita della coscienza ecclesiale; Il terzo luogo formativo è costituito dalla scuola, dai collegi, dalle università cattoliche: per ogni età e grado di cultura, essi contribuiscono ad una formazione profonda, integrale e dinamica. Ai fedeli laici mancherebbe l’alimento necessario per corrispondere alla loro vocazione e missione ecclesiale se non avessero un’intensa vita spirituale e un’autentica formazione; lo spazio concreto che essi occupano nei diversi ambiti della vita, fa capire quanto sia urgente una vita spirituale cristocentrica, fondata sul mistero dell’incarnazione e frequentemente alimentata dal memoriale eucaristico. In tale ottica l’”instrumentum Laboris” sostiene che “il sacrificio eucaristico deve occupare il posto centrale nell’esistenza di ogni fedele laico; questi vi partecipa attivamente sia nella celebrazione eucaristica sia nella vita quotidiana, offrendo a Dio Padre tutta la sua giornata terrena in unione di carità col sacrificio di Cristo”7. Da questa sorgente di santità, ne deriva che il laico amerà la Chiesa come luogo della sua pienezza umana e della sua salvezza. Il laico ama la Chiesa storica, quella che incontra nella sua vita quotidiana, con i suoi volti, i suoi problemi, le sue luci e le sue ombre: è qui che si realizza la salvezza degli uomini. A tale riguardo A. Faivre afferma nel suo libro “I laici alle origine della Chiesa” che “I laici sanno ormai di avere un posto e un ruolo da sostenere nella Chiesa di oggi”8. Inoltre il cristiano ama il mondo, opera del Signore affidata agli uomini. Egli ama e non può non amare la gente, cioè tutte le persone nelle quali riconosce il volto nascosto di Cristo. L’”Instrumentum Laboris” sostiene in generale che questa spinta in positivo, offerta al laicato perché cresca nella sua spiritualità, ha avuto origine dal Vaticano II e sta oggi manifestando tutta la sua forza feconda e aperta a nuovi sviluppi; difatti nella Chiesa di oggi la vocazione e la missione dei laici vengono riconosciute in modo più esplicito e concreto. Tale situazione è frutto dell’ecclesiologia di comunione e dell’impostazione della “lumen Gentium” riguardo alla comune dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, alla comu- Febbraio 2008 ne grazia dei figli, alla comune vocazione e alla propria perfezione (cf. LG 32). Per questo tutti i laici cristiani, con la propria spiritualità, contribuiscono generosamente, mediante un crescente senso di responsabilità, alle diverse espressioni della vita della Chiesa sia nel suo sviluppo interno, sia nel suo apostolato verso tutti. Dal dibattito sinodale,avente come traccia di base l’”Instrumentum Laboris”, mi sembra opportuno ricavare queste tre conclusioni importanti: Il laico cristiano, all’interno del popolo di Dio che è nel mondo, assume in maniera più specifica la dimensione secolare della Chiesa; ciò richiede che il laico, ricercando la santità, non trascuri nessun campo dell’attività umana. Il messaggio dei Padri sinodali al Popolo di Dio afferma: “Lo spirito ci fa scoprire più chiaramente che oggi la santità non è possibile senza impegno per la giustizia, senza solidarietà con i poveri e gli oppressi. Il modello di santità dei laici deve integrare la dimensione sociale della trasformazione del mondo secondo il piano di Dio”9. La partecipazione attiva del laico alla vita della Chiesa deve essere soprattutto comunitaria; occorre però rifuggire dal clericalizzarla mediante un’effettiva moltiplicazione dei ministeri che possono essere loro affidati. Oggi è necessario andare incontro alla richiesta del laico aiutandolo nella crescita costante della propria vita spirituale. Difatti leggiamo nel “Messaggio al Popolo di Dio”: “I laici cristiani han- S p i r i t u a l i t à 31 no sete di vita interiore, di spiritualità, di partecipazione missionaria e apostolica. Ciò esige un processo di maturità alla luce della parola di dio ricevuta nella Tradizione della Chiesa e interpretata autenticamente dal Magistero e in una partecipazione sempre più fruttuosa ai Sacramenti. Tale crescita è alimentata dalla pratica della confessione e dalla direzione spirituale10. Il Sinodo dei Vescovi 1Cf. il testo in Caprile G., “Il Sinodo dei Vescovi è stato veramente aperto alla più affascinante, coinvolgente e fattiva ripresentazione della figura del laico cristiano, nella cornice dell’insegnamento conciliare sulla Chiesa come «mistero», come «comunione» e come «missione». Terminato il Sinodo sul laicato, il lavoro del nuovo Consiglio della Segreteria Generale del Sinodo, in vista dell’Esortazione Apostolica, è iniziato nel gennaio 1988. Una particolare Commissione aveva già preparato uno schema-base articolato in otto capitoli, che lasciavano intravedere l’impostazione generale basata sul trinomio «mistero – comunione - missione». Essi erano preceduti da un’introduzione che riaffermava la dottrina conciliare e descriveva la figura del “Christifideles” laico. La conclusione indicava in Maria il modello della Chiesa: mistero – comunione - missione. Inoltre ricordava la figura la figura dei santi laici11 e con- 27. 6 Caprile G., ibidem, 670, n°74. cludeva con un richiamo alla vocazione di tutti alla santità. Lo stesso Giovanni Paolo II desiderava che il testo riflettesse la ricchezza del Sinodo dando risposte alle attese pastorali, alle speranze apostoliche e spirituali dei fedeli laici. Il testo definitivo all’Esortazione Apostolica “Christifideles Laici” con la data del 30-12-1988, venne presentato ufficialmente a tutto il Popolo di Dio il 30-01-1989.12 Mara Della Vecchia Molti ricorderanno le scene del noto film Mission, del 1986, quando il gesuita padre Gabriel tenta un primo contatto con le popolazioni guaranì per mezzo del suono del suo oboe. Il celebre tema musicale, composto da Ennio Morricone, echeggia attraverso la foresta amazzonica e giunge al cuore degli indigeni guaranì, così inizia, nella vicenda narrata nella pellicola, l’amicizia tra padre Gabriel e la popolazione locale e la costruzione di una missione tra la natura selvaggia dell’Amazzonia. I padri gesuiti che partivano dall’Europa diretti alle missioni in America del sud, nel desiderio di convertire gli Indios al Cristianesimo, portavano con sé, nella lunga traversata dell’oceano Atlantico, non solo immagini e testi sacri, ma anche attrezzi da lavoro e soprattutto strumenti musicali perché sapevano che per mezzo della musica, avrebbero potuto più facilmente dialogare con popoli così diversi da loro e avvicinarli alla propria fede. Nelle “Reducciones” , le missioni, si cantava molto, con abilità e partecipazione, e durante le funzioni religiose i canti erano accompagnati da i più svariati strumenti musicali: provenienti dall’Europa e strumenti tradizionali locali. Così accanto al suono dei violini o delle arpe o dei clavicembali, risuonavano anche i più incredibili tipi di percussioni, sicuramente simili a quelli che oggi ritroviamo nei negozi di artigianato esotico. Dall’incontro della complessa musica barocca europea del XVII secolo con i canti degli Indios e il contributo dei ritmi africani, introdotti nel Nuovo Mondo dagli schiavi deportati dall’Africa, è nata una nuova musica bellissima, ricca di spiritualità e di sentimenti, che parla di gioia, ma anche di sofferenza e che purtroppo ha rischiato di scomparire quando cir- 1987”, 616-686. 2 Cf. Caprile G., ibidem, 616 n°2. 3 La LG è richiamata nell’”instrumentum Laboris” nei numeri 4, 16, 22, 25, 28. 4 Caprile G., “Il Sinodo dei Vescovi 1987”, 619, n° 4. 5 Caprile G., “Il Sinodo dei Vescovi 1987”, 641, n°25- 7 Caprile G., ibidem, 670, n°74. 8 Faivre A., “I laici alle origini della Chiesa”, Paoline, Cinisello Balsamo (Mi). 9 Sinodo dei Vescovi (1987), “Sui sentieri del Concilio. Messaggio al Popolo di Dio”, E.V. 10. 2221. Devoniane, Bologna 1990. 10 Sinodo dei vescovi (1987), ibidem, E.V. 10, 2232. 11 Cf. Semeraro M., “Con la Chiesa nel mondo, cit., 156 nota 54 “nel corso del Sinodo Giovanni Paolo II procedette alla canonizzazione del laico Giuseppe Moscati (25-10-1987) e di 16 martiri in Giappone nel sec. XVII, tra cui alcuni catechisti (18 ottobre). Il 4 ottobre 1987 Giovanni paolo II procedette alla beatificazione di tre giovani laici: Marcel callo (1921-1945) operaio francese martire; Pierina Morosini (19311956) bergamasca, vergine e martire;Antonia Mesina (1919-1935) sarda, vergine e martire”. 12 Per un commento all’Esortazione Apostolica, che tiene conto del dibattito sinodale, cf. Coughlan P., “Laici responsabili chiamati ad una comunione missionaria”, Ave Roma 1990. Il Volume si presenta come un compendio-commento della “Christifideles Laici”. Ogni capitolo contiene nella prima parte un fedele e ampio sunto dei paragrafi dell’Esortazione Apostolica ca 200 anni fa i gesuiti furono costretti ad abbandonare per sempre le loro missioni nel continente americano. Fortunatamente, nel corso del XX secolo si è sviluppato un grande interesse per la musica etnica che ha visto impegnati, alla riscoperta delle musiche popolari dimenticate, molti ricercatori musicologi e ciò ha favorito anche il recupero di questa musica preziosa, proprio perché frutto del desiderio degli uomini di incontrarsi e comprendersi. Durante il XVII e XVIII secolo le missioni dei gesuiti furono visitate da molti viaggiatori europei e tra questi, sicuramente, molti musicisti i quali con certezza lasciarono il loro contributo alla nascita delle tante musiche che venivano eseguite nella vita quotidiana delle missioni, sia durante il lavoro che nelle celebrazioni liturgiche. Tornando al film Mission, nelle ultime scene della pellicola, dopo la distruzione della “Reducciòn” di padre Gabriel da parte dei coloni portoghesi, tra resti semidistrutti trascinati dal fiume, si scorge un violino, quasi un simbolo dell’opera svolta in quei luoghi grazie alla musica e un violino, che era stato veicolo di comunicazione e conoscenza reciproca da gente diversa, può continuare ad esserlo. 32 D i r i t t o e M a t r i m o n i o Fin dall’inizio del secondo millennio, il principio dell’assoluta indissolubilità del matrimonio cristiano non appare soggetto a particolari contestazioni. Nella discussione scolastica sul momento costitutivo del vincolo coniugale si suppone assodato il principio dell’indissolubilità. Per la scuola di Parigi (Pietro Lombardo) il vincolo viene costituito nella sua totale fermezza nel momento dello scambio del consenso; quindi, a partire da tale momento costitutivo, il matrimonio diventa assolutamente indissolubile. Per la scuola di Bologna (Graziano), invece, il vincolo non è pienamente costituito se il matrimonio non è consumato e, quindi, l’assoluta indissolubilità del matrimonio ha luogo soltanto nel matrimonio consumato. La sintesi dottrinale a cui si giungerà dopo mezzo secolo di serrata discussione costituisce la dottrina che sta alla base del magistero e della prassi della Chiesa, in materia matrimoniale: il sacramento del matrimonio consiste nel patto coniugale valido di due battezzati (matrimonio rato); tuttavia tale matrimonio non è assolutamente, ma solo relativamente, indissolubile se non è consumato, secondo quanto indicato dal can 1141 del CIC: «il matrimonio rato e consumato non può essere sciolto da nessuna potestà umana e per nessuna causa, eccetto la morte». Questa dottrina diventa comune tra i teologi e i canonisti verso la fine del sec. XII. I canonisti che a volte vengono citati quali sostenitori della dottrina secondo cui il papa potrebbe sciogliere il matrimonio rato e consumato si riferiscono a casi specifici di patologia del vincolo coniugale: matrimonio «ad tempus», «sub condicione», o celebrato con impedimento non dispensato o dubbiamente dispensato; che, oggettivamente, costituiscono casi di nullità. La dispensa di cui parlano non si riferisce allo scioglimento del vincolo del matrimonio rato e consumato, ma ad altri istituti canonistici, all’epoca non ancora sufficientemente definiti. Nei decenni precedenti il concilio di Trento, i teologi domenicani Gaetano e Catarino si posero il problema della dissoluzione del vincolo in caso di adulterio. Particolarmente il Gaetano (1469-1534), commentando il testo di Matteo, lo intese nel senso di un permesso a lasciare il coniuge adultero e a passare a nuove nozze. Ancora più convinto si manifestò il Catarino che difese questa opinione con maggiori argomentazioni. Nella stessa linea si espressero, infine, l’umanista Erasmo (1467-1536) ed il civilista Alciato (1482-1550). Il concilio di Trento dedicò al problema del divorzio un’attenzione particolare, già a partire dalle prime discussioni, iniziate a Bologna nel 1547, fino all’approvazione dei canoni riguardanti il matrimonio, avvenuta a Trento, l’11 novembre 1563. Opponendosi alle dottrine degli innovatori, il Tridentino sancisce che il vincolo matrimoniale non può essere sciolto dal coniuge per causa di eresia, di molesta coabitazione o di affettata assenza (sess. XXIV, can. 5 DS 1805). Relativamente alla questione dell’adulterio, il concilio cercò una formula che affermasse la dottrina cattolica, sen- Febbraio 2008 za condannare quei padri e teologi cattolici che, in forza della clausola matteana, avessero affermato un’opinione contraria. Il can. 7 colpisce con l’anatema «chiunque affermi che la Chiesa sbaglia quando ha insegnato ed insegna, secondo la dottrina evangelica ed apostolica, che il vincolo matrimoniale non può essere sciolto a causa dell’adulterio dell’altro coniuge» (can. 7 DS 1807). Tale formula ha dato adito alle più svariate interpretazioni, tendenti in prevalenza a dare al canone un peso dogmatico che oggettivamente non ha. Tuttavia, come afferma l’enciclica Casti connubii di Pio XII, se la Chiesa non sbaglia quando ha insegnato ed insegna, secondo la dottrina evangelica e apostolica, che il vincolo matrimoniale non può essere sciolto in caso di adulterio, è proprio perché questo insegnamento corrisponde alla verità di tale dottrina. Inoltre, prosegue l’enciclica, se il vincolo matrimoniale non può essere sciolto nemmeno in caso di adulterio, a maggior ragione non potrà essere sciolto per cause di minore gravità. Dopo Trento, specialmente nei due ultimi secoli, vescovi, sinodi diocesani, conferenze episcopali, concili particolari, romani pontefici e particolarmente il Vaticano II, hanno ribadito in un’infinità di documenti e di espressioni questa dottrina dell’assoluta indissolubilità del matrimonio rato e consumato tra due battezzati, mentre gli altri matrimoni, dati determinati presupposti, possono essere sciolti in forza della potestà del romano pontefice per il bene delle anime (cfr. cc. 1142-1150 del CIC). Tale dottrina fonda legislazione e prassi amministrativa e pastorale della Chiesa in materia. Un ultimo punto da chiarire, per comprendere l’esatta portata dell’insegnamento magisteriale, è la distinzione tra intrinsicità ed estrensicità dell’indissolubilità del vincolo coniugale, distinzione non operata dal concilio di Trento. I citati canoni 5 e 7 puntavano, infatti, solo contro la dottrina degli innovatori, i quali insegnavano che il matrimonio veniva sciolto per il fatto stesso dell’adulterio, oppure dal coniuge in caso di eresia, molesta coabitazione o affettata assenza. L’indissolubilità intrinseca esclude proprio questa forma di dissoluzione del vicolo matrimoniale, vale a dire la dissoluzione per volontà dei contraenti, senza l’intervento dell’autorità pubblica. Dopo Trento, il magistero ecclesiastico, nella grande varietà delle sue manifestazioni, si preoccupò, soprattutto, di definire i limiti della potestà di intervento della Chiesa sul vincolo coniugale, più che operare, in concreto, una distinzione tra indissolubilità intrinseca, ingenerata dal momento consensuale costitutivo del vincolo, ed indissolubilità estrinseca propria del suo perfezionamento. In questa difficile materia, fin dalla prima riflessione teologico-canonica, si profilano due distinzioni fondamentali: la prima, fra il matrimonio di due persone battezzate; la seconda fra il matrimonio di due battezzati non consumato e quello consumato. Con la maturazione della dottrina e della terminologia, la prima distinzione si consoliderà Febbraio 2008 nella distinzione fra matrimonio non rato e matrimonio rato; la seconda darà luogo alla distinzione tra matrimonio rato non consumato e matrimonio rato e consumato. Due fatti sono, dunque, determinanti: il battesimo dei due coniugi, in forza del quale il matrimonio diventa sacramento (can 1060, 1), e la consumazione del matrimonio-sacramento in forza della quale i coniugi diventano «una caro» esprimendo, nella loro vita, l’unione sponsale di Cristo con la sua Chiesa. Il contesto applicativo della potestà ecclesiale di scioglimento del vincolo coniugale è costituito da tutte le situazioni che rientrano nel privilegio petrino ed in quello paolino (cc. 1141 e 1143 del CIC). Il primo fa riferimento alla potestà primaziale del romano pontefice di sciogliere, ai sensi del can. 1141, il matrimonio rato, quindi il matrimonio celebrato tra due battezzati, che non sia consumabile, «modo humano», mediante copula, per difetti psico-fisiologici, inerenti la loro sfera personale e, pertanto, non possa diventare estrinsecamente indissolubile. In questo caso, il matrimonio, pur acquistando in virtù della sua sacramentalità il carattere dell’indissolubilità (indissolubilità intrinseca), può essere sciolto dalla suprema autorità della Chiesa, dal momento che viene a mancare la condizione di perfezionamento del vincolo costituito mediante consenso: la possibilità di perseguire la duplice finalità unitiva e procreativa sottesa dalle proprietà essenziali che strutturano il patto coniugale (can. 1056). Il privilegio paolino fa, invece, riferimento alla possibilità, per l’autorità della Chiesa, di scogliere, ai sensi del can. 1143, il matrimonio non sacramentale (non rato) quello, cioè, contratto da due non battezzati in cui una delle parti abbia successivamente ricevuto il battesimo e l’altra, legittimamente interpellata, ai sensi del can. 1144, abbia rifiutato di riceverlo e non sia dimostrata nemmeno disponibile a proseguire la coabitazione pacifica con il coniuge battezzato. Anche in questo caso il riconoscimento della possibilità di scioglimento del vincolo appare chiara: permettere alla parte battezzata di vivere in pienezza, secondo le esigenze della fede riscoperta, una dimensione di vita, quale è quella coniugale, chiamata a configurarsi sempre più come via del suo progressivo cammino verso la salvezza, nella prevenzione di ogni possibile conflitto di coscienza tra dimensione interiore della ricerca individuale e dimensione esteriore delle aspettative sociali. Il controllo che l’autorità della Chiesa esercita sul vincolo coniugale non è, dunque, esercizio di un potere dispositivo su un bene di cui la stessa Chiesa risulti proprietaria, ma forma di un servizio finalizzato a far emergere sempre di più la pienezza delle potenzialità di uno stato di vita destinato a colmare la sete di felicità di coloro che in esso sono chiamati dal Signore, fin dall’eternità, ad abbandonare tutto per diventare una cosa sola, secondo le bellissime parole della Genesi: «l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due saranno una sola carne». Tale è, per gli sposi, il significato profondo dell’indissolubilità del patto contratto: essere nel mondo segno di questo amore eterno. E c u m e n i s m o 33 “Dio, l’uomo, e la tutela del creato” La Commissione per “L’ecumenismo e il dialogo” Università Gregoriana. della Conferenza Episcopale del Lazio presieduta Il confronto franco fra le diverse concezioni relada S.E.Mons.Giuseppe Petrocchi, vescovo di Latina- tive al rapporto fra Dio, l’uomo, il creato - in vista Terracina-Sezze-Priverno, ha posto in agenda il della sua tutela - condurrà i partecipanti e gli edu28 febbraio 2008, a Tivoli, un Convegno sul tema: catori ad una maggiore consapevolezza dei dif“Dio, l’uomo e la tutela del Creato”. L’assise ferenti approcci, nella pur comune e responsaraccoglie le suggestioni offerte da Benedetto XVI bile preoccupazione necessariamente orientata in occasione della Giornata mondiale per la pace, anche alle future generazioni. Ad esse e per esse, il 1 gennaio scorso, a considerare la terra come Papa Benedetto, nella sua omelia in occasione nostra casa comune, necessaria alla famiglia uma- dell’agorà dei giovani italiani, il 2 settembre 2007, na per intesservi le sue relazioni. Essere comu- si è espresso con chiarezza, ricordando come “uno nità di pace, non può prescindere dalla cura del- dei campi nei quali è urgente operare, è senz’altro l’ambiente: “Esso è stato affidato all’uomo, per- quello della salvaguardia del creato”, a proposiché lo custodisca e lo colto del quale, “occorre tivi con libertà responsaadottare scelte coraggiobile, avendo sempre come se che sappiano ricreare Convegno delle criterio orientatore il bene una forte alleanza tra Diocesi del Lazio di tutti”. Il Papa ha voluto Giovedì 28 febbraio 2008 l’uomo e la terra”. esplicitare al contempo una Nel pomeriggio, in una proTivoli Terme priorità ed un atteggiamento spettiva ecumenica, e sapiente, fuggendo ogni deriquindi di solo confronto fra va che consideri la natura materiale o animale le confessioni cristiane, avrà luogo una tavola rotonpiù importante dell’uomo ed evitando accelera- da che porrà a tema “la responsabilità dei cristiani zioni ideologiche che penalizzino i poveri, esclu- per il creato”. La complementarietà o le differenze si in molti casi dalla destinazione universale dei fra cattolici, ortodossi ed evangelici, risulterà dal beni del creato, e distribuendo con giustizia i costi dibattito animato da Thierry Bonaventura deldella tutela dell’ambiente. La riflessione saggia la CCEE (Consiglio delle Conferenze Episcopali e ponderata delle decisioni concertate in vista di d’Europa), Valdo Bertalot, Direttore della uno sviluppo sostenibile debbono “rafforzare quel- Società Biblica Italiana, e l’Archimandrita l’alleanza tra essere umano e ambiente che deve Evanghelos Yfantidis, del Patriarcato Ecumenico essere specchio dell’amore creatore di Dio, dal di Costantinopoli. Dalla festa del Creato, il I setquale proveniamo e verso il quale siamo in cam- tembre, alle proposte emerse nell’oikumene euromino”. peo, alle indicazioni proprie a ciascuna tradizioA rendere ragione di questa visione cristiana e ne, docenti IRC, parroci, catechisti, insieme a stucattolica, S.E. Mons. Gianfranco Ravasi, denti universitari e giovani delle scuole Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, superiori potranno beneficiare di questa suggededicherà la prima delle relazioni della mattina, stiva e articolata riflessione, irrinunciabile se s’intraendo spunto dall’Epistola di S.Paolo ai Romani tende guardare al presente e al domani in una (cap.8). Il gemito della creazione nell’attesa del- prospettiva più serena e vivibile per tutti. la rivelazione dei figli di Dio, ne è il motivo por- E’stato richiesto al Ministero dell’Istruzione, dell’Università tante. Questa prospettiva biblica e spirituale sarà e della Ricerca (MIUR) l’esonero dal servizio messa a confronto con la visione ebraica del crea- per i docenti di ogni ordine e grado di scuoto, tratteggiata dal Rabbino Capo di Roma, Riccardo la. Il Convegno è riconosciuto dalla Pontificia Università Di Segni. “L’Islam e le risorse della terra”, costi- Lateranense quale corso di aggiornamento valituirà viceversa il fuoco della riflessione del Prof. do per l’attribuzione dei crediti scolastici. Adnane Mokrani, docente presso la Pontificia Febbraio 2008 34 Antonio Venditti L’immagine che i mass media presentano della scuola non aiuta certo a conoscere la realtà e non contribuisce allo sviluppo di quel processo di rinnovamento che abbiamo sempre indicato come fondamentale ed irrinunciabile. Televisioni e giornali, nel riferire la cronaca di momenti di crisi contrassegnati da episodi spesso di inquietante gravità, ne enfatizzano la portata al solo scopo di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica, molto sensibile ai problemi del sistema scolastico, ma nulla fanno per analizzare la complessa realtà e per chiarire che, in molti casi, la scuola non è propriamente la causa ma piuttosto l’effetto di “mali”, che hanno origine nella famiglia e nella società. Inoltre si dà quanto meno l’impressione che i fatti indicati riguardino non soltanto quella determinata scuola , in una realtà locale ben circoscritta, ma tutta la scuola in generale, come se non esistessero, ed in prevalenza, realtà scolastiche positive, di cui non si parla, perché non fanno notizia. Dico questo, non per “giustificare” o per coprire disfunzioni ed errori, che sempre ho denunciato e continuerò a denunciare, con proposito costruttivo e con “amore” per la scuola, che è una realtà grande ed importante che nessuno può permettersi di ridicolizzare e di infangare, perché da essa dipende il destino delle nuove generazioni. Con tale spirito si devono considerare le “immagini”, purtroppo deteriori, che emergono dalla presentazione dei mezzi di comunicazione di massa, che, pur con i limiti, le contraddizioni e le esagerazioni che sopra ho indicato, possono stimolare gli operatori scolastici ad essere più cauti e prudenti nella pratica educativa, a prevenire certi fatti, non certo esaltanti, per evitare il turbamento delle coscienze ed anche la conseguente divisione e contrapposizione tra fautori del “rigore” e della “tolleranza” in campo educativo. Le stesse “esternazioni” dei politici e dei responsabili a livello amministrativo dell’ordinamento scolastico non contribuiscono a prendere coscienza della sostanza dei problemi, perché si limitano ad esprimere un’opinione sul fatto del giorno, con un giudi- zio immediato sulle presunte responsabilità. Annunciano severe “punizioni” ma esaltano anche operatori ritenuti “diligenti”. Al termine dello scorso anno scolastico, lo stesso Ministro della P.I. ha elogiato un dirigente scolastico, salito alla ribalta della cronaca, per il suo “rigore” nel fronteggiare una situazione che non era affatto eccezionale e che, a mio avviso, aveva prodotto un’ eccessiva quanto inopportuna “autoesaltazione” dello stesso protagonista in una intervista televisiva. Come se il caso fosse stato unico e non fosse specifico compito del dirigente di un’istituzione scolastica prevenire i conflitti, anche con le famiglie “difficili” - cosa che non mi sembra il suddetto abbia fatto nella situazione specifica e poi gestirli con il massimo equilibrio e con la massima riservatezza possibile, per raggiungere i due obiettivi irrinunciabili : la tutela di ogni ragazzo/a, soprattutto se in difficoltà, e il recupero della collaborazione con la famiglia, in un rapporto schietto e reciproco di fiducia. Altri dirigenti si sono vantati di aver risolto per “primi” e prima ancora della disposizione ministeriale il problema dei “telefonini in classe”, cosa che , in realtà, era avvenuta come misura educativa per tutti docenti compresi - in tante scuole, senza bisogno di informare Ministro, giornali e televisione. All’inizio del presente anno scolastico, un altro dirigente è salito alla ribalta, per aver formato una “classe di ripetenti” (la deprecata “classe differenziale” di tanti anni fa) presentata come un’innovazione “pedagogica”, perché favorirebbe - a suo dire - il recupero di alunni/e; è invece evidente la divisione anacronistica degli studenti in “bravi” e “somari”, senza rispetto delle persone e del principio della comunità “educante” , nella quale si sviluppano gli itinerari personalizzati di formazione; e pertanto i genitori che giustamente si sono opposti, tutelando i diritti dei loro figli ad un sano ambiente educativo senza discriminazioni, hanno dimostrato maggiore sensibilità “pedagogica”. Televisione e giornali sono altresì parziali e superficiali nello scegliere e nel presentare fatti e personaggi del mondo scolastico, con criteri discutibili se non clientelari e basati sulla segnalazione di qual- cuno “influente”, anche se in una cerchia ristretta, senza voler scomodate, come talvolta si fa, le alte gerarchie. Il risultato è che non si dà una corretta informazione, non contribuendo né alla formazione imparziale dell’opinione pubblica, né a stimolare la scuola a prendere coscienza delle difficoltà ed a superarle adeguatamente. Anche sulla tanto declamata necessità di controbilanciare i fatti negativi con fatti virtuosi, bisogna evitare una scelta di quest’ultimi affidata a cronisti frettolosi o troppo sensibili a segnalazioni di parte, perché rientra nella norma il buon andamento della vita scolastica e semmai deve essere l’eccellenza, oggettivamente comprovata, a determinare il “diritto” ad essere proposta, sulla scena nazionale, come esempio da imitare e comunque da accettare come stimolo all’automiglioramento continuo. Talvolta, invece, nel Telegiornale seguito da milioni e milioni di telespettatori, il telecronista con espressione compiaciuta presenta episodi di vita scolastica che sono ben poca cosa, rispetto alle questioni di grande rilievo e quindi di vero interesse, e non sono nemmeno indice della validità complessiva di quella singola istituzione di paese o di città. Ultimamente si è dato risalto al “telegiornale” preparato da alunni/e di una quarta elementare, presentandolo addirittura come una “proposta innovativa” data dai piccoli scolari ai “grandi” giornalisti della televisione. Ora, ad onor del vero, l’attività così esaltata aveva poco di “scolastico”, nel senso della libera espressione e dell’attivismo rettamente inteso, perché evidente era l’impostazione adultistica di maestri/e troppo influenti e desiderosi di fare bella figura, con troppi luoghi comuni, compreso il ripetuto appello alla pace, con tanto di “sigla” o canzoncina composta e cantata per l’occasione. Anche quando si riportano notizie sulle “innovazioni” ministeriali, trasmesse per “ordinanza” a tutte le scuole d’Italia di ogni ordine e grado, i giornalisti già nei titoli operano interpretazioni e sintesi non rispondenti alla “volontà” ministeriale, del resto spesso poco lineare, perché basata sulla logica del dire e non dire, del fare e non fare, con stravolgimento però anche di quel concetto di base più chiaro e comprensibile, sacrificato al tentativo ad ogni costo di dare una notizia “sensazionale”, inefficace se non addirittura dannosa sul piano della difficile pratica scolastica. Purtroppo la situazione non migliora quando il giornalista fa intervenire un addetto ai lavori, un dirigente o un docente, scelti non si sa come, i quali, spesso, non contribuiscono al chiarimento, forse perché non sufficientemente preparati e competenti e nemmeno forniti di una spiccata capacità espressiva. Allora possiamo concludere che la trattazione dei problemi scolastici richiede una grande prudenza da parte di tutti, con manifestazione più che di propositi e di parole, di fatti concreti nella gestione scrupolosa e nella quotidiana ricerca di soddisfacenti risultati. Per poter comprendere, all’esterno, la complessità del mondo della scuola, è bene porre l’attenzione sulle “autonome” istituzioni, che devono essere considerate nella loro capacità di influire nel tessuto culturale e sociale dell’ambiente in cui operano, con i risultati oggettivi che raggiungono. Febbraio 2008 D o t t r i n a S o c i a l e 35 Arch. Gianfranco Siniscalchi Così il pontefice Paolo VI, annunciò all’Angelus di Domenica, 11 settembre 1966 la visita a Carpineto e Colleferro Noi andremo quest’oggi a Carpineto, per onorare la memoria di Papa Leone XIII, che ivi nacque; il Papa dell’Enciclica «Rerum Novarum», della quale abbiamo quest’anno celebrato il 75° anniversario dalla sua pubblicazione. E poi Ci fermeremo a Colleferro, il più notevole centro industriale di questi dintorni; e vi celebreremo la Santa Messa per avere un incontro spirituale con la popolazione lavoratrice. È una semplice breve escursione, ma alla quale vogliamo attribuire un importante significato: quello d’invocare la benedizione di Dio su tutto il mondo del lavoro, affinché il progresso industriale ed economico sia accompagnato dal progresso sociale e morale; e affinché ancora i principi cristiani siano guida e forza per lo sviluppo moderno del nostro popolo, per la sua vera prosperità, per la sua concordia, la sua libertà e la sua pace. Maria, Madre di Cristo, renda efficaci i Nostri voti. Riportando la cronaca di quel giorno si intende testimoniare, così come traspare dal testo integrale dell’omelia la profonda conoscenza che Paolo VI ha del mondo operaio e dell’apporto che lo stesso Pontefice profuse alla Dottrina Sociale della Chiesa. Grazie, infatti, al fortuito rinvenimento di un documento dell’epoca (il periodico quindicinale L’UNIONE del 15 settembre 1966), che pubblicò integralmente l’omelia del Pontefice, si riesce a cogliere quei significati profondi della conoscenza umana e del mondo del lavoro di Paolo VI, contenuti nel discorso rivolto a tutti i lavoratori degli stabilimenti della Bombrini Parodi Delfino (B.P.D.) e della Calce e Cementi Segni di Colleferro. ( Cfr. Schede n.1, n.2 tratte dal periodico L’UNIONE del 15 sett. 1966 ) Attraverso la lettura del testo, di seguito riportato, si avverte la forte carica umana del Santo Padre nel trovare un posto all’interno delle coscienze degli operai, li presenti, che attendono, appunto, un aiuto, un atto di giustizia sociale, finanche la sola consolazione, da Colui che può e sa capirli, venuto appositamente, a testimoniare l’impegno della Chiesa verso il mondo operaio. Il discorso del Santo Padre Paolo VI agli operai Colleferro Domenica 11 Settembre 1966. ( Tratto dal periodico quindicinale L’UNIONE ) “Saluti, saluti a Voi: innanzi tutto al Vostro vescovo che è qui, al Vostro Parroco che ci dà l’agio di celebrare bene questa S. Messa, agli altri sacerdoti, alle religiose e poi anche a tutte le autorità civili, politiche, militari, scolastiche. So che tante illustri persone sono presenti e sappiano che io le saluto tutte e che per tutte ho un pensiero , una preghiera e una benedizione, così come per tutti quelli che promuovono il lavoro di questa Vostra città. Ma sapete intanto che è mol- to bella la Vostra città? E’ la prima volta che io la vedo, ma, siccome ne ho viste tante, il vedere questa mi dà davvero una impressione che potremmo dire simbolica: simbolo di che cosa? Dei tempi nuovi, dell’Italia nuova,delle generazioni nuove, di questo doloroso, faticato ma anche glorioso dopoguerra che ha visto risorgere il nostro Paese in opere grandi, buone, oneste e protese verso l’avvenire e che sta dando a questo nostro Paese una impronta, una fisionomia che non aveva in passato, e cioè una fisionomia industriale, del lavoro organizzato, dell’uomo che opera non da solo con le sue mani, ma con le macchine e tutti insieme; è il lavoro moderno. Ebbene lo vedo espresso in questa Vostra nuova città e a tutta la città do il mio saluto ed esprimo la mia compiacenza ed il mio augurio. Ma il grande saluto, il vero saluto è per voi, per voi lavoratori. Per voi sono venuto specialmente, voi siete l’oggetto principale della mia visita. Ho cercato qui d’intorno dove potermi incontrare con una bella espressione del mondo lavoratore ed eccomi a Colleferro. Viva Colleferro operaia.” “Ma il motivo della mia venuta voi lo sapete, è stato quello di tributare onore ad un mio grande predecessore Papa Leone XIII che nel 1891 e cioè 75 anni fa pubblicò un documento, di cui certo voi avete notizia e che si intitola “Rerum Novarum” ed è la grande enciclica che tratta della questione operaia, della questione sociale ed è stata la grande parola con cui la Chiesa, direi, si è impegnata alle Vostre questioni e dopo di allora non ha mai smesso di interessarsi delle vostre situazioni, dei vostri bisogni, delle vostre aspirazioni, delle vostre fatiche, delle vostre difficoltà , delle vostre lotte. Diciamo, in una parola sola, della vostra anima lavoratrice. Ed allora tutta la mia predica, tutto il mio discorso sta in questa semplice proposizione: perché sono venuto? La presenza lo dice, più che la parola: sono venuto per dirvi che la Chiesa ama il mondo del lavoro, ama i lavoratori, gli operai, tutti quelli che faticano secondo il modo con cui il lavoro moderno è organizzato e con la psicologia, le aspirazioni, i bisogni, le difficoltà che questo porta con sé. Sono venuto ad assicurarVi, ripeto, dell’affetto, della solidarietà, dell’interesse che la Chiesa ha per voi”. Passando quindi a parlare del messaggio sociale della Chiesa ha detto rivolgendosi agli operai: “La Chiesa vi conosce, noi vi conosciamo, noi desideriamo conoscervi, la Chiesa si è curvata sopra le vostre condizioni, la Chiesa ha esaminato i vostri problemi, la Chiesa ancora oggi studia le condizioni di vita in cui siete, sente spesso salire da Voi qualche rancore, qualche lamento, qualche aspirazione., sente tanti desideri e tante domande che dicono “non abbiamo ottenuto tutto e la società , se davvero vuole essere giusta, deve ancora considerare tante, altre nostre legittime aspirazioni”. “Ebbene, sappiate, sappiate tutti che la Chiesa vi conosce, che la Chiesa vi studia, che la Chiesa non ignora le vostre istanze, che la Chiesa le esamina con tutta la sua osservazione onesta e attenta, guarda in faccia le cose e cerca davvero di capirle, non soltanto nella facciata esteriore che può anche essere disciplinata e apparentemente ordinata, ma vi vede nel cuore, vi studia nel profondo della vostra psicologia, tante volte anche andando in mezzo agli operai. Voi sapete che io sono stato per diversi anni Arcivescovo di Milano e là mi è capitato tanto di girare in mezzo a officine, a laboratori , a stabilimenti, a campi di lavoro, ecc., e sapete, una delle cose che mi ha fatto sempre impressione è di vedere tanti volti di lavoratori silenziosi, muti, che non dicono nulla, che stanno ad osservare. Ma non è che non abbiano dentro qualche cosa, è che o non lo sanno esprimere o non lo vogliono esprimere, non si fidano, non si fidano della parola e non si fidano di chi li ascolta e restano quasi intimiditi, sono li e aspettano. Ebbene, guardate che questo vostro silenzio, questa vostra attitudine di attesa e quasi di timidezza, Noi la comprendiamo, Noi guardiamo dentro, Noi vediamo che cosa nascondete, tante volte il senso dell’ingiustizia. Chi ci rende giustizia? Chi ci dirige? Chi ci solleva? Ebbene tutti questi desideri sappiate che la Chiesa li comprende, che la Chiesa vede ed è questo un altro segno dell’affetto, dell’amicizia che la Chiesa ha per le classi lavoratrici. La Chiesa Vi difende, la Chiesa è la Vostra avvocata, la Chiesa cerca di essere la Vostra protettrice, la Chiesa fa sue le Vostre istanze, la Chiesa riconosce i Vostri diritti, la Chiesa difende la Vostra dignità e prende risolutamente, arditamente, le Vostre difese. Febbraio 2008 36 D o t t r i n a S o c i a l e La Chiesa è con voi. Non lo farà , figliuoli miei, con voce rivoluzionaria. E’ facile, sapete, fare la demagogia e dire le parole grosse e imprecare a destra e a sinistra. Non è facile invece prendere la difesa come si deve, cioè guardando le cose reali, giuste e possibili. Ma la Chiesa questo fa quando è convinta, e lo è, che Voi avete ragione, che Voi avete ancora da conquistare altri livelli sociali, sappiate che la Chiesa è con Voi. Guardate del resto quante opere la Chiesa ha generato per darvi questa certezza e per venire, non soltanto con le parole, ma col fatto, con l’opera, con l’efficacia e la organizzazione in vostro soccorso. Voi le conoscete le associazioni e le istituzioni che vengono al vostro livello, vengono al vostro fianco, vi danno la mano, dicono: lavoriamo insieme, stiamo insieme, facciamoci forti, la Chiesa fra i grandi diritti vostri che ha difeso considera quello di essere insieme di associarvi di essere forza, di essere popolo, ed è questa vostra volontà unitaria che vi rende davvero giustizia nelle vie del progresso sociale. Voi sapere che la Chiesa ve le viene spianando e viene schierandosi al vostro fianco per dire: questi operai, queste classi sociali, questi lavoratori, su questo sentiero diritto dell’ascesa al progresso della giustizia sociale, hanno ragione, ed Io sono con loro”. Il Papa si è quindi nuovamente riferito all’enciclica “Rerum Novarum”, ricordando ai fedeli che “sono le idee che guidano la vita, che fanno trionfare le cause, che tracciano i sentieri del destino. Vi è oggi una parola che corre per dire quello che io sto dicendo ed è la parola ideologia. Ebbene, la Chiesa vede quali sono le buone e vere ideologie. Guardate che sbagliare sulle ideologie è gravissimo, è importantissimo scegliere le ideologie che tengono, le ideologie veramente umane, le ideologie collaudate dalla esperienza e dalla storia, le ideologie su cui riposa la luce del Vangelo, la luce del grande, umanesimo e divinissimo Maestro, nostro Signore Gesù Cristo. La Chiesa vi parla e vi dice che cosa è veramente il valore della vita, la Chiesa vi parla e vi dice che cosa è veramente la dignità del lavoro, la Chiesa vi parla e vi dice cosa è in realtà la libertà umana e come la dobbiamo impiegare, la Chiesa vi parla e vi dice che cosa è questo mistero della fatica e del dolore che sembra una sorte maledetta sopra la nostra esistenza, mentre invece non è perché il Signore, assumendo per sé la più grande sofferenza che mai sia stata, la Croce, insegna che attraverso il dolore noi possiamo trovare la nostra nobiltà, la nostra virtù, la nostra redenzione, la nostra speranza e la nostra vita”. “Ebbene, la Chiesa vi dice queste parole e ve le dice non per una scienza che potrebbe essere contestata e contestabile, ma, ve le dice, con l’amore immenso che ha per Voi nel nome di Cristo e ve lo dice con l’autorità che appunto le viene del magistero di Cristo; e allora, figlioli miei, raccogliete questa sera questa paterna, amica parola che vi dico, ricordatela, meditatela, sappiate che la Chiesa vi vuole bene, che vi comprende, che la Chiesa non ha nessun interesse proprio, non ha nessuna aspirazione sopra di voi, non vi vuole dominare, non vi vuole, direi, inquadrare a suo talento. Vuole liberarvi, vuole risuscitarvi, vuole farvi comprendere quali sono i veri valori della vita, vuole ridarvi la gioia di essere insieme, non nell’odio, nella contesa, e nella lotta, ma nell’amore, nella concordia, nella speranza”. “Adesso – ha concluso Paolo VI – io ritornerò all’altare e pregherò per voi, per le vostre persone, per le vostre officine, per chi ha il merito di organizzare bene il lavoro, per chi vi dà la retribuzione alle vostre fatiche, ma specialmente pregherò per le vostre famiglie, per le vostre case, i vostri figlioli, per il vostro avvenire, per tutto Colleferro, città del lavoro”. La conclusione del discorso del Papa è stata accolta dagli interminabili applausi della folla, che si è quindi ricomposta ad ascoltare con devozione il rito della S. Messa. Più avanti hanno ricevuto la Comunione dal Santo Padre alcuni malati, rappresentanze dei lavoratori, dell’Azione Cattolica e di istituti religiosi femminili. Al termine della Santa Messa il Papa, prima di ricevere l’omaggio delle autorità e di rappresentanze dei lavoratori, ha annunziato al parroco il dono, a ricordo della sua visita del calice e dei sacri paramenti e una paterna offerta per i più bisognosi, mentre ha consegnato al Sindaco tre esemplari in oro argento e bronzo della medaglia commemorativa del LXXV della Rerum Novarum. Parole che commuovono, che illuminano, che consolano, che inducono a camminare nella giusta via, che ravvedono, che incoraggiano, parole che sca- turiscono dal cuore di un Padre presente che ti tende la mano per risollevare dalle fatiche di ogni giorno, mai inutili, perché rafforzano nella dignità personale e sociale il mondo operaio. Queste le intense emozioni, trasmesse da Paolo VI, in tutti i cuori dei convenuti, durante l’omelia della messa di domenica 11 settembre 1966. Le stesse vibrazioni non si percepiscono dalla lettura dell’omelia riportata nel sito internet, a cura della Santa Sede perché priva di alcune parti e del rapporto dialogico che il discorso diretto genera. Un’altra considerazione, che scaturisce dalla lettura integrale dell’omelia, è nella personalità del Papa Paolo VI che contrariamente a quanto la sua figura lasciava intravedere, colta, distaccata, azzarderei quasi “fredda”, qui, invece, assume la veste di un padre premuroso “ figlioli miei, raccogliete questa sera questa paterna, amica parola che vi dico, ricordatela, meditatela, sappiate che la Chiesa vi vuole bene, che vi comprende,......” Ancora, in altri passaggi il Pontefice mostra il suo grande amore disinteressato, volto solo al bene, alla giustizia ed alla difesa delle aspirazioni legittime degli operai “.... la Chiesa non ha nessun interesse proprio, non ha nessuna aspirazione sopra di voi, non vi vuole dominare,....” Viceversa la Chiesa, comunica Paolo VI “ .......Vuole liberarvi, vuole risuscitarvi, vuole farvi comprendere quali sono i veri valori della vita, vuole ridarvi la gioia di essere insieme, non nell’odio, nella contesa, e nella lotta, ma nell’amore, nella concordia, nella speranza”. In queste ultime parole sembra quasi profetizzare i futuri eventi della lotta operaia che a pochi mesi dal discorso Papale si scatena in tutti i paesi Europei. Dalla Francia, all’Italia ( “l’ottobre caldo” dei media “il ‘68” ), al Belgio, alla Gran Bretagna, alla Germania fino ad arrivare alla Spagna per rivendicare più equi trattamenti salariali, che arrivarono, comunque in ritardo dopo il boom economico 1957 /’67, a vantaggio, quindi, della sola classe imprenditoriale. Il Papa lo annuncia, avverte una tensione negli animi, comunica quanto percepisce con queste semplici parole: “ .............la Chiesa ancora oggi studia le condizioni di vita in cui siete, sente spesso salire da Voi qualche rancore, qualche lamento, qualche aspirazione., sente tanti desideri e tante domande che dicono “non abbiamo ottenuto tutto e la società , se davvero vuole essere giusta, deve ancora considerare tante, altre nostre legittime aspirazioni”. Ancora una volta questo ascolto, da parte del “padrone” manca ........... “i maggiori guadagni li tengo per me” sembra dire l’imprenditore, ed allora ecco i risultati prevedibili della lotta operaia per rivendicare i propri diritti, purtroppo anche con la violenza. Il messaggio della Rerum Novarum si fa nuovamente attuale e il Pontefice lo richiama dicendo che egli stesso è presenza tangibile del messaggio della D. S. C. “............... Ma il grande saluto, il vero saluto è per voi, per voi lavoratori. Per voi sono venuto specialmente, voi siete l’oggetto principale della misa visita. ..........“Ma il motivo della mia venuta voi lo sapete, è stato quello di tributare onore ad un mio grande predecessore Papa Leone XIII che nel 1891 e cioè 75 anni fa pubblicò un documento, di cui certo voi avete notizia e che si intitola “Rerum Novarum” ed è la grande enciclica che tratta della questione operaia, della quesitone sociale ed è stata la grande parola con cui la Chiesa, direi, si è impegnata alle Vostre questioni e dopo di allora non ha mai smesso di interessarsi delle vostre situazioni, dei vostri bisogni, delle vostre aspirazioni, delle vostre fatiche, delle vostre difficoltà , delle vostre lotte. La parola del Pontefice assicura i lavoratori del diretto coinvolgimento della Chiesa attraverso la Dottrina Sociale a difesa degli operai, dicendo “...... La Chiesa Vi difende, la Chiesa è la Vostra avvocata, la Chiesa cerca di essere la Vostra protettrice, la Chiesa fa sue le Vostre istanze, la Chiesa riconosce i Vostri diritti, la Chiesa difende la Vostra dignità e prende risolutamente, arditamente, le Vostre difese”. Febbraio 2008 M u s i c a / C i n e m a 37 Valentina Fioramonti La promessa dell’assassino (Eastern Promises) di David Cronenberg, con Naomi Watts, Viggo Mortensen, Vincent Cassel, Armin Mueller-Stahl, Raza Jaffrey, Radoslaw Kaim, Cristina Catalina, Alice Henley, Tamer Hassan, Gergo Danka, Olegar Fedoro. Usa – Gran Bretagna, 2008, drammatico, 100’. Thriller molto complesso, teso, ma allo stesso tempo bellissimo. Dopo “Ahistory of violence”, David Cronenberg firma un altro avvincente film sul peso che hanno le scelte sulla vita dell’uomo. Rispettando tutti gli stilemi del noir, la storia è ambientata in una Londra grigia, umida e deprimente, che toglie qualsiasi speranza a chi la sceglie come casa; i personaggi si muovono lenti, insicuri, e profondamente fragili, nello scenario che il destino ha tracciato per loro. Una giovane ragazza russa muore dando alla luce un figlio. L’ostetrica, Anna (Naomi Watts), ne traduce il diario alla ricerca dei parenti cui dare in affido il bambino. Scoprirà inquietanti rapporti con la mafia russa, giri di prostituzione e criminalità che rapidamente la stringono in una pericolosa rete. Durante le ricerche incontrerà il misterioso e ruvido Nikolai Luzhin (Viggo Mortensen), legato a una delle più note famiglie criminali di Londra. La famiglia è capeggiata da Semyon (Armin Mueller-Stahl), l’impeccabile proprietario dell’elegante ristorante transiberiano, la cui cortesia nasconde una natura fredda e brutale; le sue fortune sono amministrate dal figlio Kirill (un intenso Vincent Cassel), un uomo capriccioso e instabile, che è in realtà più legato a Nikolai che non C’era un tempo in cui la carne veniva considerata l’alimento energetico per eccellenza, adatta a nutrire guerrieri, i potenti che dalle armi e dalla forza fisica traevano legittimazione sociale. La carne era considerata il cibo ideale per tutti e, a maggior ragione, per coloro che erano chiamati a governare e ad essere forti. Il consumo della carne e l’uso delle armi erano strettamente connessi e posti sullo stesso piano. Una volta anche i poveri mangiavano la carne data l’abbondanza dei pascoli e selvaggina presente ovunque: ma quando iniziarono a sorgere nei vari principati e contee riserve e divieti di caccia e quindi quei territori furono riservati alle classi nobili, allora al popolo non rimase altro che sognarla e farla diventare ancora di più un “culto”. Nella quotidiana lotta contro la fame la carne rimase un miraggio al quale aspirare. Quello era il tempo in cui si diceva che i legumi erano “la carne dei poveri” con chiaro riferimento al contenuto energetico della carne.La cultura monastica esaltava ancora di più il valore della carne, che assumeva per la gente comune il significato di piatto “principe”. L’astenersi dal mangiarla aveva il significato di una “penitenza” e la cosa da cui ci si asteneva diveniva fonte di desiderio…”Il piacere della carne” era un concetto ben presente nella cultura e comprendeva tutto ciò che l’uomo poteva desiderare: la carne era fonte di vigore legata alla forza fisica e alla sensualità.”Mangiar magro” “Mangiar grasso” erano momenti temporali in cui si dividevano i periodi dell’anno, erano una classificazione sociale e un modo al suo vero padre. Nikolai conduce la sua vita con estrema prudenza, ma l’incontro con Anna lo porterà a riconsiderare alcune sue scelte e il suo ruolo all’interno della criminalità russa. È un uomo combattuto: gentile ma anche brutale, duro e freddo, ma che mostra una qualche bontà d’animo, anche se con tantissima difficoltà. È un uomo che vive in un mondo complicato, che cerca di aiutare persone che non sono in grado di gestirsi da sole. Ma lo sforzo maggiore in cui è impegnato Nikolai è quello di rimanere comunque un essere umano all’interno di una realtà a volte disumana. Questo film è forse uno dei lavori stilisticamente meglio riusciti di Cronenberg. La fotografia che vira sul rosso e il nero; i ritmi lenti e sospirati; l’atmosfera sospesa in cui si muovono i protagonisti, costruiscono un mondo disturbante e precario. Il tutto consente la messa in scena dell’ossessio- di concepire l’alimentazione. Sognata come simbolo di benessere e riscatto sociale, poi snobbata per le sue virtù proteiche, messa in discussione dai vegetariani, animalisti e dietologi oggi recupera in cucina tutta la sua grandezza: quando si parla di convivialità della tavola, del “piacere”, la carne affiancata ad un buon bicchiere di vino, è sempre presente. In ebraico il termine che definisce la carne è basar e può essere usato anche per definire il concetto più generico di corpo. In alcuni testi indica unicamen- ne per il corpo – uno dei topoi più ricorrenti nelle opere del regista – come superficie d’iscrizione della propria memoria, luogo in cui rimangono visibili tutte le tracce del nostro passato. I protagonisti sembrano racchiusi nei propri corpi, attraverso i quali lasciano trasparire una profonda inquietudine esistenziale. Al centro della riflessione di Cronenberg, come accadeva in “A history of violence”, la questione morale: il comportamento dell’ uomo nel momento in cui il suo mondo, regolato dalla bugia e dal delitto, si scontra con quello cosiddetto “normale”. Da sempre attento scrutatore del corpo per ricercarne all’interno la vera essenza dell’uomo, Cronenberg indugia sul valore dei tatuaggi, sulle ferite, sul suono delle armi da taglio a contatto con la pelle, supportato da una lucidità e una maestria registica insuperabili. Splendida a questo proposito, la scena clue del film, in cui Viggo Mortensen combatte nudo in un bagno turco contro due mafiosi: la sequenza è una delle migliori scene d’azione degli ultimi anni per la capacità che ha di trasmettere il senso di violenza, sofferenza e resistenza di cui è capace il corpo umano. Una scena, questa, che andrà ad arricchire il lungo elenco di scene memorabili che Cronenberg ha saputo donare al cinema: dalle allucinazioni massmediali di “Videodrome” (1983) agli scontri automobilistici di “Crash” (1996), passando per il delirio paranoico de “Il pasto nudo” (1991) prima e di “Spider” (2002) dopo. Antihollywoodiano per eccellenza, Cronenberg è il re della fenomenologia della mutazione umana, che ha saputo dimostrare che si può tenere il pubblico con il fiato sospeso centellinando le scene d’azione e facendo tranquillamente a meno degli effetti speciali. te la parte carnosa del corpo, in altri passi acquista un significato estensivo, e designa il corpo nel suo insieme quindi l’individuo completo, l’essere vivente. Essendo la carne legata al concetto di discendenza fisica, talvolta il termine viene usato, in senso ovviamente eufemistico, al posto di genitali e in maniera più specifica per la sua accezione maschile. Attraverso questo termine si sviluppa anche il concetto di affinità di sangue e quindi di appartenenza, leggiamo spesso nel testo “ Tu sei mie ossa e mia carne” e a questo proposito ricordiamo quanto disse Abimelech in visita ai fratelli della madre “Io sono vostro osso e vostra carne” (Gdc 9,2). La dichiarazione di fedeltà delle tribù al re Davide ci dice testualmente “Ecco, noi ci consideriamo come tue ossa e tua carne” (2Sam 5,1) proprio per sottolineare il legame con il capo. Già dall’inizio della storia biblica si parla di carne in relazione al decadimento generale di costumi, infatti leggiamo nella Genesi che “ Ogni carne aveva corrotto la sua condotta sulla terra” (Gen 6,12) , laddove si dice “ogni carne” dobbiamo considerare che il testo biblico si riferisce a “tutti gli uomini”. Dio dà “cibo ad ogni carne”e la sua pietà deve durare per sempre (Sal 136,25). Certamente la parola carne indica la debolezza e la transitorietà dell’uomo e, dato che la concupiscenza ha vinto lo spirito, quest’ ultimo non resterà sempre nell’uomo pertanto, come leggiamo nella Genesi, “la carne è mortale”. Nel Siracide a proposito del passar del tempo leggiamo “Ogni carne invecchia come un abito, è una legge da sempre: Febbraio 2008 38 A r t e Certo si muore!” (Sir 14,17). A proposito invece del vedere in profondità, Giobbe dice che Dio vede meglio dell’uomo perché non ha “occhi di carne”. Invece, come dice San Paolo, chi ha per alleato solo “un braccio di carne” confida in un aiuto impotente (2Cor 32,8). Il termine carne viene così a comprendere in sé i caratteri, le manifestazioni, il modo d’essere e d’agire della creatura vivente. Tutti questi caratteri nella prospettiva dell’Antico Testamento, sono sempre posti in relazione a Dio. Il termine “carne” designa dunque l’essere umano, ma non in senso pieno, anzi, esprime piuttosto, dell’essere umano, l’infermità, la caducità, i limiti, in contrasto con gli attributi di Dio. Il problema si complica nel Nuovo Testamento, in quanto “carne e sangue” diventano due termini che allu- dono sia all’impotenza dell’uomo, che alla sua caducità, tanto che la rivelazione agli apostoli viene direttamente da Dio, non passando affatto per la carne (cfr Mt 16,17). Ai significati tipici dell’Antico Testamento si ricollegano molti testi del Nuovo Testamento nell’uso del termine greco ???? (sarx). Il detto di Marco (Mc10:7) “I due saranno una sola carne” riferito al matrimonio indica nella comunione fisica la comunione delle esistenze; le espressioni di Paolo “nella carne”, “secondo la carne”, alludono alla realtà dell’esistenza umana nella sua totalità nel significato anche di umanità piú che di esistenza singola. San Paolo invece vede la carne legata a qualcosa di naturale e di umano in contrasto con lo spirituale. Naturalmente non si può avere fiducia nella carne se si è mossi dallo spirito di Dio in quanto “Quelli che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio” e ciò che ad essa è associato è considerato di scarso valore ed è venduto come schiavo del peccato, da qui è comprensibile l’esortazione a crocifiggere la carne con le sue passioni e i suoi desideri.(Gal 5,24). La “carne” designa così l’ esistenza umana, la storia umana quale è diventata in seguito alla caduta ed al peccato. Ritroviamo applicata a Cristo l’antica profezia di Isaia che dice che “ogni carne”, cioè ogni uomo, “vedrà la gloria di Dio” (Is 40, 3-5) . Nel Vangelo di Giovanni possiamo invece ritrovare le tre ben note parole che alludono all’incarnazione del Signore “ Il giudizio universale della Cappella Sistina don Marco Nemesi Il giudizio universale è il grande affresco situato sulla parete retrostante l’altare della Cappella Sistina e fu progettato e realizzato da Michelangelo fra il 1533 e il 1541. La sua collocazione estremamente anomala - normalmente questo tema compare infatti sulla controfaccia o sulla facciata degli edifici sacri - è frutto della specifica volontà del primo committente dell’opera, papa Clemente VII (1523-1534), che giunse solo a vederne il “modello” compositivo: l’esecuzione in affresco del dipinto ebbe infatti luogo sotto il pontificato di Paolo III (1534-1549) ed ebbe inizio nel 1536 dopo una lunga e tormentata fase preparatoria. Per realizzare il Giudizio, Michelangelo dovette demolire da un lato la decorazione preesistente del tempo di Sisto IV (1471-1484) - ovvero i quattro pontefici a lato delle due finestre che un tempo si aprivano nella parete e tre affreschi del Perugino: le due storie con la Natività e il Ritrovamento del piccolo Mosè e la pala d’altare con l’Assunzione della Vergine -, dall’altro le due lunette da lui affrescate nel 1512, al termine dei lavori per la volta. Nel gennaio 1564, un mese prima della morte di Michelangelo, il Concilio di Trento approvò la richiesta, da più parti sollecitata, di censurare le nudità del Giudizio. Dell’operazione fu incaricato Daniele da Volterra, allievo dell’artista, il quale però morì due anni dopo, avendo realizzato solo una parte dei “braghettoni”, come vennero chiamate le aggiunte. Altri interventi censori seguirono negli anni successivi, alternati a interventi di manutenzione e di restauro. Tuttavia i fumi delle candele e le colle date per tentare di aumentare la luminosità dell’affresco finirono col formare un velo scuro di sporco che ne impediva la piena leggibilità. L’intervento di restauro del 1990-1994 ha permesso di recuperare la nitidezza dei colori, il vigore delle forme, la definizione dei particolari e l’unità complessiva dell’opera. ANGELI CON I SIMBOLI DELLA PASSIONE (LUNETTA DI SINISTRA) Nelle due lunette in cima alla composizione, Michelangelo colloca due gruppi di angeli apteri cioè senza ali, con gli strumenti della Passione. Un primo gruppo di angeli è impegnato a tenere sollevata la Croce di Cristo. Una figura in verde, piuttosto che sorreggere il legno, sembra tenervisi aggrappata mentre guarda con aria smarrita verso di noi. Subito dietro un angelo indica verso il basso i beati e un altro gli risponde mostrando la Croce, strumento di salvezza. Un gruppetto di figure, a destra, si rivolge verso la lunetta del lato opposto; uno tiene la corona di spine mentre col capo si gira verso i com- pagni a sinistra, gli altri gesticolando sembra volersi ricongiungere con le altre schiere di angeli. ANGELI CON I SIMBOLI DELLA PASSIONE (LUNETTA DI DESTRA) Nella lunetta di destra, altri angeli portano in trionfo i simboli della Passione: al centro la colonna; sulla destra un angelo, dal manto arancione, porta la canna con in cima la spugna imbevuta di aceto. Rispetto alla grande varietà di simboli che si legano tradizionalmente alla Passione, Michelangelo riduce la scelta a soli quattro elementi (croce, corona, colonna, canna, che curiosamente iniziano tutte con la C di Cristo), scartando tutti gli altri; ad affresco completato aggiunse poi sullo sfondo, con tecnica “a secco”, alcuni angeli in ombra, che portano la scala usata durante la crocifissione. Rispetto all’altra lunetta, questa si presenta, dal punto di vista compositivo, molto più compatta. Gli angeli sembrano far ruotare piuttosto che spostare in avanti la colonna; questo moto circolare trascina i corpi stessi degli angeli e sembra attirare a sé anche quelli ancora distanti. Insieme con l’altra lunetta vengono definite due grandi linee direzionali, date dalla croce e dalla colonna, che convergono a punta, come gli spioventi di un tetto; le due linee sono parallele a quelle del braccio sinistro e dell’avambraccio destro di Cristo, del quale amplificano così la gestualità, perché il giudizio divino si rifletta nei simboli del male fatto dall’uomo e nella misericordia di Dio, che salva coloro che hanno seguito l’esempio di Cristo. Febbraio 2008 CRISTO GIUDICE E MARIA VERGINE Il gruppo centrale con Gesù e Maria nel nimbo di luce, è stato dipinto subito dopo le due lunette, e costituisce il motore dell’intera composizione. Dai contemporanei fu criticato i1 ruolo di Maria, simbolo della Chiesa, che assumerebbe una posizione sottomessa e non avrebbe quel ruolo di intercessione verso il Figlio che richiede la devozione mariana. Non è comunque vero che il Cristo michelangiolesco sia evocatore solo di un’implacabile terribilità, perché il duplice gesto a incrocio che egli compie corrisponde a un duplice significato: la mano destra è sollevata sopra il capo e fa ruotare il busto e la testa verso la sua sinistra, lo sguardo cade in basso dove sono i dannati e le bocche degli inferi, il gesto è di condanna e sembra accumulare forza per respingere verso il basso i peccatori, piuttosto che, come è stato detto, pronto a scagliare un fulmine giustiziere. Al contrario le gambe di Cristo sono frontali o appena ruotate e la mano sinistra si stende delicatamente in avanti, inclinata in direzione dei risorti che ascendono verso l’alto: è un gesto di rassicurazione che si lega allo sguardo di Maria, rivolto nella stessa direzione della mano del Figlio. La Vergine conferma ai risorti la salvezza, assumendo la tradizionale posa delle braccia incrociate e dei piedi sovrapposti: chi ha imitato Cristo fino al sacrificio della Croce non deve temere, ha diritto alla vita eterna. Michelangelo rappresenta il Redentore senza il tradizionale trono e senza la barba; forse la scelta è legata ad un esplicito richiamo con la scena della creazione di Adamo sulla volta: Cristo è il nuovo Adamo che salva dal peccato originale. GRUPPO DI BEATI A SINISTRA E INTORNO A CRISTO Nella zona più alta sono disposti gli eletti, i beati, i santi, distinguibili solo per la maggiore o minore vicinanza al Redentore (l’assenza delle aureole fu aspramente criticata durante la Controriforma). In effetti, una parte delle figure forma al centro un anello, che arriva quasi a chiudersi e che rimanda alla “rosa mistica” dantesca: le figure restanti si dividono in due ali, a formare un semicerchio spezzato. Procedendo da sinistra, troviamo in alto una vecchia che scopre le orecchie e mostra i seni cadenti, forse da interpretare come la Sibilla che nel testo del Dies Irae apre la profezia del Giudizio. Più sotto una folla si accalca orante; il gruppo ancora più in basso sem- A r t e 39 bra intento a cercare un contatto fisico senza prestare attenzione al gesto di Cristo. Un poco più a destra, in primo piano, una donna dal seno scoperto ha aggrappato alle gambe un’altra figura femminile; difficile l’identificazione, mentre la posa rimanda al gruppo classico della Niobe. Nell’anello centrale sono individuati i vari personaggi: il vigoroso uomo che trattiene con le mani la pelliccia è il Battista, che ha a destra Andrea con la tipica croce; ai due corrispondono dal lato opposto il fratello di Andrea, Pietro, nell’atto di rendere a Gesù le chiavi d’oro e d’argento, e die- tro di lui nel manto rosso san Paolo. Seduto, in primo piano, san Lorenzo tiene sulla spalla la graticola con cui è stato arso. Dietro di lui una figura femminile, avvolta nel manto arancione, è stata identificata con Vittoria Colonna, musa ispiratrice di Michelangelo, ma l’ipotesi va piuttosto sostituita con una santa martire, forse Lucia, alla quale fanno pensare gli occhi, emersi nel restauro, che vengono “sottolineati” dall’asta della graticola. GRUPPO DI BEATI A DESTRA Seguendo il modello del Paradiso dantesco si possono individuare: spiriti amanti, sapienti, militanti, giusti, contemplanti; troviamo infatti figure abbracciate o che si baciano, volti pensosi e gesti di eloquenza, mani giunte e sguardi imploranti. Sul margine destro, l’uomo che porta la grande Croce, va identificato con Disma, il buon ladrone, o forse con il Cireneo; nel sostenere il peso è assistito da un uomo barbuto, dietro di lui altre mani giungono in soccorso facendo pensare agli spiriti militanti, ai quali Dante fa comporre l’immagine della croce. Sulla sinistra, san Bartolomeo tiene in una mano il coltello con cui è stato scorticato e nell’altra la pelle, nel viso della quale si vede un autoritratto di Michelangelo. Disposti sulla nube in basso, la schiera dei santi martiri, che mostrano gli oggetti del loro supplizio: l’apostolo Simone con la sega, l’aposto- lo Filippo con la croce, seguono san Biagio con i pettini di ferro, santa Caterina d’Alessandria con la ruota dentata e san Sebastiano con le frecce. Sono tutti protesi verso il gruppo dei dannati che, sotto di loro, lottano per salire, ma il cui sforzo è inutile: i martiri mostrano attraverso quali strumenti si giunge in cielo. ANGELI CON LE TROMBE DEL GIUDIZIO Michelangelo pone un gruppo di angeli al centro della fascia mediana, inscritto in forma circolare e isolato dal flusso umano. Questi angeli hanno il compito di svegliare i morti col suono delle trombe, per questo sono anche detti “angeli tubicini”. In realtà solo quattro si rivolgono verso la scena della Resurrezione, mentre un quinto, con la tromba sulla spalla e l’indice puntato, sembra voler correggere l’angelo sotto di lui, che stava suonando in direzione della barca dei dannati. In primo piano sono gli angeli che sostengono i libri con le sentenze, ricordati nell’Apocalisse. Il “libro della vita” viene rivolto a sinistra, cioè alla destra del Signore, verso la resurrezione dei corpi e l’ascesa dei beati; l’altro libro, che contiene la condanna a finire “nello stagno di fuoco”, è direzionato a destra verso Caronte. Se il primo è un libro di modeste dimensioni, il secondo è un grosso tomo che richiede l’intervento di due angeli per essere sostenuto, perché più numerosa è la lista dei peccatori rispetto a quella dei santi. Gli angeli tubicini, con le loro guance gonfie, si rifanno all’iconografia dei venti che soffiano in tutte le direzioni. L’uso delle trombe, invece, rimanda a un’altra profezia dell’Apocalisse, quella del settimo sigillo in cui sette angeli, suonando le loro sette trombe, scatenano cataclismi e stermini che precedono la finale vittoria di Cristo. Va però notato che il riferimento è puramente allusivo, qui infatti le trombe risultano essere otto e non sette, e che la scena rimanda complessivamente al testo medievale del Dies Irae. REDENTI CHE SALGONO TRA I BEATI Una forza misteriosa spinge lentamente verso l’alto i corpi risorti di coloro che rientrano nel libro dei giusti. L’azione sembra svolgersi indipendentemente dalla volontà divina, non ci sono forze angeliche, i redenti si aiutano tra di loro o si aggrappano alle nubi, molti sono ancora con gli occhi chiusi o come accecati, altri sono trascinati verso l’alto da alcuni beati del registro superiore. A destra, due uomini dalla pelle più scura sono tirati in alto con un grande rosario, simbolo delle orazioni che hanno portato alla conversione dei popoli lontani e dell’azione salvifica e universale della fede. Le espressioni dei volti e dei gesti hanno una gradazione che va dall’ardore implorante alla paura o all’indecisione. L’umanità redenta sembra non credere alla propria salvezza eterna o non averne preso ancora piena coscienza, non appare felice ma quasi sgomenta perché solo nella mente imperscrutabile di Dio è chiaro il disegno della Grazia. In contrapposizione alla scena posta simmetricamente a destra, con la lotta tra angeli e dannati, qui Michelangelo ha dato ai corpi una maggiore rilassatezza. La loro disposizione suggerisce una specie di danza circolare e ascendente che si staglia sul cielo, di un azzurro intensissimo, realizzato a lapislazzuli. DANNATI RICACCIATI NEGLI INFERI Come avviene nell’inferno dantesco, alcuni dannati non accettano la loro condanna e si ribellano; agli angeli, distinguibili dalle vesti colorate, è dato il compito, in collaborazione con i demoni, di ricacciarli in basso. Questo gruppo di dannati si fa in genere risalire alle tipologie dei sette vizi capitali, alcuni di sicura identificazione, altri attribuibili in via ipotetica. Cominciando da destra troviamo un lussurioso, tirato giù da un diavolo. Quello che gli sta subito sopra dovrebbe essere un superbo, che per contrappasso è punito venendo capovolto a testa in giù. Tra i due, dietro in ombra, un dannato dall’aria disidratata con una mano puntata sulla gola e la bocca aperta potrebbe essere un goloso. Il successivo, di schiena, è probabilmente un iracondo, che lotta accanitamente con l’angelo in verde, in aiuto del quale ne arriva uno in rosso. Più in basso, un dannato avvolto nella veste e con le mani giunte sembra scivolare negli inferi, senza l’intervento dei demoni, quasi per inerzia: potrebbe essere un accidioso. L’avaro, respinto dall’angelo in arancione mentre un demone lo tira in basso, è invece ben riconoscibile dalla sacchetta con il denaro e le chiavi dei forzieri. L’ultimo, di spalle, dovrebbe essere un invidioso, che vedendo salire un risorto verso l’alto si spinge a rincorrerlo, inseguito dall’angelo in verde. Nelle due figure diafane, quasi trasparenti, in volo sotto di lui, alcuni hanno voluto vedere Paolo e Francesca. Isolato a sinistra compare infine un dannato del quale nessun angelo si occupa, di solito identificato come orgoglioso o disperato, mentre sembra più probabile che rappresenti la categoria degli ignavi, che Dante definisce senza infamia e senza lode, cioè un indeciso e vile che non reagisce al morso del drago, non aspira a salire né a scendere e che nemmeno l’intervento di due demoni riesce a smuovere. RESURREZIONE DEI CORPI Al suono delle trombe degli angeli, i defunti si svegliano dal sonno della morte. Michelangelo li rappresenta nei vari stadi successivi con cui gli scheletri riacquistano la carne e riprendono l’aspetto di corpi umani ricongiunti insieme con l’anima; l’artista si rifà alla profezia del libro di Ezechiele, ma anche all’iconografia stabilita pochi anni prima da Luca Signorelli nella Cappella di San Brizio nel duomo di Orvieto. In basso a sinistra, alcuni defunti escono da un avello sollevando una lastra di pietra; intorno i corpi escono invece direttamente dalla terra, nella quale sono affossati secondo livelli diversi: chi esce solo con la testa, chi con tutto il busto, chi infine ha ancora sepolta solo una gamba. I corpi sono intorpiditi e stanchi, deboli e pesanti, e sono perlopiù nudi oppure avvolti nei sudari funebri. Mentre altri liberati, salgono lenti e fluttuanti verso l’alto. La figura barbuta in piedi, all’estrema sinistra, che non fa parte dei defunti e sembra come benedirli, è stata interpretata nei modi più svariati. Nella parte di destra avviene una disputa tra gli angeli e i demoni per due corpi messi in posizione inversa: il primo, completamente privo di forze, è trattenuto in basso da una corda-serpente tirata da una mano che esce dalla roccia; il secondo, capovolto a testa in giù, aiuta i due angeli che lo portano in alto a liberarsi dal demonio che lo tira per i capelli. La scena della resurrezione dei corpi è però anche una grande metafora del lavoro dell’artista e in modo particolare dell’opera stessa di Michelangelo, che ha fatto dello studio della figura umana e della ricerca anatomica la sua ossessione. L’artista fa risorgere i corpi attraverso la pittura. I corpi dipinti sono la visione di una realtà che deve ancora avvenire, ma sono allo stesso tempo una realtà che già avviene, che si manifesta sotto gli occhi dell’osservatore, sono la testimonianza della veridicità della promessa di salvezza. INGRESSO DEI DANNATI AGLI INFERI L’ultimo spazio in basso a destra contiene l’epilogo del giudizio divino: per le anime dannate è pronta la barca di Caronte che le traghetta agli inferi, dove le attende una banda di demoni, alcuni diabolicamente ligi nel loro lavoro, altri addirittura intenti a fare gesti e boccacce agli osservatori. La fonte principale cui l’artista si ispira è la Commedia dantesca. Il gesto di Caronte che minaccia le anime riprende il passo: “Caron dimonio, con occhi di bragia, loro accennando, tutte le raccoglie; batte col remo qualunque s’adagia”; i dannati scivolano giù, dice Dante, come le foglie cadono in autunno, e così li dipinge Michelangelo, traboccanti dalla barca mentre ricadono sui demoni, i quali con lunghi arpioni tirano quelli più restii. Una fila di diavoli in attesa occupa la parte all’estrema destra, che si staglia su un cielo infuocato e fumante. Sempre ripresa da Dante è la figura di Minosse, dalle orecchie asinine, che ha il compito di associare alla colpa del dannato un certo girone dell’inferno, indicandone il numero con i giri del serpente attorno alla vita. Si racconta che mentre Michelangelo componeva il Giudizio Universale, Biagio da Cesena, maestro di cerimonie, si scandalizzò di tante nudità, che vi erano state dipinte, e giudicò che l’opera era degna di osterie. Allora Michelangelo si vendicò in modo terribilmente satirico, raffigurando lo stesso Biagio sotto sembianza di Minose, in mezzo ai diavoli. Biagio, indignato, si rivolse a Paolo III, il quale gli rispose che se fosse stato messo in Purgatorio avrebbe cercato di toglierlo, ma che, essendo nell’ inferno, non c’era speranza di redenzione. Michelangelo raggiunge in questa scena degli inferi un vertice insuperato di “terribilità”, cioè quell’effetto di imponenza mista a paura e ammirazione che i contemporanei individuarono come una delle grandi novità dell’opera del Buonarroti.