Silvio: ride mezza Ue Giulio: Cina salvaci tu
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Silvio: ride mezza Ue Giulio: Cina salvaci tu
CON LIBRO A FUMETTI + EURO 10 SPED. IN ABB. POST. - 45% ART.2 COMMA 20/ BL 662/96 - ROMA ISSN 0025-2158 ANNO XLI . N. 217 . MARTEDÌ 13 SETTEMBRE 2011 L’ITALIA PUÒ AFFONDARE L’UE Joseph Halevi N on si può uscire dall’Unione monetaria europea senza abbandonare l’Unione europea stessa. Come spiegava Luigi Spaventa, in un articolo sulla Grecia apparso su La Repubblica nella primavera del 2010, l’Ume non è un accordo con opzioni di entrata ed uscita. I paesi dell’Ue possono non entrare nella zona dell’euro ma, una volta dentro, la loro appartenenza all’Ume definisce la loro appartenenza all’Unione europea. Nessun governo si prenderebbe la responsabilità di affondare l’Ue uscendo dall’unione monetaria. Ne consegue che un’eventuale morte dell’euro avverrà perché forze dilanianti avranno assunto una potenza tale da far saltare il sistema. Certo, sarebbe auspicabile un accordo fondato su argomentazioni razionali e non moralistiche, magari anche un accordo di separazione e di divorzio. Tuttavia l’attuale conformazione politico-istituzionale dell’Ue impedisce tale razionalità. L’Europa di Bruxelles, di Parigi e delle due istituzioni di Francoforte si basa su meccanismi cardinalizi, sul non detto, su tabù, sul non riconoscimento della realtà obiettiva. Basta pensare a tutti i rifiuti proclamati da Angela Merkel riguardo il "salvataggio" della Grecia salvo poi precipitarsi a sostenere i finanziamenti. Sempre tardivamente e male, creando un meccanismo vieppiù tossico. Infatti gli aiuti del fondo di emergenza europeo vengono addebitati ai paesi che contribuiscono al salvataggio. Gli stessi paesi vedranno quindi aumentare il proprio rapporto debito-pil. La Grecia è un piccolo paese. È vero che può mettere in moto una catena di default ma solo perché il salvataggio degli altri non potrà che affondare i paesi virtuosi. Ma quale virtuosità? Nessuno può dichiarare di esserlo. Se si aggiunge al debito federale tedesco quello di organismi pubblici simili all’Iri (che in Germania ancora esistono) nonché la posizione finanziaria dei diversi lander, si arriverebbe, per la potente Deutschland, ad un rapporto debito-pil di tutto rispetto, non lontano dal 100%. Nessuno però è in grado di farlo pesare sulla Germania. Contrariamente al pensiero liberaldemocratico che vede nell’Ue solo liberalismo e democrazia, l’Ue è il prodotto di forze economiche oligopolistiche. Unite sul piano della lotta al salario ed unite sulla base della capitalizzazione delle rendite, sia industriali, come in Germania, sia finanziarie, come in Francia e in Italia, queste forze oligopolistiche e statuali si stanno lacerando anche al loro interno (le dimissioni del rappresentante tedesco alla Bce) per via della crisi economica e della loro incapacità a governarla. CONTINUA |PAGINA 15 EURO 1,30 Banche rotte Le banche europee trascinate a fondo dall’esposizione sui debiti sovrani e dalle voci di default della Grecia: i titoli vanno giù e affondano le borse, in Francia timori per un possibile crac della Sociéte Générale. Sarkozy: «Prematuro un intervento dello Stato». Trichet promette aiuti «illimitati» agli istituti di credito PAGINE 2,3 UN VIAGGIO A STRASBURGO, UNA VISITA DA PECHINO NUCLEARE l PAGINA 7 Scoppio in centrale, panico in Francia Esplosione nell’impianto di trattamento delle scorie a Marcoule, nel sud: un morto e quattro feriti. Le autorità minimizzano: «Nessuna fuga radioattiva, incidente chiuso». Ma Greenpeace protesta: «Mai fatti stress test» Silvio: ride mezza Ue Giulio: Cina salvaci tu U na manovra tira l’altra. Domani la camera approverà il decreto di agosto con la fiducia ma Bruxelles ha già fatto i conti: l’Italia dovrà intervenire ancora entro fine anno se i tagli già fatti non dovessero bastare. In questo clima da fallimento annunciato il premier va a Strasburgo e getta nell’imbarazzo gli euro-vertici. Per evitare i magistrati napoletani basta una photo-op con Barroso e due minuti con il presidente polacco dell’europarlamento nei sottoscala di palazzo. Intanto il Financial Times rivela che la settimana scorsa una delegazione di Pechino ha incontrato Tremonti. In sostanza l’Italia ha chiesto in ginocchio alla Cina di comprare i derelitti Bot italiani, nel disperato tentativo di venderne senza concedere interessi pesanti. Tremonti, osserva il Ft, «in passato ha scritto molto della sua paura di una ’colonizzazione al contrario’ cinese dell’Europa». Ora è proprio lui che va a tirare la giacca ai ricchi banchieri di Pechino. SERVIZI |PAGINA 3 ARGENTINA Mai più casi Benetton La terra torna indietro FILIPPO FIORINI l PAGINA 9 SCUOLA Ritorno sui banchi, tra proteste e cliché SERVIZI l PAGINE 5 e 10/11 SCUOLA | PAGINA 5 LAVORO LETALE | PAGINA 6 LIBIA | PAGINA 8 Flash mob contro i tagli Suona la campanella ed è già autunno caldo Salta in aria la fabbrica dei fuochi d’artificio Sei vittime a Frosinone Ribelli contro ribelli, 12 vittime Resiste roccaforte di Gheddafi, fugge in Niger il figlio calciatore CRISI Nel pozzo del nostro debito Guido Viale O ra si comincia a parlare di default (fallimento) come esito o come soluzione - del debito pubblico italiano. La discussione assume aspetti tecnici, ma il problema è politico e merita approfondimenti sui due versanti. Dichiarare fallimento imboscando dei fondi, è truffa. Ma è truffa anche se una condizione insostenibile viene protratta oltre ogni possibilità di recupero; in particolare, per spremere quelli che si riesce a spennare con la scusa di rimettersi in sesto, prima di dichiarare che «non c’è più niente da fare». CONTINUA |PAGINA 15 VAURO I referendum elettorali, caricatura della democrazia IL COMMENTO Gianni Ferrara DOMANI L’INTERVENTO Luigi De Magistris Perché sottoscrivo l’appello contro la manovra per manifestare il 15 ottobre pagina 2 il manifesto MARTEDÌ 13 SETTEMBRE 2011 BANCHE ROTTE Mercati • BARACK OBAMA «Il nuovo piano di aiuti al lavoro non crea deficit» «O ccorre rilanciare l’economia nazionale». Il presidente americano Barack Obama ha sottolinento, nel discorso tenuto ieri alla Casa Bianca, la necessità e l’urgenza, da parte del Congresso, di approvare il piano da 447 miliardi di dollari (l'American Jobs Act) che dovrebbe garantire nuovi posti di lavoro e aiutare l’economia in un momento di crisi. Obama, in calo nei consensi, prova a indicare una via d’uscita dal rischio di una nuova recessione attraverso una proposta di legge per sostenere il mercato del lavoro. «È basata su idee democratiche e repubblicane e non ha carattere politico - dice Obama non aggiungerà un centesimo al deficit. Deve solo essere approvata immediatamente». In un altro passaggio del suo discorso, il presidente statunitense ha poi specificato come i ricchi e le aziende debbano pagare ciò che è giusto con le tasse e come la politica abbia il dovere di agire subito: «Gli Stati Uniti non possono permettersi il lusso di poter attendere le prossime elezioni, che sono fra 14 mesi». In soccorso al presidente sono arrivate le parole dello speaker (democratico) della Camera, John Boehner: «Mi auguro - riferendosi all’ostruzionismo dei repubblicani - che riusciremo a lavorare insieme per unire le migliori idee e rimettere gli americani al lavoro». Il piano sul lavoro osserva ancora Boehner - sarà sottoposto al Congressional Budget Office (l'organismo indipendente che fornisce analisi economiche agli eletti) per una valutazione sui costi). Trichet (Bce) promette agli istituti di credito: non vi faremo mancare soldi La crisi greca scatena il terrore: Milano perde il 3,9%, Parigi il 4,03% Affondano le banche Nuovo grosso tonfo per le borse, cresce lo spread tra Btp e Bund. Forte aumento dei tassi dei Bot Galapagos G li occhi seguitano a essere puntati sulla Grecia anche se, osservano gli analisti più accorti, non può essere un piccolo paese a destabilizzare il mercato finanziario globale. Quello che è certo, è che il mese nero delle borse prosegue imperterrito. Anche ieri le borse europee hanno chiuso in profondo rosso nonostante la promessa di Jean-Claude Trichet di fornire liquidità alle banche. Promessa che ha consentito ai listini di riprendere un po’ fiato, cioè di ridurre le perdite, ma solo per pochissimi minuti. Poi gli indici hanno ripreso a scendere. A Milano l'indice Mib (le maggiori 40 società quotate a Piazza Affari) ha chiuso al ribasso del 3,89%. Non è andata meglio in Germania: il Dax 30 ha perso il 2,27%, Madrid è andata sotto del 3,41% mentre a Parigi l’indice Cac 40 ha lasciato sul terreno oltre il 4%, dopo che in giornata il crollo aveva superato il 5%. Le perdite della borsa francese sono state spiegate dalle voci sulle difficoltà patrimoniali della So.Gen. (il titolo è sceso del 9,83%, a 15,73 euro, e dall'inizio dell'anno ha ridotto il proprio valore di oltre il 61%) e dalle indiscrezioni su un possibile declassamento da parte di Moody's dei principali istituti bancari transalpini molto coinvolti con i crediti alla Grecia. Paricolarmente negativa la performance di Bnp Paribas che ieri ha perso quasi il 13%. Sull’altra sponda dell’Atlantico non sono andate bene neppure le borse sta- tunitensi: a un paio di ore dalla chiusura il Dow Jones era sotto di oltre l’1% nonostante la presentazione (al Congresso) del piano di rilancio dell’economia e del lavoro da parte di Obama. Uno dei titoli in controtendenza era quello della Bank of America il cui amministratore delegato ha annunciato 30 mila esuberi, il 10% degli occupati totali. Spietatamente le borse fanno festa quando si riducono i costi, tagliando le teste dei lavoratori. Sotto tiro non sono solo le banche francesi, ma un po’ tutti gli istituti di credito europei giudicati sottocapitalizzati (e pertanto con la necessità di procedere a aumenti di capitale) e eccessivamente esposti ai rischi di insolvenza di stati nazionali. Ovviamante Grecia in testa. Anche a Milano le banche ieri hanno fatto un bel tuffo: il titoli preso maggiormente di mira è stato quello di Unicredit che ha perso quasi il 10% scendendo sotto i 79 centesimi per azione, un livello che non toccava da due anni e mezzo. Sotto pressione anche Intesa Sanpaolo, mentre nel settore assicurativo un bel tonfo è stato registrato da FonSai (-7,6%) e fra gli industraili da Telecom Italia (-5,3%). Ieri è iniziata una settimana di passione per le aste del debito pubblico italiano. L’asta di ieri è stata giudicata positiva, considerando il contesto di mercato. Questo significa che il collocamento è andato bene. Ovviamente i rendimenti sono saliti, ma la domanda ha tenuto: quasi 19 miliardi a fronte degli 11 miliardi offerti. Meno bene è Banche/LA GRAN BRETAGNA PREPARA LA «GRANDE RIFORMA» Ritorno al passato per separare attività commerciale e speculazione Francesco Piccioni C ontrordine, banchieri! La crisi ha distrutto molte certezze di stampo liberista. Soprattutto nel settore finanziario. Ora si cerca di correre ai ripari e si riscoprono ricette non proprio nuovissime; anzi, almeno ottentenni. L’Inghilterra è il paese più indebitato d’Europa (sommando debito pubblico e privato) ed ha dovuto elargire uno dei più onerosi interventi di «salvataggio» del proprio sistema bancario. Si sono chiesti: come facciamo ad evitare che si ripeta, visto che oltretutto non potremmo più permettercelo? La Indipendent commission banking, presieduta da sir John Vickers, dopo un lungo lavorio è arrivata a formulare delle «raccomandazioni», che il governo conservatore ha fatto mostra di accogliere con entusiasmo. Bisognerà ora vedere l’evoluzione del percorso parlamentare, perché nei mesi scorsi ci sono stati numerosi interventi – sponsorizzati apertamente dalla lobby delle banche – per far togliere le proposte più radicali e «stataliste». La misura principale, per esempio, riguarda la separazione netta tra attività bancarie «al dettaglio» (raccolta del risparmio, mutui, finanziamento di piccole e medie imprese) e «investment banking», ovvero speculazione su titoli e azioni, mercato dei «derivati», cds, ecc. I due rami di attività dovranno avere consigli di amministrazione differenti, ma potranno comunque essere riunite in una sola società-gruppo. La prima versione del rapporto, invece, vietava questa commistione a qualsiasi livello. Una vittoria delle lobby, insomma, ma non un trionfo. Fosse passata questa impostazione «radicale» avremmo avuto una riedizione quasi perfetta del Glass-Stea- gall Act del 1933, in piena crisi del ’29, negli Stati uniti. Una legge che imprintato il sistema finanziario del dopoguerra e ha tenuto al riparo da rischi sistemici le banche e di fatto impedito la creazione di banche «troppo grandi per fallire» (ma anche «per essere salvate»). Poi, negli anni ’90, il lungo pressing delle stesse banche per abolire questa legge ha trovato infine un Congresso Usa favorevole, a maggioranza conservatrice, e un presidente – Bill Clinton – contrario ma non troppo. Qual’è il problema della «commistione» tra i due rami di attività? Che la speculazione diventa il primo business di una banca, perché i guadagni potenziali (e le perdite) sono molto più grandi e veloci rispetto al «normale tran tran» con i clienti allo sportello. Ma quando qualcosa va storto – come nel 2007-2009 – tutta la banca rischia il fallimento, blocca l’emissione di credito, raggeJOHN VICKERS la l’attività economica e quinDocente a di deve «esser salvata» dallo Oxford, ex capo Stato (magari tagliando la speeconomista della sa sociale). Banca d’InghilLe altre misure vanno nella terra, ha guidato stessa direzione: i flussi di cala commissione pitale dei due rami di una indipendente banca non possono mischiarsi, i «requisiti di capitale» del lato retail dovranno prevedere una riserva minima del 10%, ecc. In pratica, si cerca di mettere al sicuro l’«attività ordinaria» (solo un terzo dei bilanci attuali) da eventi catastrofici. E potrà comunque esser protetta anche dallo Stato, mentre l’eventuale default del lato speculativo sarà problema solo «privato». Misure sufficienti? No davvero, perché la finanza è un universo globale, non puramente inglese. Ma anche se queste «raccomandazioni» venissero trasformate in legge in pochi mesi (e c’è da dubitarne), viene concesso un tempo enorme alle banche per «adeguare le proprie strutture». Da qui al 2019, forse; con comodo. Keynes aveva già avvertito che «sui tempi lunghi...». andata sul versante dei rendimenti. Se nel caso del Bot trimestrale lo scarto di quasi un punto percentuale rispetto all'ultimo collocamento è comprensibile tenendo conto del carattere erratico dell'offerta (a marzo l'ultima asta), con il Bot annuale l'aumento di oltre 1 punto è imputabile solamente al fattore rischio che gravita intorno al debito italiano. In un mese il Bot annuale è passato dal 2,9 al 4,1 per cento ma, già a luglio, le tensioni sul debito avevano fatto schizzare il rendimento annuale al 3,6%. Ora l'attenzione si sposta sull'asta a medio e lungo termine di oggi dalla quale però non ci si aspettano grandi novità. Anche in questo caso gli operatori sottolineano l'attenzione che il Tesoro ha messo nella scelta dei titoli da offrire: la prima tranche del nuovo benchmark quinquennale (che in genere non trova difficoltà a trovare spazio nei portafogli degli investitori internazionali) e ben quattro Btp offthe-run: ovvero titoli che in genere vengono offerti tenendo conto di specifiche esigenze del mercato. In totale, l'offerta massima sul medio e lungo termine raggiungerà i 7 miliardi di euro. L’aumento dei rendimenti pagati sui nuovi titoli del debito pubblico è la diretta conseguenza dell’aumento dello spread, cioè il differenziale fra i titoli italiani e quelli tedeschi a 10 anni. Ieri è salito fino a 384 punti (3,84%) dopo aver aperto sopra i 362 punti. Da notare che lo spread tra Btp italiani e Bund tedeschi supera ampiamente quello tra Bonos spagnoli e Bund (352 punti). L’aumento dello spread sembra derivare da una assoluta mancanza di fiducia nella politica economica del governo. E questo nonostante la scorsa settimana la Banca centrale europea (come è stato comunicato) abbia seguitato a comprare sul mercato secondario titoli di stato dei paesi dell’area euro. In totale la Bce ne ha comprati per 13,96 miliardi di euro, in lieve rialzo dai 13,305 della settimana precedente. Secondo i trader, gli acquisti d'emergenza la scorsa settimana erano concentrati su Italia e Spagna. Intanto l’euro rimane debole, poco sopra quota 1,36 sul dollaro, dopo essere sceso anche a 1,3493, il livello più basso degli ultimi sette mesi. IERI, ALLA BORSA DI FRANCOFORTE/FOTO REUTERS FRANCIA · Il governo: «Totalmente prematuro» intervento dello stato Troppo esposta su Italia e Grecia, trema la Société Générale Anna Maria Merlo PARIGI L a confusione sul destino della Grecia, il cui default non è più escluso ormai neppure dalla Germania, ha generato un terremoto sui titoli bancari ieri. In prima fila la Société Générale, che dall’inizio dell’anno ha perso il 60% della capitalizzazione in Borsa. Moody’s minaccia di degradare il rating delle principali banche francesi (Socgen, Bnp e Crédit Agricole), perché troppo esposte sul fronte disperato dei debiti sovrani. Le banche sono così in affanno e cercano disperatamente di correre ai ripari. La Socgen promette di ridurre l’attività nei settori più a rischio, con conseguente effetto sul numero dei dipendenti. Ieri, la banca ha anche sporto denuncia contro un quotidiano popolare britannico, il Mail on Sunday, che il 7 agosto scorso aveva preso per una notizia il contenuto di una finzione pubblicata da Le Monde sulla «fine dell’euro». La Socgen, citata nel feuilleton, ne aveva pesantemente risentito in Borsa e ora chiede al giornale i danni per un milione di sterline (1,16 milioni di euro), da devolvere in opere caritative. Nel fine settimana, è bastata una mail anonima che annunciava il fallimento della Grecia a far tremare le banche, che hanno poi subito il crollo di ieri. Tutti questi elementi rivelano che i mercati sono in preda al panico. Come nel 2008, l’intervento dello stato non è più considerato un’ipotesi impossibile. Ieri, il ministro dell’industria Eric Besson ha affermato che è «totalmente prematuro» evocare un’eventuale nazionalizzazione delle banche francesi. Il governatore della Banque de France, Christian Noyer ha garantito che le «banche francesi possono resistere a un eventuale default della Grecia». Il ministro delle finanze, François Baroin, ha ricordato che «non hanno problemi di solvibilità», come era stato messo in luce dallo stress test prima dell’estate. Ma venerdì scorso era stata proprio la francese Christine Lagarde, direttrice dell’Fmi, a far tremare le banche, affermando che è «urgente» che gli istituti europei si ricapitalizzino, per scongiurare rischi di liquidità. L’Ocse aveva ripetuto la stessa cosa. Il presidente della Bce, JeanClaude Trichet è sceso anch’egli in soccorso, affermando che le banche centrali sono pronte a fornire liquidità agli istituti finanziari europei. Secondo la Bce, le banche europee hanno in deposito 1.800 miliardi presso la Banca centrale, cifra più che sufficiente per ottenere a loro volta dei prestiti dall’istituto centrale. Il problema è che, dietro la Grecia, si profilano Spagna e, soprattutto, Italia. Bnp Paribas ha 5 miliardi di euro di debito greco, ma 24 di quello italiano. Il Crédit Agricole rispettivamente 0,65 e 10 miliardi. La Société Générale 2,6 e 3,3. Complessiavemnte, il sistema bancario europeo (dati Bri) è esposto per 42,8 miliardi al debito greco, ma per 233 miliardi a quello italiano. In questo contesto, le banche tentano disperatamente di rassicurare i mercati sulla loro solidità. Ma chi resisterà nel caso in cui la Grecia facesse default e il suo debito perdesse valore? il manifesto MARTEDÌ 13 SETTEMBRE 2011 pagina 3 BANCHE ROTTE Gaffe • Polemiche e battute da destra a sinistra: Verdi, Ppe e liberali criticano la visita del premier. E Bruxelles già chiede nuovi tagli in caso di «entrate insufficienti» BANK OF AMERICA TAGLIA 30 MILA POSTI Gli effetti di quest’ultima tornata di crisi finanziaria cominciano a vedersi fuori dalle borse: Bank of America, da settimane al centro di turbolenze di mercato, ha annunciato la soppressione di 30.000 posti di lavoro, poco più del 10% del totale. Il Ceo della banca Brian Moynihan ha presentato un piano di ristrutturazione che si tradurrà in risparmi sui costi di 5 miliardi di dollari l'anno entro il 2013, circa il 18% delle spese infrastrutturali e legate alle attività retail. Il piano, chiamato «Project new Bac», si articola in due fasi: la prima prevede il taglio di 30.000 posti. PRODUZIONE INDUSTRIALE A LUGLIO - 0,7% Il dato (destagionalizzato) segnala una diminuzione dell'1,6% su base annua, considerando il dato corretto per gli effetti di calendario. Si tratta del primo calo tendenziale dal dicembre del 2009, rileva l'Istat. Su base mensile, il ribasso di luglio si aggiunge a quelli di maggio e di giugno, quindi si tratta del terzo calo congiunturale consecutivo. Non stupisce, così, che nella media del trimestre maggio-luglio l'indice sia sceso dello 0,4% rispetto al trimestre immediatamente precedente. Le diminuzioni maggiori riguardano le industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-20,0%). UE · Il viaggio di Berlusconi diventa una barzelletta. Il presidente Buzek: «Lo vedrò due minuti» Un clandestino a Strasburgo Matteo Bartocci TITOLI DI STATO I IL CASO · Bersani va a Berlino e diserta la festa dell’Idv Sorpresa, anche nell’agenda del segretario del Pd spunta un appuntamento europeo che fa slittare il dibattito a tre con Vendola e Di Pietro previsto venerdì prossimo a Vasto alla festa dell’Idv. Ieri Bersani ha fatto sapere che quel giorno sarà a Berlino per incontrare il leader della Spd Sigmar Gabriel. Saltano così le prove generali per il nuovo Ulivo. Dal Nazareno spiegano che la data di venerdì era stata concordata con Di Pietro ma solo «genericamente». Solo all'ultimo momento, assicurano, Bersani ha capito che ci sarebbe stato anche Vendola e che il leader Idv avrebbe «venduto» mediaticamente l'evento come il battesimo della nuova coalizione. All’Idv la versione è diversa: l’evento era stato concordato prima dell’estate sia con Bersani che con Vendola. Bersani se vuole può venire sabato. Ma invece sarà a Milano e comunque non ci andrà. Risultato: nel 2008 Idv e Pd promettevano di fondersi e oggi non sono nemmeno in grado di partecipare alle rispettive feste. Spd a parte, Bersani non raccoglie l’invito di Di Pietro perché non può «regalare» l’Udc al Pdl. Tanto più se si parla di governo di transizione. Nuovi Ulivi e vecchi merletti. m. ba. l «caso Berlusconi» sbarca a Strasburgo. Se il premier cercava sostegno internazionale alla manovra, quel tentativo è finito nel ridicolo. La semplice conferma della visita di oggi nella "capitale" europea ha gettato i vertici istituzionali in un tale imbarazzo da non salvare più neanche le apparenze. L’arrivo del Cavaliere nel giorno del suo previsto interrogatorio di fronte ai giudici italiani ormai è una barzelletta, criticato non solo dai Verdi europei, ma anche tra i liberali dell’Alde e i popolari del Ppe. Dopo una serie di interventi tra il sarcastico e il polemico, il presidente dell’europarlamento, il polacco Jerzey Buzek (Ppe), ha quasi supplicato di chiudere la questione. «Chiarisco a tutti quanti la questione - dice Buzek all’assemblea plenaria - non c'è alcuna richiesta formale ufficiale per una visita del premier al Parlamento europeo. Lui sarà presente domani. Se ci sarà, è possibile che sia un incontro di cortesia di un paio di minuti. Questo non lo posso escludere. Ma non c'è alcuna richiesta formale di un incontro ufficiale, ve lo dico chiaramente». «Torno a segnalarvi - ha continuato il presidente del Parlamento europeo - che domani accoglieremo il presidente della repubblica polacca. Sarò occupato il pomeriggio nell'ospitarlo. Quindi, in questo momento, non ho possibilità di inserire nel mio programma alcuna visita di lunga durata del premier italiano». Berlusconi incontrerà i vertici di tutte le istituzioni europee. Ma gli appuntamenti sono tanto laschi da far capire che in pratica, il premier italiano s’è infilato dove poteva, nei buchi disponibili nelle agende degli altri leader: alle 11 vedrà per un’oretta Van Rompuy (il presidente del consiglio europeo che venerdì scorso, alla festa di Atreju, aveva definito un «perfetto sconosciuto per i cittadini»). Alle 16 il tempo di una photo-op con il presidente della commissione Barroso e alle 17.30, per «due minuti», Buzek. Tutti incontri informali, in cui al momento non sono previste né domande né conferenze stampa. Fino a ieri pomeriggio infatti degli incontri del premier italiano con Barroso e Buzek non c’era alcuna traccia sulle rispettive agen- L’Italia: Cina salvaci, compra i nostri Bot /FOTO REUTERS de ufficiali. E non è una semplice dimenticanza, perché il vertice tra la cancelliera Merkel e il presidente portoghese della Commissione di ieri era (ovviamente) ben segnalato da giorni. Ad aggravare l’imbarazzo, i vari portavoce di Bruxelles precisano di aver organizzato l’incontro solo su «espressa richiesta» delle autorità italiane. Una richiesta precisa, arrivata da Roma probabilmente mercoledì o giovedì scorso (a ridosso della pubblicazione sul sito di Repubblica della telefonata con il latitante Lavitola), come dimo- Gli incontri europei del premier fuori dalle agende ufficiali. L’Ue avverte: dovrete fare un’altra manovra stra un solerte comunicato dell’ufficio stampa di Van Rompuy datato 9 settembre che dava notizia già allora dell’incontro con il premier italiano. Intervenendo su Canale5, Berlusconi si difende dicendo che oggi era l’unica data disponibile per volare in Europa. Una mossa necessaria - giura a Belpietro - «dopo che la sinistra e i suoi giornali hanno indotto l’Ue a pensare che il governo facesse marcia indietro sulla manovra». La memoria evidentemente fa velo al Cavaliere, visto che il decreto approvato in senato è stato commentato e approvato quasi in diretta dal commissario agli affari economici Rehn. Il premier ormai non solo mente abitualmente ma dimostra anche di non curarsi nemmeno delle conseguenze. A Canale5 assicura che l’Italia non ha bisogno di nessuna nuova manovra dopo quella che domani sarà approvata definitivamente dalla camera. Pochi minuti dopo però la Commissione europea avvisa otto paesi, tra cui anche l’Italia, di prepararsi a intervenire di nuovo in caso di entrate calanti a fine anno. Ormai più che uno scandalo è una barzelletta. A inizio seduta la copresidente dei Verdi europei, la tedesca Rebecca Harms, definisce «inopportuna» la visita di Berlusconi: «Mi chiedo se non dovrebbero scegliere una data in cui non deve andare davanti ad un tribunale italiano». «Forse voleva essere il primo a complimentarsi con Martin Schulz», ha risposto tra le risate generali dell’aula un altro tedesco, stavolta della Cdu, Werner Langen. Il ricordo di Berlusconi che dà del «kapò» al dirigente socialdemocratico che da oggi si candida a sostituire Buzek alla presidenza dell’europarlamento evidentemente è ancora troppo vivo. Critiche feroci anche dai liberali. L’ex primo ministro belga Guy Verhofstadt ha chiesto a Berlusconi di presentarsi al Parlamento non nei sottoscala di palazzoma ufficialmente, di fronte alla commissione economica, come ha già fatto il premier greco Papandreou. «INDIGNATI» · Movimenti e sindacati di base, partiti «extraparlamentari» e associazioni territoriali: la protesta che agisce Presidio permanente. Le tende si sono spostate a Montecitorio Ylenia Sina ROMA D opo i due giorni di tendopoli a piazza Navona davanti al Senato, le proteste contro la manovra finanziaria sono sbarcate a Montecitorio dove è in corso la discussione sul testo. Ieri pomeriggio, a partire dalle 15, sindacati di base (Usb, Cobas), movimenti (Bpm), Roma bene comune, partiti (Fds, Pcl, Sc) e studenti (Atenei in rivolta) hanno presidiato la Camera per riaffermare, ancora una volta, che «questo debito non deve essere pagato». Tra i manifestanti la consapevolezza che «il governo sta approfittando della manovra per annullare gran parte del diritto del lavoro, a partire dal contratto nazionale e dallo statuto dei lavoratori» ha commentato Fabrizio Tomaselli dell’Esecutivo Nazionale Usb che ha criticato «l’apertura della Cgil a Cisl, Uil e Marcegaglia solo a pochi giorni di distanza dallo sciopero generale». Lungo l’elenco dei provvedimenti che più hanno sollevato il malcontento della piazza: l’art. 8 della manovra che riduce ulteriormente i diritti dei lavoratori, il blocco dei contratti, l’allungamento dell’età pensionabile, l’aumento dell’Iva, i tagli agli enti locali con consguente diminuzione dei servizi «a scapito delle tasche dei cittadini». Parlando con Sabino Venezia dell’Usb-Sanità emerge come ad essere colpito ulteriormente sarà il diritto alla salute: «la sanità italiana, già colpita pesantemente dai tagli di rientro del deficit delle regioni, cercherà progressivamente finanziamenti dalle banche e dalle assicurazioni avvicinando il nostro sistema a quello americano». E così la scuola, che ieri ha preso avvio «tra i tagli della Gelmini, la meritocrazia di Brunetta e la morsa della manovra economica» denuncia Paola Requisini dell’UsbScuola. Intorno alle 17 l’esposizione dello striscione “No alla guerra in Libia Berlusconi e Napolitano imperialisti e assassini” dà avvio a qualche momento di tensione tra i manifestanti e le forze dell’ordine che, tra i flash dei fotografi, obbligano con la forza a ritirare una scritta considerata vilipendio alla massima carica dello Stato. Ma la piazza non si lascia intimidire e continua il presidio improvvisando un’assemblea pubblica. C’è chi parla di «manovra permanente» come la definisce Piero Bernocchi dei Cobas. Chi, come Fabio Alberti della Federazione della Sinistra di «manovra costituente» perché «cancella quei diritti che fino ad adesso hanno costituito la base della nostra democrazia». Ma gli occhi non sono puntati solo su Montecitorio. «Dobbiamo opporci all’Europa delle banche e della finanza e dichiarare con chiarezza che non siamo in debito» afferma Paolo Di Vetta dei Blocchi precari metropolitani. Di certo, il commento unanime è che «questa piazza va allargata perché la manovra tocca tutti». Per continuare a presidiare la discussione della manovra, la mobilitazione è stata riconvocata per oggi pomeriggio, alle 15, a Montecitorio. Pesante bilancio per l’asta convocata ieri dal Tesoro per collocare 11,5 miliardi di Bar a tre e dodici mesi. Un’operazione normale, che ripete con cadenza quasi mensile, perché si tratta di rimpiazzare titoli in scadenza (che vanno dunque rimborsati per intero) con altri freschi di stampa. Qualcosa si è rotto nel rapporto tra i banchieri (i veri protagonisti di queste aste) e il ministero guidato da Giulio Tremonti: ad agosto l’identica operazione era avvenuta scontando un tasso di interesse del 2,9%, ieri è costata il 4,1%. Significherà 75 milioni di interessi in più da pagare. Tanto più pesante, questo risultato, perché l’Italia aveva chiesto in ginocchio alla Cina di comprare «quote significative» del nostro debito pubblico, nel disperato tentativo di non concedere interessi così pesanti. Il FINANCIAL TIMES ha rivelato che delegazioni italiane e cinesi si sono incontrate nelle ultime tre settimane e nell’ultimo incontro, a Roma, il ministro Tremonti ha chiesto a Lou Eiji, amministratore delegato della China Investment Cord., di acquistare BOT e CCT. «Tremonti a osserva velenoso il quotidiano britannico a ha scritto molto in passato della sua paura di una colonizzazione a rovesciò cinese dell’Europa». Oggi è lui a tirare la giacca ai ricchi banchieri di Pechino. Cina a parte, sembra chiaro che i banchieri hanno scaricato Tremonti. Viene fatto notare che «il patto» tra loro e il ministro ha retto per oltre tre anni, pur sotto una valanga di «incidenti» politici che avrebbero messo in crisi un matrimonio d’amore. Ma «è solo una questione d’affari...». Il patto avrebbe visto infatti da un lato le banche pronte a comprare BOT e B.T.P. a interessi bassi, senza problemi; dall’altro il ministro assicurava agevolazioni fiscali e occhi chiusi quando qualche banca appioppava ai clienti obbligazioni trash. Ma quando, in una delle tante «manovre» il Tesoro ha inserito l’aumento dell'Arpa per banche e assicurazioni, il clima è cambiato. Del resto è semplice, per gli acquirenti, dare la colpa allo spread con i bund tedeschi che sale, alle agenzie di trading che stanno per declassare parecchie banche importanti francesi e inglesi. Il risultato è che il tasso di credibilità dell’Italia – in mano a questo governo – è in discesa libera. E quindi le banche non possono più riempirsi di titoli che «devono» ora esser prezzati in modo corrispondente al «valore» internazionale (basso) del nostro paese. È un altro pezzo – forse ancora più decisivo dei cattolici, almeno sul piano del potere temporale – di blocco di potere che si sgancia dalla «maggioranza» di governo. La riprova la si dovrebbe vedere oggi. Il Tesoro ha convocato un’asta per collocare tra i 5 e i 7 miliardi di Btp. Titoli a più lunga scadenza rispetto ai Bot (5 anni e più, nell’occasione), dunque teoricamente un po’ più rischiosi. Le previsioni – dopo l’ennesima pessima giornata di ieri – vedono possibile un tasso di interesse medio oscillante tra il 5,25 e il 5,35%. Del resto ieri lo spread tra Btp decennali e Bund tedeschi della stessa durata ha raggiunto i 385 punti: il massimo da quando la Bce ha preso ad acquistare i Btp italiani (oltre ai Bonos spagnoli) per sostenerne il prezzo. Fr. Pi. pagina 4 il manifesto MARTEDÌ 13 SETTEMBRE 2011 POLITICA Gianpi sentito ieri per la terza volta. Potrebbe restare in carcere finché non verrà ascoltato dai magistrati anche il premier USTICA Francesca Pilla Maxi-risarcimento, condannati Difesa e Trasporti NAPOLI A richiedere la riunione con il presidente della commissione europea José Manuel Barroso a Strasburgo è stato effettivamente il governo italiano, che ha fissato il giorno - oggi, martedì 13 - e l’ora - le 16 - in un incrocio fatale che elimina qualsiasi dubbio sulla possibilità, per Silvio Berlusconi, di trovarsi nello stesso momento a Palazzo Chigi per incontrare il procuratore capo di Napoli Giandomenico Lepore e rispondere alle domande sul caso Tarantini. Ma Alejandro Ulzurrun, il portavoce di Barroso, ha detto di più, affermando di non conoscere «come e perché» sia stato stabilito l'appuntamento e di sapere solo che la richiesta è arrivata da Roma «alla fine della scorsa settimana», quindi dopo che Ghedini aveva già organizzato l'incontro con i pm napoletani a Roma. Queste sono invece le parole dette da Berlusconi alla trasmissione di Maurizio Belpietro su Canale 5: «Si è creata molta confusione intorno alla manovra. Ho cercato quindi di avere un appuntamento con il presidente del Consiglio dei capi di stato Van Rumpuy e con quello della Commissione Barroso», ma è stato possibile averlo solo per oggi. Il Cavaliere ha quindi detto alla sua tv di non avere nessun timore di essere ascoltato come teste, anche perché ha solo «aiutato una famiglia in difficoltà». Eppure per ironia del destino finché non verrà sentito Berlusconi proprio i coniugi Tarantini saranno costretti a restare agli arresti, Gianpi detenuto a Poggioreale e Ninni ai domiciliari ai Parioli. Per Lepore dunque il tempo stringe, anche perché la deposizione del presidente del consiglio è determinante per decidere la competenza delle procure sul prosieguo delle indagini, che potrebbero passare a Roma. «Se gli avvocati di Berlusconi non dovessero comunicare a breve una data, invieremo noi un calendario di giorni possibili», ha detto Lepore durante ROMA N IL PREMIER SILVIO BERLUSCONI/FOTO EMBLEMA SOTTO, L’EX CONSIGLIERE DI TREMONTI MARCO MILANESE CASO TARANTINI · Per evitare l’incontro con i pm, oggi Berlusconi invierà un memoriale Silvio ritrova la memoria una cerimonia cittadina. In mattinata l’avvocato Michele Cerabona però ha bruciato la procura sul tempo presentando per conto di Ghedini il documento che contiene le ragioni dell’impedimento del premier, ma soprattutto «alcune riflessioni» di Berlusconi, che annuncia l’intenzione di stilare già in giornata una memoria per tentare di evitare l’interrogatorio. In procura si aspetta di leggere i documenti, ma spetterà poi al pool di Woodcock decidere se ritenere esaustive le dichiarazioni cartacee o sentire in ogni caso il premier. Di sicuro la strategia dei legali del presidente è quella di evitare il confronto con i pm, un po’ come è avvenuto nei momenti di difficoltà di Silvio che ha sempre disertato i talk show e le domande dirette per evitare di inciampare in eventuali contraddizioni. A chi non si risparmiano interrogatori è invece Gianpaolo Trarantini, che nel terzo incontro con i pm, ieri, ha dovuto chiarire i termini del suo coinvolgimento con la società Andromeda e in particolare i rappor- MONTECITORIO Milanese atteso in giunta, lui denuncia Viscione La giunta per le autorizzazioni della camera riprenderà oggi l’esame della richiesta di arresto di Marco Milanese, il deputato del Pdl ex consigliere politico del ministro Giulio Tremonti. Ricevuti dal tribunale di Napoli i nuovi atti dell’inchiesta, la giunta già oggi potrebbe ascoltare Milanese per poi votare il parere per l’aula di Montecitorio - convocata per il 20 - domani o al massimo giovedì. L’attenzione è puntata in particolare su come si comporterà la Lega, che ha votato sì all’arresto del deputato pidiellino Alfonso Papa. «Non abbiamo ancora preso alcuna decisione - dice Luca Paolini, esponente del Carroccio in giunta - Finiremo di esaminare tutta la documentazione, sulla quale abbiamo lavorato anche ad agosto, e anche dopo il confronto con i colleghi stabiliremo quale atteggiamento assumere». Il procuratore Vincenzo Piscitelli ha inviato alla camera sia i documenti chiesti dal relatore del caso, Fabio Gava, sia quelli citati dallo stesso Milanese nella sua memoria difensiva. Nel faldone compare tra l’altro la lista degli accessi del deputato alla sue cassette di sicurezza: da metà luglio 2009 a metà dicembre 2010 le avrebbe aperte una quindicina di volte. Ieri intanto Milanese ha presentato personalmente alla Procura di Roma una denuncia contro l’imprenditore napoletano Paolo Viscione, che ha accusato l’ex braccio destro di Tremonti di avere accettato orologi d’oro, danaro ed altri beni per evitargli controlli da parte della Guardia di finanza. TORNA BALLARÒ SU RAITRE MEDIA · Alla festa del «Fatto» tutto esaurito per Santoro e Landini Floris: «La nostra è informazione. Non facciamo mai spettacolo» Dalla Versilia con amore Riccardo Chiari Stesso lo studio, il Cptv di Roma, cast pressoché identico, confermata la copertina di Maurizio Crozza. Riparte stasera su Raitre alle 21.05 la macchina di «Ballarò», il programma di informazione e approfondimento arrivato alla sua decima edizione, condotto da Giovanni Floris. Il restyling è nel nuovo sito internet, nella sigla «Jeux des enfants» di Duperé reinterpretata da Alessandro Mannarino, non nell’approccio. «Perché - spiega il conduttore in risposta a chi accusa la trasmissione di alzare i toni ed essere troppo di parte - io penso che tutto cambi ma che noi come metodo non siamo cambiati. Noi individuiamo un problema, chiamiamo persone che pensano di risolverli in maniera differente e testiamo le loro teorie facendole confrontare e facendolo notare». Molto diplomatico sul caso Santoro: «Mi dispiace sempre se la Rai perde un prodotto di qualità come Annozero. Ma penso che alla fine da un processo del genere ci rafforzeremo un po’ tutti, guadagneremo tutti, dal prodotto televisivo e dal rafforzamento di altri editori». E nega di ospitare sempre le stesse facce: «Ho una lista infinita, il problema è che sono pochi quelli che bucano lo schermo, e solo quelli si ricordano. E poi noi raccontiamo questo paese, non quello che ci piacerebbe che esistesse». s.cr. PIETRASANTA (LU) A nche l’estate che non sta finendo ci mette del suo. Comunque, in questo angolo di Versilia che mette insieme Focette, Motrone, Tonfano e Fiumetto sotto i cartelli stradali che indicano «Marina di Pietrasanta», una folla così non se l’aspettavano neanche i negozianti. «Visto il bel tempo alcuni hanno riaperto casa - dicono quelli del bar pizzeria il Nicchio, lungo un viale Apua trasformato in un lungo, ordinato parcheggio - ma in tanti sono venuti anche per la festa alla Versiliana». La festa del Fatto Quotidiano, dove l’uno-due della domenica, con Maurizio Landini al mattino e Michele Santoro al pomeriggio, manda in tilt la pur organizzata logistica del giornale. «Già ieri era abbastanza mostruoso - riepiloga una ragazza dello staff - oggi è semplicemente disumano». Sembra stanca. Soprattutto di spiegare a un centinaio di persone in fila quello che c’è scritto sul cartello del suo gazebo: «Tutto esaurito». Non si entra nell’arena da un migliaio di posti dove si svolgono gli incontri e gli spettacoli. Ci sono comunque i due maxischermi sotto i pini marittimi del grande parco, dove altre centinaia di donne e uomini, di ogni età, ascoltano attentamente Michele Santoro. Per scoprire che il nuovo programma si chiamerà Comizi d’amore. E che andrà in onda sulle tv locali, sul web, e an- che su canali della piattaforma Sky. Santoro ci crede: «Sarà una grande manifestazione televisiva. Se riusciremo a farla vivere sul digitale e sui canali Sky, e se milioni di persone saranno lì, allora ci saremo avvicinati alla possibilità di trasformare la tv italiana». Il pubblico applaude. Anche quando, dopo un grazie ai cofinanziatori Sandro Parenzo, Eta Beta e Fatto Quotidiano, la base viene chiamata a dare un piccolo aiuto: «Se date dieci euro all’associazione no profit ‘Servizio pubblico’, i Comizi d’amore saranno la Il giornalista torna in autunno con il suo programma in onda sulle tv locali, sul web, e sulla piattaforma Sky protesta della società italiana verso lo stato di cose esistenti». «Comizi d’amore. Come Pasolini». Il sussurro di una ragazza al suo compagno, subito dopo l’annuncio di Santoro, colpisce. Non solo per l’immediato collegamento al docufilm sull’amore e la sessualità nell’Italia degli anni ’60, realizzato da Pasolini ai tempi del Vangelo secondo Matteo. Aiuta a capire che nel parco della Versiliana sono arrivate persone molto diverse fra loro. Ci sono, inconfondibili, i proprietari delle curate case di vacanza estiva, classe media richiamata dal fa- scino dell’evento mèta-televisivo. Poi i (tanti) paladini, senza macchie né incertezze, del Fatto. Ancora, ci sono giovani che tengono sulla suoneria del cellulare «Bella Ciao», e che - sussurro docet - dimostrano di aver studiato la storia di un paese fatto non solo di miserie ma anche di tanta nobiltà. Insieme a famiglie come quella di Fabio e Maria Rosa, che hanno portato anche la piccola Lavinia: «Santoro lo vediamo sempre in tv, è una sicurezza, era prevedibile che per lui ci fosse tutta questa gente. Ma avresti dovuto vedere quanti ce n’erano stamani per Landini, che è stato bravissimo. Si vede che piace, poi è una persona nuova sulla scena. Speriamo che resti a fare il sindacalista, ce n’è tanto bisogno». Nel mentre Santoro va avanti, come un carrarmato. Spiega che il modello per i Comizi d’amore sarà quello di «Rai per una notte» e «Tuttinpiedi». Azzarda: «Andrò in ginocchio da Sabina Guzzanti, da Adriano Celentano, da Daniele Luttazzi, a chiedere che ci aiutino a fare una tv libera da censura». Riepiloga vecchi e nuovi misfatti della tv odierna: «Non ho mai parlato di quello che è successo con La7. Certo sapevo, e lo dicevo ai miei collaboratori, che Telecom è ipersensibile alle politiche del governo. Ma chiedo a tutti i giornalisti: perché non si è scritto che all’annuncio della trasmissione il titolo di La7 è cresciuto del 20%, e subito l’amministratore delegato mi ha chiesto di ti con il penalista calabrese Nino D’Ascola. L’avvocato che è in stretti rapporti con Ghedini ha difeso Tarantini sempre nel 2009 insieme a Nicola Quaranta. L’intento dei magistrati è quello di capire se anche D’Ascola, come l’avvocato Perroni, è stato «convocato» direttamente da Berlusconi. Ieri è stata sentita anche Debbie Castaneda, l’ex miss Colombia che una volta sbarcata in Italia è diventata consulente per Finmeccanica. Pare che la modella avesse un filo diretto con il presidente del consiglio, ma lei ha sempre affermato di averlo incontrato solo in occasioni ufficiali. La Castaneda, che ha alternato comparsate televisive con la carriera di esperta in pubbliche relazioni, è arrivata in procura coperta da un casco e ha dovuto rispondere sui suoi rapporti con Finmeccanica. Licenziata dal direttore commerciale Paolo Pozzessere, Debbie Castaneda avrebbe minacciato di far intervenire direttamente Silvio Berlusconi. Ma la ex miss smentisce categoricamente. avere in anticipo la scaletta di ogni trasmissione, obbligo impossibile da accettare?». Infine non mancano attacchi al governo e al suo caro leader: «Quando diremo a Berlusconi che basta, è finita, fuori dalle balle?». Ma ce n’è anche per l’opposizione: «Hanno poca dimestichezza con il pensiero liberale, anche i meno peggio come Napolitano e Prodi pensano che l’informazione possa e debba essere governata». Alla fine tutti in piedi per salutare anche Marco Travaglio, Vauro & Co. All’uscita i vigili urbani, encomiabili, continuano a sorvegliare il trafficatissimo passaggio pedonale che porta e fa uscire dalla Versiliana. Uno di loro sembra il fratello di Giorgio Panariello. Anche questa è Versilia. on hanno garantito la sicureza del volo ma soprattutto hanno contribuito ad occultare la verità attraverso depistaggi e la distruzione degli atti. Più che una sentenza è un atto d’accusa pesantissimo quello con cui il Tribunale civile di Palermo ieri sera ha condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti a risarcire con più di cento milioni di euro i familiari delle vittime della strage di Ustica. Una sentenza importante non solo per l’entità della cifra, ma anche perché fa sue le conclusioni raggiunte a suo tempo dall’ordinanza del giudice Rosario Priore, secondo il quale il Dc9 dell’Itavia venne abbattuto da un missile dopo essere rimasto coinvolto in un ’azione di guerra nei cieli del Mediterraneo. E’ la prima volta che un tribunale cancella definitivamente sia l’ipotesi di una bomba collocata a bordo dell’aereo, sia quella del cedimento strutturale. «La sentenza riconosce le responsabilità dei ministeri della Difesa e dei Trasporti e voglio sperare che adesso il governo si dia da fare per sapere chi ce l’ha abbattuto questo aereo», è stato il commento di Daria Bonfietti, presidente dell’associazione che riunisce i familiari delle 81 vittime della strage. Su quato accadde la notte del 27 giugno dei 1980 è in corso un’indagine da parte della procura di Roma, che da mesi ha avviato una serie di rogatorie internazionali rimaste però finora senza esito. L’ipotesi è che l’areo, dopo essere decollato da Bologna per Palermo con quasi due ore di ritardo, si ritrovò al centro di un’azione di guerra che aveva come obiettivo Gheddafi, in volo in quelle stesse ore sul Mediterraneo. A voler uccidere il leader libico sarebbe stato il governo francese, come testimoniato davanti ai giudici di Palermo dall’ex presidente della repubblica Francesco Cossiga. Quello emesso ieri dal Tribunale civile di Palermo è solo il giudizio di primo grado, contro il quale è probabile che l’avvocatura dello stato presenterà ricorso. «Spero che si abbia la dignità di impedire che si ostacolino le legittime aspettative risarcitorie dei parenti delle vittime», è la speranza dell’avvocato Daniele Osnato, uno dei legali che assistono i familiari. «Il tribunale ha riconosciuto un risarcimento ancora più alto di quello previsto per la perdita di un parente, - ha proseguito il legale - e questo proprio per il mancato accertamento della verità da parte dei due ministeri». Chi non si rassegna è invece il sottosegretario alla presidenza del consiglio Carlo Giovanardi, che da sempre sostiene la tesi di una bomba collocata a bordo. «La sentenza di Palermo - ha detto ieri Giovanardi - è in totale contrasto con la sentenza della Cassazione e con le altre sentenze del Tribunale civile di Roma». il manifesto MARTEDÌ 13 SETTEMBRE 2011 pagina 5 IL PRIMO GIORNO SU «TUTTO SCUOLA» LA CONTESTAZIONE DEGLI INSEGNANTI DI GRECO E LATINO IERI DAVANTI AL MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE/FOTO SIMONA GRANATI La rete scolastica secondo Gelmini: via 5.600 istituti Roberto Ciccarelli ROMA I l quarto anno della guerra alla scuola pubblica è stato inaugurato da un rituale, e falsamente cameratesco, «in bocca al lupo» che il ministro dell’Istruzione Gelmini ha rivolto ieri ai quattro milioni di studenti che hanno riempito le aule di tredici regioni e province autonome. Intervenuta in ben due trasmissioni Mediaset, «Studio Aperto» e «Mattino 5», il ministro ha inzuppato il pane duro dei sacrifici nella colazione dei bambini e degli adolescenti italiani. La fatica – ha ammonito - «è ineliminabile in un percorso di formazione». E lo sarà ancora di più in una scuola trasformata in un percorso penitenziale come hanno ricordato gli studenti e gli insegnanti che ieri hanno attraversato la Capitale con sit-in e flashmob. Pochi minuti dopo il suono della prima campanella sulle scalinate del ministero in Viale Trastevere abbiamo assistito alla protesta dei docenti di latino e greco dei licei classici che si sono costituiti nel coordinamento A052, la sigla della classe di concorso di riferimento. Dopo anni di insegnamento non potranno concorrere all’assegnazione delle cattedre disponibili anche perchè sono stati messi in concorrenza con i colleghi che insegnano italiano e latino. È uno degli effetti dei tagli: chi resta senza cattedra non potrà insegnare in un altro indirizzo. Poi sono arrivati gli studenti dell’Uds che hanno improvvisato un «cacerolazo» scandendo lo slogan: «Suoniamogliele, la musica deve cambiare». Di questi flash-mob ieri ne hanno organizzati trenta in tutte le città. I romani venivano dal Pincio dopo avere esposto un gigantesco striscione dove hanno elencato alcune delle insidie preparate dal lupo-Gelmini. Chi farà 50 assenze quest’anno verrà bocciato o rischia un 5 in condotta. La Rete degli studenti medi si è spostata alla stazione Termini dove i suoi attivisti hanno cambiato i numeri dei binari. La Federazione degli studenti ha distribuito contro-guide dal titolo: «Don’t Panic». Appuntamento per il 7 ottobre a Roma dov’è prevista una manifestazione nazionale. Anche gli amministratori locali hanno fatto sentire la loro preoccupazione per i drastici tagli ai comuni contenuti nella manovra finanziaria. «I Comuni – ha detto Daniela Ruffino, delegata Anci alla Scuola - stanno vivendo un periodo particolarmente faticoso dovuto alla mancanza di risorse e ai continui tagli che impediscono la programmazione». Messaggio poco rassicurante che conferma la denuncia fatta dall’Inail nel 2010 quando si è registrato un incremento a due cifre degli infortuni nei laboratori e nelle palestre. I comuni restano in attesa della seconda tranche del finanziameno di un miliardo stanziato dal governo nel 2009 per l’edilizia scolastica. Fino ad oggi, si legge in un dossier diffuso dalla Flc-Cgil, hanno ricevuto 415 milioni. Alla manutenzione ordinaria vengono destinati 11.129 euro per edificio, per quella straordinaria 42.491. Cifre del tutto insufficienti per riparare i muri delle scuole elementari Novelli di Pisa che ieri sono state dichiarate inagibili dai vigili del fuoco. La protesta dei genitori ha spinto l’assessore ai lavori pubblici, Andrea Serfogli, ad ammettere che il comune toscano è in attesa di un finanziamento di circa 200 mila euro da parte del Cipe. La giornata di ieri è stata arroventata anche dalla polemica sulle «classi pollaio». «Non nego che il problema esista, ma non è enorme e riguarda solo 2 mila classi su 340 mila» ha affermato Gelmini. Ammesso che siano 2 mila, in Italia esistono allora 60 mila studenti che vivono in classi sovraffollate, senza contare quelle che ne hanno qualcuno in meno. «Abbiamo prime sovraffollate oltre ogni limite umano fino a 32 ragazzi» conferma Antonio Panaccione, dirigente del liceo scientifico Talete di Roma. L’allarme suona anche nelle elementari e nelle medie dove sono partite classi fino a 28 alunni. «È una follia inserire 25 bambini – afferma Rossella Sonnino, dirigente di una scuola media e di una elementare – con la presenza di disabili. Sarebbe bastata una classe in più, ma non ce l’hanno data». Sfogliando il libro degli orrori si ar- Ro. Ci. D SCUOLA · Tornano tra i banchi 4 milioni di studenti in 12 regioni. Allarme dell’Anci sui tagli Si riparte, senza soldi e docenti Tra sit in, flash mob e proteste è iniziato il quarto anno della guerra contro l’istruzione pubblica. Infuriano le polemiche sui tagli ai docenti di sostegno e sulle «classi pollaio» riva a quello sui docenti di sostegno. A dire del ministro, quest’anno sarebbero 3500 in più. Per le associazioni che tutelano i diritti dei disabili è vero l’opposto. La Ledha sostiene che ne mancano più di 3600, a cui si aggiungono i tagli delle province al servizio di trasporto e la carenza delle risorse dei comuni per l’assistenza nelle primarie e nelle medie. «Questi insegnanti sono proprio tutti qualificati per il sostegno? – domanda Clivia Zucchetti responsabile di Equality Ita- lia – Una buona percentuale viene reperita dalle file del precariato classico secondo cui l’incarico fa punteggio e le competenze non contano». Il direttore dell’ufficio scolastico della Lombardia Giuseppe Colosio ha rivelato che per affrontare l’emergenza si procederà all’aumento del 70% delle deroghe. Reazioni che confermano, una volta di più, che non ci sono più i polli di una volta disposti a credere nelle promesse del lupo-Gelmini. POLEMICHE LOMBARDE Formigoni: «La scuola pubblica? Non esiste» Se qualcuno ha ancora qualche dubbio sul programma di «distruzione di massa» della scuola pubblica italiana, basta guardare alla querelle lombarda Formigoni-Pisapia. Il presidente della regione Lombardia rimprovera il neo sindaco di Milano per le parole usate nella lettera di inizio anno scolastico. «Le scuole pubbliche e quelle paritarie, dopo il ministro Berlinguer, sono sullo stesso piano», ha tuonato Formigoni. «Mi meraviglio che qualcuno si meravigli del contenuto della mia lettera. Ho solo citato gli articoli 33 e 34 della Costituzione della Repubblica italiana, una citazione che non dovrebbe creare stupore, specie nei rappresentanti delle istituzioni», si è giustificato Pisapia. «Non mi riferisco a quello – ha precisato il presidente ciellino – ma all’uso dell’espressione ‘scuola pubblica’, che non a caso nella Costituzione non esiste». In effetti la Carta usa solo la parola scuola: quella gratuita fino a otto anni e in cui è garantita la libertà di insegnamento. opo la Puglia di Vendola, anche la Regione Toscana di Enrico Rossi ha fatto ricorso alla Corte Costituzionale contro la norma, contenuta nella manovra finanziaria di luglio, relativa al numero minimo di alunni e alla creazione di istituti scolastici comprensivi. Entrambe le regioni giudicano incostituzionale la riorganizzazione della rete scolastica predisposta dal ministero guidato da Mariastella Gelmini. La riforma è esecutiva da settembre e vuole aggregare la scuola dell’infanzia alla scuola primaria e a quella secondaria di primo grado. Viene fissata a mille alunni (500 per le piccole isole, i comuni montani e minoranze linguistiche) la soglia minima perché si possa riconoscere l’autonomia alle nuove istituzioni. Dalle attuali 10.500 si passerà a 5.600, mentre 1.100 saranno soppresse. Record a Bari dove verrà accorpato il 95% degli istituti del primo ciclo. In un dossier pubblicato dalla rivista «Tutto Scuola» è stato calcolato che per il triennio 2012-14 i risparmi saranno di oltre 200 milioni di euro che verranno destinati al funzionamento dell’Invalsi e dell’Indire. Deriveranno dal taglio di 3180 posti di dirigente scolastico (164 milioni di euro), dal taglio di 1100 assistenti amministrativi (26 milioni). Salteranno anche 1130 posti da direttore amministrativo. E saranno almeno in 30 mila i dirigenti che dovranno difendere la propria sede e non essere trasferiti d’ufficio. Non è escluso che il ministero non decida di trattenere una parte di questa cifra per sé. E non sarebbe la prima volta. Già nel 2008 molte regioni si erano opposte alla riforma, lamentando l’invasione di competenza del Miur. La rivoluzione di cui nessuno parla cambierà il riferimento del dirigente scolastico per 5 milioni di famiglie. Obbligherà i presidi a dirigere più di una scuola, verranno eletti 5700 nuovi consigli di istituto e mezzo milione tra docenti e personale Ata verranno chiamanti nel 2012 a rinnovare 14 mila Rsu di istituto. È iniziato l’anno più caldo per la scuola. INFANZIA · Anche le paritarie soffrono il dimezzamento dei fondi, ma restano più competitive rispetto alle pubbliche Messa obbligatoria, rette vantaggiose Cinzia Gubbini ROMA I soldi non ci sono più per nessuno, nemmeno per le scuole paritarie. Ciò non toglie, però, che le scuole paritarie, proprio in questo momento di crisi, rappresentano un «competitor» fuori regola per quelle pubbliche. On-line e non solo, ferve il dibattito sul dimezzamento dei fondi a favore delle scuole pa- ritarie. L’impensabile è accaduto, visto che da quando è stata approvata la legge sulla parità nel 2000 nessuno ha mai negato quel mezzo miliardo di euro alle scuole che «ampliano» - come si usa dire - il sistema formativo italiano. Quest’anno, invece, i finanziamenti pubblici sono precipitati a circa 250 milioni di euro. La crisi tocca davvero tutti. Ma è proprio così? Che anche le scuole paritarie siano in crisi è veris- simo, bisognerebbe aggiungere che hanno sempre la possibilità di alzare le rette, a differenza delle scuole statali. Ma la verità è che anche quei «pochi» finanziamenti che percepiscono, unitariamente alla grande libertà nella contrattualizzazione interna, permettono rette «accessibili» a fronte di una scuola pubblica ridotta alla canna del gas, e che non riesce più a garantire neanche il minimo. Non più soltanto nella fascia 0-3 anni, ma anche nelle scuole dell’infanzia e nelle scuole paritarie, quando l’indirizzo culturale comincia ad essere più «pesante». Prendiamo una città, Roma, e un quartiere, San Giovanni. Nelle scuole pubbliche che non riescono a offrire il tempo pieno si offre alle famiglie di poter pagare un dopo scuola. Ovviamente bisogna poi pagare la mensa (che a volte è addirittura "autoprodotta" o gestita attraverso un catering). I costi lievitano, nonostante si sia nell’ambito statale: si può arrivare a sborsare - a Roma come in altre città - anche oltre 150 euro al mese. E una paritaria, quanto costa? Racconta Sonia, una mamma che abita appunto nel quartiere San Giovanni di Roma e manda quest’anno sua figlia al primo anno di scuola dell’infanzia: «Una scuola gestita da suore, ma con personale laico, considerata anche piuttosto buona a cui mi sono rivolta chiede 100 euro al mese, più 5 euro a pasto. Se la bambina andasse tutti i giorni significherebbe una spesa di circa 180 euro. Per l’inverno, inoltre, chiedono un contributo aggiuntivo. Non so di quanto, ma niente di rilevante». Servizio garantito fino alle 16,30 - ma ci sono scuole paritarie che offrono un servizio persino fino alle 18. Solo che tutte le mattine, in questa scuola, la messa è obbligatoria. Elemento che ha convinto Sonia a ritornare sull’opzione della scuola statale, dove comunque il dopo scuola sarà gestito da un’associazione per 80 euro al mese, più gli 80 euro della mensa. Servizio garantito solo fino alle 16. Tanto per dire. Testimonianze simili si trovano anche in internet. Scrive sul sito di Noimamme.it, in un forum proprio sui costi dell’asilo, Giulia1970: «Da noi fino all'anno scorso c'erano due asili: parrocchiale paritario, retta 130 euro mensili coi pasti compresi, comunale, retta 70 euro men- sile, pasti esclusi, 3.6 euro a pasto (sommando il tutto costi equivalenti, anzi più caro il comunale)». «E oltretutto la scuola statale per far fronte alle paurose liste di attesa si sceglie, e noi lo contestiamo, di sacrificare le 40 ore di tempo pieno per offrire almeno una sezione in più, ma solo di antimeridiano», denunciano dalla FlcCgil, che sia sulla scuola dell’infanzia che su quella paritaria hanno elaborato un documento per lanciare «Dieci buone idee» (si possono trovare sul sito www.flcgil.it). «Le scuole paritarie non vivono solo di finanziamenti statali, ma anche di finanziamenti regionali e a volte pure comunali ricordano ancora dalla FlcCgil - ma il punto centrale su cui possono fare affidamento è lo scarso rispetto dei diritti dei lavoratori: ci sono alcune scuole in cui le persone lavorano con contratti infimi solo per guadagnare punteggio. Questa è storia nota». Deregolamentazione del mercato del lavoro che difficilmente fa rima con una offerta di qualità e garantita. D’altronde, anche nelle scuole pubbliche si esternalizza per cercare di andare incontro alle esigenze delle famiglie. «Succede di peggio - dicono ancora al sindacato ci chiamano da alcune zone per dire che le scuole si affidano persino ai volontari, ad esempio ai nonni, per garantire il tempo di pre e post scuola». pagina 6 il manifesto MARTEDÌ 13 SETTEMBRE 2011 ITALIA FROSINONE · Esplode la ditta pirotecnica della famiglia Cancelli: perdono la vita i tre proprietari e tre operai. Due dispersi Sei vittime nella fabbrica dei fuochi Antonio Sciotto IL PRECEDENTE/PARENTI NELL’AQUILANO U na serie di esplosioni che non ha lasciato scampo: una fabbrica e diversi depositi rasi al suolo, almeno sei morti. Ancora ieri sera si cercavano due persone che risultavano disperse. Il bilancio, come di un bombardamento, è quello dello scoppio di un’industria di fuochi d’artificio ad Arpino, nel frusinate: la «Pirotecnica Arpinate», di proprietà della famiglia Cancelli, è risultata quasi del tutto cancellata. La prima deflagrazione è avvenuta alle 14,45 di ieri, poi le altre: vi hanno perso la vita il titolare e i due figli – Claudio Cancelli, di 65 anni, Gianni e Giuseppe, di 42 e 45 – i due operai Enrico Battista e Francesco Lorini, e una sesta persona che si trovava lì al momento della tragedia – Giulio Campoli, di 41 anni – esterno alla ditta. Ma non è chiaro – o almeno non lo era ancora nella serata di ieri – se il bilancio possa ancora salire: infatti fino a tardi sono continuate le ricerche per trovare due persone che risultavano disperse, un operaio e un esterno – forse un acquirente che era entrato nell’area della fabbrica per caricare i fuochi su un furgone. Le esplosioni sarebbero state in tutto quattro, ma la prima sarebbe avvenuta nel locale adibito al confezionamento dei botti e avrebbe subito investito proprio i tre titolari. La ditta stava preparando i fuochi per alcune feste padronali nei dintorni. La fabbrica, per fortuna, è stata costruita su uno spazio di tre ettari, lontano dalle abitazioni e adiacente a un bosco: l’incendio infatti si è propagato rapidamente agli alberi vicini, ed è stato particolarmente difficile per i vigili del fuoco avvicinarsi, sia per le al- L’azienda non era nuova nel settore: operava dal 1812. Muoiono i titolari, padre e due figli te temperature che per il rischio di nuovi scoppi, molto diffusi in questo tipo di industrie (in genere i fuochi già confezionati, o la polvere da sparo, vengono custoditi in casematte distanziate l’una dall’altra: ma a volte la violenza di un’esplosione o di un incendio non basta a impedire al propagazione e altre deflagrazioni). Come spiega il sito della «Pirotecnica Arpinate», la famiglia Cancelli non era affatto nuova del mestiere, ma anzi vanta una tradizione avita nella produzione di giochi pirotecnici: addirittura il primo nucleo della ditta fu fondato già nel 1812. «Dal lontano 1812 – dicono gli stessi Cancelli su Internet – l’arte pirotecnica è stata lo scopo principale della nostra famiglia. I progenitori degli attuali artigiani dei fuochi artificiali hanno studiato, provato, praticato, modificato e inventato miscele pirotecniche che hanno portato alla definizione di composizioni, di colori ed effetti sonori rilevanti. I Cancelli di oggi non fanno altro che continuare quello che la propria famiglia si è tramandato nel corso degli anni ed effettua spettacoli che ripropongono l’arte di una tradizione millenaria che ormai Brucia un’altra Cancelli nel 1994 altri sei morti Diciassette anni fa, nel 1994, un’altra tragedia colpì una ditta pirotecnica «Cancelli»: non era la stessa dell’incidente di ieri, ma era di proprietà di alcuni familiari delle vittime. Si trattava della «Fratelli Angelo e Donato Cancelli», industria di fuochi pirotecnici a Balsorano nella Marsica aquilana. Un errore nella fase di miscelamento dei colori o una scintilla provocata dall’elettricità causarono violente esplosioni che distrussero la fabbrica. Le vittime furono anche allora sei: i due titolari Angelo e Donato Cancelli, Wilma Di Giandomenico, Gabriele Gismondi, Gianni Di Passio e Zoran Petrovic. La prima esplosione avvenne a 10 chilometri di distanza dalla fabbrica principale, poi una serie di scoppi ravvicinati, in rapida successione, che interessarono i diversi depositi dell’industria: scatole piene di polvere da sparo e di petardi già confezionati per le feste patronali di gran parte del Centro-sud Italia saltarono in aria una dietro l’altra. Altri quattro operai rimasero feriti, con gravi ustioni su gran parte del corpo. Le fiamme, come è avvenuto ieri a Arpino, interessarono pure un piccolo bosco ai margini della fabbrica. LA ZONA INTORNO ALLA FABBRICA DOPO LO SCOPPIO /YOUREPORTER. A DESTRA, NEL DEPOSITO DELLA DITTA CANCELLI solo in pochi riescono a svolgere». Una passione che può costare molto cara. Tra l’altro, sempre sul sito, si trovano foto tratte dalla festa della Madonna della Figura, a Sora nel 1933, e dalla Festa di San Rocco, sempre a Sora, nel 1932: nel primo caso la famiglia Cancelli si esibì con una «bomba da tiro», mentre l’anno prima il loro pubblico aveva potuto vedere una «girella con trasparenza». E la famiglia è stata colpita da una tragedia che sembra quasi identica, 17 anni fa, nel 1994, nell’aquilano: un altro ramo di parenti perse due componenti – Donato e Angelo Cancelli – che morirono insieme a altre quattro persone, a causa di un’analoga serie di esplosioni a catena di fuochi. La fabbrica era situata a Balsorano, nella Marsica abruzzese. Dal mondo politico sono piovuti messaggi di cordoglio, a partire da quello del capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Per Antonio Boccuzzi, sopravvissuto alla tragedia della Thyssen nel 2007 e oggi deputato Pd, la condizione precaria della sicurezza nelle fabbriche «è aggravata dalle scelte scellerate dell’esecutivo che, solo nel 2009, ha ridotto le sanzioni per chi non rispetta le norme». «Questa vicenda – dice Maurizio Zipponi (Italia dei valori) – dimostra quanto dolore concreto possa generare la criminale campagna del governo contro i diritti dei lavoratori, a partire dall’articolo 8 della manovra». L’associazione di giornalisti Articolo 21 chiede che «il giorno dei funerali sia proclamato il lutto nazionale» e che «l’intera giornata sia dedicata ad accendere i riflettori della politica e dell’informazione su un tema che purtroppo è rientrato nell’oscurità e riesplode purtroppo solo alla luce di tragici avvenimenti come questo». Intanto ieri l’Inail ha diffuso i dati sugli incidenti sul lavoro nel 2010: ben 980 i morti (-6,9% rispetto al 2009) e 775 mila infortuni complessivi (-1,9%). Campania/ 700 POSTI A RISCHIO NELLA FABBRICA DI BUS Irisbus (Fiat) alla DR Motor, il primo sì è dell’Antritrust L a DR Motor di Isernia ha avuto un primo via libera per acquisire la fabbrica di autobus Irisbus, che l’Iveco del gruppo Fiat vuole dismettere entro la fine di ottobre. L’operazione di cessione all'azienda molisana, assemblatrice di automobili, non modifica le dinamiche concorrenziali del mercato, ha sostenuto ieri l'Antitrust, che ha dato il via libera all'operazione decidendo di non avviare alcuna istruttoria. «L'operazione comunicata - spiega l'Autorità - in quanto comporta l'acquisizione del controllo da parte di un'impresa, costituisce una concentrazione» ed «è soggetta all'obbligo di comunicazione preventiva». L'Antitrust sottolinea che «il mercato dell'operazione è quello della produzione e commercializzazione di autobus destinati a uso turistico», mercato in cui «Irisbus detiene una quota di mercato pari a circa il 7% a livello europeo e al 17,6% a livello nazionale» e in cui DR Motor «non risulta attivo» e che nello stesso mercato ci sono «numerosi e qualificati concorrenti. Pertanto, tenuto conto del fatto che l'operazione si sostanzierà nella sostituzione di un operatore con un altro - conclude l'Authority - la medesima non appare idonea a modificare significativamente le dinamiche concorrenziali nel mercato». Per i circa 700 dipendenti di Irisbus potrebbe essere la salvezza del posto di lavoro, anche se bisognerà vedere prima il piano industriale della DR. L’azienda molisana fa capo a Massimo Di Risio, imprenditore ed ex pilota, oggi unico costruttore di auto in Italia fuori dall’orbita Fiat. Attualmente, Di Risio assembla auto sulla base di modelli del partner cinese Chery, comprando motori in Austria e dalla Fiat. La sua offerta per rilevare anche una parte della fabbrica Fiat di Termini Imerese in Sicilia, benché arrivata fuori tempo massimo, è stata giudicata congrua dal ministero dello Sviluppo economico. Dietro i piani di allargamento Di Risio è prevedibile che ci siano, oltre a un forte interesse per i soldi pubblici già stanziati per Termini e probabilmente stanziabili anche per Irisbus, interessi di Chery a stabilire teste di ponte produttive in Europa tramite partner locale. Per un futuro non così lontano come si potrebbe pensare, sulle orme di quanto fatto sempre in Europa con tempi e modalità diverse dai produttori prima giapponesi e poi coreani. MASSIMO DI RISIO Per oggi, intanto, il conL’imprenditore molisano siglio di fabbrica dei deleproprietario della DR gati Fiat e delle aziende Motors ha fatto un’offerta dell'indotto, riunito a Terper rilevare l’azienda mini Imerese, ha indetto campana, dopo essersi un'assemblea-sciopero aggiudicato quella per la con sit-in alle 6 davanti ai fabbrica Fiat di Termini cancelli dello stabilimento. Fim-Fiom e Uilm, inoltre, hanno proclamato lo stato di agitazione del personale, preoccupato per il futuro della fabbrica che Fiat ha deciso di chiudere a fine anno. Quello di oggi è il primo giorno di lavoro alla Fiat dopo un lungo periodo di stop, cominciato il 29 luglio e scandito da fasi di cassa integrazione e giorni di ferie. «Al momento i progetti del dopo-Fiat - dice il segretario della Fiom di Palermo, Roberto Mastrosimone - non danno garanzie a tutti i 2.200 operai di Fiat e dell'indotto e il percorso intrapreso è pieno di incertezze, a cominciare dai lunghi periodi di cassa integrazione che si profilano per centinaia di lavoratori dato che il piano del gruppo Dr prevede di assorbire 1.312 operai ma soltanto nel 2016». L'assemblea dei lavoratori si pronuncerà anche su eventuali iniziative di lotta. Stefano G. Azzarà Pio d’Emilia Un Nietzsche italiano Tsunami nucleare pp. 256 euro 30,00 pp. 128 euro 10,00 DIECI ANNI DI INCIDENTI Strage senza fine muoiono anche donne e ragazzini L e fabbriche di fuochi di artificio mietono vittime con una frequenza impressionante. Ecco i principali infortuni negli ultimi dieci anni, a ritroso dal 2011 al 2001. 2 febbraio 2011: Nell'esplosione di una fabbrica di fuochi artificiali a San Giovanni di Ceppaloni muore Ruggero De Blasio, 32 anni, figlio di un cugino di Sandra Lonardo Mastella. 10 gennaio 2011: Esplosione in una fabbrica di fuochi d’artificio a Santa Venerina, nel catanese. Due persone muoiono e un’altra resta ferita. 6 febbraio 2008: quattro persone perdono la vita nell’esplosione nella fabbrica di fuochi d’artificio di Castiglione in Teverina, in provincia di Viterbo. A perdere la vita nello scoppio un’intera famiglia: i due fratelli titolari della ditta e le rispettive mogli. 4 gennaio 2008: nell’esplosione di una fabbrica clandestina di fuochi a Giugliano, nel napoletano, restano feriti due minori, uno di 13 e un altro di 14 anni. Uno è il figlio del proprietario, poi arrestato dalle forze dell'ordine. 11 maggio 2007: un lavoratore muore nell’esplosione che distrugge la fabbrica di fuochi «Pirotecnica Alessi Domenico», alla periferia di Piane di Montegiorgio (Fermo), mentre altri due operai rimangono feriti. 4 maggio 2007: un operaio campano di 28 anni rimane gravemente ferito per lo scoppio avvenuto in un'azienda di fuochi di Castel D’Aiano, sull’Appennino bolognese, la «Pirotecnica Benassi». Oltre al giovane, che riporta ustioni sul 40% del corpo, ci sono anche altri due feriti meno gravi, il proprietario dell’azienda e la sorella. 23 aprile 2007: Una fabbrica di fuochi d'artificio esplode a Gragnano, nel napoletano. Tre le vittime: il titolare della ditta, Aniello Novellino, il nipote, Alfonso Novellino, e un operaio, Alberto Tartaglione. Lo scoppio provoca anche il ferimento di tre persone. 24 maggio 2006: A Mercato San Severino, in provincia di Salerno, due operai muoiono nell’esplosione di una fabbrica di giochi pirotecnici. 6 agosto 2005: Tre operaie muoiono nella deflagrazione di una fabbrica di fuochi a Ottaviano, nel napoletano. 19 luglio 2005: Nel salernitano, a Teggiano, salta in aria una fabbrica pirotecnica: due morti e tre feriti. 5 luglio 2004: Cinque vittime nell’esplosione di una fabbrica di fuochi d'artificio a Giugliano, nel napoletano. 30 agosto 2002: In uno scoppio a Visciano (Napoli), muoiono tre persone mentre altre tre restano ferite. 2 maggio 2002: A Terzigno, in provincia di Napoli, salta in aria una fabbrica di giochi pirotecnici. Tre i morti. 23 novembre 2001: Quattro persone rimangono uccise nell'esplosione di una fabbrica di fuochi d’artificio a Terricciola, in provincia di Pisa. il manifesto MARTEDÌ 13 SETTEMBRE 2011 pagina 7 PAURA ATOMICA FRANCIA · Esplode un forno nell’impianto atomico di Marcoule, a 250 km da Ventimiglia KENYA FFFF Fiamme nella centrale «senza fuga nucleare» A Nairobi si incendia un oleodotto: oltre 100 morti Cristina Cecchi H a causato almeno 120 morti ieri lo scoppio e il successivo incendio di un oleodotto in Kenya. L’esplosione ha avuto luogo nella capitale Nairobi, nella baraccopoli Sinai, povera e densamente popolata, che si trova nella zona industriale della città Lunga Lunga sulla strada dal centro città all’aeroporto. E’ una tragedia già vista in Kenya. La causa dello scoppio non è chiara, ma potrebbe trattarsi di un mozzicone di sigaretta gettato da qualcuno in una fogna aperta piena di petrolio. Il carburante, secondo gli abitanti della baraccopoli, fuoriusciva da una falla nel vicino deposito di proprietà della Kenya Pipeline Company. Il mozzicone di sigaretta avrebbe innescato l’incendio, che si è trasformato in tragedia perché nel frattempo una gran folla si era ammassatto intorno all’oleodotto, per cercare di rubare un po’ del prezioso olio nero. Testimoni parlano di scheletri fumanti, pezzi di corpi sbalzati anche a 300 metri di distanza e cittadini gravemente ustionati che vagano per il quartiere sconcertati e storditi. Il bilancio delle vittime non è ancora ufficiale, le autorità locali riferiscono che faranno il conto preciso solo dopo aver domato l’incendio. I pompieri hanno recintato l’area e spruzzato materiale chimico per contenere le fiamme. La Croce rossa locale parla di almeno 75 corpi ritrovati e la polizia kenyota fornisce aggiornamenti costanti: «Pensiamo che le vittime possano essere circa 120 e continuiamo a cercare per recuperare altri corpi». Altre centinaia di persone sono state gravemente ferite dall’esplosione e sono state portate negli ospedali vicini: l’ospedale nazionale Kenyatta riporta di aver ricoverato 112 persone con ustioni di terzo grado solo durante la mattinata. Il primo ministro Raila Odinga, il vicepresidente Kalonzo Musyoka e il ministro dell’energia Kiraitu Murungi sono subito andati sul luogo dell’incendio e hanno promesso aiuti alle vittime, mentre il presidente Mwai Kibaki ha visitato gli ustionati gravi nel maggiore ospedale pubblico del paese. Il vice portavoce della polizia Charles Owino ha dichiarato che «il governo farà tutto il possibile per assicurare ai feriti tutte le cure necessarie e far sì che le famiglie che hanno perso i loro cari siano ricompensate». Una falla nel deposito del carburante, l’incuria di qualcuno e la disperazione di molti: la tragedia è fatta. E non è la prima volta. Nel 2009 più di 120 persone sono morte per l’incendio scoppiato mentre stavano «cannibalizzando» carburante da un autocisterna rovesciata, nell’ovest del paese. Nella gran povertà, la pratica di rubare qualche tanica di petrolio è diffusa. e spesso finisce in catastrofi come questa, o come i numerosi casi analoghi registrati in Nigeria. Una rottura lascia uscire carburante, la folla si fa attorno per portar via qualche tanica. Poi una sigaretta, e il disastro Anna Maria Merlo PARIGI «L’ incidente è chiuso», hanno comunicato le autorità a metà pomeriggio, qualche ora dopo l’esplosione di un forno di trattamento di scorie metalliche a bassa intensità nucleare, avvenuto alle 12:27 in un impianto della società Socodei, filiale di Edf, che si trova vicino alla centrale nucleare di Marcoule. Un lavoratore è morto nell’esplosione e quattro sono rimasti feriti, uno molto gravemente ustionato. La causa dell’incidente non era ancora chiara ieri sera, l’edificio non era stato danneggiato. L’Autorità della sicurezza nucleare ha escluso qualsiasi fuga radioattiva o chimica, i 200 dipendenti di Socodei non sono stati isolati né evacuati. L’esplosione, anche se la società insiste nel dire che si tratta di un «incidente industriale e non nucleare», ha riaperto in Francia la polemica sull’eccessiva dipendenza dal nucleare (l’80% dell’energia elettrica dipende dai 58 reattori esistenti nel paese) e sulla necessità di una maggiore trasparenza nelle informazioni alla popolazione. L’impianto della Socodei sorge infatti nel perimetro della centrale di Marcoule, luogo emblematico del nucleare francese: qui il Cea, la struttura statale del nucleare, ha concepito la bomba atomica france- GENDARMI SUL LUOGO DELL’ESPLOSIONE NEL SITO NUCLERE DI MARCOULE/FOTO REUTERS se. La centrale sorge nel dipartimento del Gard, sulle rive del Rodano, a una trentina di chilometri da Avignone e non lontano da Nïmes. Il confine italiano di Ventimiglia è a 242 chilometri in linea d’aria. Il ministro dell’industria e dell’energia, Eric Besson, ha messo subito le mani avanti: dopo essersi detto «molto colpito dall’incidente per le sue conseguenze OLTRE IL CONFINE sioo Panico in Liguria e Piemonte Ma poi l’allarme rientra Alessandra Fava GENOVA A lle prime notizie dell’esplosione nel sito nucleare francese, a 242 chilometri da Ventimiglia, i cittadini liguri e piemontesi hanno assediato di telefonate gli amministratori locali, assessori e sindaci, che a loro volta chiamavano gli assessori regionali e il presidente della Regione per avere qualche lume. Dalla Francia, già a metà pomeriggio, l’Asn, l’autorità per la sicurezza nucleare francese, negava si fosse verificata alcuna fuga chimica o radioattiva all’esterno dell’impianto. Ma dopo Fukushima la fiducia in chi minimizza questo tipo di eventi è quasi svanita, e così le telefonate sono continuate sino a sera. Questa volta però l’allarme e le paure sembrano rientrate. Ieri in serata l’assessore all’ambiente della Regione Liguria, Renata Briano, assicurava: «Per ora in Liguria non abbiamo rilevato nessuna anomalia tuttavia continueremo a fare controlli capillari e daremo comunicazioni trasparenti facendo conoscere tutti i dati. D’altra parte la Francia dice che non ci sono state fughe, addirittura hanno sciolto l’unità di crisi». Anche negli uffici Arpal, l’agenzia regionale per la protezione dell’ambiente ligure, arrivano rassicurazioni: «Dai dati in nostro possesso le probabilità di ricadute sul nostro territorio appaiono estremamente basse e l’attuale situazione dei venti spingerebbe verso sud-est e non dovrebbe interessare il territorio ligure». Dopo il disastro giapponese i controlli sulla radioattività sono aumentati, in Liguria ci sono ad esempio quattro centraline che monitorano per legge le radiazioni tutti i giorni. Briano spiega che ieri i controlli sono stati particolarmente serrati e oggi si prevedono ulteriori «sondaggi approfonditi» nell’imperiese, la prima zona che potrebbe essere colpita da eventuali fughe. Bisogna anche sapere che i dati sulla radioattività non possono essere diffusi subito, «perché hanno bisogno di una elaborazione», per cui, escluse comunque grandi anomalie, i particolari dei rilevamenti fatti ieri saranno conosciuti oggi e domani. Liguria e Piemonte hanno finalmente tirato un respiro di sollievo solo al tramonto finita l’allerta della protezione civile. E mentre le autorità preposte erano alle prese con la macchina dell’emergenza, i cellulari degli assessori regionali per ore hanno ricevuto telefonate dei sindaci di comuni a Levante come a Ponente o da semplici cittadini. Gli amministratori liguri hanno cercato anche di saperne di più dagli omologhi francesi: il presidente regionale Claudio Burlando ha contattato Michel Vauzelle, il presidente della regione francese Provence-Alpes-Cote d’Azur, vicino al luogo dell’incidente. In concomitanza dal Piemonte il presidente regionale Roberto Cota riferiva che «al momento non ci sono preoccupazioni per il nostro territorio. Le nostre verifiche confermano quanto riferito dalla autorità francesi. Nei prossimi giorni continueranno i controlli a garanzia della sicurezza dei piemontesi». Nel frattempo in rete tutti quelli che da tempo sono convinti che l’energia nucleare sia desueta e poco sicura esultavano: «Forse da oggi anche i francesi diranno addio al nucleare». umane», ha pensato bene di twittare che «il piacere giubilatorio di alcuni» quando c’è una notizia di incidente in una centrale «è malsano». La Francia, che esporta nucleare, è in difficoltà, soprattutto dopo Fukushima. Il titolo Edf, in una giornata di burrasca in Borsa, ha perso immediatamente il 6% appena si è diffusa la notizia dell’incidente. Nel tardo pomeriggio si è recata sul posto la ministra dell’ambiente, Nathalie Kosciusko-Morizet. Ieri sera, oltre a minimizzare l’accaduto, le autorità non avevano ancora diffuso informazioni precise sull’incidente. Si sa che il forno, che è stato subito spento, conteneva 4 tonnellate di scorie metalliche a bassa radioattività (67mila becquerel), «senza nessun rapporto con quello che è contenuto in un reattore», ha precisato la società. Questo sito è un inceneritore di materiali metallici a bassa radioattività provenienti dagli impianti di Edf e di Areva ma anche da ospedali. Il prodotto viene poi stoccato e seppellito. L’incidente ha messo in luce il solito problema di mancanza di trasparenza. Gli abitanti non sono stati informati né con tempestività né con precisione. I sindaci non sapevano se dovevano prendere delle misure protettive per le scuole, per esempio. La popolazione non ha ricevuto informazioni precise. I Verdi hanno chiesto «maggiore trasparenza». Yukiya Amano, direttore dell’Aiea, l’Agenzia internazionale dell’energia atomica, ha chiesto ufficialmente alla Francia chiarificazioni. «Dobbiamo migliorare la sicurezza», ha aggiunto. Greenpeace ricorda che «questo sito non è stato neppure preso in considerazione dal programma di controllo delle installazioni nucleari francesi chiesto dal governo, né dalle ultime ispezioni dell’Asn». Per il portavoce di Greenpeace sul nucleare, Yannick Rousselet, «ciò mostra una volta di più che la Francia non ha tratto alcuna lezione da Fukushima». Anche per Martine Aubry, candidata alle primarie socialiste per l’investitura nella corsa all’Eliseo, «l’incidente pone il problema assoluto della trasparenza e del controllo». Aubry, che per caso era a una riunione elettorale dedicata all’energia a Clermont-Ferrand, ha preso posizione a favore di un «programma di uscita dal nucleare» da porre progressivamente in opera se il Ps vincerà le presidenziali. L’ecologista Corinne Legape ha ironizzato sul modo di comunicare delle autorità francesi quando si tratta di questioni nucleari: «Per Edf si tratta di un incidente industriale – ha detto – Fukushima era un incidente naturale. Morale: l’incidente nucleare non esiste». Una sentenza, la scorsa settimana, conferma questo approccio: 25 anni dopo, il tribunale di Parigi ha dato ragione al responsabile della sicurezza nucleare ai tempi di Chernobyl, che aveva sostenuto che la nube si era fermata ai confini della Francia. SICUREZZA · L’Italia no nuke chiede «massima trasparenza» e accelerazione sugli stess test «Tranquilli» come a Fukushima? Eleonora Martini L e rassicurazioni che arrivano d’Oltralpe, riguardo l’esplosione nell’inceneritore della centrale nucleare francese di Marcoule, sanno troppo di déjà vu per essere completamente tranquillizzanti. Si potrebbe ricordare, tanto per fare un esempio, la famosa frase di Antonino Zichichi sul Tempo del 13 marzo, due giorni dopo la catastrofe giapponese, quando la star della fisica sentenziò: «A Fukushima non è successo niente». E non era il solo, purtroppo. Ovvio perciò che nei paesi confinanti, a cominciare dall’Italia, cresca la pressione per conoscere esattamente le modalità e i dati dell’incidente che le autorità francesi si ostinano a liquidare, con poche parole, come «chiuso». L’esplosione del forno utilizzato per fondere e compattare i materiali contaminati (soprattutto metalli) – che secondo alcuni esperti dell’Enea potrebbe essere dovuta a un sovraccarico, con un conseguente picco delle temperature – potrebbe infatti nascondere insidie al momento non rilevate, o forse addirittura non divulgate. Tanto più perché nella centrale di Marcoule, oltre ai tre reattori di prima generazione non più attivi da anni e all’altiforno Centraco di Codolet dove si è verificato l’incidente, c’è anche un impianto per la produzione del Mox (Mixed oxide fuel), con il quale si alimentano i più moderni impianti nucleari e che è un miscuglio di ossidi di uranio e plutonio ottenuti dal riciclaggio delle bombe atomiche smantella- te e delle barre di combustibile esaurito. Anche questo processo produce una serie di scarti metallici non riutilizzabili che vanno inceneriti negli altiforni per essere poi inviati ai depositi di stoccaggio. Ecco perché in molti, dal comitato referendario a tutte le associazioni ambientaliste e antinucleariste passando per i partiti dell’opposizione, Verdi in testa, chiedono dettagli e soprattutto invitano l’Unione europea a seguire l’esempio italiano bandendo una volta per tutte il nucleare dall’intero continente. «Il pericolo c'è. Intervenga l'Unione europea sulla trasparenza e la gestione della crisi», avverte il professor Sergio Ulgiati, del Comitato scientifico del Wwf Italia, che pone domande precise a cui si vorrebbero risposte altrettanto dettagliate. «Cosa bruciava esattamente dentro il forno quando è accaduto l’incidente? A quale temperatura stava lavorando? Quanto materiale e vapore sono fuoriusciti? Con quale tasso di radioattività? È stato un errore umano o un difetto intrinseco del processo? Può accadere di nuovo?». Domande a cui le autorità francesi rispondono negando che ci sia stata «alcuna contaminazione, nemmeno sui quattro feriti», o che ci sia rischio di fughe future. Anche se, denuncia Greenpeace, la struttura contenente il forno esploso «non è stata sottoposta agli stress test e non ha ricevuto alcuna ispezione dall' Autorità per la Sicurezza nucleare europea». In effetti, però, non è stata evacuata alcuna zona in prossimità della centrale. E le Alpi, poi, anche nel caso di una piccola fuga di bassa radioattività, mitigherebbero non poco la contaminazione, spiegano gli esperti. Non la pensa così invece il sottosegretario allo Sviluppo economico, Stefano Saglia, che ieri ha commentato l’evento sottolineando che le «centrali intorno ai nostri confini, che sono 19 al di là delle Alpi, quando dovessero avere dei guasti non ci risparmierebbero da eventuali conseguenze». Saglia è tornato poi di nuovo sulla «centralità» dell’Agenzia per la sicurezza nucleare italiana «che è sempre più urgente per noi mettere a pieno regime in modo da partecipare alla discussione in Europa sulla sicurezza degli impianti». E per la seconda volta in pochi giorni ha lanciato un velato invito a Umberto Veronesi, che dall’Agenzia se n’è andato prima ancora di aver ricevuto l’investitura formale alla presidenza perché la considerava un organismo «nato asfittico». pagina 8 il manifesto MARTEDÌ 13 SETTEMBRE 2011 INTERNAZIONALE LIBIA Dopo le bombe, arriva il Fmi a «ricostruire» SIRIA DAMASCO: NIENTE REATTORE, COLLABOREREMO CON L’AIEA Il governo siriano ha offerto ieri la sua collaborazione all’Agenzia internazionale per l’agenzia atomica (Aiea) per un’indagine sul sospetto sito nucleare di Dair Alzour. Lo ha riferito il capo dell’agenzia, Yukiya Amano, sperando che Damasco fornisca «tutte le informazioni» in suo possesso. Il sito, bombardato da Israele nel 2007, secondo fonti di intelligence Usa è un reattore nucleare nordcoreano progettato con lo scopo di produrre armi atomiche. La Siria ha sempre negato. Amano ha proposto l’11 ottobre per un incontro tra le parti che avrà lo scopo di «far avanzare la missione di accertamento dell’Aiea in Siria». Manlio Dinucci A l termine del G8 di Marsiglia, la neodirettrice del Fondo monetario internazionale, la francese Christine Lagarde, ha fatto un solenne annuncio: «Il Fondo riconosce il consiglio di transizione quale governo della Libia ed è pronto, inviando appena possibile il proprio staff sul campo, a fornirgli assistenza tecnica, consiglio politico e sostegno finanziario per ricostruire l’economia e iniziare le riforme». Nessun dubbio, in base alla consolidata esperienza del Fmi, che le riforme significheranno spalancare le porte alle multinazionali, privatizzare le proprietà pubbliche e indebitare l’economia. A iniziare dal settore petrolifero, in cui l’Fmi aiuterà il nuovo governo a «ripristinare la produzione per generare reddito e ristabilire un sistema di pagamenti». Le riserve petrolifere libiche – le maggiori dell’Africa, preziose per l’alta qualità e il basso costo di estrazione – e quelle di gas naturale sono già al centro di un’aspra competizione tra gli «amici della Libia». L’Eni ha firmato il 29 agosto un memorandum con il Cnt di Bengasi, al fine di restare il primo operatore internazionale di idrocarburi in Libia. Ma il suo primato è insidiato dalla Francia: il Cnt si è impegnato il 3 aprile a concederle il 35% del petrolio libico. E in gara ci sono anche Stati uniti, Gran Bretagna, Germania e altri. Le loro multinazionali otterranno le licenze di sfruttamento a condizioni molto più favorevoli di quelle finora praticate, che lasciavano fino al 90% del greggio estratto alla compagnia statale libica. E non è escluso che anche questa finisca nelle loro mani, attraverso la privatizzazione imposta dal Fmi. Oltre che all’oro nero le multinazionali europee e statunitensi mirano all’oro bianco libico: l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana (stimata in 150mila km3), che si estende sotto Libia, Egitto, Sudan e Ciad. Quali possibilità di sviluppo essa offra lo ha dimostrato la Libia, che ha costruito una rete di acquedotti lunga 4mila km (costata 25 miliardi di dollari) per trasportare l’acqua, estratta in profondità da 1.300 pozzi nel deserto, fino alle città costiere (Bengasi è stata tra le prime) e all’oasi al Khufrah, rendendo fertili terre desertiche. Non a caso, in luglio, la Nato ha colpito l’acquedotto e distrutto la fabbrica presso Brega che produceva i tubi necessari alle riparazioni. Su queste riserve idriche vogliono mettere le mani – attraverso le privatizzazioni promosse dal Fmi – le multinazionali dell’acqua, soprattutto quelle francesi (Suez, Veolia e altre) che controllano quasi la metà del mercato mondiale dell’acqua privatizzata. A riparare l’acquedotto e altre infrastrutture ci penseranno le multinazionali statunitensi, come la Kellogg Brown & Root, specializzate a ricostruire ciò che le bombe Usa/Nato distruggono: in Iraq e Afghanistan hanno ricevuto in due anni contratti per circa 10 miliardi di dollari. L’intera «ricostruzione», sotto la regia del Fmi, sarà pagata con i fondi sovrani libici (circa 70 miliardi di dollari più altri investimenti esteri per un totale di 150), una volta «scongelati», e con i nuovi ricavati dall’export petrolifero (circa 30 miliardi annui prima della guerra). Verranno gestiti dalla nuova «Central Bank of Libya», che con l’aiuto del Fmi sarà trasformata in una filiale della Hsbc (Londra), della Goldman Sachs (New York) e di altre banche multinazionali di investimento. Esse potranno in tal modo penetrare ancor più in Africa, dove tali fondi sono investiti in oltre 25 paesi, e minare gli organismi finanziari indipendenti dell’Unione africana – la Banca centrale, la Banca di investimento e il Fondo monetario – nati soprattutto grazie agli investimenti libici. La «sana gestione finanziaria pubblica», che l’Fmi si impegna a realizzare, sarà garantita dal nuovo ministro delle finanze e del petrolio Ali Tarhouni, già docente della Business School dell’Università di Washington, di fatto nominato dalla Casa bianca. CIVILI IN FUGA DA BANI WALID, IERI/REUTER LIBIA · Crepe nel Cnt, mentre resiste una roccaforte di Gheddafi e il figlio Saadi fugge in Niger Ribelli contro ribelli: 12 morti Stefano Liberti B ani Walid non cade. Nonostante l’avanzata iniziale dei ribelli – e i raid aerei condotti dalla Nato – la cittadina a 180 chilometri da Tripoli rimane sotto il controllo dei soldati lealisti. Ieri sono continuati gli attacchi e le ritirate tattiche (per permettere ai bombardieri Nato di entrare in azione), ma in serata la città non era ancora espugnata. La resistenza di Bani Walid – città strategica perché posta all’incrocio delle strade che da Tripoli e Misurata si dirigono verso sud – ha preso alla sprovvista i combattenti afferenti al Consiglio nazionale di transizione (Cnt) che, scaduto l’ultimatum sabato scorso, si erano detti convinti di poterla conquistare in 48 ore. Abitata prevalentemente da membri della tribù warfallah, a lungo alleata del regime, Bani Walid è probabilmente destinata a cadere nei prossimi giorni, anche se stupisce una resistenza molto più accanita di quella che si è registrata nell’attacco alla capitale Tripoli. Probabilmente al suo interno si sono rifugiati gli ultimi elementi più estremisti del regime, che non hanno voluto capitolare, fra cui Seif el Islam Gheddafi, il secondogenito del colonello trasformatosi dopo la rivolta di febbraio da riformatore a hard-liner. Nel frattempo continua l’emorragia di pezzi importanti del gheddafismo. Domenica a Tripoli è stato catturato – o si è consegnato, la dinamica non è chiara – Bouzaid Dorda, capo del servizio di intelligence estera nonché ex primo ministro. Nello stesso tempo un altro figlio di Gheddafi, Saadi, ha sconfinato in Niger – circostanza confermata dal governo di Niamey. Ex calciatore, playboy, poi produttore hollywoodiano, Saadi si era caratterizzato in questi mesi come il figlio sempre a caccia di negoziati o di compromessi con i ribelli. Andato a Bangasi subito dopo lo scoppio della rivolta di febbraio, aveva cercato di convincere le folle che il padre era intenzionato a promuovere sviluppo e aperture democratiche, salvo venire smentito poco dopo dallo stesso colonnello, che promise in un discorso divenuto celebre una «caccia ai topi casa per casa, strada per strada». Anche dopo la caduta di Tripoli, Saadi aveva contattato il Cnt per offrire un negoziato (questa volta da una posizione assai più debole), nello stesso momento in cui il fratello Seif El Islam farneticava di un’imminente contro-offensiva che avrebbe riportato al potere il padre. Per quanto velletario e poco influente all’interno della sua stessa famiglia e dell’establishment gheddafiano, Saadi ha cercato in questi mesi di mostrarsi come il volto accettabile del regime. La sua fuoriuscita dal paese è un’ulteriore dimostrazione che gli elementi più oltranzisti hanno deciso di combattere fino all’ultimo, a partire dalle roccaforti che ancora controllano – Bani Walid, Sirte e la città sahariana di Sebha. Lo stesso Gheddafi lo ha ribadito ieri nell’ennesimo messaggio, consegnato come d’abitudine all’emittente ar-Rai, con sede a Damasco. «Il popolo non ha che una scelta da fare, quella di respingere questo golpe, perché non possiamo sottometterci alla Francia. Non possiamo consegnare la Libia ai co- lonizzatori un’altra volta e non ci resta che combattere fino alla vittoria e sconfiggere questo complotto», ha detto l’ormai ex rais. Intanto, nell’attesa di assumere il controllo di tutto il paese, anche il fronte ribelle comincia a mostrare le prime crepe. L’altroieri c’è stato uno scontro tra gruppi rivali. Secondo quanto riporta il giornale arabo al-Sharq al-Awsat, due diverse fazioni ribelli si sono affrontate a colpi d’arma da fuoco sui monti del Nefusa, da dove è partita la conquista di Tripoli per cacciare Gheddafi. Ad affrontarsi da un lato i ribelli dei villaggi di Gharyan e Kakla e dall’altro quelli di al-Asabaa. Negli scontri si sono registrati 12 morti. Nei giorni scorsi sono arrivati a Tripoli i membri più eminenti del Cnt, dal premier transitorio Mahmoud Jibril al presidente (anche lui transitorio) Mustafa Abdel Jalil. Jibril ha detto che un nuovo governo sarà annunciato entro i prossimi dieci giorni e si è sforzato di negare le voci di fratture all’interno della compagine ribelle – in particolare tra gli ex gheddafiani, di cui lui è parte, e gli islamisti che fanno capo a Abdel Hakim Belhaj, comandante generale militare di Tripoli. AFGHANISTAN Hrw denuncia: milizie sostenute dalla Nato Secondo i comandi della Nato, sono essenziali per la sicurezza dell’Afghanistan. Ma secondo Human Rights Watch le milizie irregolari e la cosiddetta «polizia locale» promossa dalle forze internazionali a Kabul sono gang fuori controllo che terrorizzano e derubano la popolazione locale. Da circa un anno i militari Usa addestrano una forza chiamata Afghan local police (Alp), reclutata a livello di villaggio, già circondata da polemiche perché vi finiscono spesso ex taleban e semplici criminali. Inoltre nella provincia di Kunduz, nel nord, l’agenzia di intelligence (Nds) del governo afghano ha riattivato e armato milizie irregolari. Ma queste forze irregolari sono fuori controllo, e in un rapporto diffuso ieri Hrw documenta gravi abusi: omicidi, stupri, detenzioni arbitrarie, rapimenti, requisizioni forzate di terre e raids illegali da parte di gruppi armati irregolari nella provincia settentrionale di Kunduz e da parte della "polizia locale afghana" nelle province di Baghlan, Herat e Uruzgan. Il rapporto elenca casi di raid finiti in saccheggi e pestaggi, il caso di un adolescente violentato da un gruppo di miliziani, casi di omicidio non perseguiti. Secondo Hrw, il governo afghano e le forze Usa devono mettere sotto controllo queste milizie e mettere fine all’impunità per queste forze affiliate al governo. YEMEN SALEH AUTORIZZA IL VICE HADI A NEGOZIARE LA TRANSIZIONE Il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh ha autorizzato «irrevocabilmente» ieri con decreto il vicepresidente Abbd-Rabbu Mansour Hadi a firmare il piano per la transizione del potere presentato dal Consiglio per la cooperazione nel Golfo (Gcc), dopo aver dialogato con l’opposizione. Proprio l’opposizione, il Meeting dei partiti riuniti, però è scettica, dato che nei mesi precedenti Saleh ha dichiarato 3 volte che avrebbe firmato il piano di transizione ma ha poi sempre ritrattato. Il piano prevede un passaggio di poteri da Saleh a Hadi e successive elezioni presidenziali entro 3 mesi. In realtà Saleh ha autorizzato il suo vice solo a negoziare il piano con l’opposizione: i 3 mesi scatterebbero invece solo dopo la firma del piano del Gcc. La mossa di Saleh non è chiara e la situazione è complessa: poco dopo la firma del decreto un uomo mascherato ha sparato, uccidendolo, ad un figlio del leader del partito islamico Islah in Sanaa Mohammed Ashal. SUDAFRICA MALEMA (ANC) CONDANNATO PER INCITAMENTO ALL’ODIO Il leader del movimento giovanile dell’African national congress (Anc) Julius Malema è stato giudicato ieri colpevole di «incitamento all’odio» per aver cantato in pubblico una canzone del periodo dell’apartheid. È stato condannato a pagare le spese processuali e smettere di cantare la canzone anche in privato ma non dovrà scontare una pena in carcere. Malema sta anche affrontando un procedimento disciplinare interno al partito che lo accusa di «creare divisioni interne». Se ritenuto colpevole potrebbe essere sospeso o espulso dal partito, garantendo un secondo mandato all’attuale presidente Jacob Zuma. Diplomazia/ COMINCIA LA VISITA DI ERDOGAN. CHE RINUNCERÀ A VISITARE GAZA «Non temete la democrazia». Il messaggio del premier turco ai dirigenti del Cairo Michele Giorgio GERUSALEMME «N on abbiate paura della democrazia». Sarà questo il messaggio che il premier turco Recep Tayyip Erdogan lancerà oggi al Cairo, dove è arrivato ieri in tarda serata per dare inizio a un viaggio ufficiale che lo porterà anche in Tunisia e Libia. Ad accompagnarlo ci sono il ministro dell’economia Zafer Caglayan e ricchi uomini d’affari turchi, oltre al ministro degli esteri Ahmet Davutoglu. Stando a quanto preannunciava ieri il giornale turco Milliyet, Erdogan sottolineerà il valore delle libertà democratiche e sosterrà che la laicità è importante per promuovere quelle libertà. Si rivolgerà al popolo egiziano in quanto leader di un paese musulmano e laico allo stesso tempo. Fonti del ministero degli esteri turco, citate da Milliyet, hanno sottolineato che l’obiettivo del viaggio del premier è la democratizzazione, non mobilitare un sostegno contro Israele come si è scritto e letto da più parti. Della crisi nelle relazioni con lo Stato ebraico dovuta alle mancate scuse per il sanguinoso raid israeliano alla Freedom Flotilla dell’anno scorso e al blocco di Israele su Gaza –, Erdogan discuterà a lungo con i suoi interlocutori arabi: ma lontano dai riflettori, a porte chiuse. Pare che i generali egiziani e il primo ministro Essam Sharaf abbiano chiesto al leader turco di non alimentare le tensioni nel loro paese, fortissime dopo l’assalto all’ambasciata israeliana al Cairo. Ieri la giunta militare al potere in Egitto ha reagito imponendo lo stato d’emergenza (mai revocato dopo la caduta dell’ex presidente Mubarak). L’Unione dei Gio- vani della Rivoluzione ha indetto per questo venerdì una manifestazione per dire «no alla legge d’emergenza» e per respingere il tentativo dei militari e degli uomini legati a Mubarak di usare gli incidenti all’ambasciata di Israele per riportare indietro il paese. I generali egiziani hanno imposto a Erdogan anche di rinunciare alla visita a Gaza che avrebbe rappresentato una sfida diretta al blocco israeliano. Così prima di partire per il Cairo, il premier turco ha fatto uso dell’artiglieria pesante per criticare la politica israeliana nella regione. «L’atteggiamento turco nei confronti di Israele è stato chiaro fin dall’inizio: scuse al popolo e al governo turco, indennizzo delle famiglie delle vittime (dell’attacco alla Freedom Flotilla del 31 maggio 2010, ndr), revoca del blocco illegale imposto a Gaza. Ma questa posizione non è stata presa sul serio», ha detto il premier al quotidiano egiziano Shurouq. «Israele – ha proseguito Erdogan - è abitua- to a non essere giudicato per i suoi comportamenti e a essere trattato come se fosse al di sopra della legge». «È diventato come un bambino viziato – ha affermato - e non si accontenta di esercitare il terrorismo di stato contro i palestinesi, ma agisce senza senso di responsabilità e non vuol riconoscere che il mondo, quello arabo in particolare, è cambiato». Al termine degli incontri, Sharaf ed Erdogan dovrebbero annunciare la creazione di un consiglio strategico di cooperazione e siglare alcuni accordi nel settore economico e degli investimenti. Oggi Erdogan pronuncerà anche un atteso discorso all’Università, mentre domani si rivolgerà ai ministri della Lega Araba. Prova sfruttare a vantaggio palestinese la forte iniziativa turca il presidente dell’Olp e dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen, giunto ieri al Cairo, certo non per una coincidenza. Nei prossimi tre giorni Abu Mazen avrà incontri con l’alto rappresentante dell’Unione europea per la politica estera, Catherine Ashton, e, appunto, con Erdogan. Al centro l’intenzione palestinese di presentare domanda di adesione di uno Stato palestinese durante la sessione dell’assemblea generale dell’Onu, prevista la prossima settimana. Ieri il quotidiano Haaretz ha riportato che, stando ai risultati di un sondaggio, la maggioranza dei cittadini dei principali paesi europei sostiene la proclamazione unilaterale d’indipendenza palestinese e si augura che venga accolta favorevolmente dall’Onu. Ben diverso è l’atteggiamento di diversi governi dell’Ue. L’esecutivo di Silvio Berlusconi è alla testa di un gruppo di accaniti oppositori dell’iniziativa palestinese composto da Germania, Repubblica Ceca, Olanda e Bulgaria. il manifesto MARTEDÌ 13 SETTEMBRE 2011 pagina 9 ARGENTINA Filippo Fiorini BUENOS AIRES «C ontadini mandati alla guerra in frontiera, per dar la terra nuova ai gringos forestieri; e noi che siam qui da prima della bandiera, di nutrirci di rape dovremmo anche esser fieri». Lo diceva più di cent’anni fa il gaucho Martin Fierro, se si ammette la parafrasi piuttosto libera del poema epico argentino che porta il suo nome, ma ora il governo di Cristina Kirchner sembra deciso ad ascoltarne la rima: in parlamento c’è una legge che vieta agli stranieri la possibilità di acquistare grandi appezzamenti di terreno. Una norma non retroattiva, che permetterà ai grandi gruppi italiani di restare, anche se per farlo saranno probabilmente obbligati a riconoscere più diritti ai dipendenti e rispettare le comunità indigene, perchè l’Argentina del nuovo millennio cammina sola nella crisi e ha uno scudo ideologico contro parole co- Benetton nunca mas È guerra al latifondo Nuova legge in arrivo: uno straniero non potrà avere più di mille ettari. Cristina Kirchner vuole la «seconda indipendenza» me neocolonialismo e imperialismo. «Lo Stato deve porre un limite alla proprietà estera della terra», ha già detto due volte in pochi giorni Cristina, esortando i suoi legislatori a darsi una mossa, perché se la borsa delle commodities di Chicago ha fatto alzare il tetto per fare entrare il grafico della soia, allora bisogna procedere in fretta verso quella che lei stessa ha chiamato «la seconda indipendenza» e vender caro il proprio tesoro verde: solo il 20% delle terre coltivabili potrà restare in mani non argentine e un unico proprietario non potrà intestarsi più di mille ettari. «Stiamo discutendo alcune modifiche al disegno di legge - hanno detto dal gruppo parlamentare del governo - ma in linea di massima ci siamo», lasciando intendere che di qui a qualche giorno arriverà l’ok dalle commissioni e poi anche dal Congresso. Alcuni giuristi ritengono che la norma sia incostituzionale, poichè va contro il principio secondo cui gli stranieri godono degli stessi diritti dei cittadini nativi, tuttavia, con un’opposizione debole e d’accordo con lo spirito della proposta, le uniche attività volte a rovesciare il pronostico restano in mano alle BUENOS AIRES, PROTESTA CONTRO I LATIFONDISTI/FOTO FILIPPO FIORINI lobby agricole, che ultimamente hanno perso il potere di cui godevano in passato. La realtà delle campagne è molto complessa. Da un lato, i cereali e i legumi si vendono a peso d’oro: mentre il mondo piange i crolli azionari e anche il petrolio sente la gravità della crisi, la soia, che storicamente si muoveva in sintonia con il greggio, sembra ora essersi sganciata dal fratello maggiore e ha fatto un +11% in agosto, arrivando a 523 dollari la tonnellata. In coda alla cassa dell’emporio argentino ci sono un miliardo e mezzo di cinesi, che si accaparrano il 50% di tutta l’offerta nazionale, portando l’agricoltura al 10,23% del pil. Poi c’è il braccio di ferro politico che da tre anni divide la Casa Rosada dai grandi coltivatori. Nel 2008 i sindacati dei latifondisti iniziarono un duro sciopero per contro le tasse sull’esportazione (imposte per obbligarli a vendere alimenti a una nazione in cui era tornata la fame, invece di cederli alla lucrosa borsa merci internazionale) e solo ora si mostrano più condiscendenti davanti all’evidente benessere del proprio settore, alla supremazia elettorale che Cristina Kirchner ha dimostrato alle recenti elezioni primarie (disputate a un mese e mezzo dalle presidenziali) e anche davanti a qualche concessione, compresa questa stessa legge sulle terre. D’altra parte, invece, ci sono i frutti coltivati nelle regioni nord della limpida Patagonia o i vigneti ai piedi delle Ande, dove la produzione è quasi completamente bracciantile e, secondo un recente studio accademico, fino ai primi anni ’90 la terra era quasi tutta in mano alla piccola proprietà contadina, mentre negli ultimi due decenni si è «intensificato il dominio del capitale multinazionale». Nella frutta e nel vino si concentrano, tra olandesi, francesi ed americani, anche alcune firme italiane, come per esempio Expofrut, che dal 2007 controlla la locale Moño Azul, proprietaria di 10mila ettari coltivati a mele e pere. Oppure come Benetton, che con un milione di ettari ha adibito un’intero Abruzzo a pastorizia, allo scopo di produrre la lana che usa nei suoi vestiti colorati. Qui l’azienda si trova in causa con una piccola comunità indigena che rivendica il diritto ad abitare il proprio territorio tradizionale. Lo studio legale Iturburu Moneff, che difende gli interessi del gruppo italiano, ci ha spiegato che una recente sentenza obbliga le famiglie di etnia mapuche di Santa Rosa Leleque a sloggiare dai 550 ettari che occupano a Benetton, altrimenti saranno sgomberate, ma queste hanno fatto ricorso e ora bisogna vedere come andrà. Riguardo a Moño Azul, in marzo l’agenzia delle tasse ha scoperto 30 dipendenti ridotti in condizioni infraumane: ammassati in dormitori piccolissimi, senza acqua, costretti a usare latrine invece che bagni e vessati da ferite infette che, in un caso, hanno anche portato all’amputazione di un dito. Si tratta dei cosiddetti golondrinas (rondini), indios del nord argentino che vengono portati sui campi a sud solo per la stagione dei raccolti, quando la richiesta di manodopera triplica all’improvviso. Guillermo «l’orbo» Saavedra, il capo del piccolo sindacato di peones rurali Prl che conta tra i suoi affiliati anche molti dipendenti dell’azienda, ha spiegato al manifesto che uno dei 300 mila raccoglitori di mele della Pa- tagonia deve farsi trovare tra i filari alle quattro del mattino, per restarci poi 16 ore, con una paga compresa tra i 200 e i 300 euro al mese, ovvero la cifra che l’Istat argentino pone come soglia di povertà. In merito alle condizioni generali di lavoro, Guillermo ci presenta Mabel Arriagada, una ragazza di 27 anni che qualche anno fa camminava con un cesto di vimini da 30 chili sulle spalle, poi è inciampata e si è rotta entrambi i menischi. Oppure il caso di Emilio Bañares, morto mentre cercava di bruciare un grande alveare con una lanterna: per evitare le gelate invernali si incendiano tra le piante da frutto dei fusti pieni di un composto artigianale di combustibile. Se le proporzioni sono errate, la miscela esplode solo avvicinando una fiamma. La lanterna di Bañares è stata trovata divelta, lui ustionato sul 90% del corpo. Di storie così ce n’è da farci un’antologia: le maschere contro il diserbante usate per mesi dopo la scadenza, scale di legno vecchie L’oro verde in mano ai big che brutalizzano i peones La piantagione «italiana» con 30 schiavi, il milione di ettari tolto ai mapuche di quarant’anni che si spezzano con il contadino sopra, assenza di cure e in molti casi, ma finora non in quelli di Moño Azul, bambini al lavoro. Nel corso della storia, La Pampa è stata chiamata «mia» in molte lingue diverse, sia da chi la lavorava sia da chi semplicemente ci si sedeva sopra. Secondo l’esecutivo, la legge sulle terre non va contro gli stranieri, ma contro le grandi corporazioni che lasciano troppo poco dei loro utili nel paese. Comunque, le realtà che già esistono potranno restare, ma dovranno probabilmente cambiare politica coi dipendenti, perchè negli ultimi mesi le autorità hanno iniziato a rispondere alle denunce, intervenendo a tappeto, comminando multe e chiudendo battenti dove si commettevano illeciti. Anche gli indios poi sono protetti contro sgomberi e interventi di trasformazione del loro territorio dalla legge 26160 del 2006, anche se si tratta di una delle norme meno applicate dai tribunali. Il gaucho Martin Fierro parlava spesso anche di loro, ma in questo caso il tempo trascorso non è ancora stato sufficiente a dargli ascolto. pagina 10 il manifesto MARTEDÌ 13 SETTEMBRE 2011 CULTURA RAPPORTI DI CLASSE La scuola raccontata dai soliti cliché Nel secolo e mezzo dell’unità d’Italia sono molti i romanzi che descrivono la vita nelle aule, ma gli stereotipi resistono a dispetto dei mutamenti Marcella Bacigalupi Piero Fossati I libri che hanno lasciato immagine duratura della scuola compaiono tardi nella letteratura italiana, spia della sufficienza con cui le classi dirigenti consideravano un’istituzione venuta a sconvolgere un fatto tradizionalmente risolto nell’ambito delle mura domestiche, descritto in autobiografie come I miei ricordi (1867) di d’Azeglio o Ricordi di gioventù (1904) di Visconti Venosta. Le «scolette» dei rudimenti non erano cosa di cui valesse la pena scrivere, se non per mettere in burla il maestro, considerato mestiere per chi non sapeva far altro: «Solo persone che per difetto di animo o di corpo erano escluse dalle altre professioni ed uffizi sociali si fecero istruttori del popolo» (Descrizione di Genova e del Genovesato, 1846). Le basi dello stereotipo del maestro eran gettate: uomo trasandato pieno di manie. Ne tentò il riscatto De Amicis e il suo «signor Perboni» può essere antipatico, non caricatura. Sull’onda del successo di Cuore (1886) si moltiplicarono gli imitatori, con risultati modestissimi e ripetitivi, né migliore fortuna ebbe Mantegazza con Testa (1887), il più ambizioso tentativo di «anticuore», nel vagheggiare un anacronistico ritorno all’istruzione familiare con lo zio ingegnere a far da mentore. Cuore apre e chiude un’epoca e condanna la scuola allo stereotipo della maestrina dalla penna rossa, svolazzante e civettuola, «tormentata continuamente dai più piccoli che le fanno carezze e le chiedon baci». Prolifici silenzi Collodi, da parte sua, sembra assai scettico: in Giannettino e nei bozzetti descrive maestri uggiosi e scolari «birbe». Comprensibile che il burattino le fugga. Pinocchio (1881) si riscatterà col lavoro manuale, non quello corale del paese delle Api industriose ma quello isolato a cui si accompagna uno studio anch’esso solitario: «Nelle veglie poi della sera, si esercitava a leggere e a scrivere». Emancipazione che suona sconfitta della scuola pubblica. E se nel Giornalino di Gian Burrasca (1907) la scuola semplicemente non esiste perché l’esperienza del collegio è puro espediente, e i direttori sono caricature grossolane, il Piccolo Alpino (1926) che dalle vette innevate commenta «Se i miei compagni di scuola, sempre pallidi e malaticci, mi vedessero!» raccoglie l’atavico disprezzo (o paura) delle dittature per la cultura. Quanto alla scuola fascista, non ebbe un suo romanzo a meno di non considerar tale quel libro di Stato per la quinta classe, l’ambizioso Il balilla Vittorio, che ebbe successo solo a paragone della miseria letteraria degli altri. Con il secondo dopoguerra, la scuola, almeno quella raccontata, non c’è più: assorbiti gli sconquassi bellici, operata una nuova integrazione culturale, si introflette a riprodursi in silenzio. Silenzio in verità prolifico, perché occupato dal lavorio degli esperimenti didattici e dai pedagogici ripensamenti del lavoro del docente; ed è proprio l’insegnante a prender la penna: Paesi sbagliati, Pietralate, Barbiane. Stagione di splendida fioritura di progetti e esperienze venata dal caustico pessimismo di quel maestro di Vigevano (1963) che irrompe con rabbioso sarcasmo a denunciare i rischi del didattichese, contrappeso alle speranze blandite dalle facili ri- me delle filastrocche di Rodari e un po’ ingenuamente rivelate da Cipollino (1959) per il quale nel nuovo paese dei balocchi «la scuola è il gioco più bello». Poi gli insegnanti scoprono il gusto di scriversi addosso e compaiono florilegi abili nel tradurre in lazzi la fine dell’utopia; le parole d’ordine della contestazione e dell’antipedagogia sono rovesciate o diventano caricatura e l’indignazione civile dei bambini di Lucia Tumiati in Una scuola da bruciare (1973) si trasforma in godimento per le sgangherate composizioni di scolari apprezzate per «l’allegria scanzonata e struggente nel suo candore sottoproletario» in Io speriamo che me la cavo (1990) di Marcello D’Orta Una interminabile adolescenza Alla scuola di Pinocchio come a quella di Giannino Stoppani sfuggiva il controllo degli scolari e solo l’eccezionale abilità nell’abbattere i mosconi in volo garantisce al maestro Mosca l’ammirato rispetto dell’ammutolita scolaresca (Ricordi di scuola, 1940). Poi un onnivoro pedagogismo si butta sul problema affinando da un lato le tecniche di interpretazione e manipolazione dei comportamenti scolari e moltiplicando dall’altro le figure di controllo. Il vecchio «maestro» era colpito a morte: la sua scuola può sopravvivere solo nel mondo di Harry Potter (1997) dove i molti insegnanti si dividono vizi e virtù e dove i saperi magici hanno utilità immediatamente evidente. Comincia il romanzo dell’interminabile adolescenza. In effetti, alla scuola secondaria è mancato un compendio nazionalpopolare come Cuore, romanzo della scuola dove ricchi e poveri avrebbero dovuto imparare a riconoscersi e a condividere lodevoli sentimenti. L’esperienza del liceo, scuola secondaria per eccellenza, si riflette nelle pagine di chi l’ha vissuta e si sente élite colta, come momento di «individuazione», di formazione delle scelte e di un proprio irripetibile destino. Perciò gli alunni della secondaria potevano tutt’al più ritrovarsi ne L’età preziosa, che De Marchi scrisse quattro anni dopo il libro di De Amicis per guidare i giovani a diventare padroni della propria riuscita. L’esercizio della nostalgia Il tenue filo conduttore è fornito da Arturo Pugliesi, alle soglie del liceo. Assente la coralità della classe: qualche amico, qualche compagno ma per sottolineare il divergere delle strade in rapporto alla condizione economica delle famiglie: il figlio di un commerciante in granaglie si dedica agli studi tecnici, quello a cui muore il padre diventa impiegato, il rampollo di un «ricco agricoltore», d’ingegno ma di «stoffa grossa», va a finir male tra «giornalacci», politica e miscredenza. Senza avere la compattezza del Cuore, e appesantito da un confessionalismo che lo rende meno generalmente fruibile, anche L’età preziosa è stato a lungo un piccolo classico, capace di ritrasmettere stereotipi che sembrano sfidare il tempo – innanzi tutto la valutazione dello scarto tra il passato e il presente: nel ricordo, l’antico è sempre migliore. De Marchi non poteva, lui milanese, rimpiangere troppo l’imperial regio liceo: ma non manca l’accenno a «questi tempi facilitoni», in cui si crede di aver imparato l’arte senza il faticoso esercizio che una volta si sapeva necessario. Anche quando, ILLUSTRAZIONE DI ARNALDO FERRAGUTI (1862-1925) PER «CUORE» DI EDMONDO DE AMICIS. IN BASSO, SCUOLA MULTIETNICA come accade a Saba (Ricordi-Racconti, 1956), la scuola secondaria è stata matrigna al giovane alunno e con un giudizio tagliente ha rischiato di comprometterne il futuro, c’è in quella scuola qualcosa che poi si è perso e su cui la memoria si sofferma con un’ombra di stupito rispetto: «Dio mio, come tutte le cose venivano, in quegli anni ed in quella scuola, prese sul serio!». E che dire dei professori e del loro sofferto confronto con gli alunni? De Marchi vedeva il professore ridotto a «funzionario pagato a vendere la merce sua»: «l’uomo mal vestito che siede innanzi a voi, o giovinetti», se non riesce a godere della stima degli alunni, fa «un mestieraccio»; mal pagato, se è severo lo si critica perfino sui giornali, se indulgente scatena negli studenti l’istinto dell’ «orda selvaggia», e gli scherzi crudeli diventano incontrollabili. Se però ottiene il rispetto affettuoso degli alunni l’insegnamento «è una dignità che nobilita». Scrivendo dei tempi della propria giovinezza, gli scrittori non sono teneri con gli insegnanti. Spesso raccontano incompetenze, manie, vezzi penosi; ma accanto agli incapaci e ai falliti quasi sempre c’è un maestro la cui severa e colta umanità segna il carattere e il futuro dello studente. Chi ha frequentato la scuola dei colti è raro che non cada nella tentazione di vedere aggravati dai segni della decadenza i topoi intorno a cui gioca l’immagine della scuola secondaria: la scuola è immancabilmente «più facile» per i nuovi arrivati, sempre più numerosi e meno selezionati. Oggi poi si può scaricare l’origine dell’accelerata decadenza su un Sessantotto di comodo, utile a rimodellare lo stereotipo del nuovo professore e del nuovo studente. Anche qui sociologismi approssimativi hanno picchiato duro: se gli studenti di Porci con le ali (1976) sfiorano la scuola, assai più preoccupati dei loro rapporti sessuo-politici che del latino, il modello ha fortuna: d’ora in avanti gli adolescenti saranno individui psicologicamente incerti, alla spasmodica ricerca di gratificazioni immediate in primis sentimentali (Notte prima degli esami, 2006). Ben più ampio è il quadro costruito pez- PROSPETTIVE In viaggio su e giù per l’Italia tra gli studenti di oggi e di domani Parlare di scuola senza cadere negli stereotipi e nelle banalità è, a quanto pare, piuttosto difficile, per lo meno in Italia. Non così, per esempio, in Francia, dove Daniel Pennac – appassionato insegnante per quasi trent’anni ma anche, a suo tempo, allievo svogliatissimo e riottoso – ha saputo descrivere (in «Diario di scuola», Feltrinelli 2010) la vita in classe, il rapporto tra studenti e insegnanti, il ruolo dei genitori, evitando con cura ogni facile bozzettismo. Anche da noi, comunque, non mancano i tentativi di osservare la vita scolastica in modo meno stantio ma forse, quanto e più dei romanzi, per rinfrescarsi le idee sulla realtà di una istituzione che direttamente o indirettamente riguarda milioni di persone, è utile sfogliare alcuni testi che cercano di fotografare l’evoluzione della scuola negli ultimi anni. È questo il caso di «Una scuola da rifare» del maestro e scrittore Giuseppe Caliceti (Feltrinelli 2011, pp. 252, euro 15) che contiene tra l’altro il decalogo di una possibile «scuola che verrà» (e che dovrebbe essere, innanzi tutto «laica, gratuita, libera, solidale», oltre che accogliente, proiettata verso il futuro e infine – ma è la cosa più importante – «senza paura di sbagliare e senza fretta»). Ed è la «scuola che verrà», ma anche quella che già abbiamo sotto gli occhi ma non sempre riusciamo a vedere, la scuola multiculturale descritta da Vinicio Ongini in «Noi domani», appena uscito da Laterza (pp. 171, euro 15): un viaggio su e giù per l’Italia intessuto di dialoghi con bambini, ragazzi e insegnanti, capace di farci capire – come scrive Tullio De Mauro nella prefazione – «quanto la scuola ha fatto, sa fare e fa per l’intero paese». zetto dopo pezzetto da Domenico Starnone che coglie con bonaria cattiveria i postumi dell’ubriacatura sessantottina e fotografa gli stereotipi della nuova scuola (Ex cattedra, 1985). Non sono tanto i personaggi, spesso volutamente macchiette, a innovare la galleria antica dei pupazzi, quanto lo spostamento di attenzione dalla scuola come istituzione allo studente e ai rapporti interpersonali. Ciò che una volta era appena accennato ora viene spiattellato e i professori vestono i panni del terapeuta, confessori spirituali di anime scostanti e refrattarie che tuttavia implorano di essere comprese, rassicurate e, se possibile, convertite alla cultura (La collega Passamaglia, 2001, Fuori classe, 2011) Scarto di generazioni Accanto ai ragazzi di Starnone si collocano i velleitari studenti di Figlioli miei, marxisti immaginari di Vittoria Ronchey (1975), giudicati con sufficienza dalla scrittrice dall’alto della sua cultura, e gli studenti «bene» del liceo di Paola Mastrocola che accettano con più o meno gentile condiscendenza l’importuna interruzione della loro vita tutta web e hi-tech, senza soggezione a dichiarare di non aver aperto un libro (La scuola raccontata al mio cane, 2004; Togliamo il disturbo, 2011). Stereotipi irosi di chi vede nei suoi liceali i traditori di una scuola selezionatrice dei bravi – scuola dove, avendo il buon dio distribuito equamente la bravura, i Gianni potrebbero emanciparsi davvero: ma dimentica che i Gianni a quella scuola non arrivano mai. Gli alunni delle scuole professionali di Lodoli (Il rosso e il blu, 2009) sono chiusi in una lontananza che talvolta appare inaccessibile: amano la televisione, i telefonini, le scarpe firmate; come può raggiungerli la lezione su Leopardi? Al professore che li invita a rimediare l’insufficienza rispondono, in un italiano-romanesco sbrigativo, di non poterlo fare, impediti dal piercing alla lingua oppure perché il manifesto MARTEDÌ 13 SETTEMBRE 2011 pagina 11 CULTURA UN COPYRIGHT LUNGO SETTANT'ANNI Ieri il Consiglio d’Europa ha deciso che tutti i paesi membri devono allungare, entro due anni, il copyright a 70 anni. Una direttiva auspicata dalle industrie culturali con le riserve di Belgio, Olanda e Svezia. Chi parla, invece, di decisione catastrofica sono alcuni dei gruppi di mediattivisti, come l’Open Rights Groups che la considera un regalo all’industria dell’entertainment. LA SCOMPARSA DELLO SCRITTORE EGIZIANO KHAIRY SHALABY Khairy Shalaby, ritenuto uno dei più significati scrittori egiziani, è morto venerdì notte nella sua casa del Cairo. Autore di una settantina tra romanzi e racconti, che gli hanno valso il Premio Naguib Mahfouz nel 2003, Shalaby è stato docente di storia del teatro egiziano e ha diretto per lungo tempo la collana «Biblioteca di studi popolari» per il ministero della Cultura. SCAFFALE · «Diseguaglianze senza confini», un nuovo saggio dello studioso tedesco Ulrich Beck per Laterza Le radici mutanti del neoliberismo Benedetto Vecchi N el 2008 la Germania si credeva al riparo dall’onda di piena dei mutui subprime. Tempo un anno e l’amara scoperta che molte banche made in Deutschland erano coinvolte nella «crisi del debito sovrano» rendeva evidente il fatto che nessuno era al riparo di quell’onda di piena che stava mettendo in discussione una forma specifica del capitalismo chiamata neoliberista. Alle prime avvisaglie della crisi, Ulrich Beck aveva scritto che nella globalizzazione non c’era nessun l’ombrello che potesse mettere al riparo dall’onda dei mutui subprime. La sua posizione era stata però ritenuta prigioniera di un decennio drammaticamente chiuso con la caduta delle Torri Gemelle. La globalizzazione, questa la tesi dei suoi critici, doveva dunque lasciare la scena per far posto agli antichi stati nazionali e a un rinnovato sistema di relazioni internazionali incardinato su di essi. Ritenute un residuo del passato grazie all’azione del welfare state e collocate alla periferia del sistema-mondo, le diseguaglianze sociali sono tornate al centro della scena con la crisi del neoliberismo sotto il nome di «nuove povertà» Oltre il nazionalismo Beck aveva risposto alle critiche, nel saggio Potere e contropotere nell’età globale (Laterza), che la crisi del liberismo mostrava semmai l’irrilevanza teorica di chi ormai guardava alla Terra come un mondo piatto, cioè senza conflitti. Ma nulla attestava l’inizio di una fase di «deglobalizzazione». La soluzione al disordine mondiale, sosteneva il teorico della «società del rischio», era inoltre a portata di mano. Si trattava di rendere operativa una democrazia cosmopolita che facesse tesoro della ridu- zione della sovranità nazionale, basata però sull’attivismo manifestato dalla società civile globale e sugli organismi sovranazionali esistenti, ma profondamente riformati. È su questo crinale che si snoda il testo di Beck dedicato alle diseguaglianze sociali tanto all’interno delle realtà nazionali che a livello sovranazionale (Diseguaglianze senza confini, Laterza, pp.56, euro 9). Come è sua consuetudine, lo studioso colloca il tema in una prospettiva storica al fine di sottolineare l’esaurirsi del- la spinta propulsiva del «nazionalismo metodologico», che, in Europa e negli Stati Uniti, ha posto le diseguaglianze al di fuori dei confini in base alla loro irrilevanza politica. Così, mentre lo stato sociale operava a mitigarle sul piano interno, facendole diventare politicamente irrilevanti, le scienze sociali legittimavano quelle operanti sul piano globale attraverso attraverso una categoria, la povertà, che era però prerogativa del Sud del mondo. Le diseguaglianze erano cioè un residuo irrilevante sul piano nazionale, mentre la povertà era sempre collocata alla periferia del sistema-mondo. L’ordine del discorso dominante era cioè vincolato al precetto di «volgere gli occhi altrove istituzionalizzato». La globalizzazione, tuttavia, aveva messo in rilievo l’ambiguità e l’ipocrisia teorica di tale analisi, dato che l’Unione europea è stata costruita, ma questo Beck evita di ricordarlo, proprio su politiche di esclusione e di «respingimento» dei migranti che esercitano il loro diritto alla mobilità non solo come fuga dalla povertà, ma come affermazione della loro indisponibilità a vivere nel regno della necessità. Ma quello che lo studioso tedesco invece sottolinea è che le diseguaglianze sono tornate ad essere politicamente rilevanti tanto in Europa che negli Stati Uniti. Il divorzio tra politica e dominio La novità di questi ultimi anni è che hanno raggiunto un livello di guardia che mette in discussione la tenuta delle società capitalistiche e mostra come il neoliberismo non sempre sia compatibile con la democrazia. Beck punta l’indice sull’avvenuta separazione tra politica (governo della cosa pubblica) e dominio (esercitato dalle élite globali), proponendo nuovamente un consolatorio sguardo cosmopolita come antidoto al populismo nazionalista e ai cantori del neoliberismo globale, prospettive politiche l’una complementare all’altra. Pur nella sua brevità il saggio di Beck costringe a fare i conti su cosa sia il neoliberismo, in che rapporto sono le diseguaglianze con la pover- SOCIETÀ · Per Liguori uno studio condotto da Adriano Zamperini e Marialuisa Menegatto Dieci anni dopo il G8 di Genova l’ombra lunga del trauma Alberto Burgio non vogliono «soffrire neppure un minuto». Si potrebbe ricordare che poche generazioni li dividono dai bambini dei suburbi, «apatici a segno che non si cacciavan neppure le mosche dal naso e dagli occhi», ai quali La maestrina degli operai di De Amicis tentava inutilmente di «penetrare il cuore». Ora frequentano le tecniche o le professionali. E non è peggio. Tra piercing e Divina Commedia Ai mutamenti radicali che la scuola ha subito nel corso di due secoli si contrappone la persistenza degli stereotipi dei suoi personaggi che nelle pagine dei romanzi si ripresentano a ogni inizio d’anno con i loro tic, le loro manie, le loro frustrazioni. Il vecchio professore trascurato nell’abito e di raffinata cultura classica, quello che muoveva a compassione i suoi studenti ma li sapeva alzare sulle vette della poesia è da tempo in pensione. Ha lasciato la cattedra a un collega insicuro che si muove goffamente nell’alone di un ruolo sfocato: indeciso se entrare in classe coi piercing al viso o con la Divina Commedia in mano. Né è da tutti l’estro del Robin Williams dell’Attimo fuggente. Il «nuovo» insegnante sa bene di avere di fronte un pubblico che lo sopporta ma non lo «sente» maestro, e soffre nel constatare che non è la scuola a preparare per i suoi allievi un futuro ritornato nelle mani del potere familiare. Vorrebbe, a volte, solidarizzare con i suoi studenti se non li ritenesse sostanzialmente disinteressati al sapere scolastico. In fondo, forse, pesa su di lui l’antico stereotipo: di essere divenuto istruttore del popolo «per difetto di animo o di corpo». N el decennale delle giornate di Genova, culminate nell’assassinio di Carlo Giuliani e nella mattanza della scuola Diaz e della caserma Nino Bixio a Bolzaneto (tra le 250 e le 280 persone arrestate, oltre 600 feriti di cui tre in condizioni molto gravi e uno in coma), vede la luce un libro Cittadinanza ferita e trauma psicopolitico. Dopo il G8 di Genova: il lavoro della memoria e la ricostruzione di relazioni sociali di Adriano Zamperini e Marialuisa Menegatto (prefazione di Nando dalla Chiesa, Liguori Editore, pp. 191, euro 19) che consegna nuovi materiali di studio e importanti strumenti di analisi. Il tema è l’ombra lunga del trauma, che si proietta nel tempo trasformando, talvolta irreversibilmente, la vita – i pensieri, la sensibilità, l’identità – di chi lo ha vissuto. Ogni trauma è un frammento del passato che non passa, che tende a persistere, informando di sé il presente e «conficcandosi» nel futuro. Genova, in particolare, ha prodotto un profondo trauma psicopolitico, non soltanto in chi prese parte alle manifestazioni contro il G8 e subì le cariche e le torture della polizia, ma anche nella componente civile della società, non indifferente al diritto e alle sorti della democrazia italiana. Il lavoro, svolto sul campo da un’équipe di psicologi sociali, getta luce sugli effetti durevoli di quella devastante esperienza. Dando la parola ai testimoni degli eventi (ai manifestanti, non agli agenti, salvo rarissime eccezioni chiusi tuttora in un significativo silenzio), gli autori indagano le ferite aperte dalla brutale violenza fisica e morale compiuta dai poliziotti e dalla sconvolgente rottura delle regole poste a presidio dell’«ordine democratico». Ferite lontane dal rimarginarsi a dieci anni di distanza, a dimostrazione del fatto che il tempo, di per sé, non è una medicina, che il «pensiero della passività» non è una risorsa per il superamento del dolore, che la ri- mozione e la tabuizzazione della violenza non servono alla elaborazione individuale e collettiva di un lutto. Leggere questo libro, ascoltare quelle voci dolenti, è rivivere un incubo. Torna insistente il pensiero che tutti attraversò in quei giorni. L’Italia come l’Argentina di Videla, come il Cile di Pinochet. O come l’Italia di via Tasso, delle torture e delle deportazioni. E di piazza Fontana, dello Stato stragista. «Guardando sotto continuiamo a vedere quelli Quali conseguenze produce nella vittima il «negazionismo della sofferenza»? Quali effetti produce nella collettività la pretesa di «voltare pagina»? che sembrano “squadroni della morte”» racconta un testimone. «La battaglia di Genova è finita. Forse anche la democrazia nel nostro Paese» commenta un altro. Non si tratta soltanto del ricordo della brutalità e del nonsenso. Emerge soprattutto lo stupore per un inconcepibile rovesciamento delle parti. La prima questione che le testimonianze pongono è precisamente questa: che cosa rivela la mutazione genetica (sempre possibile) di apparati di potere pensati come strutture di protezione e rivelatisi alla prova dei fatti vettori di distruzione e di terrore? L’esperienza del terrorismo di Stato causa un radicale spaesamento e il crollo di aspettative cruciali. Comporta la scoperta del cuore di tenebra immanente alla relazione di potere. O, se si preferisce, la percezione della pervasività della guerra sotto la superficie fragile e illusoria della relazione civile. Come racconta un altro testimone, a Genova tutto un mondo si capovolse, lasciando irrompere la natura ferina (disumana e deumanizzante) della sovranità. Disincanto, quindi, ieri. Ma anche silen- zio, fuga, reticenza e omertà oggi. Faticano a ricordare e a parlare le vittime della violenza, difendendosi col diniego dal dolore del ricordo. Rifiutano di parlare gli autori (a vario titolo) delle violenze, difendendo il proprio ruolo con l’omertà e il disimpegno morale. Qui si pone l’altra questione: quali conseguenze provoca nella vittima il «negazionismo della sofferenza» e, soprattutto, quali effetti produce nella collettività la mancata assunzione di responsabilità da parte dei colpevoli, la pretesa di «voltare pagina» imponendo un impossibile o distruttivo black out della memoria? La memoria collettiva è un’attività in virtù della quale il passato si trasforma, opera nel presente, costruisce un futuro condiviso: dà vita a una «comunità di memoria» figlia del mutamento sociale prodotto dal lavoro del ricordo. Quando una società si ritrae, risparmiando a se stessa questa fatica, la violenza compiuta e subita resta come sospesa, cristallizzata in un presente senza tempo. E perdura. Chi allora subì torture, percosse, insulti e umiliazioni inaudite dai «tutori dell’ordine» reca ancora oggi il peso di un «ostracismo sociale». Le testimonianze di chi visse le violenze cilene di Genova fotografano questa impasse, che impedisce il superamento del trauma, rinnova il dolore, incide linee di frattura nel corpo della società. Per questo Carlo Giuliani non è, ancora oggi, «un morto di tutti». Per questo ancora oggi migliaia di cittadini di questo paese tremano al cospetto di divise e di anfibi. Per questo consigliamo la lettura di questo libro a tutti, e soprattutto a quei rappresentanti del popolo sovrano – deputati del centrodestra e dei partiti di Mastella e Di Pietro – che nell’ottobre del 2007, Prodi governante, impedirono l’istituzione di una Commissione parlamentare sui fatti di Genova. Scegliere l’omertà è possibile, pretendere che il silenzio riconcili è un’illusione, un errore e una colpa. tà. E, infine, la domanda sempre dirimente: che fare?. Il neoliberismo, viene sostenuto, è al suo stadio terminale. Affermazione che difficilmente può essere contestata, se per neoliberismo si intende solo la dismissione dello stato nel regolare l’attività economica. Ma di fronte a tale semplicistica concezione, vanno ricordati i seminari di Michel Foucault sulla biopolitica e la Breve storia del neoliberismo di David Harvey, laddove entrambi gli studiosi, seppur da prospettive teoriche diverse, convergono nell’illustrare che il neoliberismo, più che un modello economico è stato ed è una vera e propria concezione della natura umana dei rapporti sociali, all’interno dei quali lo stato ha sempre avuto un ruolo determinante nel legittimare la figura dell’individualismo proprietario. L’intervento statale, infatti, si è moltiplicato, arrivando a legiferare su aspetti della vita sociale finora inimmaginabili, puntando così a definire regole di comportamenti dalla sessualità alla famiglia, dal lavoro all’attività di consumo al fine di legittimare la figura dell’individuo proprietario. Per questi motivi, nel neoliberismo possono convivere la «versione» californiana, che vede la comunità e la famiglia come un ostacolo, e la sua versione populista, «comunitaria», così in auge nel Tea Party statunitense, nella Lega Nord, nella destra di Nicolas Sarkozy o che accompagna, come un fratello gemello, il rigore di molti tecnocrati europei, tra i quali Giulio Tremonti. Cosmopolitismo del capitale L’elenco potrebbe continuare a lungo. Una riflessione a parte meriterebbero la Cina degli anni Novanta del Novecento o il recente documento uscito dalle segrete stanze di Pechino sull’armonia sociale su cui Angela Pascucci e Michelangelo Cocco hanno scritto su questo giornale (8 Settembre). Tutto questo per dire che il neoliberismo più che una unica release manifesta una capacità mutante di adattamento a dimensioni locali, nazionali, portando a rinnovato protagonismo proprio quegli stati-nazione che venivano dati per spacciati (su questo tema va segnalato il lungo articolo dell’economista francese Frédéric Lordon pubblicato nella prossima edizione italiana de «Le Monde Diplomatique» in uscita il 15 Settembre). È dunque prematuro decretarne la morte. Allo stesso tempo, è all’interno di questa cornice che può essere letta la dialettica tra diseguaglianza e povertà. La prima era sì presente nei paesi capitalistici durante la breve stagione del welfare state, anche se una delle mission dello stato nazionale era il loro contenimento. La povertà, invece, evocava situazioni di indigenza, di abbrutimento superabili appena il capitalismo avrebbe svelato la sua natura «cosmopolita». C’è però il fatto che questa differenza tra diseguaglianza e povertà, come attesta la figura del working poor, del lavoratore povero, mettendo così in discussione l’idea che il lavoro potesse costituire la via maestra da imboccare per sconfiggere le povertà vecchie e nuove. Sarebbe dunque il caso di parlare di povertà assoluta e di povertà relativa, le due facce di una medaglia che vede le diseguaglianze come fattori costitutivi del capitalismo contemporaneo. La terza domanda – che fare? non ha ancora risposte esaustive. È nell’agire politiche che può prendere forma un altro ordine del discorso. In un libro poco citato -Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, Einaudi – Beck ha proposto il reddito di cittadinanza come misura per sottrarre i lavoratori a un destino di precarietà e di povertà. E’ questo un primo tassello per comporre il puzzle di un «fare» che punti a un superamento tanto delle diseguaglianze che della povertà. pagina 12 il manifesto MARTEDÌ 13 SETTEMBRE 2011 VISIONI Doc • «Hollywood Talkies» passato a Venezia ricostruisce la storia dimenticata degli attori spagnoli che l’industria del cinema utilizzò per lavorare nelle «versioni multiple» UN’IMMAGINE TRATTA DAL DOCUMENTARIO «HOLLYWOOD TALKIES» DI OSCAR PEREZ E MARIA DEL MAR DE RIBOT. SOTTO A DESTRA CLIFF ROBERTSON E JOAN CRAWFORD IN «AUTUMN LEAVES» nate a immagini a colori della California di oggi, prima del sogno (mare, natura, edifici silenti) poi quelle del deserto che accompagnano la malinconica fine dell’esperimento. Gli autori dichiarano infatti di aver voluto evocare nello spettatore lo straniamento dell’esperienza di questi attori, intrappolati in uno spazio sospeso, né a Hollywood né in patria, fino a scomparire dalle pagine della storia. Costretti forse a questa scelta estetico-produttiva dai costi e dalle difficoltà di riproporre delle clip di qualche versione spagnola e dalla superficialità delle fonti dirette, tra l’aneddoto e la millanteria delle interviste pubblicate all’epoca, Perez e de Ribot raccontano la versione Giuliana Muscio VENEZIA L e ricerche per Hollywood Talkies, il documentario passato in concorso durante le giornate della Mostra nella sezione Orizzonti, hanno impegnato Oscar Perez e Maria del Mar de Ribot per cinque anni; difficile infatti ricostruire la storia dimenticata degli attori spagnoli che andarono a Hollywood nei primi anni trenta, quando l’introduzione del sonoro, prima del doppiaggio e dei sottotitoli, costrinse l’industria del cinema americano a sperimentazioni talvolta fantasiose, allo scopo di non perdere i sempre più proficui mercati esteri. Tra questi metodi produttivi sperimentali il più estroso è stato senz’altro quello delle versione multiple, ovvero la realizzazione dello stesso film, con la stessa sceneggiatura, gli stessi set e gli stessi costumi, con attori possibilmente somiglianti al cast originale, ma di madrelingua straniera. Di giorno quindi si girava la versione principale, quella americana, e poi di sera il set veniva utilizzato per girare la stessa scena, imitando possibilmente anche le inquadrature, con i cast stranieri, magari a turno, con spagnoli, tedeschi, francesi. Per le scene in esterni o di massa, ad esempio, si usava di solito il materiale «americano»: di qui la necessità di usare attori somiglianti a quelli della matrice. Quello in lingua spagnola era il mercato più grande e importante per Hollywood, poiché includeva anche l’America Latina, quindi le versioni in questo idioma sono le più numerose e quelle che si continuarono a fare in un arco di tempo più lungo. Basandosi su una discreta bibliografia (rispetto a un argomento così poco frequentato di solito, dalla storia del cinema), e sull’autobiografia di Bunuel, sulle riviste dell’epoca, che raccoglievano con orgoglio interviste e memoriali di questi personaggi a Hollywood, e su alcune registrazioni successive di storia orale e utilizzando le foto appaiate del cast americano e di quello della versione spagnola, Hollywood Talkies racconta le vicende di Conchita Montenegro, Jose Mojica, Lopez Rubio, Julio Pena, Antonio Cumellas, e altri ancora, che attraversano per un breve periodo la storia di Hollywood, ma senza quasi lasciare traccia, né in America né in patria. Il metodo produttivo sperimentale più estroso era quello degli adattamenti dello stesso film L’esperienza non durò a lungo, non solo perché la tecnica era costosa e laboriosa, mentre nel frattempo era stato perfezionato un efficiente sistema di doppiaggio, ma anche perché il pubblico dell’America Latina non gradiva l’accento castigliano, mentre quello spagnolo non sopportava che i cast includessero attori parlanti messicano o argentino. Per risolvere la guerra degli accenti gli studios arruolano il noto scrittore Gregorio Martinez Sierra, il quale però non sapeva l’inglese, quindi si limitò a supervisionare la conformità dell’accento spagnolo. Già verso il 1932/1933, la pratica delle versioni straniere fu dismessa; solo quelle spagnole continuarono fino alla fine Di copie italiane ne esistono solo due, anche perché Mussolini impose le leggi sul doppiaggio Hollywood 1930 il doppio limbo latino degli anni Trenta. Questi attori, che avevano assaporato le mollezze e l’imperturbabilità del clima californiano, rientrarono quasi tutti in Spagna, ma non divennero grandi star, nonostante potessero vantare questa esperienza, e soprattutto arrivarono nella Spagna sull’orlo della guerra civile, ben lontana dai sogni del glamour hollywoodiano; alcuni anzi morirono tragicamente, sia da un lato che dall’altro. Chiude il film la vicenda di Cumellas, che, tornato in Spagna, incontra un amico prete quando nella chiesa arrivano degli uomini armati: l’attore si finge il prete e viene ucciso - la sua ultima interpretazione, nota Perez. Hollywood Talkies non propone questa vicenda dimenticata con il prevedibile taglio storico, ma sceglie un approccio «autoriale» (entrambi i co-registi d’altro canto insegnano documentario creativo all’università Pompeu Fabra di Barcellona) ovvero con fotografie in bianco e nero, sia dei film che della vita di questa piccola comunità (le feste, le gite, i bagni nell’oceano) e con una voce fuori campo dal tono impersonale, alter- TELEVISIONE Spartacus ora non lotta più Scompare a 39 anni Andy Whitfield Fisico longileo e scolpito, sguardo profondo e fascinoso tanto da conquistare la platea di milioni di spettatori/spettatrici nel mondo catturati dalle tredici puntate di «Spartacus - Sangue e sabbia», in cui ha recitato nel ruolo del del guerriero trace preso dalle legioni romane e trasformato in gladiatore. Andy Whitfield, il protagonista, 39 anni, si è spento ieri dopo una battaglia contro un linfoma non Hodgkin che lo aveva colpito dieci mesi fa, costringendolo a sospendere la lavorazione della seconda serie della fiction. Whitfield ha debuttato come attore in un episodio della serie «All saints», per poi diventare protagonista del film «Gabriel - la furia degli angeli». Dopo una serie di ruoli in serial a stelle e strisce, come «The Strip» «Packed to the Rafters» e «Le sorelle McLeod», è Spartacus ha dargli la popolarità planetaria - la serie è stata infatti distribuita in ottanta paesi, da noi è in esclusiva su Sky. E proprio il gruppo televisivo di Murdoch sta trasmettendo in queste settimane il prequel «Gods of the Arena», nato dall’esigenza di dare a Whitfield il tempo di curarsi. Ma l’impossibilità dell’attore di tornare sul set ha costretto i produttori a mettere in cantiere la seconda serie «Spartacus - la vendetta», mettendo sotto contratto un nuovo attore, Liam McIntyre. spagnola di una vicenda che ha riguardato un po’ tutti i paesi, incluso il nostro. Di versioni italiane ne esistono due sole -Luigi la volpe (The Men of the North) e Il grande sentiero (The Big Trail)anche perché Mussolini impose molto presto la legge sul doppiaggio, ma il silenzio su questa curiosa esperienza non deriva dalla sua irrilevanza numerica, o, come per altre cinematografie, dalla pesante ricaduta delle scelte di campo di questi attori nella guerra civile spagnola o nel caso francese, tra collaborazionisti e Vichi. Una storia dimenticata perché nel caso italiano gli interpreti di queste versioni non erano attori del teatro o del cinema italiano, invitati a Hollywood, ma personaggi come Franco Corsaro o Frank Puglia, ovvero esponenti di quel teatro degli emigranti che tuttora la cultura accademica ignora, infastidita dal loro accento spiccatamente regionale, risentita dalla puzza di aglio e sudore, associata all’emigrazione meridionale; una parentela –una fratellanza difficile come ha raccontato Davide Ferrario in Piazza Garibaldi -di cui ci si vergogna, e non si vuol parlare, anche perché rivela il colpevole fallimento delle politiche del regime. Stardust/ MORTO A 88 ANNI L’ATTORE AMERICANO SIMBOLO DEL CINEMA COOL Cliff Robertson, talento e ambiguità del divo che incarnò la gioventù bella e perduta Roberto Silvestri S enza diventare mai divo di prima grandezza (come Rock Hudson, Steve McQueen e Paul Newman), Cliff Robertson, morto il 10 settembre scorso a 88 anni appena compiuti, resta un simbolo forte (con Jayne Mansfield, Tony Curtis, John Gavin o Tony Randall), del cosiddetto «cinema cool», cioè di quelle superproduzioni hollywoodiane di glaciale bellezza e sontuosità, drammatiche o leggere, in Technicolor e cinemascope, che nel decennio fine 50-fine 60 si caratterizzarono per un manierismo di messa in scena, lussuria emozionale e virtuosismo di performance insuperati. Con talento e ambiguità, secondo solo a James Dean e Monty Clift nel recitare «a lato di tutto», Robertson ha incarnato la rabbia delicata di giovani bellissimi e disadattati, affascinanti e senza paura, ma solitari e schizofrenici, devastati da un oscuro passato, dalle ombre di un male interiore, dalla «follia» perversa tipica dell’ ufficiale presuntuoso e irresponsabile o del gangster che, in Underworld Usa’(La vendetta del gangster, 1961) siede ormai nei consigli d’amministrazione senza aver perduto il gusto della belva feroce. Non era così estroverso come Jimmy eppure dominava come lui pudore dei sentimenti, fantasia, purezza morale senza rapporti con la morale corrente ma più rigorosa, gusto dell’adolescente per la competizione, ebbrezza, orgoglio di sentirsi fuori dalla società e nello stesso tempo desiderio di integrarsi nel mondo così come è. È stato diretto da registi originali e popolari come come Samuel Fuller, Robert Aldri- ch (che lo rese celebre in un melò quasi horror Foglie d’autunno, 1956, ma se lo vide imporre dai produttori in Non è più tempo di eroi, 1970), Raoul Walsh, Otto Preminger (che non amava), Basil Dearden, Frank Perry, Sidney Pollack, John Carpenter, De Palma, Philip Kauffman, Sam Raimi… Robertson ha interpretato centinaia di film di successo, dalla metà degli anni 50 fino ad oggi: Il nudo e il morto, da Mailer (1958), I caval- loni (1959), accanto a Sandra Dee, che inaugurò il filone dei surf-movie, Il grande spettacolo (1961), La pelle che scotta (1962), Masquerade (1967), La banda di Jesse James (1972), I tre giorni del Condor (1975), La battaglia di Midway (1976), Complesso di colpa (1976), Star 80 (1983), Fuga da Los Angeles (1996),… fino a Spiderman (2002). Ha vinto l’Oscar nel 1968, con I due mondi di Charly, ma come ripeteva spesso il cinema va troppo in fretta: «Dodici mesi dopo aver conquistato la statuetta, mi hanno chiesto: ti ricordi quale attore ha vinto l’Oscar l’anno scorso?». Dopo una lunga gavetta teatrale era stato un gigante della scena, Joshua Logan, a lanciarlo nel 1955 in Picnic e per tutta la carriera Robertson alternerà senza spocchia cinema e televisione (portò sul piccolo schermo nel 1958 I giorni del vino e delle rose quasi contemporaneamente alla versione cinematografica di Jack Lemmon e Blake Edwards), dirigendo anche tre film (sul rodeo e su un pilota d'aeroplani di linea modello che poi si scopre alcolizzato fradicio). Nel 1989 è stato membro della giuria di Berlino. Appassionato di volo a vela e collezionista di aeroplani vintage (come il tedesco Messerschmitt ME-108), è tra le celebrità di Hollywood (come Shirley McLaine, Ed Asner o Olivia Newton John) che avrebbero dichiarato – secondo i gossip - di aver visto volare oggetti volanti misteriosi. Più terrestre una sua celebre causa degli anni 70 contro la Columbia. Accusò il manager David Begelman di averlo truffato, sottraendogli soldi e percentuali sugli incassi e firmando assegni col suo nome. Liberal militante, fu al fianco del candidato democratico del New Hampshire Mo Udall nelle primarie del ’76, ed era stato scelto personalmente dal presidente John F. Kennedy per impersonarlo da giovane, nel film biografico e bellico PT 109, posto di combattimento (1963). In L’amaro sapore del potere (1964) avrebbe scodellato la sua esperienza politica dando il suo contributo al filone «elezioni presidenziale», luci e ombre. Classe 1923, generazione segnata o meglio traumatizzata dalla guerra e dal maccartismo, Clifford Parker Robertson III (il suo vero nome) ha lavorato nel 1962 anche in Love has many faces, con Lana Turner, tratto da un copione finalmente firmato da Marguerite Roberts, «strega comunista» costretta alla clandestinità e al lavoro nero dal 1952... il manifesto MARTEDÌ 13 SETTEMBRE 2011 pagina 13 VISIONI TONY BENNETT E AMY WINEHOUSE Lo standard «Body and soul», in duetto con Tony Bennett, è stata anche l’ultima interpretazione di Amy Winehouse. Il brano verrà trasmesso sulle radio di tutto il mondo il 14 settembre, data in cui l’artista inglese avrebbe compiuto 28 anni, e contemporaneamente sarà in vendita digitale su iTunes (i proventi andranno in beneficenza). LA STRAGE DI VIAREGGIO A DOC CARTOON Nell’ambito del DocCartoon (Pietrasanta, 24-30 settembre), verrà presentato in una speciale sezione un fumetto in uscita a metà 2012 che racconterà la strage di Viareggio, non solo dal punto di vista della cronaca ma anche soffermandosi su aspetti tecnici sottovalutati. L’autore di «29 giugno 2009 (strage di Viareggio)» è Gianfranco Maffei. TIQUE TACA Uno stadio magnifico aiuta il fair play? Roberto Duiz C’ CALCIO · Stasera Barcellona-Milan e domani tocca a Napoli e Inter Mattate da Champions con le italiane a rischio Nicola Sellitti F ermare Messi per l’assalto alla vetta anche in Europa. Il Milan inaugura stasera al Camp Nou contro il Barcellona l’ultima Champions League con quattro posti disponibili per l’Italia dal mercato low cost (la ricca Bundesliga ci sfila una poltrona dal 2012/2013), divenute subito tre dopo il preliminare di metà agosto con l’Arsenal che eliminava l’Udinese. Per i rossoneri è il primo esame europeo con lo scudetto sul petto. E Allegri lo affronta senza Ibrahimovic, infortunatosi all’adduttore destro poco prima della partenza per la Catalogna. Un’assenza che manda all’aria la rivincita dello svedese ma decisivo in Coppa e poco amato - da Guardiola, tifosi e compagni di squadra - nella sua unica stagione blaugrana, pure condita da oltre venti gol. E mentre Galliani esorcizza l’incubo Barça elencando i tituli mondiali vinti dal Diavolo nell’era Berlusconi, il tecnico livornese detta la linea. In campo con coraggio senza ripetere gli errori difensivi dei primi venti minuti del pareggio casalingo nell’esordio in campionato contro la Lazio. Perché il Barcellona, privo dell’ex udinese Sanchez per due mesi e che pure viene da un insolito 2-2 esterno contro la Real Sociedad nel secondo turno di Liga, distribuisce manite anche alle big d’Europa. Giocano Pato e Cassano (Robinho non è convocato per infortunio) e rientrano anche i veterani Seedorf e Zambrotta. Duro l’impegno anche per il Napoli mercoledì sera a Manchester contro il City di Mancini e dello sceicco Al Mubarak, a punteggio pieno in Premier la radio Il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha iniziato il suo tour mediorientale, dall'Egitto alla Libia. In molti credono che non lesinerà parole di fuoco contro lo stato ebraico, considerato un ex amico e un ex alleato dopo l'incidente della Mavi Marmara, in cui sono morti otto cittadini turchi. Oggi a Radio3 Mondo, in onda dalle 11.30 alle 12, Roberto Zichittella ne parlerà con Marta Ottaviani, giornalista e scrittrice, collaboratrice de La Stampa e di Avvenire League dopo quattro turni. Gli azzurri e i settemila tifosi al seguito ritrovano la Champions dopo ventuno anni. Allora si sollevava ancora la Coppa dei Campioni e la squadra allenata da Albertino Bigon era eliminata dal gelo più che dalla forza del Cska Mosca. Fu l’ultimo cameo europeo di Diego Armando Maradona. Mazzarri invece si ritrova contro Aguero, il genero de El Pibe, che assieme al bosniaco Dzeko, innescati dallo spagnolo Silva, ha messo assieme dodici gol in quattro gare in Premier League, lasciando le bricole a Mario Balotelli, in campo solo per una manciata di minuti. Tra i napoletani rientra dal primo minuto Hamsik, decisivo nella vittoria di Cesena. Si ricompone con lo slovacco, Lavezzi e Cavani, il tridente da 43 gol che ha portato i partenopei al terzo posto nello scorso campionato. I due gol del ritrovato Milito non so- no bastati all’Inter imbambolata di Palermo. In Sicilia difesa di burro, centrocampo a corto di fiato e confusione in attacco, per Gasperini il match di domani a San Siro contro i turchi del Trabzonspor arriva al momento opportuno. Tre punti obbligatori anche per non complicare un girone non impossibile (con Cska e Lille). E per non alimentare le critiche dei tifosi e del presidente Moratti, che non vede di buon occhio il 3-4-3. Il clima è già incandescente se Zanetti, anima della squadra, non esclude un cambio di modulo se risultati e gioco tardassero ad arrivare. Contro i turchi quindi ancora retroguardia schierata a tre per i nerazzurri – rientra Ranocchia – che dovrebbero ritrovare Sneijder (ancora incerta la collocazione tattica dell’olandese, probabile esterno sinistro nel tridente) mentre una nuova chance dovrebbe essere concessa all’ex laziale Zarate. Due notti di calcio internazionale sulle reti Rai con la Champions League. Stasera, alle 23.15 su Rai3, Andrea Fusco condurrà la rubrica «90esimo Minuto Champions» per rivedere tutti i gol della prima giornata della fase a gironi. Ampio spazio verrà dedicato alla sfida tra Barcellona e Milan con collegamenti e interviste dallo stadio Camp Nou. Domani alle 19, su Raisport 1, pre partita con tutte le ultime sulle gare di Champions in programma all'interno di Anteprima 90mo Champions. Dalle 20.35 su Rai1, diretta di Manchester City-Napoli con telecronaca di Gianni Cerqueti e commento tecnico di Claudio Ranieri. Al termine della sfida di Manchester, spazio alle interviste e alle immagini di tutti i gol della serata su Rai1 alle 22.45 con «90mo Minuto Champions» condotto da Andrea Fusco. Parte domani alle 23 su Rai era nell’aria una gran condo il proprio estro, almeno voglia di calcio-show, chi ne ha. Sintomatici, in quedopo la lunga astinensto senso, il pressing mastino za estiva dilatata dal contenziosui portatori di palla avversari so fra Associazione Calciatori e combinato alle artistiche penLega che ha provocato il rinvio nellate di Pirlo e Del Piero per dell’inizio del campionato di sespianare il gol ai compagni più rie A. Il primo turno, spalmato abili a smarcarsi, che non sono su tre giorni (da venerdì sera a necessariamente attaccanti di domenica notte), è stato dunruolo. Certo, un Parma intimidique accolto come una liberatoto e anche un poco arrendevole ria abbuffata, anticipata dalha facilitato la buona perforl’inaugurazione dello Juventus mance juventina e il 4 a 1 finale. Stadium, enfatizzato come priConte stempera gli ardori ribamo passo verso un adeguamendendo che nel cantiere biancoto del calcio italiano a quello delnero i lavori sono ancora in corl’Europa più evoluta. so. Ma tra gli attesi al varco deAl collaudo agobuttanti su pannistico, domenica chine da quartieri Nella nuova con Juventus-Paralti è l’unico a porifondazione ma, il prato era viter trarre segnali sibilmente provaconfortanti e tirabianconera to dai maltrattare un sospiro di Pirlo e Del Piero sollievo. Juve in menti subiti nel corso delle celetesta insieme alle in gran forma brazioni, ma il colaltre squadre vinpo d’occhio (ancenti: Fiorentina, che televisivo) proiettava in conUdinese, Napoli e Palermo. testi finora sconosciuti da noi. Più complicato si prospetta il Pubblico ordinatamente assieproseguo dei lavori in altri canpato fino a pochi metri dal camtieri, come quello interista per po e senza ingombranti (e inGasperini e quello romanista quietanti) barriere a dividerlo in per Louis Enrique. Sconfitta a blocchi distinti, l’un contro l’alPalermo l’Inter e battuta in casa tro ringhianti. Panchine rialzate dal Cagliari la Roma. Più che il fino a lambire gli spalti. Come a risultato in sé, ciò che in entramdire che sì, forse si può ambire be sconcerta è l’ineffabilità del davvero anche ad un passo in gioco. Soprattutto i nerazzurri avanti verso il fairplay. E spettasembrano in preda ad un maracolo in campo all’altezza della sma tattico. scenografia. Se sia stato solo un A gettare nello sgomento Enricaso si vedrà, ma la Juve dell’enque, invece, più che i tifosi, conesima rifondazione all’esordio munque plaudenti a fine partinel suo nuovo habitat ha conforta, ci pensa Federico Buffa, che tato la tesi di chi sostiene che nel ruolo di saputello a sua volun bel contesto stimola anche ta esordiente nel teatrino di Sky un bel gioco. Calcio Show gli ha rifilato un’arComunque, anche se non eczigogolata domanda in perfetto celso, volitivo e arrembante il spagnolo lunga un’intera corrigioco dei bianconeri guidati da da. Le sbirciatine sarcastiche Antonio Conte, al suo esordio che gli lanciava il compagno di su una panchina così blasonata studio Massimo Mauro, prontae già soprannominato La Belva mente colte dalla regia, fanno per come ruggisce ai suoi, pur presagire gustosi siparietti nelle lasciati liberi di esprimersi sepuntate a venire. Storia «I bambini e noi» di Luigi Comencini: una serie in 6 puntate in onda sul canale di Rai Educational su Digitale Terrestre e Tiv— Sat. Un lavoro extra-cinematografico del 1970, realizzato per la Rai, che fotografa la condizione di vita dei bambini italiani, ma anche quella del Paese a partire dalla fine degli anni Sessanta. La prima puntata apre con uno spaccato su Napoli, dove i più piccoli sono protagonisti e testimoni di una situazione che li vede costretti a lavorare, invece di studiare ed andare a scuola, venendo così privati del fondamentale diritto all'istruzione. Fra le proposte cinematografiche del palinsesto in digitale ma «in chiaro», Rai 5 propone alle 21.50 «Luther», di Eric Till. Ricostruzione storica delle vicende legate alla figura di Martin Luter. Il film, alla cui realizzazione ha contribuito la stessa comunità luterana, è interpretato da Joseph Rai1 Rai2 Rai3 Rete4 Canale5 15:15 LA VITA IN DIRETTA Attualità Conduce Marco Liorni, Mara Venier 16:50 TG PARLAMENTO - TG1 CHE TEMPO FA Notiziario 18:50 L’EREDITÀ Gioco Conduce Carlo Conti 20:00 TG1 Notiziario 20:30 SOLITI IGNOTI Gioco Conduce Fabrizio Frizzi. 17:00 LIFE UNEXPECTED Telefilm Con Brittany Robertson, Shiri Appleby 17:50 RAI TG SPORT Notiziario sportivo 18:15 TG2 Notiziario 18:45 COLD CASE Telefilm Con Kathryn Morris, John Finn 19:30 SENZA TRACCIA Telefilm Con Anthony LaPaglia 20:25 ESTRAZIONI DEL LOTTO Programma generico 20:30 TG2 - 20.30 Notiziario 16:00 COSE DELL’ALTRO GEO Documentario 17:40 GEO & GEO Documentario Conduce Sveva Sagramola 18:10 METEO 3 - TG3 Notiziario 19:30 TG REGIONE - METEO Notiziario 20:00 BLOB Varietà 20:15 SABRINA VITA DA STREGA Telefilm 20:35 UN POSTO AL SOLE Soap opera Con Patrizio Rispo 16:45 NESSUNA PIETÀ PER ULZANA FILM Con Burt Lancaster, Bruce Davison, Jorge Luke, Richard Jaeckel, 18:55 TG4 - METEO Notiziario 19:35 TEMPESTA D’AMORE Soap opera 20:30 WALKER TEXAS RANGER Telefilm Con Chuck Norris 16:30 POMERIGGIO CINQUE Attualità Conduce Barbara D’Urso 18:50 AVANTI UN ALTRO Gioco Conduce Paolo Bonolis con Luca Laurenti 20:00 TG5 - METEO 5 Notiziario 20:40 PAPERISSIMA SPRINT Varietà 21:20 RIASSUNTO: IL COMMISSARIO ZAGARIA Programma generico 21:10 LO SMEMORATO DI COLLEGNO Fiction Con Gabriella Pession, Johannes Brandrup, Lucrezia Lante della Rovere 23:30 UNA GIORNATA PARTICOLARE A SPASSO CON LE MISS Rubrica 23:50 PASSAGGIO A NORD OVEST Documentario Conduce Alberto Angela 00:45 TG1 NOTTE - CHE TEMPO FA Notiziario 01:20 APPUNTAMENTO AL CINEMA Rubrica 21:05 GLI INCREDIBILI - UNA NORMALE FAMIGLIA DI SUPEREROI FILM Cartoni animati 23:05 TG2 Notiziario 23:20 FREQUENCY - IL FUTURO È IN ASCOLTO FILM Con Dennis Quaid, James Caviezel, Shawn Doyle, Elizabeth Mitchell, Andre Braugher. 01:10 TG PARLAMENTO Attualità 21:05 BALLARÒ Attualità Conduce Giovanni Floris 23:10 90° MINUTO CHAMPIONS Rubrica sportiva Conduce Andrea Fusco 23:55 TG REGIONE Notiziario 00:00 TG3 LINEA NOTTE ESTATE Attualità 00:10 METEO 3 Previsioni del tempo 00:40 RAI EDUCATIONAL ATTO UNICO Rubrica 21:10 THE MENTALIST Telefilm Con Simon Baker, Robin Tunney, Tim Kang, Owain Yeoman, Amanda Righetti, Elizabeth Dennehy 23:15 LAW & ORDER - UNITÀ SPECIALE Telefilm Con Christopher Meloni, Mariska Hargitay, Richard Belzer, Dann Florek 00:15 CINEMA FESTIVAL Rubrica 00:20 EVITA FILM Con Madonna, Antonio Banderas, Jonathan Pryce, Jimmy Nail, Victoria Sus, Julian Littmna, Olga Merediz, Laura Pallas 21:25 IL COMMISSARIO ZAGARIA Miniserie Con Lino Banfi, Rosanna Banfi, Marco Cocci, Ana Caterina Morariu, Antonio Stornaiolo, Sandro Ghiani, Isabelle Adriani 23:45 NONSOLOMODA - 25 E OLTRE Attualità Conduce Valeria Bilello 00:30 TG5 NOTTE - METEO 5 NOTTE Notiziario 01:00 PAPERISSIMA SPRINT Varietà Fiennes, Bruno Ganz, Alfred Molina, Claire Cox, ed è l'ultima pellicola in cui compare Peter Ustinov, nel ruolo di Federico III di Sassonia detto «Il Saggio». Raimovie propone in «notturna» (0.45) «La sposa turca», orso d’oro a Berlino nel 2004. Sivel, giovane ragazza di origini turche, per sfuggire alle regole della famiglia, finge un suicidio ma la messa in scena non riesce. Si trova così costretta a inventarsi un matrimonio di convenienza con Cahit, un quarantenne molto depresso, che in un primo momento rifiuta ma poi si ritrova a vivere con lei.. A seguire - 2.45 sempre su Raimovie un classico di Ken Loach del 1994 «Ladybird ladybird». Basato su una storia vera, racconta la vicenda di Maggie, una vita difficile alle spalle, nel corso della quale ha concepito e messo al mondo tre figli da tre padri diversi. Con Crissy Rock e Vladimir Vega. Italia1 17:55 LE AVVENTURE DI LUPIN III Cartoni animati 18:30 STUDIO APERTO - METEO Notiziario 19:00 STUDIO SPORT Notiziario sportivo 19:25 C.S.I. MIAMI Telefilm Con David Caruso, Emily Procter, Adam Rodriguez 21:10 YES MAN FILM Con Jim Carrey, Zooey Deschanel, Bradley Cooper, John Michael Higgins, Rhys Darby, Danny Masterson, Fionnula Flanagan, Terence Stamp, Sasha Alexander 23:15 I LOVE YOU, MAN FILM Con Paul Rudd, Rashida Jones, Sarah Burns, Jason Segel, Greg Levine, Jaime Pressly, Jon Favreau, Jane Curtin, J.K. Simmons 01:20 POKER1MANIA Rubrica sportiva 02:10 STUDIO APERTO - LA GIORNATA Notiziario Rainews La7 16:35 AUSTIN STEVENS, FOTOGRAFO PER NATURA Documentario 17:30 L’ISPETTORE BARNABY Telefilm Con John Nettles, Jane Wymark, Daniel Casey, Laura Howard 19:30 G’ DAY Varietà Conduce Geppai Cucciari 20:00 TG LA7 Notiziario 20:30 OTTO E MEZZO Attualità Conduce Lilli Gruber 21:10 S.O.S. TATA Real Tv 00:10 TG LA7 Notiziario 00:20 CROSSING JORDAN Telefilm Con Jill Hennessy, Miguel Ferrer, Steve Valentine, Ravi Kapoor, Kathryn Hahn 01:30 NYPD BLUE Telefilm Con Dennis Franz, Gordon Clapp, Bill Brochtrup, James McDaniel, Kim Delaney 02:40 SUPERCLASICO 2011 Evento sportivo 19:03 IL PUNTO SETTIMANALE Attualità 19:27 AGRIMETEO Notiziario 19:30 TG3 Notiziario 20:00 IPPOCRATE Rubrica 20:30 TEMPI SUPPLEMENTARI Rubrica 20:57 METEO Previsioni del tempo 21:00 NEWS LUNGHE DA 24 Notiziario 21:27 METEO Previsioni del tempo 21:30 MERIDIANA - SCIENZA 1 Rubrica 21:57 METEO Previsioni del tempo 22:00 INCHIESTA 3 Attualità 22:30 NEWS LUNGHE DA 24 Notiziario 22:57 METEO Previsioni del tempo 23:00 CONSUMI E CONSUMI Rubrica 23:27 METEO Previsioni del tempo OPERA Fidelio alla Scala carbura lento ma poi esplode Fabio Vittorini MILANO S ul programma dello scambio fra la Wiener Staatsoper e il Teatro alla Scala di Milano durante la stagione 2010-2011 ha gravato per mesi un alone di incertezza. Inizialmente è stata decisa la rappresentazione in forma scenica di Arabella di Strauss, sotto la direzione di Franz Welser-Mö st. Poi un cambio di programma: niente Arabella, ma Fidelio di Beethoven, stessa orchestra stesso direttore, con esecuzione in forma di concerto, minacciata dall’annunciato sciopero degli addetti all’accoglienza del pubblico, poi rientrato. E infine, venerdì 9 settembre, la Scala è stata deliziata dalle copiose note di Fidelio, che, sostengono alcuni, non può essere allestito che in forma di concerto, mentre l’impavido Giorgio Pestelli ha riempito due terzi del programma di sala per convincerci del contrario. In verità Fidelio è un Singspiel, cioè un’opera in cui dialoghi recitati si alternano a pezzi musicali chiusi. La partitura è strutturata come una successione di tableau, cioè di quadri viventi in cui si cristallizzano i momenti culminanti dell’azione, accompagnati da minuziose didascalie che prescrivono ogni minimo gesto dei personaggi. Questi quadri, che ricordano le tele edificanti di Jean-Baptiste Greuze (contemporaneo di Beethoven), fissano nel tempo una situazione esemplare a beneficio morale dello spettatore, mentre la musica gareggia con la fissità delle arti plastiche. E allora l’esecuzione scaligera è stata a suo modo ideale: i cantanti immobili davanti ai loro leggii, con appena qualche accenno di sguardo o gesto a scimmiottare la situazione drammatica del momento; i dialoghi parlati sono stati quasi totalmente soppressi, salvo pochissime battute, indispensabili alla comprensione dello sviluppo dell’azione. Lunghi applausi hanno accolto l’ingresso dell’Orchestra e di Welser-Möst, ma l’Ouverture non ha scatenato gli entusiasmi previsti e il direttore, dopo un paio di secondi di attesa, ha attaccato il numero di Marzelline (Anita Hartig, dotata di una voce fresca e penetrante) e Jaquino (Norbert Ernst, dalla voce stimbrata e poco udibile), accolto da deboli battimani. Nessuna reazione del pubblico al famoso quartetto, né all’aria di Rocco (HansPeter König, più adatto ai rocciosi personaggi wagneriani che non a un tipo di mediocre statura come Rocco), né all’aria di Pizarro (Albert Dohmen, che pure del ruolo è specialista), mentre si è animato dopo l’Abscheulicher di Leonore (Nina Stemme, che ha palesato qualche incertezza). L’aria di Florestan (un Peter Seiffert che spinge fin dalla prima nota, è spesso calante e dispensa un vibrato a tratti davvero brutto) ha galvanizzato la platea. E infine, nella più classica tradizione viennese, inaugurata a suo tempo da Mahler, è arrivata l’ouverture Leonore n. 3 e il teatro è venuto giù. Insomma, serata dalla carburazione lenta, ma conclusasi con un gran trionfo per tutti e ripetute chiamate per direttore, solisti e maestro del coro. pagina 14 il manifesto MARTEDÌ 13 SETTEMBRE 2011 ❚ terraterra Via Campesina Un appello per Durban I l movimento internazionale La Via Campesina e la sua propaggine sudafricana, il Movimento popolare dei senzaterra (Landless Peoples Movement), stanno affilando i denti in vista della prossima «Conferenza delle parti» della Convenzione Onu sui cambiamenti climatici, che si terrà a Durban in Sudafrica fra il 28 novembre e il 9 dicembre prossimi. Si tratta del vertice che segue quelli di Copenaghen e di Cancun, «dove i negoziati sul clima sono diventati un gigantesco mercato», dice un appello diffuso da Via Campesina in questi giorni. «I nostri governi hanno condannato l’Africa e l’Asia del Sud a un virtuale incenerimento, le cui prime vittime sono i contadini». Ecco un ampio stralcio del documento. «Il sistema alimentare mondiale produce quasi il 50% di tutte le emissioni di gas di serra, a causa dell’uso eccesivo di combustibili fossili e di sostanze agrochimiche derivate dal petrolio, del trasporto su lunga distanza di alimenti e materie prime, delle monocolture e della distruzione delle foreste spesso per far posto a piantagioni industriali, il cosiddetto deserto verde. E’ possibile ridurre drasticamente queste emissioni trasformando il sistema agroalimentare nel senso della sovranità alimentare: produzioni agroecologiche locali per il consumo locale. Invece, ai paesi sviluppati e alle grandi imprese è permessa ogni sorta di escamotage per evitare di ridurre le emissioni. A Durban La Via Campesina denuncerà come false soluzioni al problema climatico tutti i tentativi di inserire l’agricoltura contadina nei meccanismi di commercio del carbonio, ampliando questo commercio e i meccanismi per ridurre le emissioni derivanti da deforestazione e degrado (cosiddetti Redd) fino a comprendere il carbonio contenuto nei nostri suoli. La Banca mondiale già spaccia questa ipotesi per “appoggio ai piccoli produttori agroecologici e all’agricoltura rispettosa del clima", ma in realtà: il mercato volontario del carbonio del suolo significherebbe dare altro spazio alla speculazione finanziaria e, mentre i contadini riceverebbero le briciole, il grosso dei reali benefici andrebbe agli speculatori. Se noi, in qualità di contadini, firmiamo accordi relativi alla “valorizzazione” del carbonio dei suoli, perderemo autonomia e controllo sui nostri sistemi agricoli. Infatti qualunque burocrate dell’altra parte del mondo, senza sapere nulla del nostro suolo, del regime delle piogge, dei sistemi alimentari locali, dei paesaggi, dell’economia familiare, potrà decidere quali pratiche agricole dobbiamo seguire. L’agroecologia reca molti benefici all’ambiente e alla vita dei coltivatori. Se riduciamo il suo valore a quello del carbonio incorporato nel suolo, non solo la svalutiamo ma apriremo la strada a meccanismi che possono creare incentivi malsani tali da alterare le pratiche dell’agroecologia (e aprire la strada anche a tecnologie come la modificazione genetica degli organismi), semplicemente per potenziare al massimo il carbonio. (...) Ci troveremmo di fronte a nuove ondate di usurpazione della terra per ottenere crediti di carbonio. La Via Campesina si impegna invece a rafforzare il movimento dell’agroecologia per renderla ancora più adatta a resistere ai cambiamenti climatici. A mantenere il carbonio nel suolo e negli alberi in tutte le aree che sono sotto il nostro controllo, promuovendo la silvicoltura, la riforestazione, la conservazione dell’energia e la lotta contro l’esproprio dei terreni per dedicarli alle attività minerarie e alle piantagioni industriali. (...) Continuare l’impegno per la riforma agraria, insistere per l’adozione dei Principi di Cochabamba adottati nel 2010 in Bolivia nel corso dell’incontro dei popoli per il clima e Madre Terra. Lottare per la fine delle sovvenzioni pubbliche, dirette od occulte, all’agricoltura industriale,(...) per chiedere credito e programmi di formazione in agroecologia, incentivi per i mercati contadini e acquisti pubblici dai contadini». il manifesto CAPOREDATTORI marco boccitto, micaela bongi, michelangelo cocco, sara farolfi, massimo giannetti, giulia sbarigia, roberto zanini, giuliana poletto (ufficio grafico) il manifesto coop editrice a r.l. REDAZIONE, AMMINISTRAZIONE, 00153 Roma via A. Bargoni 8 FAX 06 68719573, TEL. 06 687191 E-MAIL REDAZIONE [email protected] E-MAIL AMMINISTRAZIONE [email protected] SITO WEB: www.ilmanifesto.it TELEFONI INTERNI SEGRETERIA 576, 579 - LETTERE 578 AMMINISTRAZIONE 690 - ARCHIVIO 310 POLITICA 530- MONDO 520 - CULTURE 540 TALPALIBRI 549 - VISIONI 550 - SOCIETÀ 590 ECONOMIA 580 SEDE MILANO REDAZIONE: via ollearo, 5 20155 REDAZIONE: 0245072105 024521071406 [email protected] AMMINISTRAZIONE-ABBONAMENTI: 02 45071452 SEDE FIRENZE via Maragliano, 31a TEL. 055 363263, FAX 055 354634 iscritto al n.13812 del registro stampa del tribunale di roma autorizzazione a giornale murale registro tribunale di roma n.13812 ilmanifesto fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 07-08-1990 n.250 ABBONAMENTI POSTALI PER L’ITALIA annuo 260€ semestrale 135€ i versamenti c/c n.00708016 intestato a “il manifesto” via A. Bargoni 8, 00153 Roma DIR. 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Puliamo il Mondo è infatti, un’azione simbolica, ma anche estremamente concreta, che mira a recuperare numerosi luoghi al degrado e, allo stesso tempo, a promuovere il corretto smaltimento dei rifiuti e l'attenzione al territorio. In prima fila anche le scuole, la cui adesione alla campagna è in costante aumento. ■ Luoghi vari, info: Legambiente Emilia Romagna: tel e fax: 051 241324 www.legambiente.emiliaromagna.it LAZIO Martedì 13 settembre, ore 17 L’ABITO DEL VOLTO In sala Deluxe proiezione dei «L’abito e il volto. Ritratto di Piero Tosi» Italia, 2008, e a seguire presentazione del libro «L’immagine sensibile». Il problema delle fonti nel cinema risorgimentale di Visconti -Tosi, a cura di Francesca Pipi, Rosanna Ruscio, Vittorio Ugo Vicari (Aracne Editrice, Roma). Con interventi di Licia Michelangeli, Francesca Pipi, Vittorio Ugo Vicari (Accademia di Belle Arti di Palermo), Rosanna Ruscio (Accademia di Belle Arti di Brera, Milano), modera Enrico Magrelli (Conservatore Cineteca Nazionale). Sarà presente, Piero Tosi. ■ Largo Marcello Mastroianni, Roma Venerdì 16 settembre, ore 21 CULTURA QUEER Happening di cultura Queer e femminista (16-18 settembre). <Al centro - spiegano gli organizzatori - l'esplorazione degli immaginari legati ai corpi e alla sessualità>. Musica, laboratori, performance e momenti di confronti, spettacoli e mostre a cui parteciperanno attiviste e artiste italiane e straniere. Info e programma dettagliato: http://ladyfest-roma.noblogs.org info: [email protected] ■ Csa La Torre via Bertero, 13 Roma LOMBARDIA Martedì 13 settembre, ore 18 TSUNAMI NUCLEARE Presentazione del libro «Tsunami nucleare» scritto dal giornalista/scrittore i Pio d'Emilia. Introducono l’ex ministro e vicepresidente Csm Virginio Rognoni e Bruno Contigiani. ■ Libreria Feltrinelli, via XX settembre, 21, Pavia Martedì 13 settembre, ore 18 PASOLINI Giorgio Galli presenta il suo libro «Pasolini, comunista dissidente - attualità diun pensiero politico (Kaos Edizioni). Organizza il Circolo Culturale Giordano Bruno. ■ Sala di Via De Amicis 17 Milano SARDEGNA Giovedì 15 settembre ALIENI SUL PALCO Alieni che atterrano nel centro storico e angeli che riposano in piazze dimenticate. Fra teatro urbano e danza verticale ritorna Girovagando, il Festival Internazionale di Arti in Strada. A Sassari la quattordicesima edizione della manifestazione dal 15 al 18 settembre. Basteranno pochi passi per imbattersi in uno strano gruppo di alieni.. ■ Info: Associazione Girovagando http://www.festivalgirovagando.it email: [email protected] tel: 079 4815550 Inviate a: [email protected] – «Gli Stati uniti si sono defilati, non bombardano più, hanno addirittura ritirato i loro mezzi più potenti», sentenziava Vittorio Feltri in aprile a proposito della guerra di Libia. Convinzione diffusasi anche nella sinistra e tra i pacifisti: quella che Obama fosse stato trascinato nella guerra contro la propria volontà (non a caso è Premio Nobel per la pace), ma se ne fosse subito tirato fuori, lasciando la guida dell’operazione ai bellicosi Sarkozy e Cameron. Del tutto falso. «Sono gli Stati uniti che hanno diretto questa operazione», chiarisce ora l’ambasciatore Ivo Daalder, rappresentante Usa presso la Nato. Esplicita quindi ciò che già avrebbe dovuto essere chiaro: il fatto che, il 27 marzo, la direzione è passata dal Comando Africa degli Stati uniti alla Nato comandata dagli Stati uniti. Sono loro, le lettere COMMUNITY INVIATE I VOSTRI COMMENTI SU: www.ilmanifesto.it [email protected] I valori negati dello sport Il Giro d’Italia nasce nel 1909. Il vincitore della classifica generale indossa la maglia rosa, lo stesso colore del quotidiano che organizza la corsa, La Gazzetta dello Sport. Il Giro della Padania nasce nel 2011. Il vincitore del giro indossa la maglia verde. Qualcosa è mutato in questi anni o è solo una strana evoluzione della storia sportiva italiana? L’imbarazzo che ha suscitato questa manifestazione è dovuto fondamentalmente alla dimensione politica che la stessa ha rappresentato: il giro è partito da Paesana, proprio il comune nel quale la Lega di Bossi celebra ogni anno la “liturgia” del Po; l’assegnazione della maglia verde, colore rappresentativo della sua parte politica; in ultimo, l’inaugurazione del giro ad opera del “trota” figlio d’arte del ministro leghista. Solo questi pochi segnali possono bastare a raccontare di un giro ciclistico che, con lo sport, non ha nulla a che fare. Da Assessora allo Sport regionale sono abituata a guardare allo sport come lo strumento che crea condivisione, unità e solidarietà. Lo sport non può non rappresentare la forma essenziale della comunità che emancipa dalle difficoltà e dai bisogna, che rilancia il tema del benessere e della crescita al vivere civile. Questa manifestazione rappresenta al contrario la forma più becera di propaganda che utilizza lo sport come mero strumento politico in un momento nel quale il Presidente della Repubblica richiama quotidianamente ai temi dell’unità e della condivisione. “Un giro che si richiama alla separazione in nome di una superiorità economica e sociale del Nord nei confronti del resto del Paese”, così come affermato da più parti. Un giro che evoca anche il simbolo del “sole delle Alpi” in sostituzione del tricolo- ❚ re nazionale. Una corsa ciclistica che, già nel suo appellativo, richiama ad una entità inesistente “la padania” e che non può non rappresentare uno slogan che evoca l’assurdità e l’eversione dei temi tipici della Lega: la secessione, la divisione, la xenofobia e il razzismo. Quanto c’è di sport in tutto questa propaganda politica che invece offende il buon senso dell’Italia intera? Di questa manifestazione non se ne sentiva certo la mancanza. Continuiamo a pensare che lo sport richiami invece ai valori della solidarietà, della condivisione, ed integrazione della comunità e quindi della libertà e della democrazia e di questo sì che abbiamo bisogno. Maria Campese Assessora Regionale allo Sport Puglia La "furbata" della Lega La "lega" ormai sopraffatta dalla perfidia del capo del governo che tutto sfascia e incapace di rendersi credibile al suo elettorato, cerca attraverso uno degli sport più popolari, un suo improbabile rilancio propagandando un territorio che non esiste: la "padania". È chiaro che questa è una manifestazione sportiva privata e non pubblica. Ma una manifestazione sportiva privata che occupa abusivamente centinaia di chilometri di strade pubbliche potrebbe essere – fermata da qualsiasi cittadino che ne veda ostacolato il suo lavoro, dovrebbe essere fermata dai sindaci dei comuni che ne vedano un pericolo per l'incolumità dei passanti e ostacolo al libero transito. Va bene che Coni e Fci ne hanno dato l'avvallo ma non basta a leggittimarla perché sarebbe come dichiarare che la "padania" esiste in contrasto con quella parte della Costituzione che definisce (ancora) precisamente quali sono le entità territoriali (regioniprovincie). È dunque politicamente anticostituzionale e tecnicamente una furbata della "lega". Fa scalpore che nell'ambiente ciclistico sia strombazzata come "gara" di preparazione ai mondiali. Fa scalpore che un commissario tecnico di una nazionale italiana ne dichiari l'importanza ai fini della selezione degli atleti che saranno convocati per i mondiali. I ciclisti dovrebbero disertarla? Dubito; troppo interessati al guadagno e alla notorietà, parenti stretti del faticatore comune, si mettono al servizio dell'occasionale offerente, senza badare se è ladro o galantuomo. Ma il ciclismo non ha bisogno di spinte di nessun "persuasore" occulto, né di padroni politici per rilanciarsi se vuol continuare a essere trasversalmente popolare. Oggi più che mai che non c'è nazione al mondo che non ne utilizzi le sue potenzialità turi- VUOTI DI MEMORIA – America Alberto Piccinini E in tutto questo, spero vi laviate molto le mani e ve ne stiate a casa se non state bene in modo da evitare il più possibile il contagio dell’influenza quest’inverno. Qualunque cosa facciate voglio che vi ci dedichiate. So che a volte la tv vi dà l’impressione di poter diventare ricchi e famosi senza dover davvero lavorare, diventando una star del basket o un rapper, o protagonista di un reality. Ma è poco probabile, la verità è che il successo è duro da conquistare. Non vi piacerà tutto quello che studiate. Non farete amicizia con tutti i professori. Non tutti i compiti vi sembreranno così fondamentali. E non avrete necessariamente successo al primo tentativo. È giusto così. Alcune tra le persone di maggior successo nel mondo hanno collezionato i più enormi fallimenti. Il primo Harry Potter di JK Rowling è stato rifiutato dodici volte prima di essere finalmente pubblicato. Michael Jordan fu espulso dalla squadra di basket alle superiori (...). Nessuno è nato capace di fare le cose, si impara sgobbando. (...) Con la scuola è lo stesso. (...) La storia dell’America non è stata fatta da gente che ha lasciato perdere quando il gioco si faceva duro ma da chi è andato avanti, ci ha provato di nuovo e con più impegno (...) (Messaggio del presidente Obama per il primo giorno di scuola; 2009) L’ARTE DELLA GUERRA Sia chiaro chi ha il comando Manlio Dinucci precisa Daalder, che hanno diretto l’iniziativa per ottenere dal Consiglio di sicurezza il mandato e far decidere la Nato a eseguirlo. Un vero e proprio record: perché la Nato si decidesse a intervenire in Bosnia, egli ricorda, ci vollero tre anni e un anno per intervenire in Kosovo, mentre per decidere l’intervento in Libia ci sono voluti appena dieci giorni. Sono sempre gli Stati uniti che hanno diretto la pianificazione ed esecuzione della guerra. Sono loro che all’inizio hanno neutralizzato la difesa aerea libica e continuato a sopprimere le difese per tutto il corso del conflitto, impiegando Predator armati. Sono loro che hanno fornito il grosso dell’intelligence, individuando gli obiettivi da colpire, e hanno rifornito in volo i cacciabombardieri alleati. Ciascuno di questi elementi, sottolinea Daalder, è stato decisivo per il successo dell’operazione, con la quale la Nato ha distrutto oltre 5mila obiettivi senza subire alcuna perdita. Dall’operazione aerea in Kosovo, dice, abbiamo imparato quanto sia importante avere munizioni a guida di precisione per provocare il massimo danno minimizzando gli effetti collaterali, e che tutti i paesi le posseggano. Diplomaticamente l’ambasciatore non dice che sono stati gli Usa a fornirle in gran parte agli alleati, i quali dopo 11 settimane avevano quasi esaurito le loro bombe, come hanno dichiarato il portavoce del Pentagono Dave Lapan e il segretario alla difesa Robert Gates. Né dice quanto minimizzati siano stati gli effetti collaterali degli oltre 8mila attacchi aerei, in cui si stima siano state sganciate oltre 30mila bombe. Gli Stati uniti, tiene a far sapere stiche ed economiche, oggi che ha varcato i confini dell'Europa, ci tocca assistere ad una "corsetta" che lo fa particolarmente antipatico. Il ciclismo deve farsi forte per la sua genuinità, non essere inscatolato dal "furbone" di turno. Il suo messaggio non è "padano" ma universale e lo ha accompagnato fin dalla sua nascita l'essere autenticamente genuino nel suo rituale di sudore, di puzza, di fatica sporca, di sofferenza lurida, senza padroni. Antonio Marchi I privilegi del Vaticano Sono uno dei 141 mila cittadini che, tramite la rete, si sta mobilitando per far emergere e discutere il tema dei privilegi fiscali della Chiesa. Proprio nei giorni in cui si dibatte una manovra che tutto taglia e nulla risparmia, reputo ingiustificabile il silenzio (quasi) totale della politica su questo argomento. Prendiamo, ad esempio, l’imposta Ici. Grazie ad una legge di ambigua interpretazione (o facile aggiramento), che riconosce l’esenzione per attività non «esclusivamente commerciali», strutture turistiche come case per ferie, alberghi, negozi risultano esentati dall’imposta per il solo fatto di esser gestite da enti ecclesiastici. Non è forse concorrenza sleale? Il mio non vuole essere un attacco alla Chiesa, tutt’altro. È la semplice affermazione che privilegi (ingiustificati!) esistono. E che, da cittadini credenti o non credenti, riteniamo debbano finire. Per non parlare poi del meccanismo (truffaldino) dell’8xmille, secondo il quale le scelte inespresse non vengono esautorate dalla ripartizione. Quelle quote, infatti, vengono comunque ripartite a favore delle confessioni religiose, seguendo proporzionalmente le scelte espresse. Con buona pace di quel 60% di contribuenti che non hanno indicato una scelta e che si vedono - a loro dispetto ripartiti i propri 600 milioni di euro. Non ci vuole molto a comprendere l’iniquità della disciplina. Sulla rete abbiamo coinvolto direttamente i Segretari di partito, affinché dessero conto della loro posizione. Ad eccezione dei Radicali, c’è stato il silenzio. Purtroppo non comprendono la perdita di un’importante occasione; quella, cioè, di ritornare a parlare alla gente e riacquisire la credibilità che oggi non vediamo. Alba Manfredi – Daalder, hanno effettuato più raid aerei di qualsiasi altro paese, il 26% dei circa 22mila. Francia e Gran Bretagna, insieme, ne hanno effettuato un terzo e attaccato il 40% degli obiettivi. Un «lavoro straordinario», riconosce il rappresente Usa presso la Nato, ma mette in chiaro che esso è stato reso possibile dal fatto che «gli Stati uniti hanno diretto questa operazione in modo tale che altri potessero seguire e contribuirvi». Loda quindi gli altri alleati, anche non appartenenti alla Nato: Giordania, Qatar, Emirati arabi uniti. Nessuna parola invece sull’Italia, che pur ha fatto tanto, mettendo a disposizione basi e forze aeronavali. Qui ne va dell’orgoglio nazionale dell’Italia. Che il presidente Napolitano scriva subito al presidente Obama, perché riconosca che c’è anche l’Italia sotto comando Usa. il manifesto MARTEDÌ 13 SETTEMBRE 2011 pagina 15 COMMUNITY Come far fronte al default DALLA PRIMA Guido Viale Proprio quello che l’Unione Europea e i suoi governi (e non solo la Bce) stanno chiedendo a Grecia, Portogallo e Irlanda, ma forse anche all’Italia. C’è chi, senza escludere il default, vede una soluzione alla crisi del debito nell’uscita dall’euro. Il problema, vien detto, non è tanto il debito pubblico quanto il debito estero; in cui si riflette la perdita di competitività del paese, costretto dalla propria inflazione e dalla minore “produttività” a finanziarsi all’estero per importare più di quanto esporta. L’uscita dall’euro consentirebbe un recupero di competitività attraverso la svalutazione - oggi resa impossibile dalla moneta unica - riequilibrando così, con maggiori esportazioni, i conti con i paesi che, come la Germania, possono evitare di rivalutare la loro moneta e perdere competitività proprio grazie all’appartenenza all’eurozona. L’aumento delle esportazioni produrrebbe, sostiene per esempio Alberto Bagnai, «risorse sufficienti a ripagare i debiti, come nel 1992. Se non lo fossero - aggiunge - rimarrebbe la possibilità del default … come hanno già fatto tanti paesi che non sono stati cancellati dalla geografia economica per questo». Ma una svalutazione - posto che l’uscita dall’euro sia praticabile - basterebbe a riequilibrare la bilancia dei pagamenti dell’Italia, o quella di altri paesi dell’eurozona in difficoltà? In altre parole, costando il 15 o il 20 per cento in meno le auto della Fiat prodotte con il metodo Marchionne - a cui forse Bagnai attribuisce eccessiva credibilità - potrebbero ancora sottrarre consistenti quote di mercato alla Volkswagen? O costando il 15 o il 20 per cento in più l’Italia cesserebbe di importare turbine eoliche dalla Danimarca e pannelli fotovoltaici o impianti di cogenerazione dalla Germania, mettendosi finalmente a produrli in proprio? O ancora, con la lira l’Italia potrebbe tornare a esportare arance - raccolte con manodopera schiava nei paesi dove l’organizzazione commerciale degli agricoltori spagnoli le ha portato via il mercato? Eccetera. Non siamo più nel ’92; da allora non è cambiato solo il secolo, ma tutto il contesto. Forse ora, e in futuro, il problema non è esportare (o tornare a esportare) di più, ma importare - per quanto è possibile - di meno: produrre di più in loco (o il più vicino possibile) quello che si consuma; e consumare o utilizzare di più quello che ogni comunità è in grado di produrre. Non con il protezionismo, predicato a fasi alterne dalla Lega (e un tempo anche da Tremonti), ma inattuabile nel contesto odierno; bensì con una progressiva riterritorializzazione dei processi economici con cui accompagnare l’inevitabile e non più rimandabile conversione ecologica di produzioni e consumi. Ma in Italia ogni possibilità di recupero risulta inibita dalla scomparsa del concetto stesso di politica industriale, che altri paesi hanno invece in qualche misura mantenuto, nonostante che sulle scelte di fondo la delega ai “mercati”, cioè all’al- foto finish Giochi dopo l’alluvione THAILANDIA DUE BAMBINI nuotano nell’acqua che ha invaso le strade del distretto di Sena, circa 80 km a nord di Bangkok, dopo il passaggio dell’uragano tropicale Nock-Ten. Il ciclone ha ucciso 82 persone nel nord della Thailandia, e altre quattro rimangono disperse. Nei prossimi giorni è atteso un altro tifone (foto Reuters) ta finanza, sia per tutti totale. Quello che ora manca è una politica industriale adeguata ai tempi, cioè a una crisi ambientale planetaria che rende inutile e dannoso rincorrere chi ci ha da tempo superato in settori - come quello dell’auto - destinati a immani crisi di sovrapproduzione. E che impone invece di attrezzarsi per svolte improcrastinabili con progetti e produzioni ecologiche dal sicuro avvenire (anche di mercato, se per “mercato” si intende non lo strapotere del capitale finanziario, ma uno dei modi per mettere in rapporto produzione e consumo). In gioco ci sono questioni come efficienza e conversione energetiche; agricoltura e alimentazione a chilometri zero; mobilità sostenibile (proprio mentre Fiat chiude l’unica fabbrica di autobus urbani del paese); manutenzione del territorio e del patrimonio edilizio e storico esistente; gestione accurata di risorse e rifiuti; accoglienza ed educazione per tutti; e una ricerca mirata a tutti questi obiettivi. Se iniziative del genere venissero finanziate invece di dissanguare i lavoratori per pagare gli interessi sul debito, ben venga il default; costringerebbe i responsabili dell’eurozona a correre ai ripari. Diversi economisti pensano invece Ma se non si mette in chiaro che il debito non va saldato e che è inevitabile affrontare il rischio di un default, si lascia la palla in mano a chi sostiene che ai diktat della finanza «non c’è alternativa», azzerando così ogni prospettiva di riscatto sociale e politico che il default degli Stati membri si possa evitare, e non solo procrastinare, se un organo dell’eurozona rilevasse - magari “sterilizzandoli” con un rinvio a lungo termine del loro rinnovo - i debiti degli Stati membri in difficoltà; o una loro quota consistente. È la proposta degli eurobond; per alcuni sono “la soluzione”; per altri - come l’agenzia di rating S&P non farebbero che trasferire lo stato comatoso dai paesi beneficiati a tutta l’eurozona. Default per tutti. Ma gli eurobond difficilmente potrebbero risolvere il problema; nemmeno nella versione proposta da Prodi e Quadrio Curzio, che ai bond emessi a copertura dei debiti di alcuni Stati ne affianca altri per finanziare un programma europeo di Grandi opere. Con l’intento di promuovere quello che l’Italia e altri paesi non riescono a fare da soli: “rilanciare la crescita” - da tutti considerata la strada maestra per azzerare il deficit e ridurre il debito - avendo però messo “al sicuro” i conti pubblici. Ma quella crescita non è così facile “rilanciarla”: in Italia non c’è più da tempo e sta non a caso svanendo anche in paesi fino a ieri considerati “locomotive” economiche. Inoltre, la principale iniziativa euro- pea per produrre crescita si chiama Ten (Rete transeuropea di trasporto). Anche se con gli organi di governo che l’Unione si è data non sembra che per ora ci siano molte altre modalità di intervento praticabili, proposte del genere sono comunque inaccettabili. È con quella iniziativa, infatti, che oggi si cerca di giustificare lo scempio del Tav in Valsusa, che persino l’Economist considera uno spreco. Ma non è di Grandi Opere che c’è bisogno, bensì di tante “piccole opere” di manutenzione del patrimonio esistente e di conversione ambientale nei settori portanti della vita economica e sociale. Interventi concepiti, progettati, realizzati e gestiti a livello quanto più decentrato; e sottoposti a un controllo dal basso - analogo a quello richiesto per la gestione dei “beni comuni” - imponendo a tutti regole di trasparenza integrale. Esattamente l’opposto di quel che succede sia in Valsusa che altrove. Il Tav infatti non è un caso isolato; rappresenta in modo paradigamatico il modus operandi di un’economia governata dalla grande finanza. Dove, proprio come in Valsusa, progettazione ed esecuzione di opere gigantesche - costose, inutili, altamente dannose e completamente dissociate dalle esigenze del territorio - vengono realizzate a spese delle finanze pubbliche mediante una catena senza fine di appalti e subappalti sottratti a qualsiasi controllo; e devono essere imposte con la forza - o, in altri casi, fatte svanire con una improvvisa delocalizzazione - tanto che in Valsusa si è arrivati a schierare i carri armati (sì, i carri armati) e 2000 militari per aprire un cantiere. Il problema allora non è “costituzionalizzare” il pareggio di bilancio per soddisfare il capitale finanziario che tiene in pugno le politiche, non solo economiche, degli Stati con il controllo dei debiti pubblici; né promuovere, con interventi senza senso e prospettiva - e senza ricadute per lavoro e occupazione - una crescita del Pil evanescente, nel vano tentativo di azzerare il deficit con le imposte ricavate da un ancor più evanescente aumento dei redditi. Il problema è invece quello di imporre con lotte e mobilitazioni le misure necessarie per recuperare risorse da chi le ha e non ha mai pagato. Ma non per buttare il ricavato nel pozzo senza fondo degli interessi sul debito. Quello che occorre è mobilitare le risorse sia finanziare che umane - le conoscenze e i saperi diffusi; la fiducia reciproca che si crea nella lotta - necessarie alla riconversione ecologica del tessuto produttivo. Non saranno né questo governo né il prossimo a promuovere o consentire una svolta del genere. Ma se non si mette in chiaro che quel debito non va saldato e che è inevitabile affrontare il rischio di un default, ancorché selettivo, si lascia la palla in mano a chi sostiene, e sempre sosterrà, che ai diktat della finanza “non c’è alternativa”; azzerando così qualsiasi prospettiva di riscatto sociale e politico. Per questo è bene capire a che cosa si va incontro e come far fronte a un default; e qui un maggiore impegno degli economisti che condividono queste prospettive sarebbe benvenuto. La mistificazione della democrazia C’ è un falso nell’attività pubblica che il codice penale ignora. È il falso nella comunicazione politica. Ha da sempre influito sulla vita politica italiana ma col berlusconismo la ha pervasa. Ora però da fonte diversa se ne sta praticando uno gravissimo di falsi a danno della fede pubblica, degli elettori, della democrazia italiana. A commetterlo sono i promotori dei referendum elettorali che strombazzano la loro avversione al porcellum ma mirano a restaurare il fratello gemello: il mattarellum. Sostengono che così, da una parte, sarà eliminato lo sconcio del “premio di maggioranza” che, in realtà, è attribuito alla minoranza più consistente trasformandola in maggioranza e, d’altra parte, sarà restituito agli elettori il potere di scegliere i loro rappresentanti. Mentono. Innanzitutto perché quesiti referendari volti a determinare precisamente, chiaramente, nettamente l’eliminazione dei vizi del porcellum c’erano. Erano stati proposti nel giugno scorso. Ma furono combattuti con furioso accanimento e con sciagurato successo proprio dai promotori dei referendum “pro mattarellum” inventati appunto per ostacolare una campagna referendaria che con quei quesiti, una volta approvati, avrebbero capovolto il porcellum da maggioritario in proporzionale. La restaurazione che si tenta col mattarellum è invece diretta proprio a riaffermare il sistema maggioritario di elezione, a garantirlo, consolidarlo, perpetuarlo. Al di là dei moltissimi e fondatissimi dubbi sull’ammissibilità di tali referendum, alla stregua della giurisprudenza della Corte costituzionale in materia, va detto, nel merito, che i promotori dei referendum “pro mattarellum” mentono quando dicono di voler eliminare il meccanismo che trasforma la minoranza in maggioranza. Mentono perché mirano a resuscitare un sistema che, pur attribuendo un quarto DALLA PRIMA Joseph Halevi In tale contesto, il punto debole del sistema che può scatenare processi di lacerazione non mediabili è l’Italia. Il suo eventuale salvataggio affonderebbe sia la Francia che la Germania. Di maggiore importanza è però il fatto che l’Italia, pur rimanendo un grande paese, ha perso il ruolo ammorbidimento dei rapporti (pessimi) tra la Germania e la Francia, silenziosamente svolto ai tempi del Mercato comune europeo nel ’57, alla fine dell’era democristiana. Non molti vedono la profondissima crisi strutturale ed istituzionale del paese. Per l’Ue l’Italia rappresenta una grande economia alla deriva, senza progetti. Il paese non è in grado di intervenire in Europa con voce in capitolo, sia nei trattati che nei metodi di contabilità corrente che penalizzano duramente ed ingiustificatamente l’Italia. Manca una visione profonda e differenziata. Pensiamo a Gramsci e a Salvemini. Gianni Ferrara dei seggi col metodo proporzionale, per gli altri tre quarti, è maggioritario con collegi uninominali. Questo, tra quelli esistenti, è il sistema elettorale che determina il massimo di distorsione degli effetti collegabili alle pronunzie del corpo elettorale. Eleggendo un solo parlamentare per collegio, cioè il candidato che abbia ottenuto un voto in più di ciascuno degli altri, conferisce un premio implicito ma sicuro a tale candidato, un premio che, paradossalmente, è direttamente proporzionato al numero dei voti ottenuti … dagli altri candidati. Nullifica così il diritto universale ad essere rappresentati in Parlamento perché esclude dalla rappresentanza quegli elettori che non sono stati capaci di … indovinare, collegio per collegio, quale dei candidati avrebbe ottenuto quel voto in più che lo avrebbe fatto eleggere. Si consideri soprattutto che si tratta di elettori che non si riconosceranno nel rappresentante in Parlamento del proprio collegio, per tutta la legislatura, e magari legislatura per legislatura. Con conseguenze irreparabili sulla consistenza, l’effettività, la credibilità dell’eguaglianza politica, cioè sul principio fondante della democrazia. Ma, come ogni sistema elettorale della specie cui appartiene, il mattarellum può produrre addirittura un risultato complessivo rovesciato rispetto al voto della maggioranza degli elettori, il risultato cioè che la maggioranza dei seggi parlamentari risulti eletta dalla minoranza degli elettori, stante l’ineguale distribuzione delle scelte politiche tra le componenti geografiche del corpo elettorale. In Inghilterra è accaduto più volte. Non è vero, comunque, che il mattarellum, contrariamente al porcellum, esclude premi. È vero che li occulta. In tutte e tre le elezioni svoltesi con detto sistema (1994, 1996, 2001) il premio c’è stato ed è stato sempre superiore al 10 per cento dei seggi. Non è vero neanche che, come raccontano i promotori del referendum, col mattarellum è l’elettore che sceglie l’eletto. A sceglierlo invece sarà il leader del partito del candidato che, come è a tutti noto, provvederà a destinare nei collegi “sicuri” i candidati che vuol fare eleggere. Così come sceglierà quelli della quota proporzionale collocandoli nei primi posti della lista bloccata. Le somiglianze tra mattarellum e porcellum sono enormi, impressionanti. Non vederle o tacerle provoca domande sconvolgenti. Una maggioranza parlamentare così fatta quale autonomia potrà mai avere nei confronti di un tal leader diventato premier? Di quanto potere disporrà questo premier? L’esperienza dei governi Berlusconi non ha insegnato nulla? A quale sistema politico mirano i referendari-maggioritari? Militano, in gran parte, nel Partito democratico, e si lasciano incantare da chi sdottoreggia che le elezioni servono a scegliere non la rappresentanza parlamentare, non il tramite dei titolari della sovranità e i suoi mandatari in Parlamento, ma chi deve governare disponendo nelle due Camere dei propri addetti alla traduzione in leggi dei suoi comandi. Si associano Idv e Sel miranti solo ad estorcere la leadership al partito maggiore della coalizione cui vogliono partecipare mediante quella pura mistificazione della democrazia che è la elezione primaria. La personalizzazione del potere è diventata quindi l’ideologia comune al centrodestra e al centrosinistra? Rinnegare la democrazia rappresentativa a favore dell’assolutismo elettivo è il nuovo credo di questo Paese? Insomma, una volta sconfitto Berlusconi, il berlusconismo trionferà condiviso? La prospettiva che si annuncia è questa. Rivelarla, denunziarla è doveroso. pagina 16 il manifesto MARTEDÌ 13 SETTEMBRE 2011 L’ULTIMA storie Alla Corte di giustizia si discute se i tribunali italiani e greci hanno il diritto di chiedere il risarcimento per le vittime delle stragi e delle deportazioni naziste. Per Angela Merkel la sovranità viene prima degli orrori. Intervista all’avvocato Joachim Lau, che difende i deportati Achtung SOVRANA IMMUNITÀ Guido Ambrosino N el dicembre 2008 la Germania ha citato in giudizio l’Italia davanti alla corte internazionale di giustizia dell’Aia, con la complicità del governo Berlusconi, che dichiarò «utile» un chiarimento giuridico in quella sede. Oggetto del contendere le sentenze italiane che condannano la Germania a risarcire sia i familiari delle vittime delle stragi commesse in Italia da soldati tedeschi tra il 1943 e il 1945, sia il lavoro coatto estorto ai deportati e agli internati militari, e che inoltre autorizzano le vittime greche della strage di Distomo a rivalersi su beni tedeschi in Italia. Per il governo Merkel queste sentenze violerebbero il diritto della Germania, come stato sovrano, a non essere giudicata da tribunali stranieri. Per la corte di Cassazione italiana, invece, l’immunità giurisdizionale degli stati cessa di fronte a gravi crimini di guerra e a violazioni dei diritti umani. La causa, in cui anche la Grecia ha chiesto di intervenire, è cominciata ieri all’Aia. La sentenza è attesa entro la fine dell’anno. La decisione non riguarderà solo i risarcimenti per le vittime dei crimini nazisti, ma anche la possibilità per le vittime delle guerre attuali e future di citare in giudizio per danni gli stati che le praticano. Ne abbiamo parlato con l’avvocato Joachim Lau, giurista tedesco con studio a Firenze, che difende da anni vittime italiane e greche dei crimini nazisti. È stato Lau, con le sue battaglie anche in Cassazione, a ottenere le sentenze che fanno disperare il governo tedesco. Come si è arrivati al ricorso della Germania alla corte dell’Aia? Col trattato di Londra nel 1953 sui debiti pregressi della Germania, la Repubblica federale tedesca aveva promesso di regolare dopo la riunificazione i danni per i crimini commessi dal Reich nei paesi occupati durante la guerra. Ottenne così un rinvio. Richieste di cittadini stranieri danneggiati venivano respinte fino al 1990 dai tribunali tedeschi, con riferimento a questi accordi, coMARIA PADISKA, me «infondate nella situazione attuale». CHE NELLA Dopo la riunificazione ci sono stati diversi STRAGE DEL tentativi di far riconoscere dai tribunali te1944 A DISTOMO deschi l’obbligo risarcitorio della BundesrePERSE LA publik, come responsabile sul piano del diMADRE, ritto civile. Questi tentativi sono tutti falliti, FOTOGRAFATA perché ora si sosteneva – disattendendo QUATTRO MESI precise disposizioni – che i diritti al risarciDOPO L'ECCIDIO mento sarebbero nel frattempo caduti in PER LIFE DA prescrizione, o comunque non avrebbero DMITRI KESSEL potuto essere fatti valere nei confronti dello stato tedesco, in mancanza di accordi di reciprocità con gli stati dei querelanti. Perciò le persone danneggiate si sono rivolte a tribunali greci e italiani, sebbene la Germania si ritenga immune dalla loro giurisdizione. Su questa pretesa immunità dovrà ora decidere la corte dell’Aia. Come hanno reagito i tribunali greci e italiani alle obiezioni della Bundesrepublik? Nel 2000 il supremo tribunale civile greco si occupò delle richieste dei sopravvissuti e dei familiari delle vittime della strage di Distomo, un villaggio dove nel giugno 1944 le SS uccisero 218 persone. Quel tribunale respinse le obiezioni di immunità della Rft, CRIMINI NAZISTI, ALL’AIA PARTE IL PROCESSO PER I RISARCIMENTI sostenendo che lo stato straniero, violando gravemente i diritti umani, avrebbe tacitamente rinunciato ai propri diritti di immunità sul piano del diritto internazionale. E dispose un risarcimento di circa 28 milioni di euro. Tuttavia la sentenza non poté essere eseguita in Grecia, perché il governo di Atene, sottoposto a pressioni tedesche, non concesse l’autorizzazione politica richiesta dalla normativa greca. In seguito una corte speciale, appositamente costituita, ha riistabilito l’immunità della Germania dalla giurisdizione ellenica. Le vittime greche mi diedero allora mandato di eseguire in Italia la sentenza di Distomo, perché secondo una sentenza della corte costituzionale italiana – si trattava del disastro provocato da un pilota americano che col suo aereo aveva tranciato i cavi della funivia del Cermis – richieste di risarcimento nei confronti di uno stato estero non devono essere autorizzate dal governo italiano. Quanto alle richieste di risarcimento di cittadini italiani, nel 2004 anche la corte di cassazione, decidendo nel caso del mio mandante Luigi Ferrini deportato al lavoro coatto in Germania nel 1944, negò il diritto della Bundesrepublik a valersi dell’immuni- tà statale. La corte sostenne che, altrimenti, non sarebbe stato possibile garantire sul piano del diritto internazionale la tutela da gravi violazioni dei diritti umani. Secondo la cassazione, tutti i tribunali di ogni stato sono tenuti a perseguire questi crimini, e ciò contempla anche la condanna degli stati responsabili a risarcimenti di diritto civile. In seguito il tribunale di Firenze dispose per Ferrini un risarcimento di 30mila euro. Quante sentenze sono state nel frattempo pronunciate contro la Germania e quante sono ancora pendenti? A sette anni dalla decisione della cassazione che sottopone la Germania alla giurisdizione dei tribunali italiani per i suoi crimini di guerra, credo che pendano più di 200 cause. Finora sono state pronunciate una decina di sentenze di condanna a risarcimenti, sia per i massacri ai danni della popolazione civile – il primo caso fu la sentenza del 2006 per la strage nazista di Civitella, con più di 200 vittime – sia per le deportazioni e il lavoro coatto, a cominciare dal caso di Luigi Ferrini. Ma di regola nelle prime istanze i tribunali italiani tendono a respingerete richieste di risarcimento per la deportazione e il lavoro coatto, considerando- le prescritte. Il governo tedesco, invece di rispettare i patti internazionali che lo impegnerebbero a negoziare con i governi greco e italiano il risarcimento di questi danni, ha preferito rivolgersi alla corte dell’Aia. Certo anche in ragione della sua dominanza economica, ha «convinto» il governo Berlusconi a dichiararsi d’accordo con la richiesta di un «chiarimento», davanti alla corte internazionale di giustizia, della questione giuridica dell’immunità della Germania dalla giurisdizione dei tribunali italiani. Senza questo assenso del governo italiano, il procedimento all’Aia non avrebbe potuto essere aperto, perché sulla questione dei risarcimenti, compresa la competenza della giustizia ordinaria dei singoli paesi, la competenza spetta esclusivamente a un collegio arbitrale, previsto dall’articolo 28 dell’accordo di Londra sui debiti della Germania. Come ha reagito il governo italiano nel vedersi citato in giudizio dalla Germania? Berlusconi, Frattini e Alfano, con un decreto convertito in legge nel giugno 2010, hanno sospeso l’esecuzione in Italia di sentenze contro la Germania fino al 31 dicembre 2011, termine entro il quale si aspetta una decisione della corte dell’Aia. Non è stato così finora possibile risarcire le vittime di Distomo, che pure avevano già ottenuto l’iscrizione di un’ipoteca giudiziale sulla sede del centro studi italo-tedesco di Villa Vigoni, a Menaggio sul lago di Como, e il pignoramento dei crediti delle ferrovie tedesche presso Trenitalia, crediti connessi alla vendita i biglietti su tratte internazionali. Questa leggina non ha tuttavia trattenuto i tribunali militari, che giudicano sulle stragi nazifasciste, dal continuare a condannare il governo tedesco, come responsabile sul piano del diritto civile, a risarcimenti per i crimini della Wehrmacht. È avvenuto ancora il 6 luglio scorso al tribunale militare di Verona, per i massacri commessi dalla divisione Hermann Göring a Monchio, Cervarolo, Vallucciole e in altri paesi dell’Appennino. Al di là dei risarcimenti per le vittime del nazionalsocialismo, che conseguenze potrà avere il pronunciamento dell’Aia? La questione dell’immunità degli stati assume un’enorme importanza nella attuale fase di tensioni economiche e sociali. La crisi globale del capitalismo è accompagnata in misura crescente, a livello internazionale e anche all’interno di alcuni stati, da massicci interventi militari, nel cui ambito si verificano sistematicamente uccisioni, torture, sequestri di persona, insomma gravi violazioni dei diritti umani, eufemisticamente definite «danni collaterali». La responsabilità penale internazionale degli autori di questi crimini, ora regolamentata dal diritto internazionale, ha tuttavia solo una limitata efficacia preventiva. Un forte potere deterrente potrebbe avere invece l’attuazione del principio della responsabilità civile degli stati, come previsto dall’articolo 8 della dichiarazione universale dei diritti umani. Ma un ripristino della dottrina tradizionale dell’immunità degli stati, ora invocato dalla Germania, vanificherebbe questo deterrente. Ripristinare l’immunità degli stati anche in presenza di gravi violazioni dei diritti umani, come vorrebbe il governo Merkel, è il linea di principio un obiettivo contrario al diritto, anacronistico e reazionario. Ma le considerazioni che inducono a questa valutazione vengono tenute fuori dall’aula dell’Aia, perché le vittime greche e italiane della seconda guerra mondiale, così come le vittime delle guerre attuali, non hanno voce nel procedimento. Se lei potesse intervenire nel dibattimento all’Aia, cosa direbbe ai giudici? Gli ricorderei innanzitutto che sin dal 1907, con la convenzione dell’Aia sulle leggi e gli usi della guerra terrestre, gli stati, Germania compresa, proibirono di «dichiarare abolite, sospese o inammissibili in una corte di giustizia i diritti e le richieste di cittadini del partito avverso» (articolo 23 H), nel nostro caso i cittadini dell’Italia e della Grecia occupate. Ed è proprio questo che il governo Merkel vorrebbe dalla corte dell’Aia: tornare indietro di più di cento anni. La Germania e l’Italia, con la convenzione di Ginevra del 1949 per la protezione delle persone civili in tempo di guerra, hanno espressamente ribadito (articolo 154) la vigenza della convenzione del 1907 sulla guerra terrestre, confermando così che pure il suo articolo 23 H, che vieta di impedire l’accesso ai tribunali alle vittime civili delle guerre, continuava a valere, anche per il passato. Dunque lo stato tedesco non può non accettare le sentenze di risarcimento dei tribunali italiani, emesse dopo che i tribunali tedeschi si erano rifiutati di discutere le istanze dei ricorrenti. Né la Germania può obiettare che durante la guerra valevano altre regole. Le cause di risarcimento attualmente in discussione vanno decise secondo gli standard procedurali attuali. E non è colpa dei ricorrenti se di risarcimenti si discute ancora, a 66 anni dalla fine della guerra.