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RICERCHE
STORICHE
Rivista quadrimestrale
dell'Istituto
per la storia della Resistenza
e della guerra di Liberazione
in provincia di Reggio Emilia
ANNO XIV
N. 40 . LUGLIO 1980
Comitato di Direzione
Luigi Ferrari
Annibale Alpi
Stefano Del Bue
Aldo Magnani
Mons. Prospero Simonelli
Gismondo Veroni
Direttore
Guerrino Franzini
Responsabile
Sergio Rivi
Comitato di Redazione
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Sereno Folloni, Sergio Morini,
Giovanni Fucili
Segretario
Antonio Zambonelli
Amministratore
Bruno Caprari
DIREZIONE, REDAZIONE,
AMMINISTRAZIONE
Piazza S. Giovanni, 4
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c.c.p. N. 14832422
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lo per invito o previo accordo con la direzione. Ogni scritto pubblicato impegna
politicamente e scientificamente
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Editore proprietario
Istituto per la Storia della Resistenza
e della guerra di Liberazione
in provincia di Reggio Emilia
cod. lise. 80011330356
Registrazione presso il Tribunale di
Reggio E. n. 220 in data 18 marzo 1967
SOMMARIO
G. F.
Ricordando Osvaldo Poppi (Davide)
Pago
3
GIUSEPPE ZACCARIA
Conflitti interni al fascismo reggiano
dal 1927 alla metà degli Anni Trenta ..
»
7
GIORGIO AMENDOLA
Ricordo di Lucia Sarzi. ...................... ..
»
25
SIMONETTA TOMBACCINI
Fascismo e Resistenza nel NordEmilia negli ultimi rapporti della
R.S.I ...................................................... .
»
35
DOCUMENTI E TESTIMONIANZE
ALBERTO CODAZZI
Memorie di un ufficiale cattolico deportato ................................................. .
»
51
BRUNO GIMPEL
La Missione inglese presso i partigiani reggiani ..................................... ..
»
77
GISMONDO VERONI
Il rifornimento .................................... ..
»
85
ATTI E ATTIVITÀ DELL'ISTITUTO
L'Assemblea annuale dei soci
I vincitori del Concorso per studi storici
inediti ......................................................... .
»
93
NOTIZIARIO
L'Istituto Emmanuel Mounier .................. .
Un'opera sulla deportazione .................. ..
»
99
RECENSIONI
A. GIANOLlO, Storia popolare di Rio Saliceto (Renzo Barazzoni); R. CAVANDOLI, A. PADERNI, Scandiano 1915-1946
(G. Laghi); A. FERRETTI, Sante Vincenzi
(Mario) (G. Franzini) .................................. .
»
101
SEGNALAZIONI
Studi in onore di Giuseppe Berti. ............ .
Sui Caduti per la Libertà, di Campagnola ................................................................. .
105
RICORDANDO OSVALDO POPPI (DAVIDE)
È scomparso ai primi dell'aprile scorso, dopo lunga malattia, il noto professionista Avv. Osvaldo Poppi Davide, che fu autorevole esponente della Resistenza nel Reggiano, ma soprattutto nel Modenese, ove, durante la Lotta, rivestì il grado di Commissario della Divisione Modena Montagna.
Assieme a Mario Ricci, Armando, egli, per lunghi mesi, diresse la guerriglia
di migliaia di combattenti, assumendo tutte le tremende responsabilità di un
movimento complesso e tumultuoso.
Davide, come Commissario, rese consapevoli e preparate masse di giovani
delle più diverse origini. Era l'uomo del momento al posto giusto, l'animatore
energico e deciso, che esercitava un potere e un fascino vastissimi.
Recentemente, già malato, si impose all'attenzione del mondo della Resistenza col libro «Il Commissario», frutto di una lunga intervista raccolta dal
prof. Luciano Casali. Il libro suscitÒ grande interesse e qualche polemica, ma
mise in luce lati del personaggio assai poco comuni: un temperamento aperto,
un piglio spregiudicato. Si può capire l'enorme seguito che aveva al tempo della Lotta.
Di solito, quando muore un Resistente di rilievo, ci interessa tracciarne almeno un profilo biografico. Ma in questo caso non faremmo che ripetere quel
che Davide stesso ha detto nel libro citato o quello che di lui ha scritto Aldo
Magnani su «l'Unità» del 15 aprile 1980.
Preferiamo ricordare Poppi cedendo a lui la parola, riportando cioè stralci
di un suo dattiloscritto, da lui stesso diffuso quasi in extremis per portare
avanti la discussione appassionata sugli inizi della Resistenza nel ReggianoModenese, apertasi appunto in seguito alla uscita de «Il Commissario».
Con quest'ultimo intervento, Davide tenta di spiegare, senza pretendere di
avere la verità in tasca, la personalità complessa e straordinaria di Aldo Cervi,
e di precisare come il PCI si mosse agli inizi della Lotta.
Un contributo alla chiarificazione in sostanza; e noi riteniamo, riportandolo in parte come rivista specializzata, di rendere l'omaggio migliore alla memoria dell'amico scomparso.
Davide, dice dunque tra l'altro di Cervi. «Fu accompagnandomi fuori (dal
casolare di Cervarezza ove s'era tenuta la riunione) che usd nella ormai contestata frase da me riportata.
- Sono individualista e perciò anarchico. Capisco che l'avvenire sarà di voi
comunisti perché siete conseguenti alle vostre idee, perché avete una organizzazione superiore ed un grande ascendente sulla maggioranza del movimento
popolare. (... )
Aldo Cervi mi aveva fatto una forte impressione di elemento fermo, com-
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battivo, dalla volontàferrea e inflessibile. Mi sono sempre posto il quesito del
perché della dichiarazione non richiesta né provocata ed in contrasto, almeno
formalmente e apparentemente con la sua lunga appartenenza al Partito comunista, e qui di seguito darò una mia interpretazione personale che mi sembra attendibile, ma che ognuno potrà accettare o no.
Premetto anzitutto l'insegnamento di Lenin: "Estremismo malattia infantile del comunismo". Con questo principio Lenin ammette implicitamente l'esistenza entro un partito comunista di elementi non ancora educati e perciò
estremisti o equivalenti anarchici di fatto. (...)
Aldo Cervi, e parlo di lui solo perché non tirò in campo tutta la famiglia
parlando solo in prima persona, era un animo complesso, con tendenze contraddittorie fra il suo esasperato individualismo e la sua coscienza di appartenere ad un tutto, la classe operaia e contadina assieme alla quale ed in nome
della quale intendeva agire.
A seconda dei suoi stati d'animo derivanti dalle situazioni e dalle esigenze
(.. .) del momento egli doveva sentirsi attratto o respinto dall'uno o dall'altro
indirizzo: l'individuale ed il sociale. (... )
[Si asserisce] che il partito comunista aveva ordinato di passare subito
all'azione contro la resurrezione fascista e l'occupazione nazista; che il compagno Togliatti aveva esortato: audacia, audacia e pertanto ifratelli Cervi agivano in conformità agli ordini del partito mentre gli organi provinciali politico
e militare indugiavano in una posizione di attendismo, di cui sono accusato direttamente anch 'io.
A questo punto bisogna chiarire le idee: una cosa è emanare direttive di ordine generale come deve un organo politico o militare centrale, e altra cosa è
tradurre in azioni concrete sul terreno del combattimento tali ordini. Solo uno
Stato moderno efficiente e organizzato si trova in grado di passare dalla sera
alla mattina all'ora zero, dallo stato di pace allo stato di guerra. Ha già da
tempo preparato esercito, armamenti, rifornimenti, comandi superiori e inferiori, piani di guerra lungamente elaborati.
A noi tutto mancava a cominciare dagli uomini disposti a combattere, dai
quadri che li dovevano guidare, e che noi dovevamo prima ammaestrare a metodi di lotta del tutto nuovi e poco conosciuti da noi stessi.
Per scendere in lotta contro il nuovo Stato repubblichino sorretto dal forte
esercito di occupazione tedesco, non era sufficiente la punta di diamante costituita da 15 elementi reggiani e poi da 12 elementi modenesi; bisognava preparare una base ben più ampia che potesse alimentare la lotta, non lasciarla cadere.
La difficoltà maggiore per scendere sul terreno della lotta aperta e cruenta
noi la incontrammo proprio nella immaturità di una massa consistente di
combattenti a versare non il proprio sangue, ma quello del nemico».
E qui Davide cita esempi tratti dalla sua esperienza modenese per dimostrare quanto lavoro e pazienza avesse dovuto impiegare per indurre le prime reclute a divenire dei combattenti autentici, pronti a sparare sul nemico.
«Mi pare di aver dato una chiara idea di quanto difficile sia stato portare i
combattenti GAP e partigiani sul cammino, irto di ostacoli di ogni sorta, della
lotta armata. Le stesse prime bande partigiane di montagna non esclusa quella
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di Aldo Cervi erano riluttanti a versare sangue e, fatti prigionieri dei militi, li
lasciavano liberi.
Se nel modenese ci fu possibile per le diverse condizioni assumere la direzione
del movimento partigiano anche laddove era sorto spontaneo e autonomo, questo
non fu possibile ottenerlo coi fratellì Cervi data la loro statura ed il loro carattere
inflessibilmente indomito. (...) È sintomatico l'atteggiamento di Aldo Cervi di
fronte al segretario del Partito Gombia con la sua domanda provocatoria:
- Ho saputo che fra alcuni giorni verranno i fascisti ad assalirci nella nostra casa. Ci sarai anche tu a difendere dall'aggressione la famiglia?
Evidentemente inutile si dimostrava l'esperienza di Cervarezza ove in quindici avrebbero dovuto respingere quattrocento militi ai quali nel bisogno potevano aggiungersene altri. Nel suo impulso irrefrenabile credeva il Cervi di poter resistere fino alla fine della guerra come dentro un bunker. (... )
Il valore del sacrificio dei sette fratelli, non consiste a mio modesto avviso
né nelle idee né nella loro azione. Esso si basa sulla loro rappresentanza, la più
alta, la più nobile, dello spirito di lotta. di dedizione, di sacrificio che durante
il fascismo prima e la lotta di liberazione poi ha sempre animato, indomabile
ed incontenibile, la classe operaia e contadina italiana.
È stato in grazia di questo apporto che ogni volta che veniva distrutta dalla
polizia fascista una organizzazione politica comunista, questa rinasceva (... )
Anche per la guerra partigiana, nonostante gli errori compiuti quando non ci
siamo rigidamente attenuti alle regole e ai metodi di lotta elaborati sulla base
di esperienze storiche arricchite dalla pratica di una nostra diretta azione, noi
sempre ci siamo drizzati in piedi. (...)
Nella mia opera non ancora pubblicata ho dovuto occuparmi diffusamente
di questa assoluta e completa assenza del "regionale", dopo la scomparsa,
all'inizio del '44, del nostro magnifico comandante Ghini Vittorio.
Qui basterà accennare che, secondo il comando regionale, la lotta partigiana era impossibile in Emilia-Romagna perché era troppo a ridosso del fronte,
per le troppe strade ecc. ecc. Giudicava l'unica formazione esistente, dopo il
ritiro di Aldo Cervi, quella di Rossi Giovanni (poi Barbolini), una banda di
briganti. Dopo questo brillante saggio di capacità ed efficienza, uomini, armi
e mezzi e quadri erano stati inviati da Bologna a fare la guerriglia sul Grappa
nel Veneto, dimostrando cosi la più completa impreparazione.
(...) A prescindere dal fatto che ci fu veramente qualche venatura di attendismo, 'ma solo nella organizzazione politica non in quella militare, fin dall'inizio dovetti a Modena ingaggiare lunghe estenuanti ed inconcludenti discussioni in sede di C.L.N. provinciale per trascinare nella lotta gli altri e dare alla
lotta stessa un carattere unitario e non di partito. Risultato vano ogni tentativo, per ordine del comandante regionale Ghini, mi feci sostituire nel C.L.N,
per dedicarmi esclusivamente alla preparazione della lotta armata da combattere anche se rimasti soli, proprio per non accettare l'attendismo imposto dagli altri partiti.
A questo punto insorsero le difficoltà interne al nostro movimento, come
ho già detto prima: non si dimostrarono in genere idonei i vecchi compagni
abituati aforme di lotte politiche e non militari, ma anche ai giovani ripugna-
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va versare il sangue nemico. Altro che attendismo. Altro che mancata osservanza da parte del comando militare e della direzione politica provinciale delle
direttive nazionali! Quanto avvenne in seguito sta a dimostrare chiaramente
che dopo una preparazione adeguata, che richiese il suo tempo, noi non fummo mai più arrestati. Colpiti duramente e messi in ginocchio nel febbraiomarzo 1944, nel giugno-luglio avevamo sbaragliato i nazi-fascisti in montagna. (...) Neppure il grande rastrellamento tedesco dell'agosto riuscì a distruggerci ma, anzi, ci consolidò e collaudò. Questo fu il risultato positivo, superbo
di una direzione politica e militare all'altezza dei gravi compiti imposti da una
cosi' difficile e apparentemente insuperabile situazione. (... )
Poi Davide torna a parlare dei Cervi.
«Come i sette figli sono la superba espressione dell'indomabile attivismo di
massa e del suo spirito di sacrificio senza limiti, cosi' il vecchio patriarca è il
simbolo più elevato del genio, dei caratteri della stirpe contadina cosi' similare
nei secoli e presso tutti i popoli della terra. L'equilibrio, il senso della realtà
delle cose da cui lo spirito di sopravvivenza contro le avversità della natura e
degli uomini, sono le doti fondamentali della classe contadina, allora costituente la maggioranza della popolazione italiana.
[Con} la frase riportata dal Toscanino: «cristianesimo, socialismo, comunismo sono la stessa cosa; che se cosi' non fosse allora la mia famiglia sarebbe
stata distrutta invano ", il vecchio Cervi sintetizza in modo chiaro il suo pensiero che si manifesta di una profondità e preveggenza sorprendenti. Dall'accostamento delle tre grandi espressioni del pensiero umano derivano naturalmente e direttamente i concetti di libertà, di democrazia e di pluralismo: la
mèta ultima cui vuole approdare oggi l'umanità sofferente.
Si rimane come sbalorditi difronte a questo incolto contadino che, da solo,
arriva alla stessa conclusione cui arriverà dopo trentacinque anni di travagliate elaborazioni dottrinali e di attività politica contraddittoria il partito maggiore che esprime le aspirazioni della classe».
Tali dunque erano i pensieri e i crucci di Davide, mentre la sua vita stava per
concludersi.
Abbiamo letto con commozione il suo dattiloscritto, che riportiamo nelle
parti che ci son sembrate più degne di attenzione. Ci sembra in tal modo di favorire la continuazione del dialogo coi compagni di lotta e di sentirlo perciò
ancor vivo, in questa rimeditazione sul movimento partigiano, del quale egli
fu un grande animatore all'epoca, nonché un estimatore appassionato ma critico negli anni successivi e sino alla fine dei suoi giorni.
Abbiamo sempre sostenuto che è dovere irrinunciabile, per il protagonista
della Resistenza, quello di lasciare testimonianza di sé e del movimento di Liberazione. Proprio in questo senso ha operato Davide e gli siamo grati
dell'esempio fornito.
Naturalmente le considerazioni motivate dall'interesse storico, non ci impediscono di provare una sincera e profonda tristezza per la scomparsa di un
eminente compagno di lotta. Pertanto intendiamo esprimere anche in questa
sede, alla famiglia Poppi, le nostre più sentite condoglianze.
G.F.
7
CONFLITTI INTERNI AL FASCISMO REGGIANO
DAL 1927 ALLA METÀ DEGLI ANNI TRENTA
Questo breve saggio tenta di affrontare il tema dei conflitti all'interno del
fascismo reggiano nel periodo che va dalla fine degli anni venti aIla metà degli
anni trenta. Si presenterà perciò come un tentativo di continuare il discorso
del Cavandoli (1) e della Barazzoni (2).
Le trasformazioni più significative subite dal fascismo anche a Reggio Emilia negli anni1922-26 sono: l) l'assorbimento del partito e della milizia fascista nelle strutture dello Stato (3); 2)' la rottura con l'ono Corgini, contrario
all'assorbimento della Camera provinciale dell'agricoltura nelle strutture sindacali del regime (4); 3) una campagna antimassonica che culmina con l'espulsione dal partito, all'inizio del 1926, dell'ono Bigliardi (5). Il più alto esponente del fascismo reggiano era dunque, alla fine del 1926, l'ono Giovanni Fabbrici.
Una relazione della prefettura di Reggio Emilia al ministero degli interni del
15 novembre 1926 definiva la situazione politica tranquilla e completamente
sotto controllo: Zibordi, Camillo Prampolini, Corgini, Ruini erano lontani da
Reggio (6).
I vecchi esponenti dei partiti antifascisti e i fascisti dissidenti erano sottoposti ad un continuo ed assiduo controllo da parte della polizia: tra questi era
l'avv. Alberto Morandi, che, bollato come individuo di mentalità liberale,
abitava allora a Bologna; il nuovo prefetto di Reggio, Dino Perrone Compagni, cercava di avere una prova di un suo tentativo di svolgere una attività politica per potere proéedere a termini di legge contro di lui (7).
La situazione economica nel 1927 non era certo rosea: un appunto del capo
della polizia al sottosegretario agli interni sosteneva che in Emilia era aumentata la disoccupazione, soprattutto quella stagionale (8). I settori economici
che si trovavano in maggiori difficoltà erano l'agricoltura, le industrie tessili,
l'edilizia e la metallurgia: l'origine di queste difficoltà, secondo il capo della
l) R. Cavandoli, Le origini del fascismo a Reggio Emilia 1919-23 - Roma 1972.
2) G. Barazzoni, Ilfascismo alla conquista del potere a Reggio Emilia 1923-26 (in Ricerche Storiche - n. 37 - luglio 1979 - pagg. 5-51).
3) R. Cavandoli, op. cito pago 250 - G. Barazzoni, op. cit. pago 16-17.
4) G. Barazzoni, op. cit. pago 17.
5) Ibidem, pagg. 14-15.
6) Prefettura di Reggio Emilia al Ministero dell'Interno. - DIR. GEN. di P.S. 15/11/1926
-A.C.S. DIV. AA.GG. e RR. 1926 b. 109 f ..«Reggio Emilia» (fotocopia presso l'Istituto per la
storia della Resistenza di Reggio Emilia n. 504).
7) Prefettura di Reggio Emilia al Ministero dell'Interno - Dir. Gen. di P.S. 6/1/1927 - A.C.S.
DIV. AA.GG. e RR. 1927 - b. 118-126 - (fotocopia in A.ISR R.E. n. 1457-8).
8) Dal Capo della Polizia Roma al Gabinetto del Ministro - Sez. M.II 12/3/1927 - A.C.S. -Min.
Int. P.S. AA.GG. e RR. 1927 b. 24 (fotocopia in A. ISR R.E. n. 937-949).
8
polizia, consisteva nella impossibilità di trovare crediti e sbocchi adeguati. Come terapia questi suggeriva iniziative di lavori pubblici e opportune riduzioni
di giornate lavorative e turni di lavoro. Ripercussioni negative sull'ordine
pubblico non ve n'erano state, assicurava il capo della polizia, grazie alla nuova disciplina creata dal fascismo, ma anche grazie all'azione previdente
dell'apparato statale, dell'amministrazione e delle organizzazioni di massa.
Dino Perrone Compagni, a Reggio dal dicembre 1926, alto esponente del
fascismo toscano già prima della marcia su Roma, squadrista, non era un prefetto di carriera. Aveva un notevole prestigio anche negli ambienti del partito
fascista. Servendosi della carica di prefetto, massima autorità dello Stato nelle
province, egli dispose che l'ono Fabbrici fosse dimesso dalle cariche che ricopriva nel 1927 (era il segretario della federazione provinciale del PNF). Sembra che si possa parlare di riproposizione su scala reggiana del dissidio tra Stato e partito, tra prefetto e federale, tra chi voleva che il partito detenesse le leve del potere e fosse la struttura portante dello Stato, e chi lo voleva ridurre a
puro strumento dello Stato, alla funzione di formazione di polizia ausiliaria (9).
Dopo le dimissioni da federale, per due mesi Fabbrici fu sorvegliato dalla
Pubblica Sicurezza (10): nel memoriale presentato a sua difesa egli si lamentò
per il fatto che la sua onestà personale era stata messa in dubbio da voci, riferite a suo tempo anche da Perrone Compagni (11), sia pure per smentirle, su
suoi rapporti con la Cassa di Risparmio di Reggio Emilia; si vociferava di un
ammanco di dieci milioni in tale banca (tuttavia Perrone Compagni aveva aggiunto, a nostro parere significativamente, alla sua smentita: «il Consiglio di
amministrazione fu sostituito»). Molti amici del gerarca defenestrato, tutti fascisti e squadristi della prima ora, furono sottoposti a sistematiche persecuzioni, radiati dalla milizia, allontanati da qualsiasi carica, sempre per isolare
l'ono Fabbrici e distruggerne l'influenza politica.
Perrone Compagni insediò Mario Muzzarini nella carica di segretario federale. Muzzarini, secondo la versione di Fabbrici, accettò con riluttanza perché
riconosceva che solo Fabbrici poteva essere da tutti accolto come capo incontrastato del fascismo reggiano. Accettò provvisoriamente in attesa che tornassero buoni rapporti tra Fabbrici e Perrone Compagni.
In ogni modo, come vedremo, la permanenza di Muzzarini alla testa del fascismo reggiano coincise con la permanenza a Reggio, in veste di prefetto, del
marchese Dino Perrone Compagni, verso il quale si manifestavano forme di
vero e proprio culto della personalità. Venne acclamato, e non ironicamente,
come granduca di Toscana in pubbliche manifestazioni; il Solco fascista, organo ufficiale del PNF (12) di Reggio Emilia, lo definì il primo prefetto fasci9) V. A. Aquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario, Torino 1974.
lO) Memoria dell'ono avv. Giovanni Fabbrici all'ono Pierazzi circa l'inchiesta da lui compiuta a
Reggio Emilia - 24/2/1929 - A.C.S. - PNF - relaz. dalle province: Reggio Emilia - b. 18 - fase. cat.
4/67 (mise.).
Il) Dal Prefetto di Reggio Emilia al Ministero Interni Roma e per notizia a Questura di Ancona - 5 settembre 1927 - A.C.S. Div. AA.GG. e RR. Roma P.S. - 1927-33 - anno 28 - Pacco 175
(fotocopia in A. ISR R.E. n. 1014-1016).
12) Solco fascista, 7/1/1928, «Il Duce ai Prefetti».
9
sta d'Italia e ricordò con grande compiacimento il primo anniversario della
circolare del duce ai prefetti del 5/1/1927, che aveva introdotto ordine e stabilità (13). Sempre l'organo fascista esaltò Reggio come provincia sperimentale
e ribadì che la circolare del duce continuava ad essere «il faro della politica interna».
Uno strano articolo di prima pagina del Solco fascista del primo giugno
1928: «Probabile nomina di Segretari Federali a Prefetti» (Servizio particolare
de Il Solco) annunciò con compiacimento che il duce avrebbe nominato prefetti a titolo sperimentale uno o due segretari federali. Sarebbe stata in fin dei
conti la consacrazione ufficiale di ciò che avveniva a Reggio, dove il prefetto
Dino Perrone Compagni controllava strettamente l'organizzazione e l'orientamento del PNF sia pure attraverso un personale politico dirigente a lui devoto. Però il giornale sostenne che quell'esperimento sarebbe stato l'unico mezzo per realizzare una integrale fascistizzazione dello Stato e per dimostrare la
maturità del partito, che annoverava uomini provvisti di solide capacità amministrative.
Le decisioni più importanti riguardanti la città e la provincia venivano prese
dal prefetto: così ad esempio lo stesso organo ufficiale dell'8 gennaio 1928 annunciò che il prefetto stesso aveva fissato il prezzo del latte in 1,15 lire al litro
(14). Il Comitato intersindacale provinciale, istituito presso la federazione del
partito e comprendente i rappresentanti delle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, era ridotto ad un puro organo di registrazione delle decisioni prese dall'autorità o al massimo per lo svolgimento di indagini conoscitive sui costi. Del resto le sue attribuzioni erano fortemente limitate dalla presenza del Consiglio Provinciale dell'Economia, organismo dipendente dal
Prefetto.
I dirigenti fascisti erano perfettamente consapevoli di tale situazione e non
la nascondevano affatto. Dal resoconto sulla seduta del direttorio provinciale
del PNF di Reggio, pubblicato sul Solco del 16/3/1928, apprendiamo ad
esempio che in un intervallo della discussione il federale presentò i membri del
direttorio al prefetto Perrone Compagni, il quale «dicendosi certo che [la loro] collaborazione non potrà in nessun caso mancare, ha segnato quali sono le
vie da seguire» (15). Ancora il 27/4/1928 il federale Mario Muzzarini affermò
all'assemblea del fascio di S. Polo d'Enza: «Il partito oggi ha cessato l,a sua
funzione puramente politica. Svolge un'opera di penetrazione e persuasione in
tutti i campi. Vuole uomini produttivi» (16). Aveva detto a Castelnovo Sotto
1'11/2/1928: «Il fascismo reggiano è generalmente sano perché non si occupa
di alta politica ... » (17). E infine lo stesso Muzzarini proclamò solennemente il
9/6/1928, nel corso della cerimonia di insediamento del Consiglio Provinciale
dell'Economia, che non avrebbe delineato programmi perché il fascismo non
13) Renzo De Felice: Mussolini ilfascista - L'organizzazione dello Stato fascista 1925-29 - Torino 1968 - pagg. 301-304.
14) Il Solco fascista - 8/1/1928 «A proposito del prezzo del latte».
15) Solco fascista; 16/3/1928 «PNF. la Seduta del Direttorio provinciale».
16) Solco fascista, 28/4/1928 «L'on. Muzzarini presiede l'Assemblea del Fascio di S. Polo
d'Enza».
17) Solco fascista, 11/2/1928 «On. Muzzarini a Castelnovo Sotto».
lO
poteva averne e perciò «affronta e risolve giorno per giorno le difficoltà ed i
problemi» (18).
Quali erano i gravi problemi non risolti dell'economia reggiana ancor prima
della crisi economica mondiale del 1929? I giornali e i documenti fascisti ce li
indicano con chiarezza: risollevare la montagna, ammodernare ed industrializzare l'agricoltura, effettuare lavori pubblici e bonifiche, creare condizioni
favorevoli per una espansione produttiva e, punti dolenti, diminuire la disoccupazione, soprattutto nell'agricoltura, e svolgere una efficace attività assistenziale. Non mancarono alcune iniziative, largamente enfatizzate dalla propaganda fascista: il direttorio provinciale, sempre nella seduta del 15/3/1928,
decise che le organizzazioni del partito facessero pressioni sui proprietari terrieri affinché assumessero il più possibile di manodopera. Il PNF rivolse ai
proprietari esortazioni fondate sull'interesse pubblico e poi, nella riunione del
direttorio del 22/3/1928, minacce di severi provvedimenti, come il ritiro della
tessera del partito o il confino (19). Tuttavia il podestà di Bibbiano avv. Carlo
Lasagni, che incontreremo di nuovo più tardi, ci informa il 24/5/1928 che i
proprietari non fecero niente e i moniti della federazione fascista erano caduti
nel vuoto (20). Del resto una circolare del PNF di Reggio del 12/2/1928, sullo
stesso tema (21), precisava che era indispensabile denunciare i recalcitranti ai
sindacati e al partito: tuttavia non si era giunti all'imponibile di manodopera,
che avrebbe potuto essere imposto soltanto dalle autorità politiche, le sole in
grado di valutare sia i bisogni dei braccianti che gli interessi dell'economia
provinciale. (Soltanto il 2 febbraio 1930 Benito Mussolini suggerirà al nuovo
federale Franco Fontanili di introdurre l'imponibile) (22).
Le correnti del PNF reggiano si scagliavano a vicenda l'accusa di trascurare
la situazione economica e di preoccuparsi soltanto della conquista e della conservazione di posizioni di potere. Così un documento fascista del 17/2/1929,
evidentemente favorevole alla corrente dell'onorevole Fabbrici, afferma che il
fascismo reggiano era in piena disintegrazione, perché i dirigenti del momento
(Perrone Compagni e Muzzarini) si disinteressavano dell'economia, dell'amministrazione, dell'assistenza e della propaganda; avevano riportato a posizioni di responsabilità antifascisti e massoni, che sarebbero stati i responsabili
della sistematica persecuzione scatenata per allontanare da tutte le cariche nel
partito, nelle amministrazioni e nella milizia i fabbriciani (23).
La corrente di Fabbrici era accusata da quella di Perrone Compagni e Muzzarini di losco affarismo (24), di tendenza al rassismo (25) (cioè di tendenza a
18) Solco fascista, 10/6/1928 «L'insediamento del Consiglio Provinciale dell'Economia».
19) Solco fascista, 23/3/1928 «Deliberazioni del Direttorio Federale del PNF per lenire la disoccupazione» .
20) Solco fascista, 24/5/1928 «Per lenire la disoccupazione a Bibbiano».
21) Solco fascista, 12/2/1928 «Provvedimenti per la disoccupazione».
22) Federale Fontanili a Mussoli - Relazione - confronta A.C.S. (fotocopia in A. ISR R.E. n.
2120-2131).
23) Situazione politica nella Provincia di Reggio Emilia - 17/2/1929 - A.C.S. - PNF 1927-40 b.
18-28 - 1920-23-45 b. 23 (fotocopia in A. ISR R.E. n. 1823/9).
24) Prefetto di Reggio Emilia a Turati, Segretario del PNF - Roma - 20/2/1929 - A.C.S. - PNF
ibidem (fotocopia in A. ISR R.E. n. 1834).
25) PNF - Roma all'ono Turati - 30/4/1930 - A.C.S. ibidem (fotocopia in A. ISR R.E. n. 1868-73).
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ricreare una situazione di dominio incontrastato di un capo locale del partito
all'interno del regime) e di essersi resa responsabile di un vero e proprio sabotaggio «nel campo politico, sindacale, educativo, economico- industriale»
(26). La conseguenza dell'azione e dell'inerzia dei fabbriciani ancora insediati
nei posti di comando, era, secondo la corrente antagonista, una completa decadenza ideale, politica, economica, amministrativa; i massoni avevano ritrovato uno spazio per la loro azione e così anche i preti. Perfino i bollettini diocesani incitavano alla lotta di classe ed anche la Camera dell'agricoltura, vecchia gloria del fascismo reggiano, ormai trasformata in Confederazione degli
agricoltori, era in piena decadenza.
Nel corso degli anni da noi considerati, ed anche successivamente, le correnti protagoniste si affrontarono spesso ricorrendo anche ad accuse lesive
dell'onore personale di vari dirigenti. Abbiamo preferito tutte le volte che era
possibile, non utilizzare i documenti relativi (27).
La prima clamorosa manifestazione di gravi contrasti in seno al fascismo
reggiano avvenne nell'assemblea degli iscritti al fascio di Reggio del
16/2/1929. L'ordine del giorno prevedeva la relazione politica e finanziaria
che sarebbe stata svolta dal federale Muzzarini. Un breve ed anodino resoconto sul Solco del 17/2 riferì semplicemente: «Dopo ampia discussione, durata
circa due ore, alla quale parteciparono alcuni dei presenti, l'assemblea si sciolse inneggiando al Duce» (28).
Ma le cose non si svolsero in modo così pacifico. L'avv. Carlo Lasagni ed
altri esponenti della corrente fabbriciana criticarono duramente Muzzarini e
Perrone Compagni. I fabbriciani sostennero che il fascio era in una situazione
di crisi gravissima (29). L'assemblea si teneva dopo tre anni di totale silenzio,
il federale raramente visitava i fasci locali, vi era un vuoto totale di autorità e
di iniziativa. I dissidenti pronunciavano poi le accuse più gravi che abbiamo
riferito più sopra ed aggiungevano che si erano manifestati nelle masse segni
pericolosi di distacco e di insofferenza nei confronti del regime fascista. Muzzarini, dicevano i fabbriciani, è consigliere della Banca Agricola Commerciale, da loro definita ebraico-massonica. Da questa banca dipendeva la tipografia che stampava il Solco, che aveva un deficit disastroso. Perrone Compagni
e Muzzarini avevano voluto sopprimere il Giornale di Reggio. L'acquisto della Casa del fascio era stato stipulato da un avvocato massone ed anche l'atto
preliminare era stato redatto da un notaio massone; la spesa era troppo onerosa per i fascisti reggiani. Secondo i fabbriciani, a questo punto intervenne
l'ono Giuseppe Spallanzani, presidente della Banca Popolare di Reggio Emi26) Situazione del Fascismo reggiano - ottobre 1930 - A.C.S. ibidem (fotocopia in A. ISR R.E.
n. 1835-40).
27) Non c'è alcun indizio che potrebbe suggerire che la divisione in correnti all'interno del
gruppo dirigente del fascismo reggiano corrispondesse a linee di classe. Gli uni e gli altri provenivano per lo più dallo stesso ambiente sociale, quello agrario. Già lo scontro con Corgini rivelava
una divisione tra chi interpretava gli interessi agrari in senso economico-corporativo e chi si sforzava di elevarsi ad una visione più politico-statuale; anche la successiva divisione tra fabbri ciani e
muzzariniani, come vediamo dal presente saggio, fu di natura politica.
28) Solco fascista, 1712/1929 «L'Assemblea del Fascio di Reggio E.».
29) Situazione politica nella Provincia di Reggio Emilia - 1712/1929 - A.C.S. - PNF - 1927-40
b. 18-28 - 1920-23-45 b. 23 (fotocopia in A. ISR R. E. n. 1823/9). V. nota 23.
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lia, che invitò Muzzarini a recarsi a Roma per chiedere alla direzione del partito l'invio di un commissario, che reggesse le sorti della federazione. Muzzarini
avrebbe promesso di dimettersi. I presenti uscirono dalla Sala del Tricolore e
si recarono in corteo a rendere omaggio alla lapide dedicata ad Amos Maramotti. Intervenne però il prefetto Perrone Compagni, che minacciò gravi
provvedimenti a carico dei dissidenti. I fabbriciani chiesero un'inchiesta della
direzione del partito, che venne effettivamente compiuta dall'ono Ferdinando
Pierazzi.
Immediatamente, lo stesso giorno, Perrone Compagni decretò la sospensione di Lasagni dalle funzioni di podestà di Bibbiano e propose al ministero degli interni la sua destituzione per avere criticato nella assemblea del fascio la
scelta dei gerarchi dall'alto, il bavaglio imposto alla stampa e l'insensibilità
dello stesso Perrone Compagni nei confronti del problema della disoccupazione (30). Sempre il 17 febbraio il federale Muzzarini scrisse al segretario del
PNF Turati riferendogli la sua versione dei fatti e chiedendogli l'espulsione
dal partito dell'avv. Lasagni (31). Secondo Muzzarini, su 888 iscritti ne erano
presenti circa 300. Sei o sette elementi, capeggiati da Lasagni, collega di studio
di Fabbrici, ostili al direttorio e al prefetto, fin dall'inizio della relazione intervenivano con frequenti interruzioni ed altri trenta circa li applaudivano. Poi
Lasagni intervenne con un discorso di aspra critica al regime, al direttorio e al
prefetto. La maggioranza dell'assemblea dissentiva dalle opinioni di Lasagni,
ma non seppe reagire.
Dopo la riunione alcuni dissidenti si recarono a casa di Fabbrici. Il prefetto
era solidale con Muzzarini, il quale chiedeva i pieni poteri e lo scioglimento del
fascio di Reggio, ma non si opponeva all'idea di un'inchiesta della direzione.
Il 20 febbraio Perrone Compagni inviò un telegramma a Turati: chiedeva
provvedimenti contro Fabbrici e Lasagni, si dichiarava addolorato perché
Muzzarini non era stato ricevuto da Turati e concludeva con una breve frase
(<<Prego sollecito riscontro»), che a nostro parere sembra indicare che Perrone
Compagni pensava di contare più di Turati nell'ambiente fascista (32).
Nella sua memoria del 24 febbraio Fabbrici dichiarò di non aver sobillato i
fascisti reggiani (33). Lasagni gli aveva parlato della sua intenzione di intervenire nell'assemblea, ma Fabbrici aveva cercato di dissuaderlo. Lasagni e due
suoi amici di corrente dopo l'assemblea si recarono a casa sua, ma egli tentò di
convincerli a non trattenersi.
Fabbrici, che si era accorto che il prefetto aveva messo delle guardie davanti
alla sua abitazione, andò a Roma il 21 per ragioni di lavoro; però scrisse una
lettera a Turati per dirgli che si sarebbe fermato a Roma per molti giorni per
dimostrargli che era assolutamente estraneo all'incidente avvenuto, e una seconda lettera per sollecitare un'inchiesta. Aveva scritto un'analoga lettera a
30) V. decreto di Perrone Compagni del 17/2/1929 in A.C.S. - PNF - Relaz. dalle Province:
Reggio E. - D 18 - fase. cat. 4/67.
31) PNF di Reggio E. a Turati, Segretario del PNF - Roma - 17/2/1929 - A.C.S. - PNF 1927-40
- b. 18-28 - 1920-23 a 45.
32) V. nota 24.
33) V. nota lO.
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Muzzarini. L'assemblea, argomentava però Fabbrici, era stata unanime contro il federale: se ci fosse stata una sua sobillazione, si sarebbero manifestate
due correnti. Egli era rimasto in disparte, mantenendo fede alla disciplina:
non aveva più ambizioni politiche. La contestazione verificatasi nell'assemblea del 16 era da imputarsi ad una complessa situazione, che il partito avrebbe fatto bene a chiarire. Fabbrici non aveva mai diffamato il prefetto. Il 21
aveva scritto una lettera a Mussolini per dirgli che gli restava un sentimento di
profonda amarezza, perché non era riuscito ad avere un colloquio con il duce
per chiarire la sua posizione.
Il 23 febbraio anche Lasagni scrisse un memoriale in cui ribadiva le critiche
contro Muzzarini e Perrone Compagni, già sostenute a Reggio (34). Molti non
osavano parlare, sosteneva Lasagni, perché avevano paura di provvedimenti
repressivi da parte della questura: confino, ammonizioni, licenziamenti. La
massoneria era penetrata nel partito e vi aveva portato terrore e corruzione.
Le autorità non erano consapevoli della gravità della situazione economica.
Lasagni si lamentava del fatto che non vi era alcuna possibilità di esprimersi
sulla stampa. Eppure, argomentava richiamandosi alle posizioni di Bottai,
della cui rivista Critica Fascista citava lunghi estratti che sostenevano la necessità di margini per la critica e la iniziativa, che il fascismo «è dinamica creatrice, non cristallizzazione». La stampa e la cultura dovevano avere una posizione apologetica verso gli ideali del regime, ma di critica verso gli uomini.
Turati decise l'espulsione di Lasagni dal PNF, la conferma di Muzzarini
nella sua carica (35), la sospensione di Fabbrici da ogni attività politica (36). A
Reggio la federazione espulse dieci persone per incomprensione della fede fascista e per indisciplina grave e ne sospese dodici a tempo indeterminato (37).
La vittoria della corrente di Perrone Compagni non doveva essere però né
definitiva né duratura. Già il memoriale di Fabbrici, il quale riferiva un'affermazione confidenziale del prefetto, ci fa sapere che Augusto Turati «non lo
vedeva di eccessivo buon occhio, non essendo molto favorevole alla istituzione dei Prefetti fascisti». Abbiamo visto in ogni modo che nella provincia di
Reggio l'arrivo di un prefetto fascista aveva comportato la trasformazione del
partito in un puro strumento dello Stato.
Una lettera anonima a Mussolini (così si può capire da espressioni come «il
culto per il Fascismo e per Voi» oppure «questo è l'augurio di ogni buon cittadino che in Voi vede la salvezza della Patria») databile con ogni probabilità alla fine del 1929 e contrassegnata da una indicazione a mano «S.E. Turati», invocava un intervento decisivo (38). La lettera insisteva sul fatto che il partito
era incapace di mantenere un minimo di iniziativa politica. Riprendeva le solite accuse contro il prefetto e gli ono Giordani e Muzzarini, il quale nel frattempo era stato sostituito il 12/4/1929 da Franco Fontanili nella carica di federa34) Memoriale dell'Avv. Carlo Lasagni in sede d'inchiesta, compiuta dall'Ono Ferdinando Pierazzi - A.C.S. - PNF - Relaz. delle Province: Reggio E. b. 18 - fase. cat. 4/67 (miscellanea).
35) Solco fascista, 2712/1929 «L'avv. Lasagni espulso dal PNF».
36) Solco fascista, 6/4/1929 «L'on. Giovanni Fabbrici sospeso da ogni attività politica».
37) Solco fascista, 15/3/1929 «PNF Provvedimenti disciplinari».
38) V. A.C.S. PNF 1927-40 - b. 18-28 s.d. - 1920-23-45 - b. 23 (fotocopia in A. ISR R.E. n.
1865-7).
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le. (Tuttavia Fontanili apparteneva alla stessa corrente di Muzzarini: il 20 luglio (39) ordinò a tutti i fascisti di non frequentare elementi espulsi dal partito,
sotto pena di sanzioni disciplinari).
La lettera anonima aggiungeva che le autorità locali avevano permesso,
contro il parere dei carabinieri, la partenza per il Belgio di operai, già conosciuti per i loro sentimenti antifascisti; appena passato il confine avevano manifestato il loro orientamento antifascista. La lettera ricordava poi che il prestigio del regime e del partito era gravemente scosso per la vicenda dell'assassinio dell'agricoltore Celso Lasagni di villa Massenzatico. Gli organi di polizia
non avevano scoperto nulla, anche se una voce pubblica insistente affermava
che gli assassini erano tre militi della MVSN, il cui comando tentava di coprire
i responsabili (40). Come si vede il delitto Lasagni fu strumentalizzato da una
corrente fascista contro l'altra nella lotta per il potere.
Il I gennaio 1930 l'avv. Andrea Bonomi, a ciò designato dal direttorio nazionale del PNF, diventò direttore del Solco fascista; infine il 14 gennaio Perrone Compagni venne richiamato a Roma e sostituito nella carica di prefetto
di Reggio da un funzionario di carriera, il dott. Luigi Miranda (41).
Il prefetto Miranda, come risulta anche dalla testimonianza dell'avv. Vittorio Pellizzi, era crociano; scrisse un saggio intitolato significativamente «Da
Hegel a Croce e da Jellinek (42) a Chiovenda (43) - Note critiche di etica e di
çiiritto», pubblicato dall'editore Laterza di Bari nel 1921.
Egli mise in contatto l'avv. Pellizzi con il Croce, che gli suggerì il nome di
una rivista letteraria che aveva intenzione di fondare a Reggio, Il segno. Lo
stesso Miranda lo salvò poi dal confino quando un suo commento favorevole,
apparso sul Segno, allibro di Giovanni Zibordi, «Saggio sulla Storia del Movimento Operaio in Italia (Prampolini e i lavoratori reggiani)>>, pubblicato
dalla casa editrice Laterza nel 1930, gli attirò un violento attacco del direttore
del Solco fascista. Che Miranda fosse crociano risulta anche dal discorso, da
lui pronunciato in occasione dell'inaugurazione dell'anno scolastico 1931-32
(44), nel quale espose sulla Controriforma, sull'Inquisizione e sul ruolo educativo della Chiesa concetti identici a quelli che possiamo trovare nel Croce (45).
In ogni modo il prefetto Miranda fu inviato a Reggio con il compito di ricucire le lacerazioni che si erano prodotte nel fascismo locale. Subito si notarono
alcuni segni di cambiamento nella situazione politica: il 26 gennaio il Solco annunciò che erano stati arrestati gli assassini di Celso Lasagni e che il console
39) Solco fascista, 20 luglio 1929 «Fascio di Reggio (comunicato)>>.
40) Come afferma Aldo Ferretti in Ricordi e lotte antifasciste (Reggio Emilia, 1971 pagg. 28 e
29) la polizia fermò in un primo tempo degli antifascisti, poi arrestò i veri colpevoli, che furono
processati e, difesi da Farinacci, si videro infliggere miti pene.
41) Solco fascista; 15/1/1930 <<Il Prefetto Perrone lascia Reggio».
42) Georg Jellinek - Giurista tedesco (Lipsia 1851 - Heidelberg 1911). Autore, tra l'altro, di: System der subjectiven 6ffentlichen Rechte, 1892 e di: Allgemeine Staatslehre, 1910.
43) Giuseppe Chiovenda - Giurista (Premo sello di Novara 1872 - ivi 1937). Docente di procedura civile. Scrisse i Principi di diritto processuale civile, 1906.
43 bis) Vittorio Pellizzi: «Incontro con Croce» - Ricerche Storiche - Anno I-n. 1 - pagg. 43-51.
44) Solco fascista, 15/10/1931 «Inaugurazione dell'anno scolastico».
45) V., ad esempio, B. Croce: «Storia della età barocca in Italia (Pensiero - Poesia e letteratura
- Vita morale)>> - Bari, 1929 - pagg. 3-19.
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della MVSN Dino Zauli li aveva consegnati ai carabinieri (46). Ai primi di febbraio il federale Franco Fontanili si recò a rapporto da Mussolini (47), gli descrisse una situazione economica molto difficile (12,376 braccianti disoccupati
nell'agricoltura, 5.000 disoccupati nell'industria, dissesti, fallimenti, crollo
dei prezzi in molti settori), cercò di valorizzare l'operato di Perrone Compagni
e Muzzarini, che avevano cercato di «spersonalizzare il partito», e aggiunse
che avrebbe voluto che Fabbrici rimanesse ancora per un po' di tempo (non
per sempre quindi) nella condizione di sospeso dall'attività politica.
Alcuni fascisti della corrente di Perrone Compagni tentarono di organizzare
una protesta contro il suo trasferimento. Tre telegrammi di Miranda al ministero degli interni (48) del 22 e del 24 marzo 1930 ci rivelano che esplosivi ed
armi, in parte cariche e in parte scariche, erano state rinvenute nella sede
dell' Associazione Volontari ed Arditi di guerra, della quale era presidente
onorario Perrone Compagni, e nelle abitazioni del presidente della Sezione
Arditi, di un membro della Sezione Volontari, del segretario della Sezione Arditi, e dello stesso presidente della Associazione volontari ed arditi di guerra.
Tre di questi furono arrestati e gli altri due denunciati a piede libero per omessa denuncia d'arma. Quel gruppo, afferma Miranda, diffondeva libelli anonimi, che erano stati messi nelle cassette delle lettere insieme a cartellini contenenti minacce a fascisti che erano stati avversati da Perrone Compagni. Il presidente della associazione preparava poi una dimostrazione contro il cambiamento di prefetto per l'anniversario della fondazione dei fasci, il giorno 24
marzo. La tempestiva azione di polizia la fece naufragare. La faccenda tuttavia non ebbe alcun seguito: un telegramma di Miranda al ministero degli interni (49) del 20/9/1930 ci informa che il processo al presidente «già fissato per il
22 ottobre [era stato] rinviato a epoca indeterminata seguito mio immediato
interessamento» .
La consegna ufficiale era di minimizzare e conciliare; il 24 marzo il federale
Fontanili proclamò che non vi erano contrasti nel fascismo reggiano e che egli
era molto contento se poteva riammettere nel partito dei vecchi camerati (50).
L'ispettore Carlo Basile venne di nuovo a Reggio. Turati scrisse da Roma a
Miranda ilIO aprile (51) per informarlo che anche Basile era d'accordo con il
prefetto sulla soluzione della crisi politica a Reggio: riconciliazione tra le correnti e riammissione nel partito di Fabbrici, che però non avrebbe dovuto primeggiare. Mussolini aveva voluto occuparsi personalmente della questione.
46) Solco fascista, 26/1/1930 «L'arresto degli uccisori di Celso Lasagni».
47) V. nota 22.
48) Prefetto di Reggio E. al Ministero degli Interni 22/3/1930 - A.C.S. Div. AA.GG. e RR.
1920-1923-45 - b. 124 cat. G.l - (fotocopia in A. ISR R.E. n. 1968).
48 bis) Prefetto a Ministero Interni, 22/3/1930 - A.C.S. ibidem (fot. in A. ISR. R.E. n. 196970).
48 ter) Prefetto a Ministero Interni, 24/3/1930 - A.C.S. ibidem (fot. in A. ISR R.E. n.
1962-63).
49) Il Prefetto di Reggio E. al Ministero degli Interni, 20/9/1930 - A.C.S. ibidem (fot. in A.
ISR R.E. n. 1967).
50) Solco fascista, 25/3/1930 «XI Annuale dei Fasci di Combattimento».
51) Situazione politica ed economica di Reggio E. - 10/4/1930 - A.C.S. - PNF - b. 18 (fot. in A.
ISR R.E. n. 2345/6).
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Muzzarini e Fabbrici erano stati convocati a Roma. Fontanili avrebbe ispirato
la sua opera a quella del prefetto.
Fabbrici venne riammesso nell'attività politica il 12 aprile 1930. 1121 aprile,
afferma una lettera di Basile a Turati del 24/4/1930 (52), durante una riunione al teatro municipale di gerarchi e fascisti, Fabbrici fu vivamente applaudito
dai fascisti di Novellara e portato in trionfo da un gruppo di sospesi ed espulsi
dal partito. Il federale, continua Basile, voleva una revisione dei singoli casi,
non un'amnistia in massa, che non sarebbe stata dignitosa. «Scriva due righe
a Fabbrici» - conclude Basile.
Tuttavia gli squadristi vennero riammessi nel partito. Un documento non
firmato, indirizzato a Turati (53), afferma che Perrone Compagni, Muzzarini
e Fontanili cospiravano contro il prefetto, il quale voleva ricostituire l'unità
del partito, e conclude così: «Nella tremenda lotta che questa provincia sostiene contro le difficoltà economiche si impone la presenza di un fascismo forte e
compatto». E un documento del partito del dicembre ribadisce che le cose andavano un po' meglio, «i dirigenti sentono che ben altri problemi richiedono
la loro attività: la situazione economica e l'attività sovversiva» (54). Ci sembra
che la chiave di lettura di questi documenti potrebbe essere la seguente: gli
squadristi erano di nuovo utili, perché la situazione economica diventava più
difficile e vi erano segni di insofferenza tra le masse.
Sul risveglio delle «attività sovversive» insisteva anche il prefetto Miranda
in una relazione del 5 settembre (55): bisognava riprendere l'iniziativa, però
sarebbe stato un grave errore affidare questo compito al partito, perché ciò
avrebbe significato confessare l'insufficienza dello Stato fascista. Dovevano
intervenire gli organi dello Stato con arresti, perquisizioni, ammonizioni ed altre misure legali. Il prefetto aggiungeva che si stava adoperando per la ricomposizione dell'unità del partito e la riammissione dei vecchi squadristi, con la
collaborazione del federale.
Un termometro significativo del risveglio antifascista, nel periodo da noi
considerato, potrebbe essere il numero delle persone che comparvero davanti
al tribunale speciale: ventuno persone nel 1929, una nel '30, diciannove nel
'31, otto nel '32, nove nel '33, diciassette nel '34 (56).
\ Un documento dell'ottobre 1930 descrive a tinte ottimistiche la situazione
interna del partito (57): Miranda aveva affidato a Fabbrici la carica di presidente della Cassa di Risparmio di Reggio E., Muzzarini era diventato illiqui52) Situazione politica ed economica nelle Province: Reggio E., 24/4/1930 - A.c.s. - PNF - b.
18 (fot. in A. ISR R.E. n. 2349).
53) Situazione politica ed economica nelle Province: Reggio E., 17/2/1929 - A.C.S. - PNF - b.
18 (fot. in A. ISR R.E. n. 2273-80).
54) Situazione politica ed economica nelle Province: Reggio E., dicembre 1930 - A.C.S. - PNF
-b. 18 (fot. in A. ISR R.E. n. 2284-5).
55) Dal Prefetto di Reggio E. al Ministero degli Interni - Gabinetto - Roma - 5/9/1930 - A.C.S.
- Div. AA.GG. e RR. - Roma - Sez. I - 1927-33 - anno 1930-31 - pacco 8 - C2A (fot. in A. ISR
R.E. n. 1116-7).
56) Da Aula IV: Reggiani giudicati dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato - 18/11/1927
- 20/5/1943.
57)/Ottobre 1930 - A.C.S. - PNF - 1927-40 - b. 18-28 - 1920-23-45 - b. 23 (fot. in A. ISR R.E. n.
1835-40).
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datore della Banca di Reggio, Prampolini non era più prevenuto contro Fabbrici e Fontanili andava d'accordo con il prefetto. Tuttavia un documento del
dicembre attenua o smentisce l'ottimismo del precedente: «i dissidi non sono
del tutto composti» (58). Miranda era più vicino a Fabbrici e vi era perciò tensione tra prefetto e federazione. La situazione economica era grave. «L'attività sovversiva è stata piuttosto notevole». Dalla relazione di Basile a Turati del
30 aprile 1930, citata più sopra, apprendiamo anche che Muzzarini era in cattivi rapporti con il seno Prampolini e che lo stesso Prampolini, il quale cercava
di primeggiare «giovandosi dei dissidi che logoravano il fascismo reggiano»,
. «vorrebbe l'allontanamento del prefetto».
L'equilibrio tra le correnti era instabile: nel 1931 assisteremo ad un tentativo della corrente, riammessa a pieno titolo nel partito di cambiare i rapporti di
forza a proprio vantaggio; un documento proveniente dal PNF reggiano del
gennaio 1931 ci informa che Fontanili era «mal visto da Fabbrici, perché non
ha proceduto ad una energica epurazione» (59). Sullo stesso punto di vista insiste un documento del febbraio 1931 (60).
Nel corso del 1931, a partire dalla primavera, si nota dai documenti di archivio una reviviscenza di squadrismo fascista, di atti di violenza da parte di
membri della MVSN. Da un documento del 9 maggio, sul quale dovremo soffermarci nuovamente, apprendiamo che quattro militi avevano compiuto delle bastonature alle OMI Reggiane (61); un dispaccio del prefetto al ministero
degli interni ci informa che sei militi avevano aggredito due persone (62); un
rapporto inviato alla prefettura di Reggio dai carabinieri il 17 maggio afferma
che un milite aveva ferito una persona (63); un rapporto dellO giugno del pre~
fetta al ministero informa che a Correggio tre militi erano stati denunciati dai
carabinieri per violenza privata e minaccia a mano armata in un'osteria (64);
sempre a Correggio il 13 giugno un milite venne denunciato dai carabinieri per
minaccia a mano armata (65). Ancora il 18 luglio, come afferma il nuovo comandante della 79 a legione Aldo Marchese (66), a villa Canali otto militi avevano avuto una colluttazione con un numeroso gruppo di persone; infine il16
ottobre a San Martino in Rio avvenne uno scambio di ceffoni tra il presidente
della Cantina Sociale e due altri dirigenti della stessa, da una parte, e cinque
operai membri della milizia, dall'altra (67).
58) Dicembre 1930 - A.C.S. - PNF - ibidem (fot. in A. ISR R.E. n. 1841-2).
59) Gennaio 1931 - A.C.S. - PNF - ibidem (fot. in A. ISR R.E. n. 1843).
60) Febbraio 1931 - A.C.S. - PNF - ibidem (fot. in A. ISR R.E. n. 1844-5).
61) 9 maggio 1931 - A.C.S. - PNF - ibidem (fot. in A. ISR R.E. n. 1847-50).
62) Prefetto di R.E. a Min. Int. Gab. PS-Roma - 17/5/1931 - A.C.S. Div. AA.GG.RR. Roma
-Sez. II (1927-33) - anno 1930-31 - pacco 70 - (fot. in A. ISR R.E. n. 1177-8).
63) Dal Capitano Comandante Int. Div. Giuseppino Ricci alla Prefettura di R.E. - 17/5/1931
-ibidem.
64) Prefetto di R.E. a Min. Interni - PS Roma, 10/6/1931 (fot. in A. ISR R.E. n. 1170-71) - ibidem.
65) Prefetto di R.E. a Min. Int. PS Roma, 13/6/1931 - ibidem (fot. in A. ISR R.E. n. 1169).
66) Dal Capo della Milizia al Ministero dell'Interno - 18 luglio 1931 - A.C.S. ibidem (fot. in A.
ISR R.E. n. 1184).
67) Dal Prefetto di Reggio E. al Ministero dell'Interno - PS Roma - 16/10/1931 - A.C.S. ibidem (fot. in A. ISR R.E. n. 1174).
18
Il primo fatto di violenza, del quale parla il documento del 9 maggio (68), fu
l'occasione scatenante di un grave dissidio tra federazione provinciale del
PNF e comando della MVSN. I quattro autori delle violenze alle OMI furono
sospesi dal partito dal federale Fontanili, ma il console Zauli, che non era
d'accordo con questa misura disciplinare, non volle radiarli dalla milizia.
Fontanili invitò Zauli in federazione per una spiegazione, ma il console non si
presentò. Da Bologna.venne a Reggio il console generale della MVSN Verné,
per sostenere la posizione di Zauli (che il prefetto voleva allontanare da Reggio) e perorare la destituzione di Fontanili.
L'irrequietezza nelle file fasciste era alimentata anche dalle difficoltà
economico-sociali e, come già sappiamo, da una certa ripresa di attività antifasciste, documentate anche da 500 perquisizioni domiciliari in questo periodo
(69). 1118 maggio il prefetto scrisse al ministero che le violenze dei militi avevano creato una gravissima impressione nell'opinione pubblica (70). «Si ha,
insomma, la sensazione - dice il prefetto Miranda - che le istruzioni impartite ai militi, in questi ultimissimi tempi, dal Console cav. Zauli, non siano né
prudenti, né ispirate a sensi di opportunità politica. Il Comando della Legione
ha assunto un atteggiamento di critica e di sfida nei confronti della Federazione, accusata di tiepido fascismo». Anche il prefetto insisteva sulla ripresa di
attività antifasciste, ma aggiungeva che questo problema non poteva essere risolto da una incontrollata iniziativa individuale, ma dalla «azione responsabile degli organi della legge».
Ai primi di giugno il console Zauli fu inviato in licenza, preludio alla sua sostituzione con il console Marchese al comando della 79 a legione. Il 7 giugno,
alle 10,30 dopo la rivista militare svoltasi nel quadro delle celebrazioni della
festa dello Statuto, duecento militi ed avanguardisti, in borghese, si avviarono
verso il centro della città e, giunti in piazza C. Battisti, vi inscenarono una manifestazione a favore di Zauli e contro Fontanili (71-71 bis). Subito intervenne
la polizia, sciolse la manifestazione e fermò diciotto persone. L'indomani, alle
19, cinquanta persone si riunirono nella stessa piazza, per rinnovare la manifestazione del giorno precedente, e intonarono «Giovinezza». Intervenne nuovamente la polizia e i dimostranti si dileguarono. Il9 giugno corse la voce che i
militi sarebbero affluiti a Reggio da tutta la provincia per inscenare una manifestazione contro la federazione del PNF ed occuparne i locali. Alle 20,30 arrivarono al «Mirabello» duemila militi armati con pistole e bastoni. «I militi ritenevano di essere protetti da un generale della milizia, presente sul posto»
(72). Forse si trattava del generale Verné, che abbiamo già visto a Reggio per
68) v. nota 61.
69) v. nota 61.
70) Dal Prefetto di Reggio E. al Ministero dell'Interno - Gabinetto di PS - 18/5/1931 - A.C.S.
Div. AA.GG. e RR. - Roma - Sez. II (1927-33) - anno 1930-31 - pacco 70 (fot. in A. ISR'R.E. n.
1183).
71) Situazione politica ed economica delle Province: R.E. 8/6/1931 - A.C.S. - PNF 1927-40 - b.
18 (fot. in A. ISR R.E. n. 2350).
71 bis) Prefetto di R.E. a Min. Int., 20/6/1931 - A.C.S. - div. AA.GG. e RR. Sez. II - anno
1932 - b. 56 (fot. in A. ISR R.E. n. 1272-5).
72) Direttore Capo Div. del Personale di PS all'Ono Div. AA.GG.RR. ibidem 25/2/'32 (fot. in
A. ISR R.E. n. 1264-5).
19
sostenere la milizia contro la federazione, il quale il 13 giugno inviò un telegramma al comando generale della milizia per annunciargli che nel PNF reggiano vi erano agitazioni, provocate dal contegno repressivo del federale che
aveva preso gravi provvedimenti disciplinari contro membri della milizia (73).
Secondo una fonte di polizia il fatto creò molta impressione tra la gente (74-74
bis).
Comunque intervennero in forze la polizia e i carabinieri (con duecento uomini di truppa) e riuscirono a disperdere il raduno armato senza essere costretti ad usare la forza.
Secondo un informatore anonimo del direttorio del PNF il raduno armato
sarebbe stato promosso, oltre che dal console Zauli, anche dall'ono Fabbrici,
il quale avrebbe avuto frequenti colloqui con Zauli, prima che partisse da Reggio (75). Un ufficiale della MVSN, che si trovava in carcere ed era stato espulso dal partito e radiato dalla milizia, era adirato con Fabbrici, perché questi li
aveva spinti al passo, ma si era tirato prudentemente indietro.
Il 27 giugno 1931 il prefetto Miranda scrisse al Ministero degli interni proponendo provvedimenti a carico dei responsabili del raduno armato (76): chiese il confino per un ufficiale e l'ammonizione per cinque altri ufficiali della
milizia. Due tra questi erano latitanti, gli altri in carcere. Un ufficiale era stato
sospeso a tempo indeterminato dalla milizia ed era stato privato della tessera
del partito. Gli altri cinque erano stati espulsi dal partito, radiati dalla milizia
e privati delle cariche che ricoprivano nelle amministrazioni (77). Ad uno dei
latitanti fu inflitta l'ammonizione, agli altri la diffida. 1113 giugno il Solco comunicò che con provvedimento ratificato d'urgenza dall'ono Dante Giordani,
membro del direttorio nazionale del PNF, in applicazione dell'art. 20 dello
statuto del partito, a nome del segretario Giuriati, era stata ritirata la tessera a
diciannove fascisti (78). 1121 giugno venne comunicata l'espulsione dal partito
dei sei ufficiali, dei quali si era interessato anche il prefetto, sempre con procedura d'urgenza, e con la ratifica di Giordani (79). 1131 luglio apparve un elenco di trenta militi diffidati (80).
Le autorità tentarono di riportare la calma e la disciplina nelle file fasciste,
impiegando provvedimenti repressivi ed appelli alla concordia e alla devozione verso il fascismo e il duce. Noti deputati fascisti vennero a Reggio a tenere
delle conferenze nelle quali insistevano sulla necessità della disciplina. Il nuo73) COlls. Gen. Verné a MVSN Comando Generale, 13/6/1931 - A.C.S. - PNF - 1927-40 - b.
18-28 - 1920-23 a 45 - b. 23 (fot. in A. ISR R.E. n. 1851).
74) Questore De Lhala a Ministero Interno - PS, 10/6/1931 (fot. in A. ISR R.E. n. 1276).
74 bis) Che il fatto abbia creato una viva impressione tra l'opinione pubblica e gli antifascisti lo
ha testimoniato anche Aldo Ferretti in una comunicazione presentata al Convegno di Correggio
del 17/2/1980 per la commemorazione del XXXV anniversario dell'uccisione di Vittorio Saltini.
75) Promemoria, 1/7/1931 A.C.S. - PNF - 1927-40 - b. 18-28 - 1920-23-45 - b. 23 (fot. in A.
ISR. R.E. n. 1855).
76) Prefetto di R.E. a Min. Int. 27/6/1931 - A.C.S. Div. AA.GG.RR. Sez. II - anno 1932 b. 56
(fot. in A.ISR R.E. n. 1267-8).
77) Solco fascista, 12/6/1931 «PNF - Federazione Reggiana dei Fasci di Combattimento».
78) S.P., 13/6/1931 «PNF - Federazione Reggiana dei Fasci di Combattimento».
79) S.P., 21/6/1931 «PNF - Federazione Reggiana dei Fasci di Combattimento».
80) S.P., 31/7/1931 «Dal foglio d'ordini della MVSN».
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vo comandante della 79 a legione, Aldo Marchese, cercava di riportare ordine
nei reparti. Il federale andava a visitare i fasci della provincia e a presiedervi
pubbliche riunioni (81-81 bis).
Non mancarono però difficoltà e resistenze. Il console Marchese raggiunse
un accordo con il prefetto Miranda, ai termini del quale i quattro ufficiali arrestati sarebbero stati consegnati alla milizia (82). Questi furono abbracciati e
baciati in carcere dall'ufficiale incaricato di ritirare loro le tessere della milizia
(83).
Uno degli espulsi però, dopo avere ricevuto la diffida, continuò a tenere
collegamenti con altri fascisti espulsi o sospesi (84). Un altro ufficiale, che era
di Pieve Modolena, luogo in cui abitava Zauli, provocò la astensione dei militi
di quella località dalle adunate. Una manifestazione a suo favore e contro il
commissario nominato dalla federazione del partito scoppiò durante le elezioni alle cariche della Cooperativa Nazionale di consumo (85). Diffidato il primo luglio, tenne un contegno provocatorio e si rifiutò di firmare la diffida.
Miranda lo fece arrestare e lo propose per l'ammonizione (86), per la quale insistette il 3 agosto. L'ammonizione venne inflitta il 4 agosto (87). Sempre il
prefetto comunicava al ministero il 24 giugno che due fascisti tenevano in agitazione i militi di Regnano e Querciola per il caso di un ufficiale colpito da
provvedimenti disciplinari e amministrativi (88). 1114 novembre Zauli ritornò
a Pieve Modolena e si incontrò con tre espulsi dal partito (89).
La crisi all'interno del fascismo reggiano non aveva trovato una soluzione.
Il documento del comando generale della MVSN del 25 settembre testimonia
che i dissidenti continuavano la loro propaganda «per l'astensione dalle manifestazioni del partito e dai servizi della milizia» (90). La reazione dell'opinione
pubblica di fronte ai conflitti interni al fascismo sempre per il comando generale della MVSN era di «apatia in genere». Forse era una manifestazione dei
dissensi interni al fascio anche l'annuncio, apparso sul Solco del 25 settembre
(91), del sequestro subito dal giornale il giorno precedente: esso conteneva un
articolo del segretario provinciale del Sindacato dell'agricoltura Ampelio Pattini dal titolo «Dove si mira». Pattini polemizzava con il seno Tanari e prende81) Luglio 1931 - A.C.S. - PNF 1927-40 - b. 18-28 - 1920-23-45 - b. 23 (fot. in A. ISR R.E. n.
1855).
81 bis) MVSN - Comando Generale - 25/9/1931 - A.C.S. ibidem (fot. in A. ISR R.E. n. 1856).
82) MVSN - Comando Generale - 14/6/1931 - A.C.S. ibidem (fot. in A. ISR R.E. n. 1852).
83) Prefetto di R.E. a Min. Int. PS Roma - 23/6/1931 - A.C.S. - Div. AA.GG.RR. Sez. II - anno 1932 - b. 56 (fot. in A. ISR R.E. n. 1271).
84) Prefetto di R.E. a Min. Int. Dir. PS Roma - 24/7/1931 - A.C.S. ibidem (fot. in A. ISR
R.E. n. 1269).
85) Prefetto di R.E. a Min. Int. Gab. Dir. PS - 29/7/1931 - A.C.S. ibidem - anno 1930-31 .- pacco 70 (fot. in A. ISR R.E. n. 1188).
86) Prefetto Miranda a Min. Int. PS Gab. 31/7/1931 - A.C.S. ibidem (fot. in A. ISR R.E. n.
1185-6).
87) Prefettura di R.E. a Min. Int. Gab. Roma - 21/11/1931 - A.C.S. ibidem (fot. in A. ISR
R.E. n. 1189-90).
88) Prefetto di R.E. a Min. Int. 24/6/1931 - A.C. S. ibidem - anno 1932 - b. 56 (fot. in A. ISR
R.E. n. 1270).
89) V. nota 87.
90) V. nota 81 bis.
91) V. in Solco fascista del 25/9/1931: un trafiletto in quattro righe.
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va la difesa dell'ono Razza sulla questione della funzione politica svolta dai
sindacati (anche Bottai era d'accordo, sosteneva Pattini), aggiungendo che
non intendeva assolutamente avanzare la richiesta dell'istituzione dei fiduciari
di fabbrica.
La situazione economica continuava ad essere molto pesante e i problemi
dell'assistenza erano avvertiti come i più urgenti. Il ruolo del partito era visto
essenzialmente come una forza di polizia di rincalzo, utile per raccogliere informazioni, per prevenire e collaborare all'opera di repressione. A proposito
di una manifestazione di trenta donne dinanzi al municipio di Vezzano sul
Crostolo per chiedere l'assistenza invernale Miranda informa il ministero degli interni che aveva svolto indagini sulla manifestazione di protesta anche con
l'aiuto del segretario politico del fascio locale (92). «Ho disposto le più energiche misure di prevenzione - che saranno attuate in pieno accordo con la Federazione politica - onde impedire e, occorrendo, reprimere immediatamente ogni tentativo di protesta collettiva».
Nel 1932 venne cambiata la direzione politica: in aprile Miranda fu sostituito nella carica di prefetto da Guglielmo Montani (questi era ritenuto uomo di
Fabbrici: secondo una testimonianza dell'avv. Pellizzi nel marzo del 1933
Montani corse una notte, armato di fucile, alla ricerca di alcuni ignoti che avevano fatto uno scherzo di cattivo gusto al federale del momento, che si rivelerà anch'egli amico di Fabbrici); il 22 agosto 1932 Fontanili venne sostituito
nella carica di federale dal dott. Marcello Bofondi, squadri sta proveniente da
Forlì e funzionario del ministero dell'agricoltura, che si sperava fosse «estraneo ad ogni competizione locale» (93).
Un rapporto dei carabinieri, comunicato dal prefetto Miranda al ministero
degli interni il 26 gennaio 1932, ci racconta un'impresa squadristica compiuta
da Bofondi a S. Rocco di Guastalla nella notte dal 23 al 24 gennaio (94). Una
squadra di militi e fascisti informava Bofondi (allora segretario politico del fascio di Guastalla e membro del direttorio provinciale) che una decina di persone politicamente sospette si erano riunite in una abitazione di campagna. Bofondi non informò l'arma dei carabinieri ed autorizzò «i fascisti a somministrare una lezione di stile fascista». Nove fascisti si misero in agguato e percossero con bastoni tre braccianti. Non avevano precedenti politici, affermano i
carabinieri, non avevano cantato canzoni sovversive e avevano consumato un
«lauto» pranzo consistente in tre gatti. La spedizione, commenta Miranda,
era un fatto anacronistico, che aveva gettato discredito sullo Stato fascista.
Bofondi riammise nel partito le persone espulse o sospese dopo i fatti del
giugno del 1931. Cercò immediatamente di imprimere un maggiore dinamismo all'attività del partito con molte riunioni, manifestazioni, iniziative. Par92) Prefetto di R.E. a Min. Int. 14/3/1932 - Div. AA.GG.RR. 1932 - b. 50 (fot. in A. ISR.
R.E. n. 1814-5).
93) Estratto reI. C.C.R.R. sett. - settembre-ottobre 1932 - A.C.S. - PNF - situazione politica ed
economica delle province; R.E. b. 18 - cat. 4/67 (fot. in A. ISR R.E. n. 2145).
94) Prefetto di R.E. a Min. Int. Gab. 26/1/1932 - A.C.S" Div. AA.GG.RR. - Roma - Sez. IIanno 1932 - b. 56 (fot. in A. ISR R.E. n. 1289-90).
22
tecipò all'attività repressiva delle forze di polizia (95) e incoraggiò iniziative
squadristiche verso antifascisti non perseguibili legalmente per assoluta mancanza di prove.
Le lotte tra correnti non erano terminate (96), ma si ha la netta impressione
che il peso del partito all'interno del regime aumentò durante la gestione di
Bofondi. Il 30 gennaio 1937 Bofondi informò il prefetto Massimiliano D'Andrea di avere impiegato la Guardia di Finanza per svolgere indagini sulla scarsità di olio e burro nei mercati e negozi locali (97). Il partito si occupava del
prezzo dei suini (98), fissava i prezzi del latte, del burro e del formaggio (99),
imponeva sovrapprezzi sulle consumazioni nei locali pubblici (100) e sugli
spettacoli (101), si occupava dei reclami riguardo all'osservanza dei prezzi
massimi di vendita dei generi di maggiore consumo (102), invadeva insomma
dei campi che non sembravano di sua competenza.
Arrivati a questo punto vorremmo indicare le conclusioni che abbiamo tratto dall'analisi della documentazione disponibile. I conflitti in seno al fascismo
reggiano riflettevano indubbiamente rivalità personali, ma vertevano anche
intorno ad un dilemma cruciale: lo Stato doveva essere al servizio del partito,
oppure il partito doveva essere uno strumento dello Stato?
Come abbiamo visto, la soluzione a questo problema, almeno a Reggio
Emilia, non fu la stessa nel periodo da noi considerato. Dal netto predominio
dell'autorità dello Stato si passa ad una situazione di equilibrio instabile ed infine ad una progressiva affermazione dell'autorità del partito e del suo capo
locale, Fabbrici.
I dissidi all'interno del fascismo reggiano non furono però mai del tutto
composti: le due anime, le due correnti, legalitaria e squadristica, erano in fin
dei conti complementari e non alternative l'una all'altra ed erano spinte a cementare in qualche modo la loro unità, perché tutto il gruppo dirigente fascista si sentiva a disagio, in una situazione difficile caratterizzata da un forte risveglio dell'antifascismo.
Abbiamo cercato di dare un senso ai documenti, disponibili sull'argomento,
che provengono per lo più dal partito fascista, dalla prefettura, dai comandi
della polizia, dei carabinieri e della milizia. Non siamo affatto convinti di avere
detto l'ultima parola su questo tema. Se verrà alla luce una più ricca documentazione, sarà indubbiamente possibile tentare una ricostruzione più completa.
95) PNF di R.E. all'ono Starace, 13/9/1934 - A.C.S. - PNF - 1927-40 - b. 18-28 - 1920-23-45 - b.
23 (fot. in A. ISR R.E. n. 1859-60).
96) Situazione politica ed economica delle Province: R.E., 22/2/1934 - A.C.S. - PNF ibidem
-b. 18 (fot. in A. ISR R.E. n. 2302).
97) Situazione politica ed economica delle Province: R.E., 30/1/1937 - A.C.S. - PNF ibidem
-b. 18 - cat. 4/67 (fot. in A. ISR R.E. n. 2180-2).
98) Situazione politica ed economica delle Province: R.E., 6/3/1937 ibidem - (fot. in A. ISR
R.E. n. 2183-5).
99) Situazione politica ed economica delle Province: R.E., 4/5/'37 ibidem (fot. in A. ISR R.E.
n. 2186-8).
.
100) Solco fascista, 1/9/'32 «Federazione provinciale fascista. Atti ufficiali».
101) S.P., 8/9/'32 «Federazione provinciale fascista. Atti ufficiali. Soprassoldo sugli spettacoli».
102) S.P., 29/6/1934 «Il Comitato intersindacale stabilisce i prezzi massimi di vendita dei generi di maggiore consumo. L'is'tituzione di un ufficio reclami presso la federazione».
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APPENDICE
Non possiamo passare sotto silenzio una informazione dell'avv. Vittorio
Pellizzi, al quale siamo debitori di utili suggerimenti e precisazioni. Egli sostiene che correva allora una voce insistente secondo la quale dirigenti del regime
e del partito fascista a Reggio Emilia appartenevano alla massoneria, ma a
due logge rivali; alcuni esponenti della corrente Muzzariniana avevano aderito
alla massoneria di Palazzo Giustiniani, mentre taluni esponenti della corrente
fabbriciana appartenevano alla Massoneria di Piazza del Gesù (*).
Alla luce di questa precisazione bisognerebbe concludere che le due correnti
fasciste coincidevano all'incirca con due frazioni rivali della massoneria. Si
sosteneva inoltre che anche qualche cambiamento di personale dirigente avvenuto negli ambienti bancari cittadini seguiva la stessa logica.
Dai documenti esistenti nell' A.C.S., risulta soltanto che l'accusa di appartenere alla massoneria o di favorirla era impiegata con estrema disinvoltura e
reciprocamente dalle due correnti rivali.
Tuttavia, questi elementi informativi, se confermati, potrebbero presentare
i fatti narrati sotto una luce interpretativa diversa ed assai interessante (**).
GIUSEPPE ZACCARIA
*) La scissione tra le due logge avvenne nel 1906, dopo la morte del Gran Maestro A. Lemmi.
**) Per una recente disamina dello stato degli studi storici sulla massoneria vedi: «Studi su sto-
ria e politica della massoneria» di Carlo Francovich, in «Italia Contemporanea», rassegna
dell'Istituto Nazionale per la storia del Movimento di Liberazione. Anno XXX n. 130, gennaiomarzo 1978, pagg. 85-92.
LUCIA SARZI NEL RICORDO DI GIORGIO AMENDOLA
Mentre pensavamo alla pubblicazione di questo inedito di Giorgio Amendola, (pervenutoci tempo addietro dall'ANPI di
Modena), dedicato alla commemorazione di Lucia Sarzi, tenuta a
Camposanto il 6-2-1959, ci ha raggiunti la dolorosa notizia della
scomparsa del combattente antifascista ed eminente uomo politico.
È un testo trascritto (quanto fedelmente?) dalla registrazione su
nastro di un discorso che Amendola aveva pronunciato «senza una
particolare preparazione», come ci dice Lui stesso. Per questo
avremmo voluto, prima della pubblicazione, sottoporlo alla Sua revisione. La sorte ha deciso diversamente.
Pubblichiamo perciò il testo cosi' come ci è pervenuto, ma il tono
discorsivo che lo caratterizza, cosi' somigliante alla cordialità improvvisatrice di Amendola, ci pare sia ancor più adatto a far rivivere il ricordo di un Uomo che per tutta la sua vita aveva appassionatamente dialogato con gli altri uomini.
Compagni, amici della famiglia di Sarzi Lucia. lo sono venuto qui senza
una particolare preparazione, un po' perché volevo parlare di Lucia come si
parla fra amici e parenti ricordando una persona cara senza dare a questi ricordi una veste letteraria che potesse in un certo qual modo spegnere il sentimento, che è quello che conta.
Un po' anche perché sono giunto da un congresso che è durato otto giorni e
sono venuto qua senza un momento di pausa, di riflessione; e tuttavia mi sembra che il Congresso a cui ho partecipato ha toccato un problema per cui oggi
è convocata questa nostra riunione o manifestazione. Il nostro Congresso, in
uno dei punti essenziali che esso aveva posto ha affrontato il tema della continuità e del rinnovamento. In che modo l'azione del Partito Comunista sia la
continuazione di una grande opera svolta dal nostro Partito, negli anni che
vanno dalla sua fondazione e, prima ancora dal movimento socialista italiano,
se si vede l'avanzata al socialismo non come un singolo episodio, ma come
una serie di lotte che in Italia dura da un secolo; da quando si iniziò a formare
il movimento operaio, sotto le bandiere dell'anarchia, dal 1870 fino ad oggi,
in una continuità di sforzi sotto diverse qualificazioni: anarchiche, socialiste
massimaliste, riformiste, comuniste. Una costruzione che monta per l'apporto
successivo delle generazioni. Questo è stato uno dei nostri temi. Perché se si
vede in questo modo la nostra azione, allora si sente quanto essa sia profonda
ed abbia radici che affondano nel terreno storico del nostro paese.
Questa linea è contestata. Sembra quasi che il peso del passato possa soffocare il presente. Ed è, a mio avviso, un errore perché il passato non può soffocare il presente: se il presente è vivo si arricchisce di nuovi motivi. Allora c'è
questa continuità fra quello che si è fatto nel passato e quello che si fa oggi.
lo ho visto un momento di questa polemica nell'atteggiamento di un giovane che stava in prima fila e che nel congresso di Milano fece un intervento in
cui negava questa continuità.
Come a dire che questo continuo collegamento alla Resistenza, alla politica
nazionale unitaria impedisse di andare avanti adesso con la rapidità necessaria. Ed è una tesi che c'è. È probabile che ci sia chi così la pensa tra gli amici e
compagni qui raccolti in questa sala.
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E poi questo stesso ragazzo, così polemico a Milano nei confronti di questa
continuità, l'ho visto piangere come un bambino nel momento così alto quando la famiglia Cervi si abbracciò con i partigiani vietnamiti.
E allora quel ragazzo che contestava sul piano intellettuale questa continuità, in realtà ne sentiva il valore e si univa alla commozione generale che tutti ci
ha presi in quel momento.
Ecco come oggi questa nostra commemorazione di Lucia si inserisce in un
discorso del tutto attuale. Un giornalista ha scritto che io nel mio intervento al
Congresso ero commosso sotto il peso dei ricordi, e questo peso esiste. Forse è
un pericolo che per l'appunto questa massa di ricordi possa in un certo modo
schiacciare. Ma per chi ha avuto come me la fortuna di partecipare per tanto
tempo a questa battaglia è evidente che questi ricordi costituiscono qualche
cosa che pesa e arricchisce insieme.
C'è tutto un collegamento di ricordi politici, familiari e umani in questa nostra grande famiglia, in cui l'incontro politico non è mai soltanto incontro politico. È incontro tra uomini e donne che sentono che c'è una solidarietà umana in cui si creano valori, si crea fraternità.
Quando io conobbi Lucia eravamo nel principio del giugno 1943. lo avevo
37 anni, mi sembrava di essere già molto adulto. Venivo dalla Francia,
dall'emigrazione. Chi è stato emigrato sà la sofferenza dell'emigrato di oggi.
Non c'è emigrazione politica o economica; il dolore è sempre lo stesso; il distacco dal Paese, trovarsi in un ambiente straniero; viene a mancare quel collegamento ricco col proprio paese, con la propria gente. Per ritornare in Italia
(allora c'era la guerra) noi del centro Estero che sentivamo che in Italia maturava una situazione nuova e volevamo trovarci in patria per accelerare questa
nostra presenza del Partito Comunista, venimmo attraverso i monti illegalmente.
lo feci la traversata delle Alpi con il compagno Novella. E, con ricordi politici, ricordi umani [camminammo] per tre giorni per passare le montagne. La
fatica di questa scalata! Noi non eravamo allenati. Arrivammo a Milano e per
distribuirci io fui inviato in Emilia. Arrivai in Emilia. Per me fu una grande
scoperta. Venivo dall'estero. Venivo dalla Francia illegale. Avevo partecipato
per tre anni all'attività clandestina, avevo fatto le prime esperienze partigiane
terroristiche a Marsiglia col compagno Barontini che poi divenne il Comandante del C.U.M.E.R. delle formazioni Garibaldine in Emilia.
Facemmo alcuni attentati a Marsiglia che poi ripetemmo in Italia, e sono arrivato con questa esperienza partigiana in terra straniera, in un ambiente in
cui il movimento di massa era molto limitato perché in Francia la clandestinità
e la lotta di liberazione si sono svolte in modo molto diverso da quelle italiane:
senza questa partecipazione di massa che caratterizza la Resistenza italiana.
Gli scioperi, le grandi lotte contadine che si intrecciarono con le lotte armate.
E, arrivando in Emilia trovai già un movimento di massa.
Non c'era ancora il 25 Luglio, ma già l'organizzazione clandestina del Partito a Bologna aveva 300 militanti iscritti. Già c'era un Comitato di unità composto da: Comunisti, Socialisti e Giustizia e Libertà (Partito d'Azione). Già
c'erano collegamenti con comandanti militari dell'esercito monarchico e con
27
esponenti del movimento cattolico. Già prima del 25 Luglio c'erano i germi di
quello che poi fu il Comitato di Liberazione Nazionale, e c'era questa azione
per accelerare la caduta del fascismo, per imporre la pace separata. Perciò
ogni giorno che passava la catastrofe diventava sempre più grave. I bombardamenti, la distruzione del nostro Paese, gli Alleati sbarcati in Sicilia. Sì, l'Italia bisognava che si liberasse e dipendeva da quelle forze che avrebbero diretto
questa liberazione anche lo sviluppo del movimento e dell'Italia.
Sarebbe stato un movimento imposto dal basso con uno sciopero generale,
o sarebbe stato un colpo della monarchia e dei gruppi dirigenti per salvarsi
dalla catastrofe buttando a mare Mussolini e il fascismo.
Noi comunisti volevamo in quel momento, assieme ai socialisti e al Partito
d'Azione, un'azione dal basso. Pensavamo di fare uno sciopero generale il lO
Giugno in cui ci fosse anche l'azione di reparti dell'esercito a Bologna, a Ferrara dove c'era Cadorna, a Torino. Ma questo nostro atteggiamento, questa
nostra posizione non riuscì per le resistenze conservatrici, per il timore, per la
debolezza anche del movimento e anche per certe pregiudiziali repubblicane
che volevano che il movimento si svolgesse contro la monarchia, ed in quel
momento l'atteggiamento della monarchia poteva essere utile ai fini del rovesciamento del fascismo.
Infatti la monarchia capì questo e il 25 Luglio licenziò Mussolini cercando
in questo modo di salvarsi. Cosa che per fortuna non è riuscita perché il 2 Giugno [1946] il popolo italiano condannò la monarchia e decretò la nascita della
Repubblica.
lo fui inviato in Emilia con lo scopo di organizzare la stampa del Partito.
La tipografia che avevamo a Milano era stata sorpresa, il compagno Piero
Montagnani arrestato. Eravamo senza stampa. Avevamo un movimento di
Partito già organizzato, movimento di masse in sviluppo. C'era questa situazione che stava precipitando però il Partito non aveva un suo foglio; l'Unità
non poteva uscire. E allora fui incaricato di organizzare in Emilia, la regione
dove eravamo più forti, la tipografia clandestina.
Con me c'era il compagno Clocchiatti, venuto dalla Francia attraverso i
monti; il primo a trovare questa strada per penetrare nel paese; c'era il compagno Cervellati, vecchio confinato di Ravenna; c'era la compagna Vittoria di
Conselice, una compagna molto brava, proprio del tipo di Lucia, coraggiosa,
modesta: era la staffetta. Si faceva in bicicletta da Conselice a Bologna, da
Bologna a Reggio, girava l'Emilia per fare i collegamenti e bisognava trovare
questa base. Prima la cercammo a Rimini e non la trovammo. Poi a Bologna
dove c'era il tipografo, ma mancavano i caratteri; dove c'erano i caratteri
mancavano i tipografi; dove c'erano le macchine rotative o le macchine piane
o, come si chiamavano, le pedaline, mancavano i locali adatti. C'era il pericolo di essere sorpresi se non si riusciva a mettere insieme questi vari elementi per
fare il giornale. Ci vogliono gli articoli, i caratteri e il tipografo che poi impagina e tira. E allora a un certo punto da Milano mi arrivavano rimproveri: cosa fai, passano le settimane non riesci a fare 'sto giornale! Allora decidemmo
di mettere insieme questi elementi: troviamo un posto in cui portiamo i caratteri, portiamo il tipografo, portiamo la carta e stampiamo là. E allora deci-
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demmo che il posto più adatto era appunto la bassa padana. Una di queste case di contadini che erano delle roccaforti e ci fu indicata la casa di Borciani a
Mandrio come una casa che poteva ospitarci. E lì Vittoria e Clocchiatti ci dissero che poteva essere utile, come elemento organizzatore, una giovane compagna: Lucia. lo sapevo solo questo nome. Anzi allora, mi fu presentata come
Margherita. Era la prima volta che venivo da queste parti, però non mi era
sconosciuto l'ambiente. Al confino, che per noi è stato una grande scuola ...
Per un giovane intellettuale come me, venuto dall'università, gli anni di carcere e di confino sono stati grandi anni ... in cui gli operai e contadini imparavano a leggere i libri. Leggevano e si facevano una cultura. E noi imparavamo a
conoscere l'Italia [sia] attraverso i suoi rappresentanti: contadini e braccianti
emiliani, gli operai di Torino, sia attraverso la varietà delle diverse rappresentanze regionali.
Bisogna dire che c'erano molti emiliani al confino di Ponza, c'era la preponderanza. Come adesso abbiamo molti letterati, allora la maggioranza in
Emilia era di contadini e di braccianti.
Ed allora si discuteva come mai a Torino vi sono pochi confinati. Funziona
la classe operaia, ma la classe operaia mandava pochi operai al confino. E invece la presenza era delle regioni contadine; Puglie ed Emilia. Problemi che
ancora oggi sono problemi del rapporto fra classe operaia e contadina, alleanza, sviluppo di questa forza.
E allora al confino, in questa università che per me fu tanto importante,
fummo incaricati di lavorare. lo ero considerato un intellettuale aderente al
Partito, quindi tenuto con molta vigilanza, con molta severità. Dovevo proletarizzarmi, venivo dalle classi borghesi, ero figlio di un ministro, quindi dovevo fare il mio apprendistato nella classe operaia. Per questo dovevo fare un
corso della storia italiana. Facemmo un comitato in cui c'ero io che rappresentavo l'intellettuale, poi c'era il compagno Corassori, [futuro] sindaco di Modena e il compagno Gorreri.
Ricordo che questo Comitato funzionava sul serio, perciò presentavo un
certo schema e, bé, la presenza di Corassori e di Gorreri era importante perché
lo schema mio intellettuale, un po' astratto si trasformava in qualche cosa di
concreto. lo posso comprendere l'origine di certe astrazioni intellettuali che
girano anche nel nostro movimento, e credo l'origine sia questa mancanza di
esperienza comune di operai e di studenti, non soltanto nel confronto, ma nel
lavoro in cui ciascuno prende dall'altro, [lavoro] che forma il militante che deve avere e doti intellettuali e capacità pratiche. Quindi Corassori e Gorreri erano diventati miei colleghi di corso, professori come me dell'università di Ponza e cari amici.
Rosina, che Lucia conobbe, che anzi avviò in gran parte all'attività pratica,
la compagna di Gorreri, defunta, che io ricordo con molta commozione per la
sua semplicità, bellezza e coraggio; amica di mia moglie: la sua figlia ammalata al confino, la mia figlia malata, bambina.
Rapporti umani intrecciati in questa solidarietà. Bé, quando arrivai da queste parti mi trovai questo patrimonio di conoscenza. Non c'ero mai stato nelle
province di Modena e di Reggio, nella bassa padana, ma mi sembrava di tro-
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vare qualche cosa che conoscevo perché l'avevo conosciuta attraverso la presentazione che di queste realtà io avevo avuto da Gorreri e Corassori.
Finalmente venne Clocchiatti a dire: guarda abbiamo trovato una casa sembra che si presti, isolata, una famiglia sicura, vieni a Correggio ti vengo a
prendere due chilometri all'uscita di Correggio e faremo l'appuntamento clandestino. Bé, se io adesso dovessi ricollocare la topografia della zona, come siamo arrivati all'appuntamento, attraverso quali strade, avrei una grande confusione. Però trovai Cervellati che era già, ed è, un po' sordo e facemmo una
compagnia abbastanza eccezionale. Un poliziotto intelligente che ci avesse visti girare avrebbe visto che eravamo tipi strani che non corrispondevano alla
norma.
lo sapevo andare male in bicicletta, Cervellati era duro d'orecchi e io strillavo. Insomma arrivammo in questa casa e lì conobbi Lucia.
In un primo momento non distinsi Lucia dalla figlia del Borciani, Francesca, erano due ragazze. Poi Cervellati mi disse: no, questa è la compagna che
farà da staffetta, che aiuterà ecc. E passammo un'ospitalità emiliana veramente straordinaria. Il vecchio papà Borciani, che fu poi deportato (è morto
in campo di concentramento) subito mi disse: bé, hai fame? lo naturalmente
risposi di sì. Venivo dalla Francia dove la fame era veramente seria e non mi
ero ancora sfamato venendo in Italia dove c'erano già più possibilità. E allora
con un bel piatto di formaggio, di affettati, con vino, passammo un paio d'ore
a discutere, a parlare.
Poi Borciani disse a Cervellati: ma questo è un compagno importante!
Cervellati si preoccupò che mi avessero riconosciuto e dice; no, ci ha un tale
appetito che veramente deve essere qualcuno che conta. Gli avevo distrutto le
sue risorse. Poi a un certo punto ci mettemmo al lavoro.
Al primo piano, nella grande camera da letto, c'era un grande letto matrimoniale, il letto della famiglia Borciani, ed esso diventò la nostra tavola di tipografia. Mettemmo lì questi caratteri.
C'era venuta la notizia dello sbarco in Sicilia. lo scrissi l'articolo su quello
sbarco. Questo articolo dovette essere composto, però ci fu un contrattempo:
da Parma doveva arrivare il tipografo e non arrivò.
Allora cominciammo noi a mettere insieme questi caratteri. Ho scritto poi
in un articolo che è risultato fra i più brutti numeri dell'Unità perché dalla collezione dell'Unità questi numeri veramente fanno spicco per la loro bruttezza.
Le colonne non messe in ordine, gli errori, le parole saltate; però quel numero
del giugno 1943 è un numero importante (nel luglio altri due numeri
facemmo); un numero importante dove commentammo lo scioglimento
dell'Internazionale Comunista. Poche parole. Poche parole che a distanza di
30 anni ne rivelano la loro giustezza apprezzando lo scioglimento dell'Internazionale Comunista come fatto di autonomia nazionale dei Partiti, come maturità dei Partiti, come eliminazione di ogni centro di guida (partito guida e Stato guida allora), posizione che abbiamo riconfermato negli anni successivi,
che abbiamo riconfermato quest'anno. Poi c'è un articolo sui GAP a cui tengo molto. Piccolo articoletto: «formiamo squadre, gruppi di azione patriottica per colpire i fascisti in tutti i posti, per iniziare la lotta armata, imporre con
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le armi la fine della guerra». Era un appello fuori tempo perché non c'erano
ancora le condizioni per la lotta armata. Queste si crearono dopo 1'8 settembre.
Era già una posizione che dimostra come l'appello alla lotta armata se non
cade in certe condizioni non si traduce in lotta armata. L'articolo lo scrivemmo allora in giugno, ma la lotta armata venne fuori soltanto in settembreottobre quando si erano create le condizioni per una lotta armata di massa.
Finché quelle condizioni non si fossero create, il nostro restava un appello.
Parole che possono avere un valore storico, ma sempre parole. E lì passammo
due giorni e apprezzai molto in quei due giorni Lucia, che assunse di fronte a
me una sua individuale caratterizzazione. Non era solo la compagna, la staffetta, come Vittoria, come la Francesca, no. lo scoprii in questa ragazza delle
capacità, una dote interiore quando mi raccontò dell'attività teatrale. lo rimasi colpito e la interrogai sull'attività di suo padre, sua madre, della compagnia
filodrammatica. E scoprii questo filone di cultura ottocentesca, romantica,
che a mio avviso, dopo tanti anni e di fronte alla contestazione dell'avanguardia, considero un grande filone della cultura italiana, che non a caso sotto il
fascismo prosperava quasi clandestinamente perché era una cultura in cui i valori umani dell'uomo, se volete anche in una presentazione molto semplice,
molto agiografica, il buono e il cattivo, la lotta eterna tra il buono e il cattivo,
in tutti questi drammi dell'ottocento venivano riportati avanti. Questo elemento della giustizia! Penso che questo era un fondamento della concezione
del mondo in cui il socialismo risponde a valori umani, in cui il socialismo a
un certo punto deve essere la vittoria del giusto contro l'ingiusto, dell'onesto
contro il mafioso.
Il fatto che la compagnia potesse andare avanti, vivere modestamente con
sacrifici, certo, che lei indicava e che mamma Sarzi deve avere conosciuto. La
sua vita non è una vita facile. Tra difficoltà economiche, poliziesche, di ambiente ecc. E tuttavia il fatto che questa attività filodrammatica potesse prosperare, dimostrava come l'orientamento di questa cultura nel sottofondo della società italiana, nella società come quella emiliana, così articolata, avesse
ancora una sua presa! Perché il fascismo aveva inchiodato l'Italia a certe condizioni, (e come l'aveva inchiodata!) per cui i salari e i redditi erano nel '38 come al 1912.
Noi abbiamo 40 anni perduti. Il fascismo ha inchiodato l'Italia alle condizioni del 1912 come reddito pro capite con la produzione industriale come coi
salari. E così in questa stagnazione anche certo patrimonio culturale ottocentesco si percuoteva con la sua vitalità.
C'è voluta la riscossa dell'insurrezione, della rivoluzione antifascista per far
precipitare questa costruzione immobile e mettere in moto una serie di energie
produttive e culturali che rappresentano lo sconvolgimento e sommovimento
attuale sul piano sociale e sul piano culturale.
Lucia questo elemento almeno me lo trasmise. lo capii cos'era questo collegamento col passato, con la cultura del passato. Una cultura che corrispondeva sempre a una esigenza attuale e contemporanea.
Come Dio volle, questo numero si fece. Bisognava poi trasportarlo; e allora
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ecco il compito di Margherita. Portare questi pacchi a Milano dove la sezione
della propaganda era diretta dal compagno Celestre Negarville.
Ricordo che andammo a un appuntamento alla stazione di Lambrate in cui
Margherita doveva portare questi pacchi e io dovevo presentarla a Negarville
al quale la presentai come un'artista drammatica. Forse Negarville pensava
un'artista drammatica un po' come poi Puccini l'ha presentata ne «I Fratelli
Cervi», un po' trasformata in viso. Invece gli presentai questa ragazza semplice tutta acqua e sapone e grassottella. Non certo l'immagine sofisticata della
diva del teatro. Negarville sorpreso, da uomo intelligente capì che cosa voleva
dire questo teatro popolare che si continuava in questo modo. Ho saputo poi,
che lì a poca distanza c'era la famiglia Cervi. Allora c'era la cospirazione e la
guida mi disse: in questa zona ci sono molte famiglie di comunisti e di militanti; non fece nomi. E oggi a distanza di tempo forse mi dispiace non aver fatto
allora una conoscenza che in quel momento, alla vigilia, aveva un certo valore. Quello che importa sono i legami reali, non soltanto questo. Quando tornai in Emilia nel '44 non ebbi contatto con Lucia e poi dopo il 25 luglio ebbe
inizio la Resistenza. lo andai a Roma.
Diressi la guerra partigiana a Roma e quando Roma stava per essere liberata, Longo mi richiamò al Nord e mi rimandò in Emilia e mi feci altri dieci mesi
di stecca, di guerra partigiana con tutto il vantaggio che questo ... e Longo è
stato sempre il nostro comandante, ci ha sempre diretto e ottenuto da noi una
disciplina di posizioni.
La seconda volta non la vidi, non la incontrai. Chiesi sue informazioni, seppi che era stata arrestata poi liberata. Che svolgeva una sua funzione importante, ma non ci incontrammo per ragioni cospirative.
Eppure venni a Modena. Passai da Modena il 6 settembre' 44. Feci una riunione del Comitato Federale in cui decidemmo di fare l'insurrezione perché
sembrava che gli americani dovessero arrivare da un giorno all'altro. Invece
poi arrivarono dopo parecchi mesi e tutto quel tentativo non ci fu più e ci costò anch'esso vittime perché ci eravamo preparati per lo scatto. Lo scatto non
si poté fare, ci scoprimmo in qualche modo e pagammo lo scotto di questa
scoperta anticipata .
. Bé, questo il ricordo nelle sue nudità di cui vorrei sottolineare un elemento,
perché proprio nel giorno in cui Lucia è morta e io non ebbi l'occasione di vederla, venni a Modena per una festa dell'Unità. Si sapeva già in ospedale.
Chiesi sue notizie, volevo andarla a trovare e mi dissero che era meglio di no,
che nel suo pudore essa preferiva non vedere e rispettai questo suo sentimento.
Mi pare che fu nel settembre o nell'ottobre dell'anno prima; poi morì a febbraio, pochi mesi dopo. Nei mesi della sua [malattia] ... venne fuori questo
film sui fratelli Cervi. Anche lì rapporti umani. Puccini è un mio vecchio amico di famiglia. Suo padre, sua madre amici di mio padre e di mia madre.
Questa storia di antifascismo che diventa storia di rapporti anche amichevoli! lo il film lo vidi tardi. Lo vidi in terza visione, non in prima visione. E non
mi piacque. Per vari motivi. Uno di questi è anche la trasfigurazione della figura di Lucia che non corrispondeva alla realtà. Si voleva cinema modello, cinema verità. Proprio questa tesi d'avanguardia. Bé, rispettiamo la verità, non
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falsiamola perché ci perde di ricchezza proprio questa realtà ... di cui questo
teatro che aveva certe caratteristiche popolari [è testimonianza]. E poi per la
posizione del Partito. Perché sembra che il Partito non ci sia stato. Ora il nostro Partito è un Partito che è molto ordinato e poi i suoi funzionari non parlano sempre questo linguaggio scolastico che viene messo in bocca ai funzionari che appaiono nel film.
Ma il Partito era presente. Era presente in questa zona anche prima del 25
Luglio. La lotta armata noi non aspettavamo a scoprirla, ma l'anticipavamo
con questo articolo sui GAP. Ecco la polemica con Puccini e con Volontè,
perché sembra quasi che a un certo punto il P. [agisse in] ritardo applicando
ad esso i sistemi della polemica del Sud America Guevarista: ad un certo punto i Partiti sono contro la lotta armata e la lotta armata viene imposta da certe
mihoranze; no, noi allora eravamo una minoranza e volevamo la lotta armata, non per il gusto della lotta armata, ma perché sentivamo che questa era
una necessità contro il regime. Questa lotta armata la preparammo idealmente
con la nostra azione, con la nostra organizzazione. Non a caso in questa zona,
proprio nei mesi precedenti, erano presenti uno, due, tre funzionari del Partito Comunista mandati lì per fare un certo lavoro; e che poi questo lavoro non
fosse poi tanto collegato con questa o quella famiglia non importa, la presenza del Partito c'è; è anche di educazione perché era collegato con compagni
come Gorreri, Porcari ed altri che rappresentavano questa continuità. lo scrissi una lettera a Gianni Puccini che forse adesso pubblicherò. Una lettera di
contestazione del suo film in cui mentre apprezzavo molte parti belle, commoventi, vere, tuttavia su questi due punti esprimevo delle riserve; la figura di
Lucia e la presenza del Partito.
La polemica col Partito che mi sembrava non giusta anche questa perché
non vera. Se fosse stata vera va bene, invece no. Il che non vuoI dire che in tutti gli episodi il Partito abbia sempre ragione. No! il Partito può avere avuto
ragione o torto in quell'episodio, in quella o questa decisione o in quella collocazione dell'attività militare. Tante volte si sono fatte delle battaglie nel Partito per collocare un gruppo o un distaccamento in quella o quest'altra posizione. Tutta la guerra partigiana è stata una polemica interna di Partito. lo ho
trovato una lettera a Longo dopo la riunione di Modena del 6 settembre dove
critico i compagni modenesi per certi errori. Adesso sarà pubblicata e darà
luogo ad una polemica, ad una discussione e può darsi che queste critiche che
io facevo allora non fossero giuste. Criticavo i compagni di Modena perché
passavano da posizioni estremistiche a posizioni opportunistiche a volte con
una certa incoerenza. Erano polemiche fatte allora nella fretta del lavoro della
lotta contro i rischi un po' avventati. Può essere che non siano giusti. Non voglio dire che tutto fu bene nel rapporto Partito ed episodi, e nel rapporto Partito e i compagni Cervi. Vi furono sempre polemiche nella nostra realtà. Quello che voglio dire è che il nostro Partito non era estraneo, era presente
nell'ambiente, nelle premesse nell'azione. Era presente con questo collegamento organizzato che noi avevamo mantenuto e rappresentato. Oggi sono
passati tanti anni e noi questi valori dobbiamo rivendicarli e preservarli. Non
solo i valori politici, ma anche i valori morali. Per esempio; la modestia e, giu-
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stamente il Sindaco ha sottolineato questo valore di Lucia. Modestia che non è
solo sua, ma di tante altre decine di compagne che io ho incontrato durante la
guerra di liberazione, che ci hanno salvato la vita con il loro coraggio, e facevano le staffette, ci trovavano da mangiare; e rappresentavano non soltanto
un collegamento tecnico tra un gruppo e l'altro, fra il Comando e le formazioni, rappresentavano un elemento integrante della guerra di liberazione. Senza
la donna non avremmo, non saremmo riusciti a fare quello che abbiamo fatto.
Ma quante di queste donne che allora avevano una funzione così importante,
essenziale, condizionante della guerra partigiana, poi finita la guerra sono tornate nell'ombra, hanno continuato a svolgere la loro attività civile, politica e
sociale nell'V.D.I., Consigliere comunali ecc. Ma io penso che questo patrimonio non sia andato perduto anche se non ha avuto tutta la sua espressione
sul piano centrale e nazionale, se non in modo rappresentativo; la Borellini, la
Capponi, medaglie d'Oro. Qualcuna di queste ha avuto una sua consacrazione è stata poi una scelta casuale perché di donne di questo tipo, come la Capponi, che fece a Roma l'attentato di via Rasella, o, come la nostra compagna
Borellini Gina in Italia ne abbiamo avute decine, centinaia ed io vedo queste
compagne che hanno la medaglia d'Oro come rappresentanti di tante altre che
le medaglie non hanno avuto e che pure hanno aiutato, hanno dato. Però questo patrimonio loro non è andato perduto, perché un patrimonio non va mai
perduto.
Certi valori quando si creano restano, sono patrimonio poi, della famiglia,
sono patrimonio dell'ambiente sociale comune, del movimento. Diventa una
forza che esiste al di là delle intenzioni. Rappresentano questo filo rosso conduttore che lega gli sforzi di oggi agli sforzi di ieri. Ed è il punto essenziale oggi della nostra politica. E guardiamo avanti e andiamo avanti sulla base delle
posizioni che abbiamo conquistato col lavoro svolto ieri e l'altro ieri, da noi e
dai nostri padri. Ecco la continuità; E, in questa continuità l'azione di donne
come Lucia Sarzi si inserisce come un momento essenziale. lo ritengo che facendo cosÌ non rendiamo l'omaggio retorico, perché francamente la celebrazione puramente, così, convenzionale sarebbe stata offensiva per i valori in
cui Lucia credeva. Ho voluto parlarvi molto così, rievocando davanti a voi
questi ricordi. Per me rappresentano e costituiscono un grande aiuto le vicende della lotta degli ultimi vent'anni, nei suoi momenti difficili, negli errori
compiuti, negli sbandamenti. Ché di fronte a problemi nuovi nessuno ha la verità in tasca, e dobbiamo sempre conquistarla questa verità. Bé, questa ricchezza di patrimonio accumulato, questi contatti, questi impegni assunti con i
Compagni Caduti. Quando andai a Reggio a celebrare l'anniversario della nascita del Partito, mi pare nel '55, rievocai questi episodi. E allora poi andai
nella cascina della casa-fattoria di Borciani e vidi la figlia Francesca, questa
amica di Lucia. Andammo a trovare, perché io non me lo ricordavo. Mi avevano detto che i caratteri non erano stati distrutti, ma che erano rimasti nascosti. Infatti sotto il tetto, tra le tegole, c'era un cartoccio di questi caratteri ritrovati là. Era venuta la guerra, la deportazione di Borciani, la perquisizione;
erano passati questi vent'anni, eppure quel cartoccio di caratteri rimase là. E
mi sembrò una cosa molto importante, come una specie di concretizzazione
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materiale del ricordo. Questa cosa non me la ero sognata perché c'erano dei
caratteri, lì, che rappresentavano quella giornata di attività tipografica eccezionale. Certo che erano rimasti a quel posto dove li avevamo nascosti, e me li
sono portati a casa, me li sono messi in un sacchetto essendo per me un ricordo importante della mia attività.
Certo non si può vivere di ricordi. I ricordi servono a vivere bene quando diventano lievito e impegno. Noi forse soffochiamo i giovani sotto il peso dei
nostri ricordi. Siamo entrati nell'età in cui si raccontano le gesta del passato e
a un certo punto la gioventù si scrolla di dosso queste gesta. Vuole guardare
avanti e questa è una contestazione inevitabile.
Ma, dico spesso, ciascuno faccia la parte sua e noi facciamo la parte nostra.
Avendo accumulato questa massa di ricordi, di valori il nostro compito qual
è: è di trasmetterli per fare in modo che non si perdano. Per fare in modo che i
giovani ne prendano conoscenza. Prendere conoscenza non vuoI dire accettare
a scatola chiusa. Nessuna eredità si accetta a scatola chiusa senza i benefici
d'inventario. I giovani hanno il diritto di aprire questa scatola, di vedere cosa
c'è, di vedere cosa essi accettano e cosa respingono. Però io sono convinto che
la gioventù, al di là delle pose polemiche, delle contestazioni, quando apre
questa scatola troverà molte cose da buttare via, ma troverà molte cose che
hanno un valore per oggi e per domani. E tra queste cose ci sono i valori che
sono stati espressi dalla vita della compagna Lucia Sarzi; la coscienza politica,
il coraggio e la modestia uniti assieme sono grandi valori senza i quali non si
costruisce qualche cosa di valido. Naturalmente la vita va avanti.
Mamma Sarzi è venuta a Roma ed è divenuta amica di mia suocera. Otello
conosce mia figlia. Le nuove generazioni cercano strade nuove. Dalla filodrammatica ottocentesca si è passati a un teatro di marionette che ha un valore europeo, e io rendo omaggio a questa capacità di sviluppo anche se io, nella
mia qualità di anziano, sono più sensibile a quello dell'ottocento anche sul
piano letterario. Ognuno ha il diritto di leggersi i libri che vuole e le altre cose
che vuole. La vita continua, oggi, al di là dei figli. Sono cresciuti i nipoti e la
mia nipotina Elena, l'altro ieri ha partecipato a uno sciopero di studenti medi.
È soltanto alla seconda media, ma già fanno gli scoperi gli studenti medi e
vanno avanti.
E così continua la battaglia, continua in forme nuove e con nuovi rapporti,
ma è una battaglia antica, come diceva Carlo Levi: «Il futuro ha un cuore antico». Il mo~do dell'avvenire, il socialismo, rappresenta il cuore. Quel mondo
che noi vorremmo creare, sarà sempre il cuore, il cuore degli uomini veri, sinceri, delle donne come Lucia Sarzi.
GIORGIO AMENDOLA
FASCISMO E RESISTENZA NEL NORD-EMILIA
NEGLI ULTIMI RAPPORTI DELLA R.S.!.
Il presente articolo si svolge attorno ad alcuni documenti che, per il taglio
particolare adottato, ne costituiscono l'ossatura e l'aspetto caratterizzante. È
stata cioè compiuta una scelta, motivata dall'intenzione di verificare il pensiero e il comportamento degli uomini della Repubblica Sociale sulla Resistenza,
in base a documenti ineccepibili, da loro stessi redatti. In linea di massima, i
documenti, data la quasi identità di tematiche, non presentano grandi differenziazioni; tuttavia è possibile operare una suddivisione che raggruppi da un .
lato le relazioni del Sottosegretario all'Interno, Giorgio Pini, e dall'altro i notiziari mensili e quindicinali del S.l.D., i notiziari giornalieri della Guardia
Nazionale Repubblicana e gli appunti dal Capo di Stato Maggiore del Corpo
Ausiliario delle Camicie Nere. Tale suddivisione, puramente funzionale
all'oggetto del presente articolo, tende a ripartire i documenti secondo l'estensione della loro sfera di attività e di conseguenza secondo il diverso modo di
inserimento nell'argomento trattato. In questa prospettiva, appare evidente
che le relazioni del Sottosegretario, ristrette per loro natura efinalità all'ambito provinciale, si inseriscano in maniera diretta nel tema considerato, mentre
diversamente avviene per i molteplici notiziari, a causa della generalità della
loro funzione, interessante tutto il territorio repubblicano.
Il materiale documentario citato, parte integrante del Carteggio riservato
della Segreteria particolare del Duce, è conservato al National Archives of
Washington (N.A. W). Ne è stata possibile tuttavia la consultazione nella sua
versione microfilmata, disponibile presso l'Istituto di Storia della Facoltà di
Lettere dell'Università di Firenze. Non sono comprese in questo fondo due relazioni di G. Pini, in particolare quelle relative a Reggio Emilia e a Piacenza,
che mi sono state gentilmente concesse dal Dr. Duilio Susmel.
* * *
Il fascismo repubblicano emiliano, considerato nel suo insieme, cioè nei
suoi molteplici aspetti, politici, economici e sociali, nel gennaio 1945, presentava già evidenti sintomi di debolezza. Tuttavia, nonostante che le condizioni
generali fossero già drammatiche, non si presentivano ancora i segni di una fine imminente. Tanto più che la speranza in una azione di resistenza tedesca sul
Po allontanava, nell'immediato futuro, l'eventualità della invasione alleata e
induceva a confortanti previsioni. Le provincie emiliane invece, come immediata retrovia del fronte, si sentivano già coinvolte in un'atmosfera preinsurrezionale ed in parte forse lo erano, dato l'inasprirsi del movimento partigiano. Ciò non impediva, tuttavia, lo svolgersi normale della vita quotidiana
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soprattutto nelle città, dove la presenza delle forze armate tedesche e italiane
era, per i fascisti e per quella parte di popolazione che rifiutava una precisa
scelta di campo, elemento abbastanza rassicurante.
Fu questa immagine che il Sottosegretario all'Interno, Giorgio Pini, riuscì a
fissare nei primi giorni del gennaio 1945, in occasione del suo giro di visite nella pianura padana. Già dal novembre' 44 egli era stato incaricato da Mussolini
di recarsi nelle provincie dell'Italia settentrionale per verificarne di persona le
condizioni economico-sociali, attraverso un contatto diretto con le autorità
cittadine. Da questi viaggi scaturiscono dei rapporti estremamente interessanti, ricchi di analisi critiche e di impressioni vive ed immediate delle realtà locali, e tali da servire a dare un quadro molto vicino alla esperienza vissuta.
Ai primi di gennaio, Pini si trasferì nei capoluoghi emiliani,e scludendo dal
suo giro di ispezioni Modena e Bologna, le cui condizioni si riteneva fossero
sufficientemente note. A questa data, però, egli aveva già visitato Piacenza,
dove si era trattenuto il 22 e il 23 dicembre 1944. Il periodo di permanenza fissato per ogni visita si limitava a due giorni: era quindi un lasso di tempo piuttosto insufficiente per poter esprimere un giudizio ponderato su persone e fatti. Comunque la sua lunga esperienza giornalistica doveva essergli utile per capire gli uomini e valutarli, per selezionare, fra tanti incontri, quelli più rispondenti agli scopi prestabiliti.
Pini dava inizio ai suoi rapporti, presentando le autorità locali.
A Piacenza, Alberto Graziani (<uomo di temperamento e di carattere eccezionale, evidentemente onesto e diritto», rivestiva la duplice carica di Capo
Provincia e di Commissario Federale (1). Aveva raccolto le due incombenze
«in un momento tragico per la provincia [... ] quando i ribelli avrebbero potuto, volendo, impadronirsi della città e della stessa Prefettura» e «in tre mesi
[aveva] rianimato la città, [... ] riorganizzato la provincia, costituito la Brigata
Nera». La figura di questo Capo Provincia, che si stagliava con particolare risalto nell'orizzonte repubblicano, era da Pini vivamente segnalata al Capo del
Governo per le doti non comuni di intelligenza e di umanità. Al confronto della spiccata personalità di Graziani, quelle del Comandante della G.N .R., col.
Falla Caretta e del Podestà, Alberto Mariani si presentavano piuttosto mediocri. Lo stesso in definitiva si poteva affermare per il Questore, Roberto Mastrogiacomo.
Ad essi facevano capo le diverse formazioni militari: la Brigata Nera, forte
di «228 elementi effettivi e 202 pronti alla chiamata, [... ] ben organizzata, benissimo armata ed equipaggiata», la guarnigione della Guardia Nazionale Repubblicana, comprendente 450 uomini e il nucleo di polizia, composto di «150
ausiliari scarsamente vestiti e pochissimo armati».
La vita economico-sindacale della provincia risultava buona, se non addirittura ottima, in alcuni settori. Non si lamentavano infatti difficoltà nel campo
annonario, né «sintomi di malcontento operaio» o «tentativi di sciopero». La
popolazione stessa si dimostrava più disponibile verso le autorità; significativa
l) Le citazioni relative alla città e alla provincia di Piacenza sono tratte dalla relazione di G. Pini, gentilmente concessami dal Dr. Susmel.
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a questo riguardo era «la richiesta che si delinea[va] nei comuni, da parte di
cittadini e coloni di buona moralità e condotta, di potersi organizzare in pattuglie, o guardie civiche armate, in difesa dei paesi contro partigiani e
banditi».
Questa linea di tendenza favorevole alla Repubblica Sociale veniva riscontrata dal Sottosegretario anche nella diminuita attività delle formazioni partigiane, ritenuta definitiva o comunque apportatrice di nuove speranze. Egli segnalava infatti la cessazione dell' «incubo del ribellismo, già gravante su tutta
la provincia» e l'affermazione di «uno spirito nuovo di disciplina, di collaborazione e anche di riscossa». Si tralasciava cioè di verificare l'apporto di componenti contingenti, come il riflusso stagionale e internazionali, come il proclama Alexander. Forse sfuggiva all'occhio attento di Pini la visione d'insieme
del fenomeno Resistenza; di qui nasceva la sua incapacità ad inserire la momentanea battuta d'arresto del movimento nell'ambito di un contesto più generale.
Seconda tappa del viaggio fu Reggio Emilia, dove sostò le giornate del 3 e 4
gennaio. Si incontrò con il Capo della Provincia, Giovanni Caneva, figura
d'uomo incline «alla vita chiusa piuttosto che al contatto con le masse» e benché privo di temperamento aggressivo non si sottraeva «alle [ ... ] necessità di
azioni e sanzioni dure» (2). Ignazio Battaglia aveva sostituito nella carica di
Commissario Federale il predecessore Guglielmo Ferri che con una rocambolesca defezione aveva disperso le fila della locale Brigata Nera. Si era impegnato nell'opera di riorganizzazione, ma i risultati non erano molto edificanti.
Nelle stesse condizioni si trovava il Questore, ten. col. Gaetano Cano, intento
a riordinare le poche forze di polizia. Questi, animato di «buona volontà», si
vedeva però ostacolato dai suoi stessi uomini, che non offrivano eccessive garanzie politiche, e dalla mancanza di <<uniformi, cappotti, scarpe, [... ] armi e
munizioni».
L'elenco delle personalità cittadine comprendeva, come di consueto, anche
il Comandante della GNR, il Podestà e il Vescovo. Del primo, Pini metteva in
evidenza le indubbie capacità militari, poste al servizio della Guardia, il cui
presidio locale si componeva di circa 1000 uomini. All'opposto il Podestà Celio Rabotti, per il quale le doti morali di onestà personale e di bontà d'animo
erano elementi caratterizzanti. Infine, veniva ricordato Mons. Brettoni, il Vescovo di Reggio, spirito «comprensivo ed intelligente», di non eccessivo risalto, nonostante fungesse da intermediario fra le formazioni democristiane e le
autorità della provincia.
. Secondo la definizione del Sottosegretario, la situazione alimentare poteva
definirsi «privilegiata», data l'abbondanza di alcuni prodotti agricoli. Naturalmente esistevano dei disagi, e non limitati al solo settore alimentare, riconducibili però alle condizioni generali.
Il vero tratto saliente della situazione reggiana era dato, a parere di Pini, dal
fenomeno ribellistico «che pesa[va] notevolmente sulle attività pubbliche e
2) Le citazioni relative alla città e provincia di Reggio Emilia sono tratte dalla relazione di G.
Pini, in possesso al Dr. Duilio Susmel.
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private, più che nelle altre provincie [... ] visitate». Esso era stato favorito, più
o meno indirettamente, dall'episodio di Ferri che aveva portato il discredito
nelle fila repubblicane e alimentato sfiducia negli organi di governo. Pini riteneva tuttavia che la provincia poteva «definitivamente riscuotersi e liberarsi
dei ribelli se qualche azione in forze ben coordinata [fosse] organizzata finché
dura [va] la stagione invernale che pone[va] i ribelli a mal partito».
Ultima città della pianura padana fu Parma a cui Pini approdò il 5-6 gennaio 1945. Come d'abitudine si incontrò con le autorità: il Capo Provincia,
Antonino Cocchi era «Uomo giovane [... ] [dalle] molte ottime qualità ma non
complete»; il Commissario Federale, Angelo Rognoni, sostituto di Romualdi,
era «elemento giovane, molto serio ed equilibrato [... ] conciliante e distensivo, ma pronto ad imporsi quando [fosse] in gioco la sostanza della fede, la dignità del partito e della Repubblica»; il col. Fiordiponti della GNR, personalità priva di spiccate caratteristiche, disponeva di 471 uomini assorbiti, però,
dai Tedeschi, «sicché scarseggia[vano] i disponibili per eventuali necessità improvvise» (3). Il Podestà, Guglielmo Dattaro, si dimostrava «elemento giovane, intelligente, attivo», allo stesso modo il Commissario della Provincia,
Giuseppe Scotti, «bella figura di professionista, distinto, faccia aperta e franca, competenza e interessamento per il proprio compito». Infine il Questore,
«ex-combattente e decorato», da cui dipendevano un discreto numero di uomini, sprovvisti però del necessario per la vita militare e il Vescovo, Mons.
Colli, persona «intelligente e di spirito sveglio», dagli atteggiamenti collaborazionisti (4).
La vita economica parmense si presentava piuttosto soddisfacente, poiché
le produzioni locali riuscivano a coprire il fabbisogno della popolazione, benché «il regime dell'alimentazione [venisse] continuamente sconvolto da arbitrarie interferenze dei Tedeschi».
Motivi di seria preoccupazione derivavano invece dal movimento partigiano, che dimostrava di non voler desistere, né giungere a posizioni negoziate.
Infatti, in conformità ai suggerimenti ricevuti da Mussolini, Pini, a Parma,
aveva cercato di riattivare certe trattative tra fascisti e partigiani per la presentazione di 3000 sbandati, ma ne era stato sconsigliato e dalle autorità italiane e
da quelle tedesche. Queste ultime in effetti si preparavano ad una azione di rastrellamento di vaste dimensioni. Le condizioni attuali quindi non erano propizie per un simile passo: se da una parte ci si irrigidiva sulle proprie posizioni,
dall'altra non vi era sicuramente lo stato d'animo necessario per presentarsi al
3) V. N.A.W., T 586, container 1018, fonogrammi 057673-057683.
4) Questa affermazione è convalidata anche da un altro documento pervenuto al Ministero
dell'Interno. Si tratta di un fonogramma, inviato dal Capo Provincia Cocchi in data 20 dicembre
1944. Esso era così redatto: «Clero locale habet fatto pervenire questo ufficio copia manifesto
clandestino comunista tendente dimostrare affinità con dottrina cristiana punto Clero stesso replica con argomentazioni inviate in copia chiedendo autorizzazione regolare diffusione punto».
In allegato seguivano i manifestini del Partito Comunista e la risposta del clero parmense, indicante l'assoluta incompatibilità della dottrina cristiana con le teorie marxiste. Il documento si trova al N.A.W., T 586, container 1296, fonogramma 112978.
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tavolo delle trattative (5).
Un quadro di Modena viene offerto dal Ministro del Lavoro Giuseppe Spinelli, che si recò nella città ilIO aprile 1945. Dopo una presentazione semplicemente enumerativa delle autorità, il Ministro passava a definire la situazione
di Modena, giudicata «molto critica per quanto riguarda[va] l'attività dei ribelli. La Prefettura controlla[va] appena una decina di comuni. Le aggressioni
e le uccisioni [erano] sistematiche, specie in provincia». Nelle stesse critiche
condizioni si trovava l'apparato industriale, poiché «moltissime fabbriche
[erano] state distrutte dai bombardamenti e trasferite altrove. I lavoratori in
parte [avevano] seguito le aziende ed in parte [erano] adibiti ai lavori di fortificazioni». Così nel settore agricolo, dove mancavano «assolutamente i concimi
[... ] i mezzi strumentali, i carburanti per le macchine. Per quanto riguarda[va]
il patrimonio zootecnico [... ] continue [erano] le requisizioni da parte dei germanici e dei partigiani» (6).
L'analisi di Spinelli, forse per il particolare angolo visuale dovuto alla sua
attività, (si dilunga infatti nel riferire incontri con esponenti del mondo sindacale), risulta piuttosto restrittiva e al confronto di quelle di Pini molto povera.
I personaggi mancano di una qualunque caratterizzazione e le situazioni, pur
nella ricchezza dei particolari, rimangono alquanto superficiali. Si ricava tuttavia un'idea generale, valida soprattutto se inserita in un'ottica preinsurrezionale.
In ogni modo ulteriori delucidazioni sulla difficile provincia modenese provengono dalla lettura di altri documenti conservati dalla Segreteria particolare
del Duce. Il primo di questi concerne «l'attività ribellistica» manifestatasi, nel
gennaio '45, «con maggiore intensità» e con un progressivo aumento di «delitti consumati contro le persone, la cui esecuzione [aveva] impressionato fortemente la popolazione», e a titolo dimostrativo venivano enumerate le azioni
d'aggressione compiute giornalmente dai partigiani (7). In un altro documento, datato 15 febbraio 1945, si trova invece una critica piuttosto dura nei confronti della Brigata Nera di Modena, il cui operato «rappresenta[va] non solo
un grande ostacolo alla pacificazione degli animi, ma allontana[va] particolarmente la massa operaia che diversamente [avrebbe potuto] collaborare
nell'ambiente repubblicano» (8). Quest'ultima osservazione si riscontra in
molti documenti, per cui si è indotti a credere che tale stato di cose dovesse
raggiungere limiti veramente intollerabili. Significativo è il fatto che lo stesso
Capo di Stato Maggiore delle Brigate Nere, Facdouelle, riconoscesse in un appunto del 29 marzo 1945 la veridicità di tali affermazioni, pur adducendo
5) Nel febbraio 1945 fu rilanciata l'idea delle trattative. Secondo quanto riferisce F. Cipriani in
Guerra partigiana. Operazioni nelle provincie di Piacenza, Parma, Reggio Emilia, a cura
dell' ANPI di Parma, 1947, pp. 139-141, esse avrebbero avuto come protagonisti i partigiani, i tedeschi e alcune personalità religiose. Ciò sarebbe accaduto il 24 febbraio allorché un emissario di
parte tedesca «sollecitò un colloquio in zona neutra con il Commissario Mauri». Si chiedeva il libero transito sul Po, verso la seconda metà di marzo, in cambio della salvezza delle città. Interessati di tali negoziazioni il governo italiano e il Comando supremo alleato, rispondevano dando
«istruzioni contrarie ad ogni trattativa».
6) V. N.A.W., T 586, container 1187, fonogrammi 090090-090093.
7) V. N.A.W., T 586, container 1218 B.
8) V. N.A.W., T 586, container 1065, fonogramma 064081.
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qualche giustificazione (9).
Dopo questa presentazione delle città emiliane, anche se necessariamente
rapida, è opportuno sollevare qualche considerazione o perlo meno cogliere
certi tratti essenziali. Innanzi tutto la limitatezza delle informazioni. Infatti le
uniche fonti che trattano l'argomento sono le relazioni di Giorgio Pini, per cui
mancando i termini di raffronto, difficilmente si otterrà un quadrò completo e
soddisfacente. Tanto più che i personaggi citati, salvo rare eccezioni, limitandosi a svolgere le loro funzioni nei ristretti confini della provincia, rimasero figure marginali, prive di un peso storico di portata generale. È vero che esistono resoconti aggiuntivi come quelli di Spinelli, ma essi, alquanto superficiali,
non colmano quei vuoti involontari lasciati dalle relazioni del Sottosegretario.
Più interessanti si rivelano (là dove sussistono) gli appunti delle varie autorità
locali (Capi Provincia, Questori, Federali ... ), benché si presentino, a volte, in
veste episodica e settoriale.
È possibile tuttavia delineare una visione d'insieme che, pur con qualche variante, può valere per tutta la Repubblica Sociale. Infine la storia di una qualunque città venuta a trovarsi nel territorio della Repubblica e, in particolare,
a nord della Linea Gotica, non poteva che riflettere le condizioni politiche generali, in maniera parziale forse, od anche originale, ma comunque inequivocabile. Le quattro provincie emiliane pertanto si trovarono impegnate nella risoluzione di vari interrogativi, implicanti chiare scelte di campo e dai quali
non era possibile esimersi.
Già nel settembre' 43 si presentò il problema della ricostituzione delle forze
armate che, a livello di base, si pose come scelta ideologica e quindi come mezzo di espressione dei sentimenti delle masse verso il nuovo Stato repubblicano.
Così dai risultati ai diversi bandi di leva si deduce che da un primo atteggiamento di condiscendenza o di benevola attesa, si passò poi ad una forma di
apatia od opposizione derivata da un insieme di cause, non ultima probabilmente la presenza di certi postulati sociali, inattuati o comunque rimandati a
tempi migliori, alla realizzazione dei quali era condizionata la primitiva fiducia.
La ricostituzione delle FF.AA. non si esauriva però in termini puramente
quantitativi, poiché l'esistenza della Repubblica Sociale si giustificava in sede
storica solo con l'inserimento di nuove componenti che, facendo giustizia degli errori e dei compromessi del passato, rivendicassero al movimento fascista
la sua natura rivoluzionaria. Assume rilevanza quindi il dibattito sulla configurazione politica o meno del nuovo esercito, che era, ad un tempo, un riflesso e un sintomo del mutato clima politico. Esso fu considerato anche in Emilia
e, almeno a Piacenza, fu risolto in maniera radicale, con l'adozione di una
presa di posizione che, sospesa dal Capo Provincia, doveva essere sottoscritta
9) Facdouelle affermava: «La vita dei reparti nel modenese non è stata e non è facile per le condizioni ambientali ove il ribellismo dilaga in modo impressionante anche attraverso fatti di vero e
proprio feroce banditismo e dove le altre Forze Armate Repubblicane o si sono chiuse (come la
Questura) o hanno purtroppo dimostrato scarsa combattività [... ) Ciò premesso è innegabile che
la Brigata Nera di Modena ha dimostrato scarsa energia sia nel campo disciplinare come pure in
quello organizzativo» (v. N.A.W., T 586, container 1217 B).
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dallo stesso Mussolini (10).
Questo problema non era certo il solo a tenere occupata l'opinione pubblica, poiché a Reggio, a Parma, come in tutta l'Italia repubblicana, si dibatteval'altro dilemma, cruciale a Salò, del rapporto moderati-estremisti. In sede regionale fu affrontato e almeno per quanto risulta dalla stampa, fu scelta la via
moderata, (sia il periodico di Reggio «il Solco fascista», sia quello di Parma
«la Gazzetta» furono definiti in un documento del Ministero della Cultura
Popolare, neutrali e reazionari). È significativo inoltre che presso «il Solco fascista» lavorassero alcuni ex-dipendenti di Pini (11).
Un altro dato fondamentale, comune a tutta l'Italia repubblicana, fu la presenza delle formazioni partigiane, che nella primavera' 45 avevano assunto un
livello quantitativo e qualitativo piuttosto rilevante. Né la formazione delle
Brigate Nere, che aveva dato una veste di ufficialità alla guerra civile, era riuscita a risolvere il problema, anzi sotto certi aspetti lo aveva drammatizzato.
La stessa vicenda della Brigata Nera di Modena costituisce a questo proposito
un esempio. Si trattò forse di un caso estremo, ma non è difficile immaginare
che anche altrove se ne verificassero di simili. Così la larvata ostilità nei confronti delle Brigate Nere che si percepisce nelle comunicazioni dei responsabili
della GNR non è che una dimostrazione dello stato d'animo che si respirava
fra gli esponenti delle varie forze armate repubblicane (12).
E come questi, molti altri episodi riaffermano quella visione d'insieme di
cui si parlava all'inizio. Questo però non significa che tutto debba esservi ricondotto, disconoscendo la validità di ogni singolo luogo e le sue peculiari caratteristiche. Evidentemente esistevano alcune linee comuni, date dalle condizioni dell'Italia settentrionale in quel particolare momento storico. Tuttavia
esse non esauriscono l'analisi storica che, al contrario, deve avvalersi di tutte
le variabili, generali e particolari, per giungere ad una visione più possibilmente completa. È in questa prospettiva allora che assumono importanza i fattori
ambientali, strutture, uomini o istituzioni, in virtù dei quali si avverarono determinate trasformazioni o presero vita nuove situazioni. Ciò vale per il caso
specifico delle provincie dell'Emilia, che inserite nel contesto della Repubblica
Sociale, ne vissero la controversa vicenda, alla luce però di esigenze, vantaggi
e difficoltà derivanti dalle condizioni locali.
Si è ricordato più sopra il fenomeno della Resistenza, quale realtà comune a
lO) Si tratta di un articolo proposto da Scaravelli, direttore della «Scure» come «fondo» nello
stesso giornale, dal titolo «l'Esercito e la Rivoluzione». Esso fu inviato a Mussolini, il quale, tramite
Dolfin, fece pervenire al Capo Provincia piacentino la sua autorizzazione alla pubblicazione. L'articolo incriminato sosteneva la tesi del rinnovamento dell'esercito alla luce di un nuovo spirito e di una
mutata moralità, per cui «vecchi uomini, noti e arcinoti per le tendenze antifasciste, per l'egoismo
personale [... ] dovevano essere mandati in pensione» (v. N.A.W., T 586, container 1234 A).
Il) Un altro periodico di Reggio «Diana Repubblicana» si faceva portavoce della «libera discussione nelle assemblee dei Fasci Repubblicani», asserendo che «i Fasci [dovevano] essere liberi
dalle pastoie del Governo e [dovevano] avere come base una forma elettiva segreta» (v. art. del
20.11.1944, in N.A.W., T 586, container 1187).
12) Un documento, sempre appartenente alla Segreteria particolare del Duce, illustra questo
stato d'animo, riportando, provincia per provincia, le azioni non sempre ortodosse delle BB.NN.
e l'ostilità delle stesse nei confronti degli appartenenti alla GNR. Si tratta del documento «Fatti
aventi relazione con la GNR»; nel notiziario del febbraio 1945, alle pp. 5-9 si riferisce sulle provincie emiliane.
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tutto il territorio repubblicano. Ora, essa si dimostrò particolarmente scottante proprio nella regione nordemiliana a causa di alcuni fattori ambientali: da
una parte, infatti, la prossimità della linea del fronte favorì l'irrobustirsi delle
formazioni partigiane e dall'altra la posizione geografica delle provincie, situate alle spalle dello schieramento germanico e attraversate da vie di comunicazione di primaria importanza, indusse i Tedeschi ad azioni di dura rappresaglia nei confronti dei partigiani, al fine di assicurarsi la via della ritirata.
Naturalmente, anche all'interno delle quattro provincie il movimento presentò qualche differenziazione, dovuta alle condizioni topografiche, la più
evidente delle quali fu riscontrata nel reggiano. Qui infatti «per la limitata ampiezza della zona montana, e quindi per la difficoltà di farvi permanere ed agire numerose forze, venne a crearsi nella zona della pianura, ed in quella più
collinare, compresa fra il Po e l'allineamento Montecchio-Bibbiano-VezzanoCiano-Castellarano sul Secchia, una vasta organizzazione dei GAP e delle
SAP» (13).
Allo stesso modo la zona emiliana presentò caratteri propri nel campo economico, pur nell'esistenza di un disagio generale. Infatti, grazie all'abbondanza della produzione agricola le popolazioni padane non subirono quelle atroci
e incredibili realtà che Pini dovette, per esempio, constatare a La Spezia, dove
si verificarono persino alcuni casi di morte per fame (14).
In definitiva, da questo panorama di dati, di episodi e di osservazioni, si ottiene un quadro dei caratteri, delle frustrazioni e realizzazioni della Repubblica Sociale, rivissuta attraverso il filtro di alcune esperienze locali.
Dopo aver illustrato la configurazione politico-istituzionale delle diverse
provincie, è opportuno ricostruire lo sviluppo del movimento di Resistenza,
seguito alla stasi dell'inverno '44-'45. A questo proposito ci si varrà di alcuni
documenti, inviati a Mussolini dai servizi informativi delle diverse formazioni
militari. Le affermazioni in essi contenute, in quanto interpretazioni dei fatti,
potranno discordare da altre fornite sullo stesso argomento dai protagonisti
dell'antifascismo. Tuttavia anche i documenti presentati non offrono versioni
uniformi ed indiscutibili, poiché riflettono la molteplicità dei centri informativi e i contrasti fra le stesse formazioni repubblicane. Quanto detto però non
deve impedire di conoscere il pensiero dei dirigenti fascisti sulla Resistenza o
13) V. F. Cipriani, op. cito p. 183.
14) Una convalida indiretta a quanto riferito circa la situazione economico-alimentare e, in definitiva, alle affermazioni contenute nelle relazioni di Giorgio Pini, proviene da alcuni documenti,
redatti a guerra già conclusa, da esponenti dello Stato Maggiore dell'Esercito per il Ministero
dell'Italia Occupata, sulla situazione di alcune provincie settentrionali. Una relazione, datata 8
maggio 1945, relativa a Reggio Emilia precisa infatti nel paragrafo «situazione annonaria»: «la situazione alimentare della città e della provincia è ottima. Scarseggia soltanto: sale, zucchero e
combustibili» e nel paragrafo «situazione agricola»: «l'andamento stagionale appare in complesso favorevole [... ] Macchine agricole: la situazione è soddisfacente. I Tedeschi arrecarono ben pochi danni alle scorte di numerosissimi poderi della provincia [... ] Ammassi: i danni subiti dagli
edifici degli ammassi sono di poco rilievo [ ... ] Cantine, oleifici e caseifici: da un primo esame si ritiene che i danni subiti da questi impianti non superano la percentuale del SOlo.» Ciò che veniva
constatato nel reggiano, si ritrovava anche a Piacenza ed era segnalato, anche se con minor ricchezza di particolari, in un'altra relazione, sempre in data 8 maggio 1945. Tale documento è conservato presso l'Istituto Storico della Resistenza in Toscana, nel fondo Medici-Tornaquinci, Busta 3, fascicolo n. 1, documento n. 9.
43
di informare sulle realtà sociali, così come venivano da essi percepite. Al contrario tale pensiero risulterà tanto più interessante se verrà integrato nelle sue
diverse parti e comparato alle interpretazioni divergenti.
Il primo accenno relativo alla ripresa dell'attività partigiana, in Emilia, viene registrato nel notiziario mensile n. 12 (febbraio 1945) del S.LD. Essa si era
manifestata con «un susseguirsi di azioni che, sebbene ancora slegate, [avevano] testimoniato l'attuale pericolosità delle varie bande e [... ] accresciuto le
apprensioni per gli ulteriori sviluppi» (15). Si precisava poi che «un rapido
sintetico esame della situazione [... ] mette[va] in evidenza una particolare attività dei gruppi di ribelli operanti nelle provincie di Modena e Reggio Emilia».
Successivamente veniva analizzata la situazione della provincia di Piacenza,
«ritornata piuttosto difficile e pericolosa», a causa del fallimento delle operazioni intraprese nei primi giorni di gennaio. «Infatti più che un vero e proprio
rastrellamento, fu un'azione di scompaginamento delle bande ribelli, le quali
[... ] [avevano] potuto mettere al sicuro i propri effettivi, le armi e le munizioni, in attesa di ritornare nuovamente in montagna alla prima favorevole occasione». In ultima analisi, se la situazione rimaneva ancora «incerta e fluida»,
«dai fatti e dalle circostanze suaccennate [era] evidente che il pericolo andava
aggravandosi sempre più».
A Parma «tutta la zona montuosa [era] controllata da bande ribelli di notevole entità e consistenza, rifornite dal nemico». Venivano tentate azioni di rastrellamento, tuttavia senza esiti risolutivi. Non dissimili si presentavano le
provincie di Reggio Emilia e Modena, nelle quali prosperavano un numero
elevato di brigate partigiane. A Reggio «il distaccamento "Fratelli Cervi" nei
comuni di Quattro Castelle, Monte Cavolo e Bibbiano, specie nella frazione
Barco, si compone[va] di circa 250 uomini che opera[vano] in gruppi frazionati, alcuni dei quali si sposta[vano] spesso anche in provincia di Parma. [Era] di
tendenza comunista e svolge[va] un'intensa attività; [e] il distaccamento "Don
Pasquino" nei comuni di Castelnuovo ne' Monti, Carpineti, Casina, Villa Minozzo e Toano, [aveva] una forza di circa 300 uomini, in prevalenza comunisti». A questi si aggiungevano «altri gruppi [... ] a carattere prevalentemente
brigantesco e propagandistico». A Modena si contavano «nella zona di Montefiorino: 1000-1200 ribelli costituiti in piccoli gruppi facenti capo alla banda
di "Marcello" e nella zona di Polinago: una banda comunista di 200 uomini
comandata da "Armando"».
Dall'insieme delle notizie raccolte nascevano alcune considerazioni finali
quanto mai illuminanti: «1) un'intensificata attività delle bande ribelli che,
specie nelle provincie di Modena e Reggio, minaccia[vano] perfino la via Emilia, il cui transito presenta[va] una evidente pericolosità; 2) una maggiore adesione o omertà della popolazione civile [... ] 3) la dolorosa situazione in cui si
trova[vano]le autorità repubblicane, alle quali manca[vano] sufficienti forze
per garantire l'ordine pubblico nelle città, mantenere presidi efficienti nelle località periferiche [... ] e operare i necessari rastrellamenti».
Nella loro sinteticità i tre punti considerati racchiudevano una verità fonda15) V. N.A.W., T 586, container 1207 B., pp. 53-57.
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mentale: l'assenza cioè di vie d'uscita alla presente situazione. Infatti da qualunque lato si fosse osservata, essa non presentava speranze di sorta: alla ostilità della popolazione faceva riscontro l'impotenza delle autorità governative,
in un'atmosfera di ripresa delle attività belliche e sovversive. In secondo luogo
essi dimostravano l'atteggiamento della Repubblica Sociale, (nel caso contingente rappresentata dalle quattro provincie emiliane), che continuava ad operare pur nel proprio cosciente isolamento, inteso come dimensione atemporale
e vissuto come giustificazione storica. È difficile ritrovare queste affermazioni
nelle conclusioni suddette, esse comunque fissano dei punti fermi che facilmente si prestano a considerazioni di portata più generale.
Un quadro dell'attività partigiana nella zona si ritrova nei rapporti del Capo di Stato Maggiore del Corpo Ausiliario delle Camicie Nere, il quale informava su tutto ciò che concerneva le Brigate Nere provinciali. Egli annotava
«l'attività ribellistica e antiribellistica», che, per il periodo considerato, si rivelava ancora discontinua ed episodica. Ciò confermava indirettamente quanto
affermato nel notiziario n. 12, relativamente alla ripresa delle operazioni: sicura, ma disorganizzata. A titolo esemplificativo si citano alcuni di questi rapporti; in data 6 marzo 1945 si legge: «2S a B.N. PIACENZA. Nei giorni 13 e 14
febbraio, un reparto della Brigata Nera rinforzato da camerati tedeschi [... ]
tentava [... ] di sbloccare un piccolo reparto della GNR da più giorni assediato
a Nibbiano Val Tidone, da parte di preponderanti forze ribelli [... ] Dopo sei
ore di lotta, vista l'impossibilità di forzare la linea difensiva ribelle [... ] veniva
disposto il ripiegamento generale», e in data lO febbraio 1945 «27 a B.N.
PARMA. Il giorno 6 febbraio otto uomini del presidio di Basilicanova [... ] si
scontravano [... ] con una quarantina di fuorilegge [... ] Di fronte al contegno
deciso e aggressivo degli squadristi i ribelli finivano per ritirarsi» (16).
Un'altra fonte da cui attingere questa sequela di azioni è rappresentata dai
notiziari quindicinali del S.I.D. «Attività partigiana». Nel n. 36, (riportante le
notizie pervenute dalI o al 15 marzo 1945) nel capitolo riservato all'Emilia, si
dice che il 27 febbraio a Fabbrico, in provincia di Reggio Emilia, «elementi ribelli attaccavano una pattuglia della Brigata Nera [... ] Le bande venivano successivamente attaccate e disperse da truppe motocorazzate tedesche» e che il
23 dello stesso mese a Modena «elementi ribelli asportavano, nel tratto ferroviario Modena-Vignola, alcune chiavande [... ] provocando il deviamento del
locomotore e 4 carri di un treno merci» (17).
In ogni modo, sempre stando alle notizie fornite dal S.I.D., ancora nel marzo '45 il movimento resistenziale non aveva raggiunto la sua piena efficienza.
Nel notiziario mensile n. 13 infatti si osservava che i «vari gruppi [erano] ancora in una fase organizzativa: ne [davano] conferma la mancanza di un'unica
direttiva che regol[asse] gli atti di sabotaggio, di violenza, [... ] di rapina ed il
frequente spostamento di uomini e mezzi che evidentemente si sistema[vano]
in zone o località ritenute più idonee alla vita dei reparti ed al futuro sviluppo
di eventuali operazioni di vasta portata». Era in atto, però, un progressivo
16) V. N.A.W., T 586, container 1217 B.
17) V. N.A.W., T 586, container 1207 B.
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aumento degli effettivi delle formazioni partigiane, dovuto al «rientro degli
anziani e all'affluire di nuove reclute», riso spinti in montagna «dall'andamento delle operazioni belliche [... ] e dalla crescente sfiducia nelle organizzazioni
e nelle autorità governative» (18).
Se questo era vero nel contesto regionale, a più forte ragione esso valeva per
le singole provincie, dove l'operato degli organi di governo veniva giornalmente mezzo alla prova e valutato. In esse non si notavano cambiamenti considerevoli, ma riorganizzazioni «in pieno sviluppo» o assestamenti «particolarmente sensibili». Così a Piacenza dove si constatava la presenza di un numero elevato di bande, consistenti anche quantitativamente, (il notiziario di
marzo cita, fra le altre, «i resti di una brigata "Giustizia e Libertà" a Nibbiano, Trebecco di Nibbiano e Pecorara», forte «di 1500 uomini, fra cui 300
mongoli disertori della divisione "Turkestan"», comandata dal «tenente dei
carabinieri Giorgio Cossu detto "Fausto"»), o a Parma, dove «l'afflusso di
nuovi elementi [era] continuo» e diversificato, basti pensare alla diserzione in
massa operava dai 400 uomini del 7° battaglione lavoratori alle dipendenze
dei Tedeschi. Lo stesso continuo afflusso si registrava nella provincia di Reggio Emilia, dove «la brigata "Garibaldi" [aveva] raggiunto nel complesso una
forza di 4500 uomini di cui 2000 al comando deposito; 1000 al distaccamento
"Don Pasquino" e 1500 al distaccamento "Fratelli Cervi"».
Nonostante la constatata efficienza delle formazioni partigiane si suggeriva
la possibilità di «fronteggiare il pericolo, di diminuir[lo] se non annular[lo]
con azioni preventive». Non si trattava di velleità belliche, ma di illusioni più
o meno inconscie, offerte come giustificazioni a quanti avevano compiuto una
certa scelta ed ancora nella primavera' 45 vi si sentivano moralmente vincolati.
La prospettiva di una imminente ripresa delle attività militari e la conseguente sconfitta tedesca, nell'aprile '45, giocarono un peso rilevante. Il notiziario giornaliero della GNR del 9 aprile annotava nello spazio dedicato a Modena: «il popolo è stanco della guerra e ha un solo desiderio: che finisca il più
presto possibile» (19). Si trattava di un comprensibile atteggiamento, che d'altronde spiegava anche l'ostilità delle popolazioni verso il fascismo repubblicano, senza bisogno di ricorrere a motivazioni ideologiche. Senza dubbio vi era
una componente ideologica nella resistenza passiva delle masse e nella collaborazione prestata ai movimenti clandestini. Tuttavia gli incerti della guerra,
la fame, la violenza, i bombardamenti dovevano aver fatto breccia nello «spirito pubblico» più che qualsiasi altra ragione politica.
Alla vigilia dell'insurrezione, il movimento partigiano modenese era in pieno fermento: «in alcune zone domina[va] incontrastato» e già dava disposizioni aventi carattere di legge. A Piacenza, il notiziario del 15 aprile se registrava lo stesso çleterioramento del clima interno annotava però un miglioramento nel «contegno e nello spirito dei soldati» (20). La nota dominante, invariabile, restava comunque la gravità della situazione. A Reggio Emilia essa
18) V. N.A.W., T 586, container 1296, fonogrammi 113255-113261.
19) V. N.A.W., T 586, container 1155, fonogrammi 080749-080751.
20) V. N.A.W., T 586, container 1155, fonogrammi 080973-080982.
46
dipendeva «dall'attività dei fuori-legge», che controllando di fatto «tutto il
territorio della provincia» e le relative vie di comunicazione «preoccupa[va]
seriamente per i riflessi che [poteva] avere nella situazione generale della provincia». Contrariamente a quanto rilevato a Modena, la popolazione reggiana
conservava un certo morale, «teme[va] lo sfondamento del fronte meridionale
e la conseguente deprecata invasione [... ] da parte degli anglo-americani».
L'ultimo appunto del Comando della Guardia, relativo all'Emilia e a Parma in particolare è del 16 aprile. Ciò che viene riferito a proposito di questa
città, d'altra parte facilmente riscontrabile anche altrove, presenta un'immediatezza ed una comunicabilità estreme, forse per il tono di partecipazione
sofferta che si trae dalla lettura del documento. Nell'imminenza del crollo,
probabilmente, l'estensore del notiziario abbandonata la veste di distaccato
osservatore, si riimmergeva in quella realtà, di cui in fondo era sempre stato
un protagonista.
Egli constatava che «la situazione politica si [era] aggravata tanto da ritenersi preoccupante per la sfiducia generale subentrata nella massa della popolazione [... ] Nessuno crede[va] più a una vittoria tedesca [... ] [Era] convinzione generale, quindi, che la guerra fini[sse] prestissimo, sicuramente entro il
mese di aprile, con la definitiva sconfitta dell'esercito germanico e il crollo del
fronte interno [... ] Negli ambienti fascisti e benpensanti, dove la fiducia e le
speranze non [erano] mai venute meno, comincia[va] a serpeggiare un lieve
scoramento e si attende[va] come non mai l'impiego delle armi nuove ... Il proclama del Partito, annunciante la mobilitazione completa di tutti i fascisti,
[aveva] avuto un'azione piuttosto deprimente, perché con tale disposizione
[era] stata riportata l'impressione che la situazione [fosse] diventata realmente
molto critica. Con una certa indifferenza [erano] state invece apprese le altre
disposizioni di carattere sociale ed economico, perché se pure apprezzate e
giudicate ottime, [erano] ritenute inattuabili dato che la maggioranza
ritene[va] come prossima la caduta del Governo [... ] Il doloroso andamento
delle operazioni militari sui vari fronti [aveva] fatto aumentare tra i reparti
[... ]la sfiducia [... ] Pur non notandosi tra i soldati e gli ufficiali segni di sbandamento, tuttavia regna[va] una specie di rassegnazione [... ] Il movimento dei
fuori legge si [andava] facendo sempre più preoccupante [... ] ed esercita[va]
ormai il controllo sull'intera zona montana della provincia» (21).
La realtà così delineata non accordava più alcuna speranza; si trattava infatti di una sconfitta totale e completa, che coinvolgeva, con la sorte delle armi, le istituzioni politiche esistenti, gli uomini e le coscienze. Al relatore del
notiziario, per qualche giorno ancora testimone di quella complessa realtà,
non restava che continuare a descriverne l'intima disgregazione, senza peraltro accorgersi (come molti del resto), che essa si era già consumata.
SIMONETTA TOMBACCINI
21) Ibidem, fonogrammi 081014-081020.
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Il tentativo dell'Autrice di descrivere qual'era l'apprezzamentofascista delfenomeno ribellistico dal gennaio '45 in poi, basandosi su alcuni documenti repubblichini dell'epoca, se da un lato dimostra la capacità interpretativa della
giovane studiosa, dall'altro comprova la lacunosità della fonte e la sua dubbia
credibilità in varie parti.
Alquanto sibillino, ad esempio, è il brano dedicato al Vescovo di Reggio
mons. Brettoni che, in una fase di Pini - non riportata testualmente ma certo
non deformata dalla Tombaccini -, fungeva "da intermediario fra le formazioni democristiane e le autorità della provincia ".
Formazioni partigiane democristiane? Probabilmente questo è il senso che,
comunque, è errato. Mons. Brettoni, tramite mons. Baisi a ciò autorizzato,
favori varie operazioni di scambio prigionieri, tra comandi nazifascisti e Comando Unico Zona, organismo rappresentativo di tutte le formazioni partigiane della montagna e non solo di quelle ad orientamento democristiano. La
cosa è comprovata da numerosi documenti relativi ai suddetti scambi.
Assolutamente avventato è il giudizio di Pini a proposito del "fenomeno ribellistico" nel Reggiano, che sarebbe stato favorito indirettamente dalla fuga del
federale Ferri e di molti dei suoi uomini.
La Brigata nera, in quanto a potenza militare, non aveva mai deciso nulla almeno nella lotta in montagna. E in pianura si distingueva più che altro in varie
operazioni di rappresaglia, che suscitavano terrore ma anche ribellione, alcune delle quali furono deplorate dagli stessi tedeschi. All'interno della Brigata
nera, inoltre si commettevano ribalderie di ogni genere, rilevate e denunciate
dalla G.N.R.
Che la nostra provincia potesse "definitivamente" liberarsi dai "ribelli" con
qualche azione in forze nel periodo invernale, non era che un auspicio, non
una proposta realistica. Pochi giorni dopo questa sparata di Pini - e precisamente dal 7 al 15 gennaio - i tedeschi condussero un forte rastrellamento in
montagna: riuscirono soltanto a tamponare per breve tempo l'aggressività dei
partigiani.
Ma un mese dopo questa aggressività si manifestò più preoccupante di prima
in quanto rendeva malsicuro il traffico militare tedesco sin sulla Via Emilia,
mediante azioni combinate tra partigiani del monte e del piano.
Arbitraria, diremmo, è poi la identificazione tra l'operato del clero parmense
e quello di mons. Colli. Contro l'asserzione, non sappiamo quanto fondata,
che il presule teneva "atteggiamenti collaborazionisti" e contro il documento
del "clero" che sosteneva la "incompatibilità della dottrina cristiana con le
teorie marxiste" (cfr. nota 4) sta il fatto incontrovertibile della concordanza
tra uomini di fede diversa sul piano della Lotta di Liberazione. A Parma, ben
19 furono i preti partigiani (cfr. 1. Vaccari, "Tempo di decidere", p. 472).
Ma le "sviste" più clamorose, stanno nei notiziari del S.I.D .. La situazione
del ribellismo nel febbraio '45 vi è descritta in modo incredibilmente distorto,
frutto di una stupefacente disinformazione. Dire che il Distaccamento
"Cervi" aveva sede nei comuni di Quattro Castella, Montecavolo, Bibbiano e
Barco e che contava 250 effettivi (la forza media dei Dist. era di 30-40 uomini)
significa aver raccolto in proposito qualche diceria senza fondamento.
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Egualmente bizzarro è il riferimento al Distaccamento "Don Pasquino" (formazione di Reggiani operante nel Parmense - n.d.r. -) che trovavasi - dice il
rapporto - a Castelnuovo Monti, Carpineti, Casina, Villa Minozzo e Toano e
che aveva 300 uomini. Non si sarebbe potuto far meglio per creare confusione
e disorientamento negli alti comandi fascisti a proposito della forza e della dislocazione dei "ribelli".
Altra amenità è la "banda comunista di 200 uomini comandata da
Armando". Si consideri che la notizia è del febbraio 1945, quando Armando,
già da vari mesi aveva attraversato la linea gotica unendosi con gli Alleati assieme a molti partigiani modenesi.
L'Ufficio politico investigativo della G.N.R. era sicuramente meglio informato. Per non parlare della "scuola antiribelli" di Ciano e dell'efficientissimo
servizio informazioni del quale si avvaleva tale istituzione spionistica tedesca.
Evidentemente i vari organi informativi agivano separatamente e l'uno non
comunicava all'altro i risultati del proprio lavoro.
La "stasi dell'inverno '44-'45", è una definizione che non si attaglia alla situazione della Resistenza reggiana. Stasi momentanea cifu in novembre (dopo il
messaggio Alexander e la conseguente interruzione degli aviolanci alleati), ma
poi, mentre con la "Settimana del partigiano", riuscitissima, si raccoglieva il
necessario per sostenere le formazioni della montagna, ogni distaccamento
mandò squadre ad operare in pianura al dupplice scopo di portare la guerriglia sulle strade della zona occupata dai nazifascisti e contemporaneamente di
rendersi autonome in fatto di alimentazione.
L'attività del dicembre fu intensissima; poi si resse benissimo al conseguente
rastrellamento di gennaio; quindi ripresero su scala maggiore gli attacchi al
traffico militare in pianura, mentre SAP e GAP si rafforzavano sino al punto
di effettuare a metà febbraio il sabotaggio generale alle linee telefoniche (circa
mille pali abbattuti in una notte) e battere clamorosamente i fascisti presso
Fabbrico, in un combattimento in campo aperto svoltosi afine mese. In quella
occasione (anche a questo proposito la versione del S.I.D. è lacunosa) "le
truppe motocorazzate tedesche" non attaccarono nessuno, in quanto giunsero
sul posto verso sera, a cose fatte.
Sempre secondo gli stravaganti documenti del S.I.D., nel marzo la "Brigata
Garibaldi" (le brigate erano tre - n.d.r. -) aveva "una forza di 4.500 uomini"
(In realtà tutte e tre le B. G. non raggiunsero una forza simile nemmeno alla vigilia della liberazione - n.d.r. -) di cui 2.000 al comando deposito (circostanza
inventata - n.d.r. -), mentre i due soliti Distaccamenti "Don Pasquino" e
"Cervi" - i soli di cui il S.I.D. dà conto, tacendo incomprensibilmente sui numerosissimi altri - avevano raggiunto nel complesso rispettivamente 1.000 e
1.500 effettivi. In realtà avranno avuto al massimo 40 uomini ciascuno.
È pure inattendibile la notizia che in aprile il popolo modenese avesse (solo
lui) il desiderio di veder finire la guerra al più presto, mentre quello reggiano
conservasse "un certo morale" e temesse "la deprecata invasione da parte degli anglo-americani".
A questo proposito vi sono documenti che parlano diversamente. In una segnalazione del 15 aprile, il Comandante della G.N.R. reggiana, scriveva al suo
Comando superiore:
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"Con i successi delle armi anglosassoni l'attività sovversiva ha buon gioco nel
perseguire il disorientamento della popolazione e l'adescamento dei giovani
(... ) La gioventù nella maggioranza è precisamente orientata verso i fuori legge.
Il sovversivismo reggiano conta ormai un buon numero di reclute anche
nell'elemento femminile".
La lettera riferiva poi di una manifestazione di donne tenuta il giorno 13, alla
quale - aggiungiamo noi - parteciparono nel centro e in molti comuni della
bassa, migliaia di donne appoggiate dai partigiani. Tale manifestazione fu
chiamata "la prova generale dell'insurrezione".
Non si può sostenere, di conseguenza, che la popolazione reggiana temesse la
"invasione da parte degli anglo-americani".
Queste discordanze, contraddizioni e stravaganze, non hanno distratto tuttavia la Tombaccini dai temi fondamentali che i documenti in genere ponevano,
sicchè essa ha compiuto, con questo suo attentissimo esame, uno sforzo esemplare per lucidità e rigore.
F.G.
Documenti e testimonianze
MEMORIE DI UN UFFICIALE CATTOLICO DEPORTATO
La nostra Rivista accoglie volentieri nelle proprie pagine il memoriale di prigionia del reggiano col. Alberto Codazzi.
È un tipo particolare di contributo alla storia della Resistenza:
contributo di chi nella monotonia e nella durezza del campo di concentramento, ha mantenuto fede agli ideali di libertà, lontano dalla
Patria e dalla famiglia, superando ogni giorno la insinuante tentazione di riacquistare libertà con un «SI'» al regime fascista o con la
collaborazione alle forze naziste.
Il col. Alberto Codazzi, 1'8 settembre 1943, era al Comando di
Presidio a Reggio Emilia, e nella premura di provvedere ai suoi dipendenti, cadde prigioniero dei tedeschi; e con lui era anche il capitano M. Geminiano Morselli, che chiuse i suoi giorni anch'egli in
prigionia.
La figlia del colonnello Codazzi, Sandra, fu valida staffetta partigiana, condividendo così gli ideali del padre, e oggi siede al Parlamento della Repubblica.
Al colonnello Codazzi auguriamo ancora lunga vita, nella libertà
conquistata col sacrificio.
P.s.
La caduta del fascismo
Molto tempo prima del 25 luglio 1943, che sancì la caduta della dittatura fascista, si aveva la netta impressione che qualcosa di grave e d'importante doveva succedere; qualcosa che avrebbe cambiata la situazione politica del nostro Paese.
Molte erano le cose che avvaloravano questa impressione: le disastrose condizioni dell'armamento delle forze militari italiane che in Albania avevano
completamente logorato quel po' che ancora avevano; la confusione, l'incertezza e i contrasti che regnavano nel partito fascista, sia al centro principale
del potere, sia al livello provinciale; ma soprattutto i sentimenti e i discorsi
della gente che, non solo non credeva nelle sorti felici di una guerra non voluta
e non sentita, ma, per tante sensazioni psicologiche che portavano al pessimismo più nero, aveva il presentimento che la situazione politica sarebbe mutata
da un momento all'altro e attendeva questo momento con tensione e ansietà.
Infatti, il 25 luglio 1943 il fascismo crollò improvvisamente, con sollievo di
quasi tutta la popolazione e la paura di coloro che non sapevano che fare e
non avevano il coraggio di prendere una decisione.
lo mi trovavo a Reggio Emilia, in servizio presso il Distretto Militare, col
grado di Tenente Colonnello e avevo le funzioni di Aiutante Maggiore in I,
funzione assegnatami dal Comandante il quale apprezzava in particolare il
mio passato di combattente, sia nella guerra 1915-18, che nella campagna
d'Albania che fu una delle più dure prove affrontate dall'esercito italiano, impreparato, male armato, malissimo rifornito e mal comandato.
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Precedentemente allo scoppio della guerra e precisamente nel 1938-39, mi
trovavo in Somalia ed esattamente a Vittorio d'Africa come Direttore di uno
stabilimento della Società Aeronautica Italiana per la fabbricazione di lubrificante per l'aviazione militare delle colonie Italiane, compresa l'Abissinia di recente conquista.
Fortunatamente, avuto sentore che la guerra sarebbe scoppiata inevitabilmente, feci in tempo ad ottenere, non senza difficoltà, una breve licenza di cui
avevo diritto dopo due anni di colonia.
Riuscii così ad arrivare a Roma con l'ultimo aereo, 20 giorni prima dello
scoppio della seconda guerra mondiale (giugno 1940).
Rientrato a Reggio Emilia, dove risiedeva la mia famiglia, la Sede Centrale
della Società, mi propose di ritornare subito a Vittorio d'Africa mediante un
aereo militare per continuare colà il mio lavoro alla Direzione di quello Stabilimento.
Mi resi subito conto che, a parte le enormi difficoltà di arrivare a destinazione, a causa dello stato di guerra con l'Inghilterra che spadroneggiava nel
Mediterraneo, nel migliore dei casi, sarei stato fatto prigioniero dagli inglesi
che avanzavano senza difficoltà in Abissinia e in Somalia, provenendo dalle
basi del Kenia.
Rifiutai pertanto di ritornare in Africa e, nonostante fossi libero dal servi- .
zio militare, avendo famiglia numerosa, inoltrai domanda al Ministero della
Guerra di essere volontariamente richiamato in servizio. La mia domanda fu
subito accolta e, dopo una breve permanenza presso il Comando dell'Ottava
Armata, comandata dal Principe Reale Duca di Bergamo, con sede a Bologna, fui inviato in Albania al Comando dell'Intendenza Superiore, agli ordini
del Generale Scuero. Il Corpo di spedizione era comandato dal Generale Cavallero che non sembrava avere certamente le qualità per coprire un incarico
così importante e irto di difficoltà.
Mi fu affidata una parte del servizio trasporti e, per tutta la campagna mi
comportai in modo da meritare gli elogi del mio Comandante e un rapporto
informativo veramente lusinghiero, con proposta di decorazione per merito di
guerra.
Non mi soffermo a raccontare i pericoli corsi, le fatiche durissime, i sacrifici
affrontati; fatto sta che, ultimata la campagna con l'aiuto delle truppe tedesche che attaccarono la Grecia dalla Jugoslavia, fui rimpatriato nel maggio
1941 e, dopo qualche mese, assegnato al Distretto Militare di Reggio Emilia.
***
Fra le forze armate di stanza in città, vi era un Comando di Gruppo dei Carabinieri, con caserma in Via Cairoli, dove sono tuttora e un Comando Legione M.V.S.N., con caserma in Viale Timavo.
La popolazione reggiana, specie nelle campagne, date le circostanze già descritte inizialmente e gli avvenimenti politici di allora, attendeva con impazienza l'avvenimento sospirato: la caduta del fascismo.
I giornali erano scarsi di notizie, ma le voci correvano e si sapeva che a Ro-
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ma le cose precipitavano. L'ultima seduta del Gran Consiglio, diede il colpo di
grazia. Mussolini si dimise dall'incarico di Capo del Governo e tutte le organizzazioni fasciste si trovarono improvvisamente sbandate; poi il crollo. Durante la sera e la notte del 25 luglio, tutti parlavano dell'avvenimento e già si
andavano organizzato i festeggiamenti per la fine della dittatura.
Al mattino del giorno seguente, mi trovavo, come al solito, nel mio ufficio.
Alle ore Il circa, affacciandomi alla finestra che guardava sulla via Emilia, vidi una numerosa colonna di manifestanti con bandiere tricolori che inneggiava alla caduta del fascismo e si stava sciogliendo.
Nel pomeriggio, ricevemmo ordine dal Comando Militare di Zona che aveva sede a Piacenza, di predisporre con le truppe disponibili l'occupazione dei
punti strategici della città e di eseguire il pattugliamento delle strade, giorno e
notte.
Alla sera, mi recai, come al solito, nella mia villa di campagna ad Albinea, a
12 chilometri circa da Reggio, ove si trovavano i miei genitori, mia mogHe e i
miei sette ragazzi. Poco dopo mezzanotte, un sergente del Comando di Presidio, venne a comunicarmi che il Colonnello comandante il Distretto Militare
(1), era stato investito del comando di tutte le truppe di stanza in città e mi
pregava di recarmi subito da lui al palazzo della Prefettura.
------,l'\'\ffppena--giunto, fui messe al corrente della situazione che peraltro non era
affatto chiara, e ricevetti l'incarico di suddividere la città in tre zone: una affidata al 3 0 Reggimento Artiglieria, una al 12 0 Bersaglieri e una terza al Battaglione Automobilisti. Le truppe erano state poste in istato d'allarme e consegnate in caserma.
Predisposi immediatamente lo stato d'operazione informandone i rispettivi
Comandanti che furono riuniti al Comando di Presidio per ricevere gli ordini
del caso, mentre il pattugliamento della città si svolgeva senza soste e picchetti
armati erano stati posti alla Stazione ferroviaria, in Piazza Battisti, al palazzo
Comunale, alla Banca d'Italia e in altre località ritenute importanti.
La popolazione si manteneva calma. La notizia che il Re V. E. III aveva nominato Capo del Governo il Maresciallo Badoglio e che la guerra continuava,
si era diffusa ovunque. Allarmanti notizie però, venivano dalla frontiera con
l'Austria, ove il Comando Supremo Tedesco stava ammassando truppe corazzate ai confini e ciò voleva dire che avrebbero potuto scendere in Italia, con
grave pericolo per tutta la Nazione, ormai sbandata, senza coordinazione di
comandi, senza armi adatte e munizioni sufficienti per un'eventuale difesa.
Caduto il fascismo, il mio primo pensiero fu di riorganizzare le vecchie file
dell' Azione Cattolica che avevo diretto per tanti anni e ancora viveva nel segreto delle Parrocchie nonostante che una legge fascista le avesse sciolte da
tempo. Ne parlai all'amico carissimo prof. Giuseppe Dossetti che abitava poco lontano da casa mia ed egli, dicendosi subito pronto a darmi una mano, mi
informò che i comunisti e i liberali (2), avevano in animo di riorganizzare i
1) Col. Francesco De Marchi. (Le poche note, sono redazionali).
2) Si trattava evidentemente solo di una voce per quanto riguarda i liberali. È notorio che in effetti essi non organizzarono niente e che non furono poi rappresentati neppure nel C.L.N. Provinciale.
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proprii iscritti e sarebbe stato pertanto opportuno costituire una forza politica
di cattolici che, per Reggio Emilia, sarebbe stata una cosa importante.
In pochi giorni, riuscii a ritrovare moltissimi amici sparsi in tutta la provincia e con quelli costituimmo l'ossatura dell'organizzazione che poi prese il
simbolo dello scudo crociato: la D.C.
Organizzai parecchie riunioni, sempre di giorno, in luoghi diversi perché
ogni adunanza non doveva mai svolgersi nello stesso luogo delle precedenti e
ottenni buoni risultati. Con l'aiuto di Dossetti intervennero, alle accennate
riunioni, tutti i nostri vecchi amici e anche personalità molto note, come l'Ono
Fanfani, il Prof. Lazzati dell'Università Cattolica di Milano, il prof. Giorgio
La Pira, l'Ono Micheli di Parma, l'agronomo Farioli di Carpineti, molto autorevole fra le popolazioni della montagna reggiana e altri.
Dopo cinque o sei riunioni, avevamo già disposto in tutta la Provincia una
salda rete di gruppi capeggiati da amici fidati che erano continuamente collegati con noi e raccoglievano aderenti solo se di sicura fiducia.
Anche nelle provincie di Parma, Modena e Bologna, la nostra iniziativa fu
imitata con buoni risultati, ma il domani era molto incerto e i presentimenti
oscuri.
Nonostante le nostre richieste, il Comando di zona di Piacenza non aveva
comunicazioni particolari da trasmettere o rispondeva evasivamente.
Intanto, come si prevedeva, truppe corazzate tedesche delle SS. e reparti di
cacciatori delle Alpi, che potevano considerarsi come i nostri battaglioni alpini, cominciavano a passare i confini, col pretesto di proteggerci da invasioni
nemiche, ma presto ci accorgemmo che il motivo era proprio quello di invadere la penisola e occuparla totalmente.
Alla stazione ferroviaria di Reggio E., cominciarono ad arrivare convogli
carichi di carri armati e truppe in pieno assetto di guerra i comandi delle quali
prendevano possesso delle ville esistenti nelle campagne, abitate o no, installandovisi con minacciosa autorevolezza.
Ciò che sorprendeva e faceva temere serii guai, era anzitutto il motivo per
cui era stato permesso ai tedeschi il passaggio della frontiera e non era invece
stata predisposta ed attuata una forte resistenza che non sarebbe stata difficile; in secondo luogo il pretesto tedesco della difesa del nostro territorio alla
quale avremmo potuto provvedere da soli, sia pure con qualche difficoltà.
Inoltre, cosa pensare della mancanza di notizie esatte, di ordini contraddittori e dell'inerzia assoluta, di fronte al dilagare delle forze tedesche? Le Legioni della milizia fascista, avevano subito preso contatto coi Comandi delle
truppe germaniche e - ciò che si seppe poi - informate della dislocazione
delle nostre truppe, l'entità di esse, le condizioni dell'armamento e ogni altra
notizia su un eventuale proposito di resistenza; tutte cose peraltro che i tedeschi conoscevano alla perfezione.
Il piano germanico era ormai evidente: invasione delle nostre regioni per
impedirci qualsiasi reazione e l'eventuale unione alle truppe alleate; lo sfruttamento dei nostri territorii, compreso il reclutamento di uomini e, nel caso di
rifiuto o resistenza, la deportazione in massa di tutti gli elementi validi al servizio militare: ciò che poi avvenne.
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Ricordo che al mattino dell'8 settembre (avevo dormito a Reggio nella mia
casa di Viale Pasubio 4) mi alzai per tempo e mi recai alla vicina Basilica della
Madonna della Ghiara, che era proprio davanti al Palazzo della Prefettura,
dove era insediato il Comando di Presidio. Nel tempio, si svolgevano le tradizionali funzioni per la ricorrenza della Natività di Maria Vergine e, col pensiero a mia moglie e ai miei ragazzi, che erano alla villa di Albinea, come già detto, pregai con tanto fervore e mi accostai alla Santa Comunione, invocando su
di me e sui miei cari, l'aiuto della Madre Celeste.
Trascorsi la giornata immerso in una tristezza profonda e col pensiero ai
miei cari, senza che nessun avvenimento di rilievo turbasse l'insolita tranquillità, presagio di oscuri avvenimenti.
I militari tedeschi erano scomparsi dalla città e ciò aveva fatto pensare che
qualche cosa di grave stesse maturando. Il Colonnello Comandante di Presidio, era ammalato da diversi giorni ed era stato sostituito dal comandante del
12 o Bersaglieri. Alla sera mi ritirai nella mia casa con tristi presentimenti. Il
nuovo Comandante di Presidio, mi aveva pregato di non allontanarmi e perciò non ero andato a raggiungere i miei.
Dopo mezzanotte, si udì un forte sferragliare di cingoli. Guardai fra le persiane della mia stanza. Lontano, sulla via Emilia, una lunga colonna di carri
armati tedeschi, si dirigeva verso la città, preceduta da una camionetta col Comandante delle truppe germaniche della zona. Passarono sotto la mia casa e
proseguirono verso il centro.
L'ultimo carro armato si fermò nel bel mezzo della strada proprio sotto le
mie finestre, fra le due case che costituivano la porta d'ingresso alla città: Porta S. Stefano.
Ne scese un sottufficiale con un fucile mitragliatore mentre gli altri militari
restarono alloro posto e, guardandosi intorno e ridacchiando, urlò in tedesco
rivolto ai compagni: «Ecco, Reggio occupata». Guardai da tutte le finestre
della mia casa che abbracciava una zona piuttosto vasta, ma ovunque strade
deserte.
Qualche pallottola vagante, fischiò nella notte; lontano lo sgranarsi di armi
automatiche. Mi precipitai al telefono e chiamai il Distretto Militare nella speranza di trovare qualche collega. Il telefonista mi riconobbe dalla voce, ma,
mentre stava per darmi notizie, la comunicazione fu troncata. Capii che i tedeschi avevano già occupato il Distretto.
Restai in casa tutta la notte senza riuscire a chiudere occhio. Sentivo che ormai eravamo nelle mani del nemico perché tale doveva considerarsi da quel
momento, e non vi era altro da fare che seguire la sorte. Sia fatta la volontà di
Dio, pensai, e Gli rivolsi una preghiera perché desse alla mia sposa e ai miei figli la forza di sopportare questo tremendo momento e ciò che ne sarebbe seguito. L'animo mio era già pronto a sopportare la deportazione.
La cattura
Alle 9 del mattino seguente, udii suonare al portone di casa. Mi affacciai:
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era un tenente dei bersaglieri il quale veniva ad avvertirmi che il Comandante
del Presidio mi desiderava alla Prefettura. Scesi e, accompagnato dall'ufficiale, mi incamminai. Una pattuglia tedesca ci fermò. Il tenente che parlava bene
la loro lingua, spiegò dove andavamo. Ci lasciarono proseguire.
Il Comandante del Presidio, Col. Zunin, molto serio e ass~i rattristato, mi
comunicò che durante la notte le SS. germaniche avevano occupato il Distretto, le caserme, i magazzini militari e i punti più importanti. Molti soldati erano riusciti a fuggire, gli altri erano stati fatti prigionieri. Entrambi restammo
muti, col cuore in tumulto e i nervi tesi.
Un'ora più tardi, si presentò un ufficiale superiore germanico con quattro
militi delle SS. e con fare arrogante, ci comunicò che eravamo prigionieri e dovevamo consegnare le armi. Un attimo di incertezza, poi consegnammo le pistole. Restammo soli.
Dopo un po' di tempo, mentre stavo seduto alla mia scrivania col capo fra
le mani, un soldato venne ad avvertirmi che mia figlia Alessandra, era al portone della Prefettura e mi attendeva. Restai molto sorpreso perché i miei cari
erano in campagna nelle colline distanti circa dodici chilometri dalla città ed
era un rischio notevole percorrere le strade. Comunque mi precipitai giù dallo
scalone in fondo al quale c'era una sentinella tedesca che mi lasciò passare.
Abbracciai con trasporto la mia cara figliola, la misi rapidamente al corrente della situazione, le consegnai le chiavi di casa e la pregai di tranquillizzare la
mamma, la zia e i fratelli, raccomandando che questi ultimi stessero nascosti il
più possibile perché i tedeschi avrebbero potuto arruolarli con la forza, senza
tener conto dell'età. Le dissi che non intendevo assolutamente fuggire e volevo
seguire ciò che Dio aveva destinato.
Due volte mi fu offerta da amici, l'occasione di andarmene travestito e mettermi in salvo in qualche modo, ma sempre rifiutai, convinto che avrei potuto
trovarmi in situazioni impreviste e molto più gravi. Nel pomeriggio, un ufficiale austriaco che parlava italiano, (gli ufficiali tedeschi andavano e venivano
a loro piacimento) mi avvicinò mentre passeggiavo per l'ampio corridoio della
Prefettura e mi disse: «Voi siete triste!» «Certo, gli risposi, e come potrei essere diversamente?» «Comprendo» mi soggiunse e si allontanò mettendomi una
mano sulla spalla.
Verso sera, una camionetta tedesca venne a prelevare me e il Colonnello e ci
portò alla Caserma Cialdini, sede del 12° Bersaglieri, dove erano stati radunati tutti gli ufficiali del Presidio. Ricordo che, nel tragitto, la camionetta passò
davanti alla mia casa in viale Monte Pasubio e si può immaginare con quale
animo fissai quelle mura che mi erano così abituali. Una donna che abitava in
una dipendenza della casa ed era sul portone, mi riconobbe e mi guardò a lungo, facendomi un gesto con la mano.
Come già riferito, ebbi la fortuna di avvicinare mia figlia maggiore che, con
coraggio, era venuta da Albinea in bicicletta, correndo anche qualche rischio,
perché la milizia fascista, che si era risvegliata all'arrivo dei tedeschi, pattugliava le strade chiedendo i documenti di identificazione a quei passanti che
attiravano l'attenzione.
La maggior parte dei militari di truppa e dei sottufficiali dei reggimenti di
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stanza a Reggio, eran riusciti a fuggire aiutati dovunque dalla popolazione.
Solo un numero relativamente piccolo era stato fatto prigioniero.
IlIO settembre, tutti gli ufficiali riuniti alla caserma Cialdini, furono inquadrati e avviatì alla stazione ferroviaria sotto la scorta armata dei militari tedeschi e fatti salire su un convoglio già pronto e formato da pochi vagoni passeggeri diretto a Mantova, come ci disse un ferroviere al quale avevamo chiesto
notizie.
Non è facile descrivere lo stato d'animo di tutti gli ufficiali che erano stati
catturati. Eravamo poco più di una trentina perché alcuni erano riusciti a dileguarsi e a nascondersi ancor prima che le truppe tedesche entrassero nelle caserme.
Il treno che ci trasportava a Mantova, era già partito. Sul volto di tutti si
scorgeva un profondo abbattimento e l'ansia per l'incertezza della sorte che ci
attendeva. Si scambiavano pochissime parole; solo il Colonnello Zunin si
rammaricava vivamente di non aver reagito in qualche modo col suo reggimento di bersaglieri e noi cercavamo di fargli comprendere che sarebbe stato
impossibile ottenere risultati positivi e tutto si sarebbe risolto in un inutile
spargimento di sangue, tanto più che nelle vicinanze della caserma, oltre alle
abitazioni civili, vi era l'ospedale che confinava proprio con la caserma stessa.
Infatti i tedeschi avevano piazzato parecchi carri armati lungo i viali di circonvallazione che fiancheggiavano i fabbricati che costituivano il Comando,
gli alloggi, l'armeria, i magazzini e i vari servizi del reggimento; e avevano
puntate le artiglierie semoventi contro gli edifici. Sapendo che l'unico nucleo
solido in grado di opporre una certa resistenza, era quello dei bersaglieri, reparti corazzati germanici avevano anche occupato quella parte di via
dell'Ospedale che costituiva la facciata della caserma in modo da circondarla
quasi completamente.
Sarebbe stato assurdo pensare a qualche resistenza che peraltro non avrebbe
ottenuto alcun risultato, tanto più che i tedeschi non avrebbero esitato un
istante a distruggere la caserma, parte dell'ospedale e delle case vicine, con un
numero imprevedibile di vittime innocenti.
Ciascuno di noi, cercava di nascondere in parte la propria angoscia, ma l'atteggiamento e le scarse parole pronunciate, dimostravano che tutti avevano la
mente e il cuore rattristati da funesti presagi.
Nel convoglio, vi erano anche militari di truppa, molti dei quali catturati alla stazione di Reggio Emilia mentre cercavano di salire su treni locali e nascondersi fra i vagoni in sosta. Furono anche catturati e fatti salire sul nostro convoglio, giovani in borghese che arrivavano dalla provincia. Molti di essi si erano accorciati i pantaloni, come usavano allora i ragazzi, per sembrare più giovani e non ancora idonei al servizio militare, ma ci voleva ben altro per ingannare la polizia militare tedesca in agguato ovunque.
Dopo un'ora circa dalla partenza, arrivammo alla stazione di Mantova e
con autocarri fummo trasportati alla caserma del Reggimento di fanteria colà
di stanza, dove venimmo rinchiusi in una parte isolata e circondata con rete
metallica e filo spinato. I soldati e graduati di truppa erano stati rinchiusi altrove. Ci assegnarono alcune camerate vuote ove per fortuna vi erano brande
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con materasso, ma senza coperte.
Ricordo il capitano Morselli di Reggio che conoscevo benissimo e che si
adoperava per 1'assistenza religiosa ai deportati, dato che fra noi vi erano due
cappellani militari. Un po' di cibo ci venne somministrato verso sera, ma poco
aveva a che fare col solito rancio della truppa. Pane scarsissimo, qualche pezzo di patata galleggiante insieme alle bucce in un liquido scuro che sapeva solo
di sale.
Eravamo frastornati, tristi, quasi incapaci di connettere e camminavamo su
e giù per gli ampii cortili col pensiero fisso alle nostre famiglie, struggendoci
per trovare un modo qualsiasi per avere notizie e trasmetterle.
Parecchi borghesi, uomini e donne, sostavano davanti ai cancelli della caserma, forse in cerca dei loro congiunti, ma non si poteva comunicare con essi
per la dura sorveglianza delle sentinelle tedesche. A gesti e con parole gridate
da lontano, provai a farmi capire, ma non riuscii a nulla.
Restammo rinchiusi in quella caserma due o tre giorni, poi il14 mattina, alle Il circa, fummo trasportati alla stazione dove sostava un treno vuoto formato da vagoni bestiame e poche vetture passeggeri. Riuscii a trovar posto in
un normale vagone di III classe insieme ad altri ufficiali. Mi assestai alla meglio vicino allo sportello ed ero molto in pensiero per i miei famigliari ai quali
non potevo inviare notizie.
Ad un tratto sentii pronunciare il mio cognome da un ferroviere che passava
di vagone in vagone e, alla mia risposta, mi comunicò che, lontano pochi metri, vi erano i miei famigliari che cercavano disperatamente di vedermi.
Non esitai un istante e, fattomi indicare il punto esatto, mi precipitai di corsa accompagnato dai ferroviere, rischiando la reazione di qualche sentinella
tedesca. Dietro un muretto, vidi subito mia moglie e mia figlia Alessandra.
Non è possibile descrivere e immaginare il nostro stato d'animo. Ci abbracciammo con tutto il trasporto suscitato da quel momento inatteso.
Rapidamente misi mia moglie al corrente di quanto sapevo ed ella mi rassicurò riguardo agli altri miei figlioli e alla zia e mia figlia mi consegnò un sacco
da boy,scout con provviste e vestiario, poi, sempre accompagnato dal ferroviere, riuscii a ritornare nel mio vagone.
Poco più tardi, sempre con l'aiuto del buon ferroviere, mia moglie e mia figlia riuscirono a raggiungermi e a sostare sul poco spazio che divideva i binari.
Con estrema trepidazione, mia moglie mi fornì notizie più dettagliate dei miei
ragazzi e dei miei parenti e io le consegnai 1'orologio da polso, certo che qualche tedesco me lo avrebbe tolto. Confortai i miei cari come era possibile fare
in quel momento e diedi loro tutti i consigli che mi venivano alla mente, assicurando che, appena mi fosse capitata l'occasione, avrei dato mie notizie; comunque stessero tranquilli perché 1'aiuto di Dio, non mi sarebbe mancato.
Non era possibile prevedere dove ci avrebbero portato, comunque era evidente che saremmo stati deportati in Germania. Poco dopo il treno si mosse. I
miei cari restarono ammutoliti e piangevano agitando le mani in segno di saluto.
Seppi poi al mio ritorno che a stento e con grande fatica mia moglie e mia figlia riuscirono ad uscire dal groviglio dei binari e costrette ad arrampicarsi su
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un muro che divideva la ferrovia dalla strada, sospinte dalle sentinelle tedesche che sghignazzavano e minacciavano con quella brutalità che le distingueva.
Il treno proseguiva a velocità ridotta attraversando campagne e piccoli paesi
diretto verso la frontiera austriaca. A poco a poco però, si levò una nebbia fittissima, tanto che il convoglio dovette rallentare fino quasi a procedere a passo d'uomo.
Pensai subito che sarebbe stato facile scendere dal treno e lasciarsi cadere
sulla scarpata della linea ferroviaria coperta letteralmente di alte erbe e arbusti
che avrebbero non solo attutita la caduta, ma facilitato il nascondersi. Mi trattenne il pensiero fisso di seguire ad ogni costo il mio destino e anche il timore
che qualche sentinella di scorta al convoglio, appollaiata in una delle torrette
di qualche vagone, scorgesse qualche movimento e si mettesse a sparare.
I miei compagni di viaggio, erano in condizioni di tale sconforto che non
parlavano e tanto meno potevano pensare di tentare una eventuale fuga.
A notte inoltrata, giungemmo alla stazione di Villach, che, se non erro, doveva essere la prima stazione austriaca di una certa importanza dopo il confine. Rammento che mi fecero cupa impressione i fischi rochi e lugubri delle locomotive austriache in movimento. Dai vagoni bestiame, che facevano parte
del convoglio, anch'essi occupati da ufficiali, venivano grida di aiuto e di
chiamata perché molti dovevano soddisfare i proprii bisogni corporali.
Dopo una lunga sosta, il treno proseguì ancora per parecchie ore, fino a che
si fermò vicino ad una piccola stazione ove fu concesso ai deportati di scendere per le proprie necessità, sotto la sorveglianza delle sentinelle. Lo spettacolo,
oltre ad essere ripugnante, dimostrava la barbarie dei germanici. Le nostre
proteste, non venivano neppure ascoltate.
A giorno inoltrato, durante una breve fermata in una stazione secondaria,
ci venne somministrata una «sbrodiglia» di piselli tritati, insieme ad un liquido di colore strano e di sapore indefinibile. Per fortuna i miei cari che avevo
potuto avvicinare a Mantova, insieme alle altre cose, avevano messo nel sacco
che mi era stato consegnato, una vecchia gavetta militare che mi servì moltissimo per tutto il lungo tempo della deportazione.
Consumato il liquido pasto, fummo fatti risalire in treno e il viaggio continuò ancora per due giorni, sempre in condizioni peggiori e quasi completamente privi di nutrimento, fino a che giungemmo alla stazione di Meppen in
Olanda, ove fummo fatti scendere e rinchiusi in una vecchia caserma situata
poco lontano dalla stazione medesima.
Ci accolsero ufficiali tedeschi in divisa bianca e il Comandante del campo si
scusò con noi dicendo che non sapeva del nostro arrivo e che ci dovevamo accontentare di quello che era stato possibile preparare. Naturalmente tutto questo era una delle solite menzogne di cui i tedeschi sono semI're stati maestri,
come nell'inganno e nella crudeltà.
Dopo una dura notte insonne, nelle prime ore del mattino, fummo fatti risalire in treno già stanchi di un viaggio che durava da diversi giorni e molto tristi per non avere la possibilità di sapere dove sarebbe finito il nostro calvario.
Quanti giorni durò il viaggio da Meppen alla nuova destinazione, non posso
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ricordare perché il nostro stato d'animo e la nostra prostrazione, erano tali da
farci quasi perdere la nozione del tempo. Comunque fu certamente della durata di diversi giorni perché attraversammo tutta la Germania fino a giungere in
Polonia.
Rinchiusi in vagone bestiame, in numero non inferiore a 50 unità, assillati
dalla fame e soprattutto dalla sete, con l'animo straziato e pieno di disprezzo e
di schifo per i nostri persecutori, trascorremmo giornate indescrivibili e umilianti.
Ogni sofferenza fisica, e tante ne abbiamo dovuto sopportare, era nulla in
confronto delle sofferenze morali che ci infliggevano i nostri aguzzini, i quali,
nei momenti più penosi, sghignazzavano minacciando ci e offendendoci in tutti i modi.
I soprusi, le angherie, le crudeltà, gli scherni, le umiliazioni che si dovevano
subire, non si possono immaginare. L'animo dei soldati tedeschi e dei loro ufficiali era brutale sotto ogni aspetto e ciò è il meno che si possa dire.
Ad esso faceva riscontro il nostro disprezzo più evidente e il nostro indicibile odio, specialmente perché, non solo non eravamo trattati come prigionieri
di guerra, bensì come traditori, calpestando ogni norma della convenzione di
Ginevra e sottoposti al metodo della minaccia e della violenza.
Finalmente, dopo un interminabile viaggio, arrivammo stremati alla stazione di Przemysl.
Al campo di concentramento di Przemysl
La cittadina di Przemysl, quasi isolata nella campagna Polacca, era, un
tempo, una fortezza circondata da rada vegetazione e popolata da uno scarso
numero di abitanti, la maggior parte contadini.
Eravamo in autunno e il paesaggio si presentava brullo e un po' nebbioso.
Fummo fatti scendere dai vagoni in condizioni indescrivibili, stanchissimi per
il lungo viaggio e stremati di forze; incolonnati e, scortati da soldati tedeschi
armati, avviati a piedi per una strada sconnessa, al campo di concentramento
che distava qualche chilometro.
Parecchie contadine, con canestri ripieni di mele e altre cibarie, si misero a
fianco della colonna facendoci capire a gesti, che volevano rifornirci di ciò che
avevano, nonostante le urla e le minacce della scorta. Infatti riuscirono a distribuire frutta e pane, gettandoli in mezzo alla colonna. Qualcosa andò perduto, ma la maggior parte poté essere raccolta da noi che avevamo lo stomaco
vuoto da diversi giorni. Riuscii a raccogliere un pezzo di pane e alcune mele
che nascosi nelle tasche, senza tralasciare di mangiarne qualcuna.
Ad un certo momento, la scorta armata tedesca mise in fuga le povere contadine che avevano dimostrato tanto senso di umanità, ma ormai eravamo
giunti nei pressi del Lager. La colonna fu fermata davanti ai doppi cancelli
con filo spinato e, a gruppi, ci fecero entrare e percorrere un vasto e lungo
spiazzo circondato da baracche in legno, davanti alle quali erano radunati altri ufficiali italiani deportati come noi e arrivati il giorno prima.
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Fra essi, riconobbi subito il Colonnello di artiglieria Sergio Bernini, di Carpi, mio compagno di corso alla Scuola Allievi Ufficiali di Brescia. Mi riconobbe e mi fece un cenno di saluto.
Giunti davanti alle baracche a noi assegnate, ci contarono e ci indicarono
dove dovevamo sistemarci. L'interno di queste costruzioni di legno, era spoglio di tutto, sporco, squallido e dovevamo quindi assestarci sul pavimento,
come meglio si poteva. Una tensione piena di tristezza gravava sull'animo di
tutti. Quasi in silenzio, perché si parlava fra noi sottovoce, fra le urla bestiali
dei tedeschi, preparammo una specie di giaciglio usando i nostri poveri abiti:
la giacca ripiegata più volte per appoggiarvi la testa, il resto, per chi lo aveva,
per coprirci alla meglio. Ringraziavo il Cielo e i miei cari che a Mantova mi
avevano rifornito delle cose più necessarie, fra cui un impermeabile vecchio,
ma in ottime condizioni.
Il sonno ci colse per l'estrema stanchezza, nonostante le pulci e le cimici che
ci presero d'assalto e i topi che gironzolavano fra noi in cerca di cibo. Al mattino i soldati tedeschi ci svegliarono brutalmente battendo col calcio dei fucili
sul pavimento e urlando, poi ci distribuirono una sporca bevanda scura che gli
aguzzini chiamavano «caffè» e altro non era che una specie di decotto di foglie di pino, mescolato a chissà quali altre cose.
Rassettammo alla meglio i nostri posti, poi fummo chiamati fuori per il così
detto appello di controllo e la perquisizione.
L'appello di controllo consisteva nel farci raggruppare per baracca in file di
cinque. Il comandante del campo, passando davanti ad ogni gruppo, contava
il numero dei presenti per verificare se corrispondeva a quello dei deportati assegnati a ciascuna baracca. Tutto questo avveniva fra comandi incomprensibili, urla e certamente parolacce che solo qualche ufficiale italiano che conosceva la lingua, poteva capire.
La perquisizione che ne seguì, consisteva nel metterci in colonna con le nostre povere cose contenute negli zaini o in sacchi occasionali che qualcuno aveva potuto rimediare. Ad uno, ad uno, ci si fermava davanti ad una rozza tavola posta di fronte alla baracca. Una sentinella rovesciava sulla tavola stessa i
nostri contenitori, rovistando tutto e asportando quanto a suo criterio - e
possiamo immaginare quale - credeva fosse irregolare.
Ricordo che tolse dal mio piccolo zaino, due candele, una scatola di cerini,
alcuni bottoni e alcuni foglietti dove avevo scritto qualche appunto, per mia
fortuna non compromettente.
Il giorno seguente, ci divisero ancora: gli ufficiali di Stato Maggiore, da una
parte, gli ufficiali superiori in un'altra baracca e gli ufficiali inferiori in altre
poste lungo il bordo destro del grande cortile.
Girando qua e là, un po' per curiosità, un po' per cercare di capire l'ubicazione del campo, incontrai l'ing. Siliprandi di Reggio che aveva il grado di
Maggiore del Genio. Ci conoscevamo da molto tempo, prima della guerra perché aveva anche lui una villa ad Albinea, non lontano da quella dove risiedevano d'estate i miei cari.
Ci salutammo fraternamente e cominciammo a raccontarci le nostre dolorose peripezie. Anche lui aveva preferito seguire la sua sorte, pur potendo fug-
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gire prima della cattura e nascondersi. Era stato fatto prigioniero nei pressi di
Bologna ove era di stanza un reparto del genio pontieri. Conosceva mia moglie e soprattutto mia cognata che conobbe a Piavon, vicino a Treviso, durante la guerra 1915-1918, dopo Caporetto. Fra le tante cose che mi raccontò, mi
disse che nei momenti di maggiore sconforto, andava a sedersi in quello che
lui chiamava «il parco delle rimembranze» che era un piccolo spiazzo situato
da un lato del campo con alcune piante di betulle che confinava con la campagna dalla quale era separato da un doppio filo spinato e alte reti metalliche.
Vigilavano, lungo queste siepi, sentinelle tedesche dall'alto di torrette di legno, elevate circa otto o dieci metri su tralicci di tronchi d'albero solidamente
uniti tra loro. Alla torretta, ove era installato un riflettore per illuminare il
campo nella notte, si accedeva mediante una scala a piuoli.
L'amico e compagno di deportazione, Siliprandi, volle portarmi a vedere il
luogo indicatomi e io lo seguii più per compiacenza che per curiosità. Quel
luogo ispirava tristezza e non comprendevo davvero quali ispirazioni potesse
suscitare, se non di estrema malinconia. Bisogna però tener presente che il nostro stato d'animo era cosÌ depresso, da spinger ci a ricercare e ritrovare in luoghi e cose, tutto ciò che poteva riempire l'animo di cari ricordi.
Eravamo in ottobre inoltrato e, in Polonia ciò voleva dire essere alle porte
dell'invern~. Talvolta un pallidissimo sole faceva capolino fra la foschia, illuminando di una luce rosso-giallastra le nostre baracche e, alla sera specialmente, un pallido e brumoso tramonto avvolgeva il campo. La temperatura non
era ancora invernale, ma nelle prime ore del giorno e alla sera, faceva piuttosto freddo e nelle ossa penetrava l'umidità dell'aria.
Avvicinandosi l'inverno, il Comando tedesco del campo, in una delle solite
adunate giornaliere, fece distribuire a tutti i deportati che ne erano privi, dei
cappotti militari appartenenti alle truppe da loro sconfitte. Ai morti e feriti,
veniva tolto tutto: armi, munizioni e spesso vestiario ritenuto superfluo.
A me toccò un pastrano militare russo, di colore marrone e di stoffa grossa,
ruvida e pesante. Non potendo scegliere, in mancanza d'altro, poteva andare,
specialmente perché mi avrebbe riparato abbastanza bene dal freddo. Da un
lato, aveva una larga macchia di sangue che invano io tentai, lavando e rilavando, di togliere. In corrispondenza della schiena, dietro le spalle, era impresso il marchio dei deportati: «Criengefangen».
Questa scritta, impressa in tutti gli indumenti distribuiti, rappresentava una
menzogna, perché non eravamo stati fatti prigionieri in combattimento, bensÌ
deportati con la forza. Come già accennato, i tedeschi ci consideravamo e ci
trattavano come traditori non avendo voluto schierar ci a loro fianco per combattere gli alleati.
Essi non volevano assolutamente considerare che, proprio con l'invasione
dell'Italia, da tempo premeditata e preparata, avevano provocato la nostra
naturale e santa reazione che doveva sfociare nella resistenza e nella lotta partigiana.
Nella baracca dove mi trovavo, eravamo circa una quarantina, quasi tutti
col grado di Colonnello o Tenente colonnello; pochi col grado di maggiore.
Fra noi si era formato un gruppo di sette o otto ufficiali fra i quali vi era un
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Colonnello degli Alpini, già direttore della Scuola Militare di Modena, di carattere bonario, cortese, sereno e che sapeva sostenere l'animo di tutti e vincere la invadente malinconia che dominava sulla comunità.
Si passava il tempo a leggere quello che capitava per mano, libri o romanzi
che qualcuno aveva portato con sé; a giocare alle carte e a passeggiare per il
cortile, ma salvo quei pochi momenti nei quali qualcuno riusciva a distrarsi un
po', la maggior parte della giornata trascorreva nella tristezza più ansiosa col
pensiero fisso alle nostre famiglie di cui non avevamo notizie.
Un giorno, durante una delle solite adunate di controllo, un sottufficiale tedesco distribuì un poco di corrispondenza che era arrivata non si sa come. Fui
chiamato anch'io e con mio grande stupore, mi fu consegnata una cartolina
con due righe di mia cognata la quale mi assicurava che i miei cari stavano bene e mi infondeva coraggio.
Rimasi un po' sconcertato da quella corrispondenza inattesa, comunque mi
fu gradita nonostante avessi preferito ricevere qualche notizia direttamente da
mia moglie e dai miei figli. Il guaio era che, nonostante le nostre insistenti richieste, non potevamo scrivere e comunicare con nessuno.
I giorni passavano, nebbiosi, tristi, monotoni e con tanta malinconia nel
cuore, nonostante ci facessimo forza e ci cullassimo nella speranza che la guerra sarebbe finita abbastanza presto. Sembrerà strano, ma più volte, sommerso
nei miei pensieri, mi chiedevo quanto tempo sarebbe durata questa dura e dolorosissima deportazione. «Due anni, mi rispondevo in fondo al cuore, ... due
anni!» Mi sentivo profondamente scoraggiato, ma ... era come un incubo. Il
triste presentimento di quello che avvenne realmente.
Eravamo ormai nella prima decade di novembre 1943 e circolavano voci di
un prossimo trasferimento in altro campo e in altra località. Infatti, alla metà
del mese circa, arrivò l'ordine di spostamento. Improvvisamente ci fecero preparare, ci inquadrarono, ci perquisirono minuziosamente, ci divisero in gruppi e, a piedi, ci incamminarono verso la stazione ferroviaria, sempre dietro
scorta armata. Su un binario era pronto un treno fortunatamente formato da
diverse vetture di III classe. Saliti sul convoglio, fu dato quasi subito il segnale
di partenza.
Dopo qualche ora, giungemmo alla stazione di Czestochowa. Antica città
della Polonia sud orientale, si presentava allora con vecchi palazzi e case grigie, vie discretamente larghe, qualche viale alberato, popolazione piuttosto
numerosa, in cui, specie in periferia, abbondavano i contadini. Come oggi,
era molto nota per il tempio della «Madonna Nera» assai venerata dai polacchi e meta di molti pellegrinaggi, specie in certi mesi dell'anno.
Il tempio è di stile orientale con guglie aguzze e una facciata un po' pesante
con bassorilievi complessi. Tutto ciò s'intende, per quanto noi potemmo scorgere passandogli dappresso e potemmo capire nelle condizioni in cui ci trovavamo.
Scesi dai vagoni, inquadrati e incolonnati, sotto numerosa scorta armata,
attraversammo una parte della città fino a che arrivammo allager dove eravamo destinati.
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Il Lager della «Nord Kaserne»
La «Nord Kaserne» ove, dopo 1'8 settembre 1943, i tedeschi avevano concentrato la maggior parte degli ufficiali superiori dell'esercito italiano catturati nella Slovenia, in Balcania e nell'Italia settentrionale, consisteva in fabbricati massicci e tetri, divisi da cortili e più adatti ad ospitare galeotti che militari.
Davanti al fabbricato principale, vi era uno spiazzo assai largo in parte alberato e lungo dall'ingresso fino in fondo al campo. Sul retro, dopo un altro
cortile di dimensioni un po' inferiori al precedente, vi erano altri fabbricati
più bassi dove erano sistemati i servizi e gli alloggi dei soldati italiani, deportati come noi, che dovevano accudire ai servizi stessi.
Sul fabbricato principale, composta da diverse costruzioni unite fra loro e
chiamate «blocchi» si aprivano porte massicce munite di grossi catenacci, che
davano accesso alle rampe di scale che portavano ai diversi piani, non superiori a tre.
Nella maggior parte dei «blocchi» al primo piano vi erano stanze di diversa
grandezza con lettini di legno a due posti uno sull'altro. Tavolette di legno con
sacconi di foglie secche, costituivano i giacigli.
Ogni stanza poteva alloggiare da sei a otto persone e vicino ad ogni gruppo
di ambienti, vi erano gli orinatoi, gabinetti senza porte e grandi lavatoi che potevano anche consentire il lavaggio dei nostri indumenti.
I piani superiori, presentavano grandi stanzoni con giacigli come quelli descritti e un certo numero di servizi assai scarsi in relazione ai posti letto.
Nell'ampio e massiccio fabbricato già descritto, due grandi androni a volta,
mettevano in comunicazione col cortile retrostante. In questo secondo cortile,
come già detto, vi erano i magazzini, le cucine, le prigioni di isolamento e gli
alloggi per i soldati italiani che dovevano accudire alla pulizia del campo, degli
alloggi ufficiali, sottufficiali e soldati tedeschi, alla preparazione del rancio
per i deportati e tutti gli eventuali lavori di fatica, come lo scarico dei carri che
portavano viveri o materiali, alla raccolta delle patate nelle campagne circostanti ecc.
Arrivati all'ingresso del campo di concentramento, ogni gruppo di ufficiali
veniva fermato fra due ordini di cancelli. Il primo piuttosto alto, di struttura
massiccia, munito di doppio filo spinato, congegni di chiusura a stanga e grossi lucchetti. Il secondo, posto circa a dieci metri, più o meno della stessa natura, oltre al filo spinato portava anche una fitta rete metallica.
Sulla destra dell'ingresso, dopo i cancelli, vi era una specie di palazzina ove
erano situati gli uffici e l'alloggio del Comandante. In una dipendenza, alloggiavano i militari tedeschi, tutti anziani e più o meno menomati per cause di
guerra, i quali provvedevano alla sorveglianza diurna e notturna.
Al mio gruppo fu assegnato il VI blocco che era l'ultimo del fabbricato principale e poco lontano dal confine con la campagna e ove si ergeva una torretta
con garitta alta più di 10 metri sulla quale sostava perennemente una sentinella,
armata e munita di riflettore per l'illuminazione notturna dello spazio circostante. Vi erano anche, lungo i bordi del campo, torrette con mitragliatrice.
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Vicino alla torretta già descritta, vi era anche un cancello di dimensioni inferiori agli altri, ma costruito allo stesso modo che serviva per accedere ad un
ampio spazio di terreno privo di costruzioni dove -lo sepemmo poi - vi erano sepolti in fosse comuni chissà quanti deportati o prigionieri.
Fui fortunato nell'assegnazione del posto: al secondo piano, nella seconda
stanza a sinistra della porta d'ingresso, ci fecero entrare in cinque. lo, il colonnello dei bersaglieri Zunin che era con me a Reggio E., un altro colonnello dei
bersaglieri, romano, molto buono e generoso e altri due colonnelli di fanteria
uno dei quali era già stato prigioniero degli austriaci, durante la guerra 1915-18.
I posti, erano sei e in quello vuoto, mettemmo i nostri sacchi e le nostre povere cose. Da un lato della stanza una specie di tavolo basso, con cinque panchetti di legno un po' sconnessi, costituivano l'unico arredamento. Una finestra a vetri illuminava scarsamente il locale durante il giorno; per la sera e la
notte, una vecchia lampadina era installata al centro dell'alto soffitto. Vicino
ad una grossa trave di legno posta da un lato e che faceva da pilastro, vi era
una stufetta di ghisa per il riscaldamento.
Ci sistemammo come si poteva cercando di disporci nel miglior modo possibile giacché si pensava che, nonostante le nostre speranze, in quel campo saremmo rimasti parecchio tempo e l'inverno sarebbe stato duro e lungo. lo poi,
avevo fisso nella mente che il nostro calvario, sarebbe durato due anni o più.
Prendemmo contatto con altri ufficiali delle stanze vicine in una delle quali
ritrovai l'amico carissimo colonnello Bernini di cui parlai nella descrizione
dell'arrivo al Lager di Przemysl. Era insieme al colonnello Trebbi di Modena
che aveva una gamba di legno.
Era stato ferito durante la guerra e, dopo lungo tempo trascorso all'ospedale militare, gli era stato applicato l'apparecchio e assegnato, dietro sua domanda, ai servizi sedentari e fatto prigioniero dai tedeschi la notte fra 1'8 e il 9
settembre.
Ritrovai anche il colonnello Lupi che a Reggio Emilia comandava il 15°
Reggimento Artiglieria da campagna. Ci salutammo cordialmente ed egli, fra
l'altro, mi comunicò che era stato assegnato ad un altro blocco poco lontano
da quello dove io mi trovavo. Era molto male in arnese, assai depresso, malaticcio e preoccupato perché quel clima non era certo adatto per la sua salute.
Ricordo che alla stazione di Mantova, poco prima della partenza del treno
che ci avrebbe trasportato così lontano, nei pochi minuti in cui potei avvicinare mia moglie e mia figlia, la consorte del colonnello Lupi raccomandò ai miei
cari di darle notizie di suo marito qualora le avessero ricevute anche da me. La
povera signora era assai triste ed esprimeva il timore di non rivedere più il suo
consorte. Purtroppo, non poté sopravvivere e morì di malattia polmonare,
dopo lunghe sofferenze.
Dopo due giorni dall'arrivo, tutti gli ufficiali internati erano stati sistemati
definitivamente: gli ufficiali inferiori, nei primi blocchi vicino ai cancelli
d'uscita (furono poi trasferiti in altri campi) i capitani e maggiori nei blocchi
centrali; i tenenti colonnelli e i colonnelli nell'ultimo blocco dove ero io.
Gli ufficiali di stato maggiore erano stati riuniti in un unico locale, quasi al
centro del fabbricato; i cappellani militari in stanze al piano terreno del IV
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blocco, anch'essi quasi al centro della costruzione. Ogni gruppo ufficiale aveva un capo gruppo designato dal Comandante del Campo o dai suoi aiutanti.
In due locali a piano terreno del II Blocco, vicino all'androne che comunicava con l'altro cortile, era stato istituito una specie di ufficio postale ove si
preparavano le cartoline da distribuire ai deportati per la corrispondenza con
le famiglie e i moduli da spedire per la ricezione dei pacchi viveri. È bene dire
subito a questo proposito che, per quanto riguarda i pacchi, la spedizione dei
moduli era un imbroglio perché l'arrivo dei pacchi stessi, non solo fu molto
scarso, ma molti di essi non furono neppure distribuiti.
Ormai l'inverno, il crudo, rigidissimo e umido inverno polacco, era cominciato e faceva molto freddo. Per fortuna avevamo i pastrani che ci avevano distribuito nel campo precedente ed io cercai di nuovo, senza riuscirvi, di levare
le macchie di sangue che erano sul mio, poi dovetti attendere due giorni perché
si asciugasse e ripararlo presentando qualche strappo, specialmente nelle tasche.
La riparazione non fu difficile perché, nel mio indimenticabile sacco da
montagna, consegnatomi a Mantova dai miei cari, vi era anche un po' di filo
robusto e qualche ago.
Il cielo era prevalentemente grigio e nessun spiraglio di sole veniva a riscaldare e a sollevare il depresso spirito degli internati che cercavano in ogni modo
di passare il tempo con qualsiasi occupazione per non lasciarsi prendere dalla
malinconia e dall'angoscia che spesso attanagliava l'animo con tristi pensieri.
Ciò che più ci rattristava era naturalmente la sorte delle nostre famiglie di cui
non avevamo notizie e la cupa incertezza del nostro avvenire ..
Si sperava nella fine prossima della guerra, ma questa speranza era dettata
più che altro dall'ardente desiderio di porre fine alla nostra situazione, perché
era evidente che sarebbe passato ancora molto tempo prima che gli alleati potessero schiacciare l'esercito tedesco. Tutti, anche se non volevamo parlarne,
avevamo il presentimento che altre dure prove avremmo dovuto superare e
che non tutti avremmo avuto la fortuna di ritornare alle nostre case.
Devo confessare che io ero però animato da una prepotente volontà di sopravvivenza e, pur avendo il cuore profondamente rattristato, mi sentivo la sicurezza che un giorno sarei ritornato alla mia casa, in seno alla mia famiglia.
Questa certezza mi era data soprattutto dalla Fede che la mia indimenticabile mamma mi aveva inculcato fin da bambino e dalla ferma convinzione che il
Supremo Iddio avrebbe ascoltato le mie povere preghiere e quelle dei miei cari
e che la Vergine Santa mi avrebbe guidato e protetto in ogni situazione e in
ogni pericolo.
Questa sicurezza che mi infondeva anche una certa serenità, cercavo di trasmetterla ai miei compagni, specialmente agli ufficiali più giovani che erano
quelli che soffrivano di più e più di tutti sentivano il peso della deportazione.
Ogni giorno, dopo l'adunata di controllo del mattino, eravamo liberi di passeggiare per il cortile principale e spesso mi recavo dove erano i tenenti e sottotenenti, con alcuni dei quali avevo stretto rapporti di amicizia e mi intrattenevo con loro a parlare delle nostre tristi vicende e li rincuoravo, li esortavo a
non perdersi d'animo, a non lasciarsi vincere da eccessiva tristezza e ad aver
.)
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ferma fiducia che la nostra tristissima situazione sarebbe terminata in un tempo forse più breve di quello che si poteva prevedere.
Le mie parole, che esprimevano una certezza inconsueta, portavano spesso
sollievo a quei ragazzi non abituati alla sofferenza e tanto meno ad una sofferenza del genere che, oltre ad essere dura, era resa più amara dalle improvvise
e per molti impreviste circostanze in cui gli avvenimenti si erano così rapidamente succeduti.
Anche ad altri miei compagni di deportazione, di maggiore età, rivolgevo le
mie esortazioni e le mie parole di conforto. Devo dire che, nell'esercitare questo compito di carità e di sollievo di una sofferenza indicibile, provavo un senso di maggior fiducia nella Divina Provvidenza ed anche in me stesso e trovavo maggior forza e vigore per essere sereno e per sopportare ogni sofferenza
con ferma rassegnazione.
È impossibile avere oggi un'idea precisa e completa dello stato d'animo di
noi poveri internati. Pochi avevano la forza di reagire positivamente alla cupa
tristezza che invadeva gli animi e alla forza dei ricordi, degli affetti e dei sentimenti che talvolta le circostanze stesse facevano prevalere.
Tutto ciò che era avvenuto dall'8 settembre 1943 anche se dalla maggior
parte di noi previsto e temuto, aveva scosso gli animi profondamente ed era
comprensibilmente assai difficile suscitare in noi stessi una reazione che ci rinc~orasse e che ci ridesse fiducia, tanto più che eravamo assolutamente impossibilitati ad intraprendere qualcosa che ci aiutasse a cambiare la nostra situazione e che rappresentasse uno scopo preciso e positivo a tanta sofferenza.
Non era possibile considerarci «prigionieri» perché non solo non eravamo
tali, ma non venivamo neppure trattati secondo le leggi internazionali, bensì,
come ho già scritto, considerati «traditori» in quanto, anziché combattere coi
tedeschi barbari e oppressori, avevamo preferito cercare quella neutralità che
avrebbe potuto risollevarci dalla situazione in cui l'improvvisa caduta del fascismo aveva precipitato il paese.
Sapevamo bene che la nostra posizione di deportati contribuiva a dimostrare che il popolo italiano era nella sua stragrande maggioranza antifascista e
stanco di vent'anni di dittatura, ma soprattutto sottraeva un imponente numero di uomini ai piani di Hitler il cui proposito era da tempo, non solo d'impadronirsi dell'Italia, ma di gettare nella fornace, contro gli alleati, una forza di
almeno 800.000 uomini.
Tuttavia avremmo pur voluto fare qualcosa di più, qualcosa che contribuisse a risollevare la triste sorte della nostra martoriata Patria. I nostri discorsi e
le nostre considerazioni, ci facevano capire peraltro che, frazionati come eravamo in tanti campi di concentramento, sorvegliati a vista dagli aguzzini tedeschi che in ogni occasione non ci risparmiavano atroci offese e sarcasmi, non
avremmo avuto la possibilità di portare il più piccolo contributo alla causa
della libertà del nostro Paese.
Solo una cosa potevamo fare; e si può dire che tutti lo facevano: disprezzare
il tedesco con tutte le nostre forze dimostrandogli la nostra avversione e il nostro coraggio, sopportare con rassegnazione, dignità e ferma volontà le nostre
pene talvolta estenuanti ed aspettare che gli eventi facessero il loro corso per-
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ché la nostra deportazione, col passare del tempo, avrebbe dato un notevolissimo contributo alla sconfitta germanica e sarebbe venuto il giorno in cui anche noi avremmo portato sulla bilancia della giustizia il peso della nostra deportazione.
Vi era un colonnello dei bersaglieri, di cui purtroppo non ricordo il nome,
tenuto in segregazione in una cella separata da tutti e guardato a vista giorno e
notte da una sentinella tedesca che ogni mattina lo accompagnava per
mezz'ora a prendere una boccata d'aria nel cortile che doveva essere percorso
a passo svelto senza fermarsi.
Raccontavano che, attaccato dalle truppe tedesche la notte dell'8 settembre,
si era difeso eroicamente coi suoi soldati, causando perdite agli attaccanti. Sopraffatto e catturato, aveva sempre dimostrato la sua palese ostilità ed il suo
disprezzo verso il secolare nemico. Per questo era sempre stato tenuto segregato affinché non avesse contatti con altri italiani, portato a Czestochowa e rinchiuso in cella di rigore.
Si diceva però che i tedeschi lo tenessero in una certa considerazione, pur
usando verso di lui misure rigorosissime. Durante la sua passeggiata mattutina, gli era proibito rivolgere parola agli ufficiali che si trovavano nel cortile,
ma al suo passaggio, tutti lo salutavano militarmente ed egli rispondeva gentilmente sorridendo. Un esempio di carattere, coraggio, forza d'animo e ferrea
volontà.
Noi se ne parlava con vera ammirazione. In una delle tante discussioni che
si facevano fra noi, ricordo un colonnello di fanteria che aveva il posto letto
nella stanza vicina alla mia, il quale sosteneva che, se tutti gli ufficiali avessero
tenuto il comportamento del colonnello dei bersaglieri, cui ho accennato,
avremmo potuto salvare la situazione.
lo invece espressi il parere che, se 1'8 settembre tutti avessimo reagito con le
armi, pur essendo queste notoriamente insufficienti e di scarsa potenza, in
confronto di quelle germaniche, avremmo provocato solo un grave e inutile
spargimento di sangue, perché le forze tedesche erano preponderanti, già preparate all'attacco e potentemente armate.
Prima che le divisioni delle SS. invadessero l'Italia e scendessero dal Brennero, forse qualcosa si sarebbe potuto fare, a parte il risultato assai incerto,
ma ad invasione avvenuta, sarebbe stato un inutile sacrificio.
Chi era rimasto, superato il momento di sbandamento provocato dall'improvvisa e rapida invasione tedesca, alla quale si era aggiunto il rigurgito fascista, avrebbe potuto certamente organizzare, preparare e intraprendere
qualche piano per logorare le forze dell'invasore, come infatti avvenne con la
formazione delle brigate partigiane e la loro lunga e cruenta lotta contro le
forze nazi-fasciste. Gli altri miei colleghi mi diedero ragione.
Noi purtroppo, non potevamo nulla: soltanto subire con coraggio e rassegnazione la nostra triste sorte, sperando che la misericordia di Dio abbreviasse
il tempo delle nostre sofferenze e ci salvasse quando si sarebbe scatenata contro di noi la furia della barbarie.
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L'adescamento della Gestapo
Il Comando tedesco, qualche tempo dopo il nostro arrivo, fece sapere che,
se avessimo riconosciuto il governo fascista di Salò e ci fossimo dichiarati disposti a collaborare con le forze germaniche che occupavano l'Italia, saremmo
stati rimpatriati.
Questa vile e falsa propaganda era effettuata inizialmente senza particolari
strombazzamenti, ma in modo insistente e continuo.
La notizia, manco a dirlo, si era subito propagata ovunque e si faceva un
gran parlare fra tutti noi, suscitando discussioni peraltro molto animate. Devo
dire subito però che la ,maggior parte dei deportati, era fermamente ostile alla
proposta di collaborazione coi nazi-fascisti per due ragioni: anzitutto un tale
atteggiamento sarebbe stato pienamente in contrasto con la nostra presa di
posizione dell'8 settembre 43 (chi era fascista o simpatizzante, avrebbe potuto
collaborare fin da allora evitando le crune vicende della deportazione) ma soprattutto perché quasi nessuno se la sentiva di dare il suo contributo ai fascisti
che avevano la responsabilità di aver scatenato una guerra non voluta né sentita dal popolo e per di più senza preparazione alcuna e senza i mezzi necessarii
per farla; e ai tedeschi che si erano dimostrati, come al solito, barbari, crudeli
e senza rispetto di ogni norma civile.
Agli inizii di ottobre, così riferivano i deportati che erano arrivati prima di
noi, regnava una grande confusione di idee circa l'atteggiamento definitivo
nei confronti della pseudo repubblica di Salò e la maggior parte era in tale stato di perplessità da consentire facile gioco alla propaganda repubblichina, alimentata e sorretta dalla Gestapo e dalle SS. naziste che avevano il controllo
politico dei Lager, come erano chiamati in lingua tedesca i campi di concentramento dei deportati.
A facilitare l'adescamento, erano state costituite speciali «Commissioni» di
italiani rinnegati, così dette di assistenza che, nel loro ininterrotto rotare nei
campi di deportazione, in realtà non avevano altro scopo che di carpire l'adesione alla repubblica di Mussolini.
Sempre per facilitare l'adescamento, i tedeschi premettevano alle visite, periodi di accentuata denutrizione e di inaspriti maltrattamenti.
L'adesione era invece premiata con l'inserimento in un truffaldino elenco di
«rimpatriandi» e col trasferimento in uno speciale settore del campo, ove veniva a cessare il tormento delle improvvise, umianti e spietate perquisizioni
personali diurne e notturne, da parte delle SS. e dove il giaciglio era men duro,
il trattamento più umano e il vitto sufficiente.
Va rilevato che gran parte dei deportati furono catturati negli uffici dei Depositi Territoriali e nei Distretti Militari dove erano stati richiamati dopo anni
di cessazione dal servizio e di tranquilla e comoda quiescenza; parecchi già in
età avanzata e in precarie condizioni di salute.
Anche dal punto di vista psicologico, il trattamento durissimo e la denutrizione, non potevano quindi non influire ad attenuare la «resistenza». In tutte
le visite, specie dopo i «colloqui individuali» ai quali si invitavano quanti avessero da prospettare particolari situazioni personali, un certo numero di deboli
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cedeva e dava l'adesione.
Questi continui, se pur limitati, slittamenti, aggiungevano nuove amarezze
alle molte della vita di deportato, in quanto avvertivano la estrema gravità del
fatto sia sotto l'aspetto morale che politico. Erano intuitive le conseguenze di
un passaggio ai repubblichini della maggior parte degli ufficiali.
Occorreva quindi reagire: si intensificò la cordialità dei rapporti personali
con coloro che apparivano dubbiosi ed erano particolarmente depressi e si domandò al Comando tedesco del Campo, di poter tenere periodicamente delle
conversazioni, naturalmente a solo scopo culturale.
In realtà si tendeva a ben altro, ma il Comando tedesco non avvertì, in un
primo tempo, lo scopo sottaciuto e non si oppose che, nella ristretta cerchia
delle camerate, si parlasse d'arte, letteratura, filosofia e diritto.
I relatori avrebbero dovuto sottoporre il testo della loro esposizione alla
preventiva approvazione del Comando; avrebbero dovuto attenersi rigorosamente ad esso e venivano sottoposti al controllo di due militari tedeschi addetti all'ufficio in qualità di interpreti.
In realtà, al Comando si inviava solo una sintesi ortodossa della trattazione
e i due controllori, dopo aver assistito all'inizio, se ne andavano richiamati
dall'enorme lavoro del loro ufficio che gravava su pochissimi elementi, tutti
debilitati da invalidità di guerra.
Usciti i controllori tedeschi, si poteva parlare con maggiore chiarezza, ma si
doveva tener conto degli elementi infidi che si sapevano presenti fra noi in alcune camerate, senza che peraltro si fossero potuti individuare con sicurezza.
Una di queste conversazioni avente titolo e trama letteraria fu tenuta pochi
giorni prima della «visita» di una «Commissione di repubblichini» capeggiata
dall'ex prefetto Vaccari e da un generale «aderente»: il Cotturi. L'ufficio politico tedesco, ne aveva preannunciata la venuta con inusitato anticipo e con insistenza; segno evidente che sperava un colpo grosso in fatto di adescamento.
Si doveva correre ai ripari tentando di parlare molto chiaro. Il rischio era
particolarmente grave non solo per l'oratore, ma anche per gli uditori che,
nella stragrande maggioranza, conoscevano il fine specifico della conversazione. Era quindi doveroso stabilire le responsabilità, come fu fatto all'inizio del
discorso.
Non vi fu, da parte dei colleghi della camerata nella quale doveva svolgersi
la conversazione e dove alloggiava l'oratore, alcuna reazione, ma generale e
caldo consenso e in fine, viva commozione da parte dei deportati del mezzogiorno e vedremo in seguito il perché.
Fu studiata con cura l'ora d'inizio, perché fosse ridotta al minimo la già
breve, consueta permanenza dei controllori tedeschi. Soprattutto si contava
sull'aiuto di Dio che non mancò.
A questo punto, ritengo opportuno riportare qualche brano della conversazione dianzi accennata. Conversazione che l'oratore, carissimo amico fraterno - Ten. Col. Umberto Biglia - mi fece conoscere autorizzandomi a farne
cenno in queste memorie.
Il titolo «FIGURE MANZONIANE NELLA LUCE DI TSCHESTOCHAU». L'oratore accostava alcuni episodi del romanzo di Alessandro Man-
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zoni alle tristissime vicende che avevano portato nei Lager i deportati italiani,
lo stato d'animo e le singole manifestazioni della loro tormentata vita quotidiana.
Dopo aver fatto cenno al personaggio di Don Ferrante che, nel romanzo
manzoniano era dipinto come povero uomo insignificante, sia come cultore di
lettere e scienze, sia come marito, diceva:
«Degli eroi ricordati da Metastasio, non si è purtroppo perduta la razza e di
gente che crede alle influenze siderali, ve n'è ancora molta a questo mondo;
anche nella stretta cerchia dei reticolati di Czestochowa.
«Quando, sopra il mortificante discorso sulla qualità e quantita della
"sbobba" tu tenti un timido cenno a quello che sarà la sorte della Patria, in
un domani che pur tutti invochiamo non sia lontano, salta sempre sù chi si abbandona fatalisticamente all'influenza delle modernissime costellazioni.
«Indifferente al fatto che esse possono essere scarlatte, come quelle
dell'emisfero orientale, od aureate come quelle d'oltre atlantico ad occidente,
non passa neppure per l'anticamera del loro cervello, che la soluzione dei problemi del nostro sventurato paese, deve essere prima e soprattutto una soluzione inconfondibilmente italiana. (Occorreva reagire alla sfiducia e al fatalismo largamente diffusi fra i deportati).
«È triste constatare che fra di noi ufficiali superiori, vi sia tal uno che a cinquant'anni si sente "vecchio" e, nella prematura sua senilità, inetto ad assumere le responsabilità connesse alle opere della rinascita e della ricostruzione.
«A cinquant'anni, quando è in gioco il destino della nostra Patria, che è poi
pure il destino nostro e delle nostre famiglie, si può e si deve ricominciare la vita.
«Tanto più quando si sà - e lo sappiamo tutti - che le generazioni cresciute ed educate nell'ultimo ventennio, non sono in grado di assumere da sole, le
supreme responsabilità della direzione della cosa pubblica.
«A cinquant'anni quando si abbia una fede ed un grande amore, si pone da
parte il sogno di un tranquillo riposo, pur meritato dopo lunghi anni di ininterrotto lavoro, e si ritorna al solco per gettare a piene mani il seme dei raccolti
che surrogheranno quelli così rovinosamente distrutti. E si seminerà senza mirare ad essere i mietitori, paghi del virgiliano "sic vos, non vobis".
«A cinquant'anni, chi ha paura di operare per dare un volto alla Patria, non
merita di vivere e non potrà essere accostato, in morte, neppure agli eroi del
Metastasio».
Dopo aver descritto il passaggio sconsiderato e violento di una colonna di
folla impazzita che aveva separato il Manzoni dalla moglie con la quale stava
passeggiando tranquillamente, l'oratore continuava:
«Il problema della folla esasperata per necessità del pane, e che tumultuerà
senza badare a sottigliezze metafisiche, si presenterà in proporzioni molto
maggiori in ogni nazione non appena sarà spenta l'eco dell'ultima cannonata.
«Non è necessario essere specialista in scienze economico-sociali, per intravvederne la portata e comprendere che occorrerà darne una ben ponderata soluzione. Appare comunque evidente già da oggi, che dopo lo spaventoso depauperamento determinato dal conflitto mondiale, ben pochi governi, con i
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soli mezzi statali, saranno in grado di risolvere il problema.
«Occorrerà, oltre ad una larga cooperazione internazionale, il volonteroso,
intelligente e tempestivo contributo dei singoli cittadini i quali devono decisamente essere disposti ai necessari ed inevitabili sacrifici.
«Subito dopo la fine del primo conflitto mondiale, i diagrammi della disoccupazione - quindi della miseria e della fame - hanno avuto in tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti d'America, indici di straordinaria ampiezza: milioni e milioni di senza lavoro oltre oceano, nella Gran Bretagna, in Francia,
in tutti gli stati vittoriosi. Gravissima la disoccupazione nella Germania e nei
territori dell' Austria smembrata.
«Quali saranno anche in Italia gli indici della disoccupazione nel nuovo dopo guerra? Non è azzardato presumerli in una situazione generale incomparabilmente più depressa.
«Produzione, scambi, consumi e salari, questioni valutarie ecc.; tutto questo cioè che concorre sul piano economico e finanziario a determinare il livello
di vita di un popolo, deve essere considerato dai ricostruttori che non siano insensibili al grido di dolore delle classi meno abbienti, sulle quali, in modo particolare, hanno inciso il tormento e la rovina di questa guerra totale.
«Quali potrebbero essere le conseguenze di una assoluta incomprensione e
di una insufficiente considerazione delle esigenze sociali, è facile intuire,
quando si ricordi il gravissimo periodo agitatorio che ha turbato la vita economica e politica in tutti i paesi, dopo la cessazione delle ostilità della prima
guerra mondiale.
«Nonostante tutto quello che è avvenuto e che in Italia ha portato a quella
situazione politica, per la quale noi qui subiamo parte delle disastrose conseguenze, vi è qui non poca gente che sogna che, al nostro ritorno, basterà stare
alla finestra in quanto la presenza delle truppe di occupazione, modererà i bollori delle folle tumultuanti. E tutto, sia pure gradualmente, potrà avviarsi sui
binari economici e sociali sui quali procedeva il carrozzone dello Stato prima
della guerra e del fascismo.
«Non è male che si tenga ben presente che la passeggiata militare austrorussa per le vie di Milano, contro le illusioni del Metternich, non hanno annientato i fermenti della rivoluzione. Andare effettivamente incontro al popolo: questo è il compito di domani, se non si vuole che tutto, senza sottigliezze
metafisiche, sia travolto dal popolo.
«Per evitare la rivoluzione e l'anarchia, occorre saggiamente incanalare le
giuste aspirazioni del mondo del lavoro nel grande alveo delle necessità e delle
possibilità nazionali. Tutti in quest'opera possono dare un contributo prezioso.
«Il Cielo benedita tutti coloro che domani - e dobbiamo essere tutti noi andranno incontro al popolo nostro, che, grazie a Dio, è ancora schiettamente
sano e rifugge dal sangue e dai fatti atroci.
«Popolo che crede nel bene e che è disposto a bene operare, se ha chi rettamente lo guidi. Alle volte anzi è troppo largo nel concedere la propria fiducia e
crede anche in chi, speculando sull'ignoranza, tende a far apparire bene quello
che bene non è.
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«Il popolo deve essere ingannato, dice un antico detto latino. È il criterio
cui ancor oggi s'ispirano i vari "Dulcamara" per vendere non solo gli innoqui, ma pure i più deleteri specifici. Noi dobbiamo impedire che il danno e la
beffa abbiano, nel campo politico e sociale il posto della rettitudine e della verità.
«Quando parliamo di popolo italiano, istintivamente si è portati a pensare a
chi è oggi molto lontano da questo "abbietto carcere" vivendo e operando nel
territorio della Patria dal quale siamo fisicamente tanto distanti. Non si avverte che una parte del nostro popolo l'abbiamo vicinissima: entro il cerchio del
filo spinato. Sono coloro che per nostra beffa, il deportatore definisce "nostre
ordinanze", anche se in realtà non ce ne possiamo in alcun modo valere perché non devono riconoscere in noi nessun grado e nessuna autorità. Ordinanze
a cui è fatto divieto non solo di ottemperare ai nostri ordini, ma pure di accogliere i nostri stessi desideri. Se ciò integralmente non si attua, è perché il nostro soldato è buono e, se può, anche con molto rischio, cerca di dare il suo
aiuto.
«Le nostre "ordinanze" sono popolo che, deportato come noi, con noi condivide le sofferenze e i maltrattamenti. Popolo sono anche quelli - e sono pochissimi - che appaiono ribelli e riottosi, su cui possiamo già iniziare l'opera
della ricostruzione. Purtroppo, non da tutti e in tutte le ore della giornata è
sentito questo inderogabile dovere.
«Al contrario, troppo frequentemente, per insufficiente controllo di noi
stessi e non certo per proposito, si svolge l'opera opposta. Diciamo pane al pane e non strappiamoci farisaicamente le vesti, anche se si toccano argomenti
ostici a ben costrutti orecchi.
«Quando - ad esempio - nella nostra camerata le ordinanze si attardano
fra le strettoie dei nostri giacigli, la nostra tavola e il nostro spazio vitale lavorando di scopa, che molto spesso non pulisce, nonostante l'occhiuta vigilanza
del carceriere tedesco, vi pare che sia opera di ricostruzione morale e sociale il
perseverare, sia pure a mezza voce, in esagitate e sensazionali "rivelazioni"
che, quando non sono frutto di informazioni del tutto non rispondenti alla
realtà, certo almeno generalizzano dolorosissimi e singoli episodi di mancata
dedizione al dovere, di viltà, addirittura di tradimento, che hanno avuto per
attori superiori e colleghi indegni della loro missione?
«L'ossessionante descrizione di fatti che induce a fare apparire alle menti
semplici dei nostri soldati, i nostri comandi come centrali di corruzione e di
tradimento, non vi sembra che soprattutto avvalori e potenzii la perfida e sovvertitrice propaganda che già ampiamente viene svolta fra le "ordinanze" per
determinarne l'odio contro gli ufficiali?
«Da troppo tempo, prima i socialcomunisti con una bestiale lotta di classe e
poi i fascisti con una non meno bestiale discriminazione fra cittadini "tesserati" che avevano tutti i diritti e quelli non tesserati che non ne avevano nessuno, una propaganda insensata e delittuosa tende a dividere gli italiani con insormontabili barriere morali, sociali e politiche.
«L'odio distrugge: l'amore costruisce. Se vogliamo riedificare in !paGo durevole il nostro Paese, dobbiamo decisamente cooperare perché si affermi
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l'amore: quell'amore cristianamente inteso, che è fondamento della vita dei
singoli e delle famiglie, così come è elemento fondamentale della convivenza
nazionale e internazionale. Amore cristiano, che implica anche il dovere del
perdono verso gli individui e verso i popoli.
«Amore che è atto di forza e non debolezza. Carducci, che non fu certo un
debole, ammonisce: "Noi troppo odiammo e sofferimmo: amate!"
«Parlando delle responsabilità di fronte alle nostre "ordinanze", al popolo
nostro che è qui presente, consentitemi, colleghi, un altro cenno brevissimo.
Quando usando denaro, che tra l'altro non è quasi mai proprietà personale,
ma rimanenza di fondi statali non ancora asportata nelle perquisizioni, si inabissa la propria dignità nel "mercato nero" e con lo stesso denaro si spingono
le "ordinanze" alla rischiosissima funzione del "correo" in un traffico che mi
rifiuto di qualificare, si opera davvero per la ricostruzione?
«Non aggiungo altro; ma vorrei che questo cenno, ciascuno si proponesse di
ripeterlo - con maggiore carità cristiana - ai colleghi che assillati dal tormento della fame, non si accorgono di scendere tanto in basso. Se è vero che
non vi può essere grande uomo nell'estimazione che di ciascuno fa il cameriere, non è questa una buona ragione per aggiungere al normale giudizio sulle
inevitabili miserie che presenta la nostra vita quotidiana, tutto quel complesso
di notizie e di fatti non commendevoli che le nostre "ordinanze" non hanno
avuto modo di rilevare e non apprenderebbero mai, se ciascuno badasse sempre a quel che dice.
«Nei nostri soldati non verrebbe così tanto spesso scossa la fiducia nella giustizia e nell'onestà. Tra i fenomeni - o anomalie che dir si voglia - provocati
da questa vita abbietta, vi è anche quella di una notevole confusione di idee e
forse più di opere, in rapporto alla religione.
«Un risveglio religioso: chi mi conosce sa quanto mi può allietare; quel che
dirò non è quindi ispirato da preconcetto spirito settario. Mi pare, ma certamente sbaglio, alla, perfino affannosa ricerca e sequela delle pratiche esteriori
di pietà, non corrisponda sempre lo sforzo di adeguare i nostri atti, specialmente i rapporti con i colleghi, alla sostanza di un cristianesimo concreto.
«Quel che spesso succede, induce a rievocare un analogo fenomeno non raro, almeno ai tempi in cui io biasicavo il primo "rosa rosae". Nella calda penombra delle Chiese, regolarmente a fin di maggio, gli altari sfolgoravano della luce di decine e decine di minuscoli candelotti, attestanti lo spasmodico fervore religioso dei giovani studenti che affrontavano gli esami. Sfolgorio di
breve durata, perché a metà giugno e sino ad ottobre, le chiese rientravano
nella penombra normale.
«Siffatto smoccolare, può far sorridere, ma non induce a severi giudizi: a
dieci, dodici anni, si è fatto così. A cinquant'anni lo smoccolamento, fatto in
funzione di un'abbondante "refuse" (un cucchiaio in più di sbobba) o di copiosi ingurgiti provenienti dal mercato nero, nello stato d'animo più benevolo, può indurre soltanto a pietà.
«È indubbio che per risanare le profonde ferite che la guerra ha inferto al
nostro Paese, occorrono una fede illimitata, un grande amore, un decisissimo
operare. Occorrono la fede, la straordinaria carità - che è intensissimo amo-
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re - un inesausto operare del grande Federigo, Arcivescovo di Milano e, perché no? la volontà spietata della consorte di Don Ferrante: volontà rivolta,
naturalmente a miglior fine.
«Dopo la fataI Novara, un pugno di uomini di fermissima fede, la seppe infondere in tutto un popolo e fu fatta l'Italia. Fra gli uomini di fede che faranno rinascere il nostro Paese, dobbiamo essere tutti noi.
«Con questo, colleghi carissimi, ho finito. Se la mia voce è stata stonata, tenete conto delle buone intenzioni. Accogliete almeno cordialmente, l'augurio:
verranno i dì novelli e, come canta il poeta:
«Nel ceruleo spazio,
«Bello di gloria,
«Splenderà il vessillo!
«Dio voglia che sia così: e sia presto!»
***
La conversazione fu ripetuta in una camerata vicina. Improvvisamente il
Comando tedesco, insospettito o avvertito da un delatore che non deve essere
giunto al colmo dell'abiezione di far nomi e precisare camerate, proibì le conversazioni che furono riprese saltuariamente e abusivamente anche in altre camerate, quando il Comando del campo organizzò per tutti manifestazioni musicali e culturali, nelle quali non si poteva certo dirottare. Il livello culturale
delle suddette conversazioni, non fu certamente molto elevato e, poiché l'intervento era facoltativo, la partecipazione non fu rilevante.
Riprendendo la narrazione, v'è da dire che, dopo diversi giorni dal culmine
della propaganda per l'adesione al governo della repubblica di Salò, l'atteggiamento dei deportati non era mutato, non solo, ma si era anzi irrigidito pur
sapendo che evidentemente i collaborazionisti sarebbero stati trattati con un
certo riguardo, mentre gli altri avrebbero dovuto affrontare un peggioramento della loro situazione.
Grande era l'ansia di ritornare in patria e di riabbracciare i nostri cari, ma a
quale prezzo? A prezzo del più vergognoso tradimento. Inoltre, ciò che attendeva i collaborazionisti, non sarebbe stato assai peggiore dello stato di deportazione? Tutte queste considerazioni di principio, oltre quelle che ciascuno poteva avere per la propria situazione individuale, convinceva tutti a seguire la
propria sorte, qualunque cosa potesse accadere.
Solo uno scarso numero di ufficiali aderirono alla propaganda nazifascista, attirandosi l'avversione palese di tutti gli altri colleghi d'internamento i quali non nascondevano il disprezzo e la disapprovazione per il loro comportamento.
Gli ufficiali che avevano aderito alla proposta tedesca, come già detto, dopo alcuni giorni furono riuniti al primo piano del II blocco e si cominciò subito a differenziare il loro trattamento da quello di tutti gli altri. Fu concessa la
possibilità di avere maggiori notizie dalle loro famiglie e di poter inviare maggior numero di corrispondenza, fu notevolmente aumentata la quantità dei viveri giornalieri e abolite le ispezioni notturne.
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Ogni giorno, durante le ore di libertà del mattino, quando la maggior parte
dei deportati era in cortile a passeggiare, due squadre di soldati tedeschi portavano a spalla su plance bene in vista, grande quantità di viveri nel luogo ove
erano alloggiati gli ufficiali collaborazionisti e ciò veniva fatto perché tutti vedessero il trattamento loro riservato. È come dire che ci volevano prendere per
fame, ma questo non faceva che dimostrare la considerazione in cui eravamo
tenuti dai nostri persecutori e aumentare il nostro disprezzo.
Ricordo che, fra i pochi ufficiali che avevano aderito alla propaganda e al
riconoscimento del governo repubblichino, vi era un capitano anziano - un
certo Leoni - trasferito nel nostro Lager e che 1'8 settembre 1943 era al Distretto Militare di Reggio Emilia come comandante la compagnia distrettuale,
poi passato al Deposito del Distretto medesimo. Appena seppi che aveva aderito, andai a visitarlo, pur immaginando che la mia visita non avrebbe mutato
le sue decisioni.
Fu sorpreso nel vedermi perché non sapeva ancora della mia presenza al Lager non avendo avuto modo di incontrarmi. Dopo uno scambio di saluti e di
notizie reciproche, gli domandai subito come e perché avesse aderito alle proposte tedesche. Mi raccontò parecchie vicende, non so se vere o meno, concludendo che, per le particolari condizioni della sua famiglia, aveva deciso di cogliere l'occasione.per essere rimpatriato, dato che, per la sua età e le sue condizioni di salute, gli sarebbero stati affidati solo incarichi di riserva o territoriali.
Espressi i miei dubbi su quest'ultima sua opinione, comunque le mie considerazioni di irresponsabilità delle sue decisioni, non sortirono alcun effetto,
tanto più che ormai non era più possibile tornare indietro. Mi offerse con insistenza alcune sardine sott'olio che naturalmente rifiutai e mi accomiatai ripetendo di essere molto spiacente di quanto aveva deciso.
Non lo rividi più e dopo diversi giorni seppi che i pochi collaborazionisti
erano partiti - così si diceva - per essere rimpatriati.
ALBERTO CODAZZI
(continua)
LA MISSIONE INGLESE PRESSO I P ARTIGIANI REGGIANI
Gli antefatti
Nacqui, ultimo di tre fratelli, a Londra il 15 settembre 1927. Mio padre,
Corrado, era un dirigente della sede di Londra del Credito Italiano. Discendente di setaioli bergamaschi di origine tedesca, si era laureato a Cà Foscari,
aveva combattuto con gli alpini nella Grande Guerra e poi era sempre stato
all'estero col Credito Italiano.
Mia madre, Lea Manicardi, era prima figlia del pittore reggiano Cirillo Manicardi. Laureata alla Scuola Normale di Pisa, si era sposata subito dopo la
Grande Guerra per seguire mio padre all'estero.
A noi tre fratelli fu impartita una educazione scolastica inglese con tutto ciò
che ne poteva allora derivare e cioè almeno un assaggio del tessuto connettivo
fondamentale delle democrazie anglosassoni: il sistema scolastico delle Grammar e delle Public Schools.
IlIO giugno 1940 andavo per i tredici anni e tutto ciò che capitò prima e subito dopo non interessa questa narrazione. Basterà dire che la famiglia fu brutalmente divisa in due tronconi. Padre e fratello maggiore in campo di concentramento in Inghilterra; mia madre e i due figli minori evacuati e spediti in Italia. In breve, mi rimase a lungo un penoso senso di violenza subita non si sa
per quale ragione. Lasciammo l'Inghilterra scossa da Narwick, da Dunquerque e sotto l'incubo di una imminente invasione.
E così approdammo a Reggio Emilia dove trovammo comprensione e ospitalità sino alla fine della guerra. In verità l'impatto con il sistema scolastico allora vigente fu per me estremamente doloroso. A parte le notevoli difficoltà di
comunicazione (avevo una scarsa e pprossimativa conoscenza della lingua italiana) non riuscivo ad ambientarmi in un sistema agli antipodi di quello inglese. Nozionismo ed autoritarismo condito con politicismo fascista che io non
potevo che trovare idiota.
Un solo episodio; il mio primo giorno di scuola fu celebrato da un tema: «È
l'aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende». Non capivo né il
senso né lo scopo di una esercitazione su un tema del genere. Mi sentii perduto
e consegnai il foglio in bianco.
Ho voluto anteporre queste note biografiche perché ritengo importante identificare il «background» di chi voglia rendere testimonianza di un periodo storico. Chi intenda proseguire nella lettura di queste note tenga quindi presente
che l'estensore è di estrazione borghese e che ha ricevuto una educazione angloitaliana. La partecipazione alla lotta di liberazione avvenne probabilmente anche in virtù del «bagno democratico» giovanile, come cosa naturale, dovuta.
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Otto settembre
Qui inizia la parte più difficile del mio racconto perché fatti, circostanze e
personaggi si accavallano con disordine. Si tenga presente che 1'8 settembre
stavo per compiere 16 anni e che non ultime tra le mie preoccupazioni erano le
mie combattutissime sorti scolastiche. Un anno dopo, nell'autunno del 1944,
quando comincia la mia «breve stagione», non ero molto più di un ragazzino.
Per cercare di mettere ordine nei miei ricordi tenterò per prima una cronologia schematica per poi sviluppare il periodo di qualche rilievo per le cronache
della Resistenza nella provincia di Reggio Emilia.
L'8 settembre trovò mia madre e noi due fratelli sfollati a Calerno presso un
amabile signore svizzero di nome Tognoni. Mio fratello ed io osservammo con
notevole apprensione, attraverso il granturco, l'andirivieni di mezzi motorizzati tedeschi (credo che la provincia di Reggio avesse avuto «l'onore di ospitare» dopo il 25 luglio la divisione corazzata SS, Herman Goering) (1). Poco dopo ci trasferimmo tutti a Valestra presso mia zia Margherita Gorini dove rimanemmo fino alla primavera del 1944. Passammo primavera e estate fra Reggio, Calerno e Cavriago ora rincorrendo mio fratello nelle sue fughe dalle
chiamate militari della Repubblica Sociale, ora essendo rincorsi dai brigatisti
della medesima. Ma tutto ciò meriterebbe un racconto a parte ed è abbastanza
incidentale a ciò che seguÌ. L'autunno del 1944 ci trovò tutti riuniti a Valestra.
È necessario a questo punto aprire una parentesi su Valestra. Credo che
molti partigiani reggiani vi siano passati e abbiano trovato ospitalità nel paese
e nella casa dove abitava mia zia Margherita e le figlie Laura e Ada. Situata
sullo stesso crinale di Carpineti in posizione dominante sia a sud sull'alta valle
del Secchia sia a nord sulla via d'accesso da Scandiano-Baiso, Valestra, durante tutto il periodo della lotta partigiana costituiva uno dei punti di cerniera
fra i due mondi in lotta. Non solo, ma la via d'accesso posta tra la direttrice
della Strada statale n. 63 e la direttrice fondovalle Secchia-Montefiorino, non
riceveva lo stesso grado di attenzione da parte nemica. Ciò permetteva un notevole traffico, nei primi tempi di prigionieri di guerra alleati e sbandati del
Regio Esercito in viaggio per il meridione e in seguito, di partigiani, staffette
ecc. Da Valestra, insomma, si assisteva a molti degli avvenimenti di quel tempo. Detto per inciso non ho mai capito perché i tedeschi non avessero mai presidiato il paese (2).
Quante facce, quante storie personali qualche volta comiche ma più spesso
tragiche! Una per tutte: l'ultimo passaggio di Enrico Cavicchioni (Lupo) prima del combattimento e successiva strage di Bettola. Di Enrico dirò che aveva
l) Trattavasi della Divisione SS Leibstandarte «Adolf Hitler». Reparti della Goering compariranno più tardi e si distingueranno in feroci azioni di rappresaglia nel modenese e nel reggiano.
Furono autori, tra l'altro, dell'eccidio di Cervarolo (marzo 1944). Le note sono della redazione,
tranne la n. 8 che è dell'Autore.
2) Valestra non fu mai presidiata dai tedeschi perché, dopo le prove del maggio-giugno '44 che
dimostrarono la impossibilità di mantenere presidi verso l'interno (che sarebbero stati alla mercé
dei partigiani) non conveniva immobilizzare determinate forze, utili sul fronte, in quel poco produttivo sforzo. L'obiettivo essenziale dei tedeschi era quello di tenere aperta e transitabile la Strada Statale n. 63.
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una presenza accattivante, un viso leale, aperto. Lo ricorderò sempre.
Durante l'inverno precedente (1943-1944) avevamo attivamente esplorato le
vie per un eventuale passaggio al sud e così io e mio fratello ci siamo trovati
una sera nella canonica di Tapignola ospiti di don Pasquino Borghi. La notte
prima della partenza avevamo inteso il grande bombardamento di Reggio. Di
quella sera ricordo solo una lunga conversazione con Don Pasquino a proposito di un fantomatico Don Carlo (3) che guidava gruppi di ex prigionieri alleati a Porto San Giorgio e di una decina di non meglio identificati partigiani
accantonati nella canonica. Di uno mi ricordo perfettamente; era slavo, parlava non so quante lingue e mi insegnò in russo le parole della canzone «occhi
neri».
Pochi giorni dopo il nostro rientro a Valestra, Don Pasquino fu preso e fucilato (4).
Durante il grande rastrellamento dell'estate 1944 ero a Calerno a rabberciare la mia compromessa carriera scolastica. Ritornai a Vale stra in settembre,
mi pare. In quel periodo mio fratello era con un nucleo GAP o SAP (?) a Cavriago (dopo rocambolesca fuga da Novara alla quale avevamo partecipato
mia madre ed io; ma questa è un'altra storia). Rastrellato riusci a fuggire fra
raffiche di mitra, ma in compenso i repubblichini presero mia madre (probabile delazione). Interrogata e schiaffeggiata riuscì anch'essa a fuggire e tutti
insieme riparammo a Valestra.
All'inizio dell'inverno del 1944 mio fratello passò il fronte e fu aggregato ad
una unità della Ottava Armata. Questo particolare è interessante perché il caso volle che ci trovammo uno di qua e l'altro di là del fronte, aggregati alla
stessa organizzazione militare.
lo, al momento, mi trovai coinvolto, in piccola misura in verità, nell'attività di staffetta. Le vere staffette della famiglia erano le mie due cugine Laura e
Ada Gorini, le quali andavano e venivano dall'alta montagna a Reggio. Fu così che una volta accompagnai Ada alla Missione alleata allora retta dal maggiore Johnston. Era un ufficiale inglese nato in Egitto, personaggio, mi ricordo, abbastanza ambiguo.
Poi il rastrellamento del gennaio 1945 che vide un forte concentramento di
partigiani nella zona di Valestra (5) mentre gli Alpenjager scorrazzavano più
su verso Asta.
Subito dopo portai un messaggio alla Missione alleata che allora si trovava
a Secchio e vi rimasi fino alla fine delle ostilità. E qui cercherò di essere più
preciso nei ricordi perché penso che qualche dato sulla Missione possa avere
interesse per la storia della Resistenza reggiana.
3) Don Domenico Orlandini «Carlo», parroco di Poiano.
4) Il sacerdote venne fucilato il 30 gennaio '44 presso il Poligono di Tiro di Reggio Emilia, assieme ad altri 8 patrioti.
5) Sfuggendo all'accerchiamento tedesco, si portarono a Valestra un Battaglione di Fiamme
Verdi e circa due Battaglioni della 26 a Brigata «Garibaldi».
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La Missione alleata
La Missione alleata intanto era esclusivamente inglese. Era a quel tempo
retta dal Capitano Michael Lees e composta di un sergente della Field Security
(controspionaggio militare), da un caporale radiotelegrafis1Ì:l (Bert) e dal sottoscritto. La mia posizione era un po' anomala in quanto cittadino italiano e
quindi non membro delle Forze armate di Sua Maestà Britannica. In sostanza
mi inquadrarono come partigiano membro del «Gufo Nero» e distaccato presso di loro. Le mie funzioni erano di interprete, ufficiale di cifra e ragazzo tuttofare.
Le Missioni inglesi di collegamento con le forze partigiane (non solo sul
fronte italiano ma anche in Jugoslavia, Grecia ecc.) erano organizzate da un
comando speciale dello Stato Maggiore inglese, la Special Operations Executive, e per quanto riguardava noi, dalla Special Operations (Mediterranean). Il
gruppo operativo del nostro scacchiere aveva l'altisonante nome di "N°. I
Special Force" con sede a Firenze (gli inglesi si divertivano a inventare nomi
fantasiosi anche per confondere i tedeschi). Altro esempio: «Popsky's Private
Army». Gli ufficiali reggenti delle Missioni erano volontari reclutati da tutte
le armi (M. Lees era carrista mentre il Capitano Ian Smith, suo vice in un primo tempo, era ufficiale di artiglieria).
La Missione aveva soprattutto due compiti:
1) collegamento con le forze partigiane e loro rifornimento in armi, munizioni, vestiario, ecc.
2) spionaggio nei confronti dei tedeschi e controspionaggio nella eventualità di infiltrazioni nemiche attraverso la linea gotica:
Direi che mentre la prima attività richiedeva un notevole dispendio di forze
organizzative (un lancio era già una cosa abbastanza complicata), la seconda
rivestiva forse importanza maggiore agli occhi dei componenti la missione (6).
Nelle attività di spionaggio era egregiamente coadiuvata dalla organizzazione
creata da Giulio Davoli (Kiss: nome di battaglia storpiato da «cheese», parola
vista su un barattolo di formaggio).
La Missione era poi protetta da un distaccamento battezzato «Gufo Nero»
comandato da Glauco Monducci (Gordon) e composto di partigiani provenienti sia dalle Brigate Garibaldi sia dalle Fiamme Verdi; in tutto una trentina
di uomini notevolmente armati (un Bren ogni tre, tutti con uno Sten meno i
portatori di Bren: il sistema della Troika, insomma).
Il Capitano Michael Lees era un uomo abbastanza autoritario e impaziente
ed era stato paracadutato in precedenza presso i partigiani di Mihailovic (che
disprezzava). Un concreto, un esecutore, ma anche un uomo fondamental6) Spesso la Missione inglese prometteva aiuti in armi, se i partigiani avessero fornito determinate informazioni di carattere militare. E di informazioni essa ne riceveva per varie vie. Il Comando Unico Zona aveva un proprio servizio I che emanava ogni due o tre giorni un bollettino. Tale
dattiloscritto, oltre che alle Brigate dipendenti, veniva inviato anche alla Missione. La 145" Brigata Garibaldi, che presidiava Ligonchio, aveva contatti con informatori della Garfagnana, le cui
notizie sui movimenti nemici sulla «linea gotica» venivano. inviate al Comando Unico e quindi alla
Missione. Così dicasi per la 144" Brigata Garibaldi, che aveva un proprio servizio I diretto da
«Borel».
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mente equo; si preoccupava continuamente, nonostante ciò che se ne è detto,
di essere equidistante dai «rossi» e dai «verdi» a differenza, mi si diceva allora, del suo predecessore Maggiore Johnston (7). Mi ricordo soprattutto della
impazienza che lo portava, per esempio, a interrompere le mie traduzioni verbali per passare ad uno stentato franco-inglese.
Il Sergente di cui purtroppo mi sfugge il nome era un uomo riservato e tipicamente intellettuale. Mi pare che avesse insegnato a Oxford e tutto il suo modo di fare e la deferenza con cui era trattato da Lees ci aveva indotto a pensare
che non fosse affatto un sergente, ma un ufficiale in incognito. Probabilmente
una nostra fantasia.
Bert, il radiotelegrafista, era un tipico cockney londinese e con lui passavo
la maggior parte del mio tempo quando eravamo a «casa» nella canonica di
Secchio. Ore ed ore a codificare e decodificare messaggi col sistema di cifra (8).
Sembrerebbe questa una materia noiosa e priva di interesse. Però ci sono
anche aspetti per me affascinanti. Per esempio Bert, il radio-telegrafista, era
in grado di riconoscere il tocco del suo collega di Firenze e viceversa; se qualcun'altro avesse cercato di trasmettere (un tedesco, in caso di cattura) Firenze
avrebbe immediatamente capito cos'era successo.
La radio non aveva nulla di particolare. Una normale radio ricetrasmittente
contenuta in due valige e azionata da accumulatori. Le trasmissioni (Morse)
avvenivano per appuntamento orario ed erano spesso difficili data la zona
montagnosa tra noi e Firenze (in seguito, quando la missione si divise in due e
una parte si trasferì a Ligonchio, le trasmissioni divennero quasi impossibili).
I messaggi erano in relazione a tutto ciò che avveniva allora intorno alla
Missione e abbastanza di routine; accordi per i lanci, informazioni militari e
via di seguito. Mi ricordo due messaggi in particolare: la richiesta a Lees se
7) È vero che con Lees la situazione migliorò. Non si verificarono più le parzialità negli aiuti a
favore delle «Fiamme Verdi», anche perché, di comune accordo tra C.U. e Missione, al campo di
lancio fu posto un distaccamento di Garibaldini e Fiamme Verdi, comandato da «Scalabrino», un
montanaro con una gran barba bianca, che era uomo serio e saggio e soprattutto giusto.
8) Penso che dovrò soffermarmi sul meccanismo abbastanza complesso di questi messaggi cifrati. Non è facile spiegarlo a parole, comunque ci provo.
I messaggi venivano trascritti in un libro composto da pagine di gruppi di cinque lettere dell'alfabeto, del tutto casuali: AXYIB OXZCD FHYAT ecc. ecc.;
- mettiamo che il messaggio da cifrare iniziasse con le parole «C'ERA UNA VOLTA» ecc.;
- allora esso veniva trascritto sopra le lettere casuali CERAU NAVOL TA ecc.; AXYIB
OXZCD FHYAT ecc.;
- a questo punto si prende la «griglia» (fazzoletto di seta) che, in forma di tavola pitagorica, ci
dà una nuova lettera in corrispondenza di ogni coppia di cui sopra; per esempio per la prima coppia CA poteva corrispondere la lettera X; per la seconda, EX, la lettera H e via di seguito;
- alla fine viene fuori una sequenza di lettere (nel nostro caso iniziate con: XH ecc.) senza alcun senso;
- per decifrare il messaggio occorreva non solo impadronirsi di una delle due copie del libro
(ogni missione aveva una copia diversa di cui esisteva un unico gemello al Comando della Special
Force di Firenze) ma anche della griglia; quest'ultima però era la chiave più importante ed è per
ciò che era riportata su un fazzoletto di seta da ingoiare o bruciare in caso di necessità;
- rimane il problema di dove iniziare a trascrivere il messaggio nelle tante pagine del libro ; per
ciò esisteva una formuletta che preposta ad ogni messaggio indicava esattamente a quale pagina e
con quale gruppo di cinque lettere casuali si doveva codificare il messaggio;
- naturalmente per la decodificazione dei messaggi in arrivo si seguiva lo stesso procedimento.
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avrebbe accolto nella sua zona un gruppo di paracadutisti della S.A.S. (Special Air Service, in sostanza commandos paracadutisti che dovevano poi costituire la parte inglese del Battaglione Alleato; per impressionarmi Bert mi giurò
che si lanciavano con il pugnale tra i denti!); l'annuncio dell'inizio dell'offensiva che doveva poi portare alla rottura del fronte e alla liberazione (i primi
d'aprile 1945).
Purtroppo durante questi quattro mesi di permanenza presso la Missione
sono successe troppe cose perché me ne possa ricordare compiutamente. Posso procedere per episodi.
L'arrivo del Capitano Smith
Credo che fosse destinato a sostituire Lees. Smith era un tipo timido ed
emotivo, insegnante elementare scozzese. Credo che fosse di Aberdeen.
L'assalto alla Villa Rossi e Calvi
Questo fatto d'armi era stato il culmine di un periodo di grande preparazione. In un primo tempo erano stati paracadutati il Maggiore Roy Farran con
altri tre o quattro e poi il grosso del contingente inglese (una trentina di uomini). Il Capitano Lees aveva aderito con entusiasmo al progetto di assaltare un
comando tedesco, credo in contrasto coi suoi superiori in quanto non rientrava negli scopi della Missione partecipare ad azioni armate dirette. L'assalto,
comunque, è già arcinoto e non tenterò di raccontarlo di nuovo.
lo fui comandato bruscamente di rimanere a Secchio con Bert e la radio
mentre il Capitano M. Lees andò incontro al suo destino.
Ricorderò solo che sia lui che Glauco Monducci furono feriti ed evacuati
per mezzo di una «cicogna» pilotata da un ufficiale italiano e scortata da qualche spitfire.
Il Maggiore Roy Farran (Rory o ruggente) era il tipico capitano di ventura.
Irlandese, pluridecorato, fegataccio, si macchiò purtroppo, dopo la fine della
guerra, di un episodio poco chiaro. Fu processato e assolto dall'accusa di aver
assassinato un ragazzo ebreo in Palestina. Ai nostri fini può essere interessante notare che scrisse il suo libro «Winged Daggen> (che comprende il suo assai
discutibile resoconto del periodo di permanenza nel reggiano) durante la prigionia in attesa del processo.
L'arrivo del Capitano John Lees
Manca ormai un mese alla fine della guerra e la Missione è rimasta senza
reggente. Viene paracadutato il Capitano lohn Lees in sostituzione di Michael
Lees (per inciso questa omonimia deve aver causato non poca confusione nelle
ricostruzioni storiche successive). Non posso dare giudizi su lohn Lees perché
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lo vidi per troppo poco tempo. Comunque era un tipo completamente diverso
da Michael del quale non aveva la capacità di «Leadership». Tant'è che a questo punto la Missione si spezzò in due tronconi credo anche per il rancore che
covava in Ian Smith per non essere subentrato nel comando di Michael
Lees (9).
Ligonchio
Ian Smith, Bert e il sottoscritto, con circa metà degli uomini del «Gufo Nero», andammo a Ligonchio. John Lees rimase a Secchio con l'altra metà degli
uomini e con un altro radiotelegrafista. Dopo il contrattacco del giorno di Pasqua a Quara (o meglio a Ca' Marastoni), a cui fui presente, non seppi più
niente della attività della Missione di Secchio. A Ligonchio ci installammo nella casa del direttore della Centrale elettrica, molto comodamente devo dire.
Gli avvenimenti precipitano.
- Il comando di Firenze trasmette ordini «anti-scorch». Si tratta di disposizioni volte ad impedire che il nemico metta a ferro e a fuoco il territorio occupato prima della ritirata. CosÌ viene dato l'ordine di difendere la Centrale
elettrica di Ligonchio «a tutti i costi» (lO).
- Manco a farlo apposta, quattro imbecilli della RAF di ritorno da una incursione nella pianura padana, mitragliano e spezzonano la Centrale. Ricordo
ancora le bestemmie in scozzese del Cap. Smith e la richiesta via radio di pubbliche scuse. Smith era addirittura arrivato a dire che se si ripresentavano gli
aerei in simili circostanze si dovevano abbattere. Ecco un curioso scherzo della
memoria. Leggendo la «Cronologia» di Franzini, mi accorgo che questo episodio è avvenuto prima del trasferimento a Ligonchio e non dopo. Eppure il
Cap. Smith, il sottoscritto ed altri arrivammo alla Centrale forse mezz'ora dopo la incursione aerea. Mi ricordo l'odore di olio caldo che colava dai grandi
trasformatori perforati (11).
- I tedeschi con i loro battaglioni di mongoli iniziarono l'attacco a Ligonchio. Con Smith ci prendemmo una bordata di colpi di mortaio mentre tenevamo sotto osservazione la valle di accesso a Ligonchio. Dopo un momento di
9) Può darsi che il rancore abbia avuto la sua parte. Sta il fatto però che vi era la necessità di attuare il piano difensivo della Centrale di Ligonchio e che la presenza di un membro della Missione
era richiesto sul posto.
lO) Il 24 febbraio 45 si creò la 145" Brigata Garibaldi, che aveva il compito specifico della difesa della Centrale. Nel marzo vennero costruite delle postazioni coperte, si allestirono campi minati in vari punti dello schieramento partigiano ecc.
Anche il Comando generale del C.V.L., sapendo che i tedeschi, ritirandosi, intendevano distruggere gli impianti industriali del Nord, aveva dato particolari disposizioni per la difesa delle
Centrali.
Evidentemente, ad un certo punto, C.V.L. e Comandi Alleati concordarono di passare alle misure pratiche.
Il) Gli attacchi aerei alleati contro la Centrale di Ligonchio furono quattro e precisamente ebbero luogo nei giorni 15, 22, 23 e 24 febbraio. Pertanto direi che il trasferimento della Missione
deve essere avvenuto tra il 15 e il 24. A meno che il ricordo dell'A. non si riferisca ad una visita a
Ligonchio, fatta prima di tale trasferimento.
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smarrimento la difesa venne organizzata e resse egregiamente fino alla fine
dell'attacco.
- Viene richiesto via radio un intervento aereo su Sologno che arriva con
ben quattro giorni di ritardo quando i tedeschi già se ne erano andati da un
pezzo. (Smith mi tenne una lunga conversazione sulle cause di questo tipo di
episodio. Le richieste di intervento aereo dovevano prima essere approvate dal
comandante della Special Force di Firenze. Poi trasmesse al comando tattico
caccia che non era a Firenze e dove dovevano essere «briefed» i piloti. Mi spiegò che tra «briefing» su carte topografiche e realtà geografica c'era una bella
differenza e che non era facile per i piloti poi individuare il bersaglio specie se
si pensa che la velocità di uno spitfire permetteva di vedere il bersaglio solo per
pochi secondi. Il tutto in mezzo alla montagna. Quindi «briefing» prolungato
ed attesa di condizioni meteorologiche favorevoli. Così passava il tempo, ma
anche Smith conveniva che quattro giorni erano troppi e che sarebbe stato meglio che l'attacco fosse stato annullato automaticamente dopo il trascorrere di
un tempo prestabilito. La richiesta di conferma via radio da Firenze sarebbe
stata molto problematica dato il sistema di appuntamenti orari e la difficoltà
di trasmissione radio).
- Riceviamo l'ordine di stabilire contatto con la V Armata americana.
L'intera missione si trasferisce, via Passo di Pradarena, in Garfagnana e a Sillano (il passaggio attraverso supposti campi minati ci fa passare un brutto momento). Incontrammo le avanguardie di un reggimento americano di colore.
Stabilito poi il contatto con un reggimento di artiglieria inglese ci venne ordinato di ripercorrere la strada fatta ed arrivare a Reggio in concomitanza con la
sua liberazione. Sul momento ci parve un ordine impossibile, ma marciando
per molte ore e requisendo mezzi di fortuna arrivammo a Reggio assieme ai
partigiani. Mi ricordo che passai lungo la via Emilia a S. Pietro con una Mercedes tedesca mentre subito dopo si scatenava il putiferio causato da cecchini
fascisti nascosti sulla cupola di S. Pietro.
Il seguito, la Liberazione, la consegna delle armi, non interessa ai fini di
questo racconto.
Ecco questo è quanto, «prima facie», posso ricordarmi. Evidentemente le
cose si ricordano meglio e si precisano anche attraverso il dialogo con coloro
che hanno vissuto gli stessi momenti. Sarebbe molto interessante se attraverso
questa rivista si potesse instaurare un dialogo del genere in modo da arricchire
le cronache e i ricordi personali.
BRUNO GIMPEL
IL RIFORNIMENTO
In queste pagine Gismondo Veroni affronta un aspetto molto importante, ma poco studiato, della lotta di liberazione nel Reggiano:
quello del sostegno in viveri, vestiario, ecc., che dalla pianura giungeva ai combattenti dell'Appennino nel duro autunno inverno
1944-1945.
L'esposizione è in forma narrativa (ma ancorata a fatti realmente
accaduti), cast' come il pezzo sull'inizio della lotta armata pubblicata
sul n. 20/21 della nostra rivista. L'uno e l'altro furono a suo tempo
esclusi dali'autore dalla raccolta «Azione partigiana» (Ed. Libreria
Rinascita, 1975). Ma anche questi due racconti, come i 34 pubblicati nel volume citato, ebbero la loro prima stesura nel lontano 1948.
Con l'approssimarsi della cattiva stagione, quando fu chiaro che l'offensiva
alleata sul fronte italiano sarebbe stata interrotta e le formazioni partigiane
della montagna sarebbero state poste in gravissime difficoltà non potendo
contare molto sugli aiuti aviolanciati dagli alleati per sostenere le prevedibili
operazioni invernali «antiribelli», fu subito chiaro che occorreva prendere delle gravi decisioni. E infatti, 1'11 ottobre 1944 ebbe inizio in pianura, popolarizzata da una vastissima operazione propagandistica, la «Settimana del partigiano» una campagna di aiuti in danaro, vestiario, viveri, medicinali ecc.
Nello stesso tempo, come era prevedibile, truppe tedesche tolte dal fronte
ormai tranquillo, diedero inizio ad operazioni di rastrellamento contro le formazioni della montagna, sia a sud del Secchia, sia nella vallata dell'Enza. Il
maltempo, l'equipaggiamento ancora estivo, le malattie, le dolorose perdite
subite, determinarono una situazione drammatica.
Poco dopo, nel novembre, il «messaggio di Alexanden> veniva a confermare che l'offensiva contro la linea gotica sarebbe stata ripresa a primavera. Ci
fu subito, nei comandi, un grave dilemma da risolvere: unirsi agli Alleati attraversando la «linea gotica», come avevano già fatto in gran parte i vicini
modenesi, oppure restare e continuare a combattere anche durante l'inverno,
mobilitando però tutte le energie popolari della pianura per attuare pienamente questa dignitosa e patriottica decisione.
Già, con l'impegno dei Gruppi di Difesa, del Fronte della Gioventù e delle
S.A.P., quintali e quintali di aiuti si andavano ammassando nei magazzini segreti della «bassa», a disposizione dell'Intendenza, mentre con vari, ingegnosi
espedienti, tali aiuti della «Settimana» andavano affluendo alle varie Intendenze della montagna: quella della 144 a Brigata Garibaldi (Val d'Enza) e
quella Generale del Comando Unico Zona (a est del Secchia).
Anche questo fatto di certo fece pendere la bilancia a favore di chi sosteneva che era giusto rimanere sul posto ed affrontare l'inverno. Il C.L.N. Provinciale appoggiò autorevolmente questo indirizzo. Le formazioni partigiane,
uscite da un breve periodo di «attendismo», tra la fine di novembre, e per tutto il dicembre reagendo orgogliosamente all'inerzia, moltiplicarono l'attività
operativa attaccando il nemico sulle strade di montagna ed anche di pianura,
ove le squadre si portavano a turno col duplice obiettivo di tenere impegnato il
nemico nel momento in cui egli dava per certa la fine della guerriglia nella sta-
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gione invernale e organizzava la sua attività informativa e militare contro i ribelli, e dall'altro per consentire alle formazioni di rendersi autonome in fatto
di alimentazione.
Nonostante la cosiddetta «pianurizzazione» e nonostante i primi aiuti della
«Settimana», la situazione dell'Intendenza di montagna era disperata. Se un
terzo delle forze, a rotazione, si rendeva autonoma, rimanevano sempre i due
terzi, vale a dire circa 700 giovani a cui garantire giorno per giorno il nutrimento.
In data 5-12-1944, il V. Comandante generale del Comando Unico Zona
Miro (Riccardo Cocconi), chiudeva una sua lettera indirizzata a me come Comandante del Comando Centrale delle S.A.P. operanti in pianura: «Caro
Bortesi, abbiamo soltanto 50 gr. di lardo per ogni partigiano». Alcune altre informazioni di un certo rilievo erano contenute in quella missiva, ma questo
dato drammatico arrecò al nostro comando S.A.P. una grande preoccupazione.
Da quel momento il nostro pensiero e la nostra azione furono rivolti alla ricerca di tutte le forme possibili di recupero di prodotti alimentari e di equipaggiamento.
La ricerca di aiuti di casa in casa, condotta anche dopo la fine della «Settimana del partigiano», che diede risultati isperati, non era più sufficiente, data
la urgenza dell'intervento che ci veniva implicitamente richiesta con l'appello
laconico di «Miro».
Ci volevano grandi azioni di recupero a mano armata e l'invio rapido in
montagna dei viveri recuperati. Nonostante le difficoltà che ci imponeva il terribile inverno, decidemmo un piano di recupero su vasta scala, anche con l'impiego di squadre e distaccamenti armati dei GAP e delle SAP.
Le autorità della repubblica di Salò al servizio dei tedeschi, avevano provveduto nella nostra provincia, su richiesta degli invasori, alla requisizione forzata del burro, dei grassi, del formaggio, delle carni, del grano e di ogni altro alimento di primaria importanza, aggravando con ciò la già critica situazione alimentare delle popolazioni del Reggiano.
Eravamo a conoscenza che tutti questi prodotti erano in gran parte immagazzinati in varie località della pianura, vigilati dai militari dei presìdi fascisti
e tedeschi.
Il nostro Servizio informazioni aveva preparato già da alcuni giorni una
sommaria relazione su ogni zona, sicché si conosceva la sede di questi depositi.
Le squadre ed i distaccamenti GAP e SAP avevano già da parecchio tempo
il compito di aggredire le mandrie di bestiame razziate ai contadini dai fascisti
ed avviate verso il Po per la «63» e per altre strade secondarie. Si doveva seguire il tragitto di quei convogli ed appena si avvertivano le condizioni favorevoli, attaccare i pochi militari che a piedi seguivano gli animali, disperdere gli
accompagnatori civili ed uccidere buoi e mucche. La voce veniva fatta correre
in una vasta zona e a volte anche in città; cosicché le donne, giovani e vecchie,
nonostante i rischi cui si esponevano, si portavano sui luoghi delle azioni per
procurarsi un po' di carne.
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Un recupero importante era stato quello di Villa Sesso. Nella Villa, a quattro chilometri dalla città, nella notte del 6 ottobre 1944, con un piano accuratamente predisposto, la grande Latteria «Cremerie Reggiane» venne attaccata
da partigiani della pianura che, dopo essere riusciti ad entrare nei locali del
Caseificio, costrinsero al silenzio il personale addetto alla custodia.
Partendo da fondo del torrente Crostolo, carri agricoli trainati da quadrupedi arrivarono al deposito già presidiato dai GAP e dalle SAP e, senza dare
nell'occhio, si provvide a trasportare il burro in alcune case di contadini. Qui,
nella stessa notte, la maggior parte del prodotto venne fuso, versato in fustini
di legno ed in damigiane di vetro e quindi trasportato in luogo sicuro ed in
parte sotterrato nei campi.
I partigiani, armi alla mano, divisi in alcuni gruppi, vegliavano nelle vicinanze, mentre l'operazione si compiva nel più assoluto silenzio. Tutto venne
portato a termine senza bisogno di sparare un sol colpo d'arma da fuoco. Nella operazione, vennero nell'insieme impiegati circa 60 uomini.
Per comprendere il rischio di una simile azione, si consideri che per trasportare circa 30 quintali di burro, occorsero 3 carri e che nelle vicinanze vi era un
accantonamento si soldati tedeschi distante dal caseificio poco più di 200 metri.
I comandi tedeschi, allorché appresero dell'azione compiuta dai partigiani,
ordinarono ai fascisti di perlustrare la zona metro per metro, ma come abbiamo detto, il burro era già in luogo sicuro e per la maggior parte sotterrato.
Nonostante la solerzia e la rabbia con cui le brigate nere compirono il loro rastrellamento, non un recipiente cadde nelle loro mani, e non un uomo venne
scoperto.
lo assistetti a quella operazione e mi entusiasmò l'impegno che tutti, partigiani, contadini, uomini e donne, misero nelle varie operazioni e particolarmente in quella della trasformazione del prodotto.
Quando prendemmo le nostre decisioni come Comando Centrale SAP, il 12
dicembre 44, ci ricordammo di questa operazione. Sapevamo della esistenza
del burro fuso, nascosto e sotterrato. Predisponemmo il recupero e, col solito
sistema, lo trasportammo alle formazioni della montagna.
Poco dopo, nella prima decade di gennaio, i tedeschi vista la aggressività dei
«ribelli», indissero un vasto rastrellamento che investì la zona a est del Secchia
e una parte della zona montana modenese.
Noi ci preoccupavamo molto. Sapevamo che i nostri fratelli, oltre agli attacchi del nemico, dovevano affrontare anche i gravissimi disagi della cattiva
stagione. Date le condizioni atmosferiche proibitive, tutto l'Appennino si era
trasformato in un unico immenso territorio impraticabile perché coperto di un
alto strato di neve. Di conseguenza comprendevamo le difficoltà che i partigiani impegnati in quelle difficili battaglie incontravano nei loro trasferimenti.
Ma gli uomini e le donne seppure esausti, affamati, male equipaggiati, feriti,
colpiti dal gelo, non si arresero ed arrivarono sino alle Alpi di Succiso, mentre
altri si stabilirono sulle falde del monte Cusna.
Ma anche per i tedeschi, queste operazioni non erano tutte rose. Dovettero
mordere la neve per giorni e giorni prima di occupare la zona partigiana ormai
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vuota, e, dopo aver saccheggiato qualche pollaio, ritornarono presto sui loro
passi.
Fu allora che i partigiani rioccuparono le loro sedi primitive e ripresero anche le loro puntate verso la pianura.
Il problema tuttavia rimaneva -aperto in tutta la sua enorme importanza:
dovevamo continuare le nostre azioni di recupero.
Una grande azienda di macellazione situata ad 8 chilometri dalla città, era
stata requisita dai tedeschi. Ogni giorno vi si macellavano decine di capi di bestiame che, con appositi autocarri completi di rimorchio, venivano trasportati
verso il Fronte, oltre Bologna. Altri autocarri con quantità di carne ancora
maggiore, erano indirizzati oltre il Po, verso Milano, l'Austria e la Germania.
In quello stabilimento di macellazione erano occupati, come operai, alcuni
nostri compagni partigiani. Particolarmente attivi erano Bruno Ferrari e Bruno Ghinolfi di Rivalta.
Ottenute le necessarie informazioni, un mattino una nostra squadra del Distaccamento SAP di Scandiano ed un gruppo GAP di S. Maurizio, al comando di Franco (Giuseppe Valenti) decise di catturare un carico completo di queste carni.
Per circa un'ora cinque partigiani rimasero immersi nell'acqua del fossato
che costeggia la strada su cui normalmente transitavano i mezzi di trasporto
dell'azienda. A circa un chilometro dal macello stesso, altri otto partigiani
erano nascosti nelle vicinanze.
All'arrivo dell'autocarro i partigiani del fossato, armi alla mano, saltarono
sulla strada, fermarono l'automezzo, mentre gli altri provvedevano ad arrestare la scorta di due fascisti.
Il camion venne dirottato nella zona pedemontana e precisamente alla Gorgola di Viano, controllata dai partigiani. Da questo centro di smistamento dei
materiali arrivati dalla pianura, si provvide a trasportare il carico di circa cinquanta quintali di carne fresca oltre il fiume Secchia.
Anche questa operazione venne effettuata nella zona controllata dai nazifascisti e non costò alcuna perdita nostra mentre il nemico ebbe due prigionien.
Nei comuni di Cadelbosco Sopra, Castelnovo Sotto, Poviglio e Brescello
era stato prelevato con la forza dai contadini, da parte del comando della
G.N.R., tutto il tabacco prodotto nell'annata e lo avevano depositato in un
magazzeno nel comune di Cadelbosco Sopra, sorvegliato da militi fascisti.
Per alcuni giorni il nostro comandante del locale distaccamento SAP, aiutato da una staffetta del luogo, studiò la situazione e predispose l'attacco al corpo di guardia da parte di una squadra di garibaldini, della 144 a Brigata, appositamente scesa dai monti e dei suoi sappisti. L'operazione di prelievo venne
effettuata con rapidità. I fascisti, smarriti, riuscirono a fuggire mentre alcuni,
fatti prigionieri, vennero privati delle armi e delle divise.
Compiuto il prelevamento di tutto il contenuto del deposito, il tabacco, in
buona parte, venne subito smistato verso la montagna mentre alcuni sacchi di
foglie vennero nascosti nelle vicinanze e non furono mai scoperti, nemmeno
durante il rabbioso rastrellamento che la brigata nera eseguÌ subito dopo nella
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zona, perquisendo parecchie case.
A Barco di Bibbiano erano state immagazzinate oltre duemila forme di
«Grana», in attesa che i tedeschi lo trasportassero nel loro paese.
L'incarico della direzione del recupero di un tale quantitativo del prezioso
alimento, venne affidato direttamente al Comandante della IV Zona (poi 76 a
Brigata SAP) Siria (Allegri Paride).
In accordo col nostro comando e con la Intendenza centrale, venne studiata
sul posto l'operazione fin nei minimi particolari: quanti militi fascisti si trovavano nel presidio di Bibbiano e degli altri paesi confinanti, la ubicazione dei
magazzini, le strade di accesso per giungere al deposito, le vie per il ritorno e
così pure la zona e le varie località nelle quali doveva essere trasportato immediatamente il prodotto, i mezzi necessari al trasporto, il numero di uomini da
impiegarsi in ogni mansione.
Nella notte del 16 dicembre, dai paesi vicini, e sotto la diretta sorveglianza
di squadre armate, carri agricoli e carretti trainati da buoi e da cavalli - ed alcuni anche da uomini - giunsero nella località prescelta.
In alcune ore, impiegando circa cento uomini, le 2.000 forme di formaggio
vennero prelevate ed avviate nelle zone predisposte. Altre centinaia di forme
vennero lasciate dai partigiani alla popolazione. Più precisamente le collocarono loro stessi davanti alle porte di molte abitazioni civili.
Per non avere sorprese da parte delle pattuglie fasciste e tedesche che normalmente uscivano dai presìdi vicini, si decise che alcune squadre di partigiani
della montagna scendessero in aiuto a quelle della pianura che avrebbero dovuto attaccare anche a distanza questi presìdi. La manovra venne effettuata
con serietà e precisione. Così avvenne che per tutta la notte gli armati fascisti
furono costretti a rimanere rinchiusi nei loro accantonamenti.
L'operazione riuscì in pieno in quanto diede i risultati da noi sperati. Pur
avendo impiegati tanti uomini, tanti mezzi e personale civile, non subimmo
nessuna perdita, nessun arresto. Il prodotto recuperato in tale enorme quantità, scomparve e i partigiani non lasciarono in mano al nemico nessuna traccia.
Importante fu anche un recupero di carne di maiale. In diverse località della
provincia: a Montecchio, Salvaterra, Albinea, Codemondo ecc., in apposite
porcilaie si trovavano maiali grassi requisiti dai comandi tedeschi in attesa di
essere macellati. I distaccamenti GAP e SAP provvidero ad entrare negli allevamenti, a mettere in fuga le guardie fasciste e a catturare quelle che fecero resistenza, come ad Albinea.
Abbattuti i maiali con rapide operazioni già organizzate in precedenza, questi furono trasportati in zone sicure.
Due di queste operazioni vennero dirette da Azar (Mario Simonazzi), Vice
comandante della 76 a Brigata SAP.
Nei magazzini dell'ammasso in diverse località della provincia, erano stipati
migliaia di quintali di grano a disposizione del nemico. Il popolo soffriva la
fame ed il cereale ci avrebbe aiutato a soddisfare le esigenze di pane dei partigiani ed anche della popolazione civile.
L'operazione di prelievo però si presentava difficile perché l'ubicazione dei
depositi era nei centri abitati dei paesi, ove avevano anche sede i presìdi fascisti.
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A Puianello e Jano di Scandiano ad esempio, i fascisti furono attirati fuori
dai presìdi con azioni di disturbo delle nostre squadre armate; così altre squadre riuscirono ad entrare nei paesi, ad aprire le porte dei magazzini e ad impossessarsi di parecchi quintali di grano. La popolazione locale ne approfittò.
Chi aveva coraggio, perché coraggio necessitava, poteva fare provviste di una
certa quantità di grano. E furono molti a beneficiarne.
La voce popolare che si sparse nella zona era la seguente: «i fascisti ci hanno
tolto il grano portandoci alla fame e i partigiani ce lo hanno ridato».
Il Sanatorio «Lazzaro Spallanzani», situato nella periferia Sud della città,
in tempi normali ospitava dai 150 ai 200 malati di tubercolosi.
Con l'occupazione dei due primi piani dello stabile da parte dei nazisti, che
vi avevano fissato il loro centro sanitario con relativo deposito di medicinali, i
ricoverati civili erano stati ridotti ad una cinquantina.
Tanto tra gli ammalati come pure tra il personale sanitario, che era rimasto
intatto, giacché per i due terzi era stato posto al servizio dei tedeschi, si trovavano nostri compagni partigiani. Da loro sapemmo di notevoli quantitativi di
medicinali raccolti nel deposito.
Erano già vari mesi che inservienti, infermieri, suore e medici offrivano piccole quantità di medicinali alla nostra Intendenza che generalmente li distribuiva alle formazioni della pianura. Ora invece, a noi ne servivano quantità
consistenti da inviare in montagna. Discutemmo con Enzo Roccatagliati, un
infermiere nostro compagno che godeva all'interno del luogo di cura la fiducia di tutto il personale. Con lui affrontammo il problema dell'appropriazione
dei prodotti sanitari.
Il Roccatagliati aveva libero accesso al deposito dei nazisti e, senza preoccuparsi del rischio cui andava incontro - perché i tedeschi mantenevano un severo controllo sul magazzeno - riuscì ad accumulare e nascondere nei locali
delle cucine, con l'aiuto di compagne e compagni, una notevole quantità di
medicine, materiali di medicazione, ricostituenti, disinfettanti, oltre a qualche
ferro per interventi chirurgici.
Il problema difficile era come far uscire dall'Ortslazzarett (così i tedeschi
chiamavano lo Spallanzani), tutto questo materiale. Il Sanatorio era presidiato tanto all'entrata come ai quattro lati dell'edificio, da guardie tedesche e fasciste, di giorno come di notte.
Ci venne in aiuto l'amico Livio Caselli Bandi (che diverrà in seguito vice Intendente generale della pianura) il quale era impiegato nella ditta concessionaria dei servizi di nettezza urbana che serviva anche il sanatorio. La raccolta dei
rifiuti del luogo di cura veniva svolta ogni due giorni da un camion appositamente attrezzato. Spesse volte l'automezzo veniva ispezionato all'uscita dai
militari del Corpo di Guardia.
«Qui è il pericolo», ci disse Roccatagliati.
Pur consapevoli di questa difficoltà - in seguito alle nostre insistenze - i
compagni si convinsero che era necessario tentare ugualmente l'operazione.
Occorreva aspettare il momento opportuno. Fra i ricoverati tedeschi feriti ed
ammalati vi era un caporale della Wehrmatch, un berlinese che amoreggiava
con una nostra giovane compagna. Fu costei a farci sapere che il caporale, una
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volta guarito delle ferite riportate sul fronte russo, si proponeva di fuggire in
montagna con l'amica (cosa che in seguito fece veramente).
Non si era sicuri della sua lealtà, ma occorreva superare ogni dubbio.
Un giorno, presente la sua compagna, il Roccatagliati gli disse che era necessario fare uscire il camion della nettezza urbana senza che venisse ispezionato alla porta. Gli venne detto che conteneva, oltre ai rifiuti, molti medicinali
che servivano per la popolazione civile bisognosa. Forse costui immaginò che
ci fosse lo zampino dei partigiani, ma non fece obiezione.
I nostri compagni impegnati all'interno dell'Ospedale ci dissero che le perquisizioni più meticolose venivano fatte da militi fascisti, mentre i tedeschi si
dimostravano più tolleranti.
CosÌ alle Il del mattino - si era vicini a Natale - quando il camion (come
concordato) si presentò all'uscita del Sanatorio, vi erano di guardia i soldati
tedeschi. Il caporale, nostro amico, era nei pressi. Si avvicinò e si mise a parlare con i propri commilitoni, e poi con l'autista in modo amichevole e confidenziale. CosÌ il camion uscì indisturbato. Quel materiale, in pochi giorni,
raggiunse quasi tutto le formazioni della montagna.
Ancora un ottimo recupero venne effettuato presso i Magazzeni dell'Ente
Autonomo Consumi della città.
Tanto nel reparto alimentare quanto in quello della panificazione avevamo
degli amici antifascisti. Furono loro e particolarmente Giuseppe Torelli, Claudio Scolari, Renato Brevini e Guido Bronzoni che sottrassero zucchero, pasta,
riso, farina e sale e fecero avere poi queste derrate, col camioncino che serviva
loro per il rifornimento agli spacci dell' Azienda, ad una nostra base della intendenza sita in Via P. Giacinto Terrachini presso la famiglia Vecchi, per l'ulteriore inoltro verso la montagna.
Si era già entrati, come abbiamo visto prima, nel pieno di un rigidissimo inverno. La neve copriva tutta la pianura e a camminare di notte si era facilmente individuati dalle spie - non dimentichiamolo mai - e dalle pattuglie dei
numerosi posti di blocco che il nemico aveva scaglionato come una ragnatela
nella zona pedemontana.
Non era possibile, né di giorno né di notte, il trasporto con mezzi animali, e
tanto meno con autocarri.
«Abbiamo gli ultimi 50 grammi di lardo» diceva la lettera di Miro e noi avevamo quintali di generi alimentari a disposizione. Ma una difficoltà apparentemente insuperabile si opponeva all'inoltro degli aiuti alle formazioni partigiane della montagna.
Fra di noi vi erano uomini che avevano combattuto a contatto con le formazioni partigiane in Grecia e in Jugoslavia e da esse avevano imparato alcune
cose. CosÌ, dopo una notte di discussione durante la quale esaminammo tutte
le possibilità, si giunse alla soluzione che, alla prova dei fatti, risulterà la più
semplice e la più rapida. Si provvide a far confezionare tute bianche affinché i
partigiani non fossero individuati nel loro cammino notturno sulla neve, si
pensò a formare piccole colonne che da una località all'altra trasportassero
verso la collina tutte le merci che avevamo a disposizione.
Queste operazioni furono le più importanti della nostra guerra partigiana,
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in quanto permisero di mantenere in vita le formazioni della montagna e quelle della pianura, nonché di aiutare la popolazione civile.
Tornando alle spedizioni del materiale, io partecipai ad una di esse. Si partì
nella notte dalla zona di S. Martino in Rio a quattro chilometri a Nord dalla
Via Emilia; bisognava raggiungere Viano a otto chilometri a Sud della stessa
via Emilia. Era una notte fredda; il terreno era coperto di neve e di ghiaccio e
purtroppo v'era una luna chiara che illuminava come fosse giorno. La colonna era di circa 30 persone, distaccate le une dalle altre di alcuni metri; ognuno
portava un peso dai lO ai 15 chilogrammi.
Attraverso i campi, aggirando i presìdi del nemico, attenti a non fare rumore, guidati da uomini tenaci e coraggiosi che comprendevano la importanza
della missione, si arrivò sulle colline di Viano prima dell'alba.
Così per molte notti, percorrendo diversi tragitti, contadini insieme a sappisti scortati da partigiani armati portarono alle Brigate della montagna migliaia
di chilogrammi di alimenti, di vestiario, di medicinali.
Come s'è visto era stata indetta la «Settimana del partigiano» che però, date
le impellenti necessità, continuò per tutto l'inverno. La raccolta principale era
fatta dalle donne, esse diedero un grande contributo a questa operazione. Furono loro a fornire vestiti, scarpe, indumenti di lana ecc. Alcune di loro parteciparono anche alla marcia che sopra è stata descritta.
Il nemico era a conoscenza delle difficoltà di vettovagliamento in cui si dibattevano le formazioni partigiane della montagna e, allo scopo di isolarle
dalla pianura, installò una linea di sbarramento che dal fiume Enza, ai confini
con la provincia di Parma, arrivava fino al fiume Secchia, al confine con la
provincia di Modena, attuando una rigida, continua sorveglianza.
Ma i nostri partigiani passavano ogni notte lungo i fiumi, i torrenti, nelle
piccole vallate; e alcuni di essi vi trovarono la morte.
Le sparatorie del nemico si verificavano in una località o in un'altra, dove i
nostri gruppi venivano individuati. Purtroppo bisognava tener presente che il
compito di fondo non era quello di cercare o accettare lo scontro, ma quello di
portare a destinazione il materiale.
Così noi facemmo fronte, in quel terribile inverno, al bisogno dei nostri fratelli che combattevano in montagna. In tal modo l'esercito partigiano trovò la
sua sussistenza e si costruì con essa la vittoria.
A primavera i magazzini della montagna erano ben forniti di viveri ed i partigiani, vestiti decentemente, iniziarono la Liberazione della provincia.
GISMONDO VERONI
Atti e attività dell'Istituto
L'ASSEMBLEA ANNUALE DEI SOCI DEL 24-2-1980
In apertura, mons. Simonelli, pregato dal Presidente dotto Luigi Ferrari,
commemora brevemente la figura della prof. Raimonda Mazzini, socia
dell'Istituto, scomparsa recentemente.
Il rag. Bruno Caprari, illustra poi ai presenti il bilancio consuntivo. Il dott.
Giuseppe Ferrari, subito dopo, legge la relazione dei Revisori dei conti.
Dopo breve discussione, il bilancio viene messo ai voti ed approvato alla
unanimità.
Il Presidente dell'Istituto dott. Luigi Ferrari, legge quindi la relazione del
Comitato Direttivo sull'attività svolta nel 1979 e su quella che viene proposta
alla Assemblea per il 1980. Ne riportiamo qui di seguito i punti essenziali.
«Accenneremo appena al pur gravissimo fenomeno del terrorismo che insanguina da un decennio le grandi città ( ... ) Dopo l'ondata delle stragi di marca fascista, ha preso il sopravvento quella delle Brigate rosse e di altre organizzazioni similari, cioè di sedicenti rivoluzionari che tentano, sino ad ora fortunatamente con scarso successo, di coinvolgere le masse lavoratrici in un processo di degenerazione dei rapporti politici e quindi di "terrorismo diffuso".
Tra le varie cause di questa ribellione che viene definita "insensata" , una in
particolare ci interessa da vicino. Alludiamo alla interpretazione distorta di
fatti e finalità della guerra di Liberazione, che anni orsono proveniva dai settori dell'ultra sinistra e che ora fa parte del bagaglio culturale del cosiddetto
"partito armato" ( ... ) Si sostiene da quel lato [che] la Resistenza avrebbe fallito il suo scopo rivoluzionario e che ora, pertanto, andrebbe ripresa come lotta
armata tesa a colpire lo Stato nato da quella Lotta, per costringerlo ad una
svolta autoritaria (che sarebbe fortemente impopolare) ed impegnarlo quindi
in una vera guerra civile a cui dovrebbero partecipare sempre più vasti strati di
lavoratori e studenti. Un disegno criminoso e velleitario che si tenterebbe comunque di legittimare anche gabellandolo come continuazione della Resistenza.
Una cosa assurda, un falso culturale e politico, una distorsione storica resa
possibile anche dalla incapacità della Scuola di orientare in modo giusto i giovani, con un corretto insegnamento della Resistenza e del suo messaggio sociale che è contenuto nella Costituzione».
Si passa poi ad esaminare i problemi del nostro Istituto.
Dopo aver premesso che la riscossione di contributi arretrati ci ha permesso
di apportare qualche miglioramento alla struttura interna dell'Istituto, la relazione proseguiva elencando iniziative e situazioni. «La biblioteca conta ora
1367 volumi, con un incremento di 220 titoli rispetto al 1978. ( ... )
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Per quanto riguarda l'Archivio ( ... ) è stata ulteriormente ampliata la cosiddetta "Guida sommaria" con ulteriori note apportate sul dorso delle ben 147
cartelle»: 9 del Comando Nord Emilia; 1 di Comandi ed Enti vari; 21 del Comando Unico Zona; 6 del Commissariato generale; 10 della 26 a Brigata Garibaldi; 5 della 144 a Brigata Garibaldi; 5 della 145 a Brigata Garibaldi; 1/2 del
Battaglione Alleato e Brig. Fiamme Verdi; 12 del Corpo Polizia Partigiana; 7
della 76 a Brigata S.A.P.; 2 della n a Brigata S.A.P.; 2 del Partito Comunista;
6 di miscellanea; Il di carteggio fascista; 4 della Giustizia partigiana; 6 appartenenti all'archivio de «il Volontario della libertà»; 10 già appartenenti all' Archivio dell' A.N.P.I.; 6 di carteggio vario del «ventennio»; 6 grandi album di
stampa clandestina.
Questa elencazione viene commentata brevemente. Si rileva, tra l'altro che
manca quasi tutto il carteggio della Brigata «Fiamme Verdi» e si pregano
«quei soci che possono farlo» di vedere se tale carteggio possa essere rintracciato ed acquisito in originale o in fotocopia. Quanto alla Emeroteca, si segnala l'acquisto di un grosso scaffale metallico e la relativa parziale sistemazione
di quotidiani e periodici, dei quali vengono elencate le varie collezioni. Viene
osservato che, come Istituto, dovremmo poter venire in possesso «di almeno
tutti i giornali e periodici 10caH dal 1945 al 1948-50».
Vengono poi elencate brevemente le attività varie del 1979, tra le quali la
nostra collaborazione coi modenesi per l'allestimento del Museo di Montefiorino, già inaugurato; la edizione dei numeri 37 e 38/39 di «Ricerche Storiche»;
la continuazione della raccolta di testimonianze; la collaborazione di Zambonelli con Arbizzani e Volta, nella preparazione di un volume sugli emiliani
combattenti nella guerra di Spagna; la costituzione della Commissione giudicatrice (già all'opera) dei lavori presentati al nostro IV Concorso a premi per
studi storici inediti; l'acquisto di un mobile-schedario e l'ordinazione di
45.000 schede provvisorie, come inizio della progettata schedatura dei documenti del nostro Archivio; lo studio della bozza di Statuto dell'Istituto regionale e la segnalazione di nostri emendamenti al testo, che è stato poi approvato nell'assemblea del 3 novembre; la partecipazione di nostri rappresentanti al
Convegno di Rimini sul tema «Storia nazionale, storia della Resistenza, storia
locale»; la raccolta di elementi informativi sulla adozione delle fonti orali nella didattica della storia nelle scuole del Reggiano e la trasmissione delle notizie
raccolte all'Istituto nazionale che sta preparando un Convegno sull'argomento.
Si è poi colta l'occasione dell' Assemblea, per dare alcuni dati sullo stato degli studi nel Reggiano a cominciare da quelli apparsi su «Ricerche storiche»:
- la tesi di Luciana Spinato «Il governo ciellenistico a Reggio Emilia dopo
la Liberazione»;
- la tesi di Giovanna Barazzoni «Il fascismo alla conquista del potere a
Reggio Emilia (1923-1926)>>;
- lo studio di Marco Paterlini «Economia reggiana dalla marcia su Roma
alla crisi del 1929» (sintesi tratta da una sua tesi sull'argomento).
È stato osservato che in sostanza «per quel che riguarda la storia del ventennio, si può considerare che rimane ancora scoperto il periodo 1927-1943» e
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che, pertanto, «c'è ancora molto spazio per altri studi sul periodo fascista».
Mentre continuano gli approfondimenti sulla guerra di Liberazione, in particolare attraverso documenti commentati sempre sulla nostra rivista, compaiono altri studi sul periodo della Ricostruzione democratica che saranno pure pubblicati a suo tempo:
- Letizia Valli: «Le donne nelle campagne emiliane nel secondo dopoguerra»;
- Marco Mietto: «La sinistra democristiana a Reggio Emilia negli anni
della ricostruzione - I dossettiani e gli altri»;
- Vladimiro Ferretti: «Cooperazione, cooperativismo e politica a Reggio
Emilia nel dopoguerra 1945-1951».
A questi vanno aggiunti i tre lavori presentati al nostro Concorso (sempre
riguardanti il periodo della ricostruzione democratica) dei quali si cita soltanto il titolo non conoscendosi il nome degli autori dato che la Commissione giudicatrice è ancora al lavoro.
Si conclude che «rispetto al programma generale di ricerca elaborato dal
Nazionale nel 1972, non siamo affatto in arretrato poiché agli studi sul dopoguerra si aggiungono quelli sul fascismo del "ventennio", nonché gli accennati approfondimenti sulla guerra di Liberazione, periodo che può definirsi virtualmente coperto».
Si abbozza quindi qualche idea sul lavoro e le iniziative del 1980: preparare la
premiazione dei vincitori del Concorso (già effettuata - n.d.r. -); l'eventuale pubblicazione degli atti del Convegno di carattere storico del PCI tenuto a
Correggio recentemente; continuare la raccolta delle testimonianze; giungere
finalmente alla costituzione di un vero archivio fotografico; sistemare in ordine cronologico, per quanto è possibile, la stampa clandestina; ordinare la rilegatura di periodici e di quotidiani della nostra Emeroteca; terminare la ricerca
sulla Epurazione per conto della FIAP nazionale (già terminata - n.d.r.); elaborare una nuova «Bibliografia della Resistenza reggiana» giacché quella del
1969 è di parecchio invecchiata.
Si conclude esprimendo la speranza che nella Scuola «penetri, e sia giustamente inteso, lo spirito innovatore della Resistenza, mirante ad una società
giusta per tutti e pulita, a cui si deve tendere attraverso la lotta democratica;
spirito al quale una minoranza violenta, assurdamente appoggiata anche da
qualche docente, pretenderebbe rifarsi, con il conseguente gravissimo stravolgimento politico e morale a cui anche si devono i tristi momenti che stiamo attraversando».
A questo punto si apre la discussione. Intervengono i soci Mons. Prospero
Simonelli, Sereno Folloni, Alice Saccani, Giovanni Fucili, Osvaldo Salvarani,
Giorgio Carpi, Aldo Ferretti, Gismondo Veroni, Mauro Saccani, Aldo Magnani, Avvenire Paterlini.
Sulla questione del terrorismo c'è sostanziale accordo; l'Istituto deve adoperarsi affinché nella scuola vi sia chiarezza sul binomio «violenza-guerra di
Liberazione», comunque lo studio di questa materia devono essere i partiti a
farlo e non l'Istituto dati i limiti statutari esistenti. Esiste però lo studio del
prof. Ventura di Padova.
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Vengono formulati alcuni suggerimenni per nuovi studi: sul Comando Piazza, sulle Canoniche e la Resistenza, sul Corpo Italiano di Liberazione, sui
campi di concentramento, sui partigiani all'estero ecc.
Vengono anche presi impegni per recuperare e donare all'Istituto: le prime
delibere del C.L.N. dopo la Liberazione (Folloni); i questionari compilati da
molte donne reggiane in preparazione del Convegno regionale «Donne e Resistenza», tenutosi nel maggio del 1977 (Saccani) (Già recuperati - n.d.r .).
Sono poi stati trattati argomenti vari di minore importanza.
Al termine degli interventi viene messa ai voti, ed approvata, la relazione
del Comitato Direttivo.
I VINCITORI DEL CONCORSO PER STUDI STORICI INEDITI
Alla presenza di un certo numero di soci e non soci, presso la sede del nostro
Istituto, alle ore 18 del 24 aprile scorso, ha avuto luogo la premiazione dei vincitori del Concorso per studi storici inediti su Reggio Emilia e Provincia, nel
periodo della Ricostruzione democratica.
La breve cerimonia ha avuto inizio con una allocuzione del Presidente
dell'Istituto dott. Luigi Ferrari, il quale, tra l'altro ha ricordato che i quattro
Concorsi dell'Istituto, hanno fruttato complessivamente ben 15 studi di buon
livello scientifico.
Si è poi proceduto alla premiazione degli autori nel seguente ordine:
- IO premio di L. 800.000 a Tiziana Cristofori Valli per il lavoro «Struttura agraria e lotte contadine nella provincia di Reggio Emilia nel secondo dopoguerra (1945-1949)>>
- 2 0 premio di L. 600.000 a Moreno Simonazzi per il lavoro «Presenza sindacale nella "ricostruzione": il caso della C.d.L. di Reggio Emilia»
- 3 o premio di L. 500.000 a Lia Barone per il lavoro «Il dibattito politico
nella stampa reggiana (1945-1947).
Su tali studi, la Commissione giudicatrice aveva espresso in precedenza la
seguente valutazione:
- Nello studio di Tiziana Cristofori Valli viene svolto un serio discorso di
storia economico sociale in un settore importante come quello dell'agricoltura
reggiana, attraverso l'utilizzazione di fonti locali di non facile reperimento e
con apporti di materiale statistico esauriente e funzionale all'oggetto della ricerca.
Ben sviluppato anche il raccordo fra situazione locale e contesto nazionale
(forse esorbitante) attraverso l'abbondante ricorso ad una ricca bibliografia.
- Lo studio di Moreno Simonazzi è caratterizzato da notevole impegno essendo costruito su di una ricchezza di dati relativi alla situazione locale ed è tale da costituire un importante e corposo avvio alla ricerca sulla storia del Sindacato nel secondo dopoguerra.
Positivo l'inserimento della vicenda locale nel contesto nazionale, lasciato
dall' Autore sullo sfondo in un corretto equilibrio tra i due momenti.
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- Lia Barone ha affrontato e svolto con scioltezza il tema del dibattito politico sulla stampa reggiana, attraverso una accurata lettura dei giornali
dell'epoca. Abilmente sviluppato, anche se forse con qualche punta polemica
postuma, il giudizio sulle posizioni dei diversi partiti.
Il supporto di qualche fonte supplementare, particolarmente orale, data la
irreperibilità di documenti idonei, avrebbe giovato ad uno studio che peraltro
si raccomanda per l'ampiezza e l'accuratezza della ricerca sulle fonti giornalistiche.
Notiziario
ISTITUTO EMMANUEL MOUNIER
Ad opera di un gruppo di giovani intellettuali reggi ani si sta costituendo,
con sede provvisoria in Castelnuovo Sotto, Via Umberto Saba lO, un centro di
«formazione documentazione ricerca» intitolato ad Emmanuel Mounier.
Dalle «bozze di statuto» apprendiamo che l'Istituto «si propone di indagare, con criteri scientifici ... sulla complessità dei rapporti tra esperienza di fede
e processi/progetti di trasformazione della società in epoca contemporanea:
sul terreno della cultura politica e sindacale, della storia, della indagine sociologica, della riflessione teologico-pastorale».
Tra i fini specifici dichiarati segnaliamo quelli di «impedire la scomparsa, la
rimozione o il frantumarsi di importanti spezzoni di storia e di specificità etiche e culturali di ispirazione cristiana, di segno utopico-egualitario. Attuare
parallelamente il recupero documentario e la attivazione delle culture e delle
esperienze - storiche e attuali - di carattere autogestionario, antiautoritario
e anticapitalista, non violento».
UN'OPERA SULLA DEPORTAZIONE
L'Istituto storico della Resistenza in Cuneo e Provincia, proseguendo nella
edizione della collana «Fonti storiche», ha dato ora alle stampe la cartella n. 3
dal titolo «INTERNAMENTO MILITARE E CIVILE». Trattasi di una pubblicazione a grandi dimensioni (cm 43 x 31). Contenuto dell'opera: Sintesi
storica dei fatti riguardanti l'internamento civile e militare; raccolta di documenti dell' Archivio dell'Istituto storico della Resistenza in Cuneo e provincia,
relativi all'internamento; Ampia bibliografia sui temi trattati; n. lO tavole fotografiche di indicazione storica riguardanti i vari aspetti della materia.
La detta opera può essere ordinata, indirizzando a «Istituto storico della
Resistenza - Corso Nizza, 17 - Cuneo», e preventivamente consultata presso il
nostro Istituto, in Reggio Emilia, Piazza S. Giovanni, 4.
Recensioni
ALFREDO GIANOLIO, Storia popolare di
Rio Saliceto, Comune di Rio S. - Tecnostampa edizioni, Reggio Emilia, 1980, pp. 520.
Può essere illuminante anche la storia sottesa a una pubblicazione di storia come quella che l'amico Alfredo Gianolio ha curato
per conto del Comune di Rio Saliceto: il volume, in sontuosa veste tipografica, non è il
frutto di una solitaria ricerca ma nasce dal
contributo di tutta la popolazione; hanno
concorso alla sua redazione infatti non solo
gli anziani, i più autorevoli depositari di memorie, ma perfino i bimbi delle elementari,
con le loro interviste, con le loro curiosità coi
loro giudizi intatti e perentori. L'impostazione dell'opera ha un precedente sia in altre
analoghe «microstorie» di Comuni della nostra provincia, sia soprattutto nella esemplare iniziativa di un intero paese - Sant' Alberto di Romagna - che per suggerimento di
Cesare Zavattini, si è interrogato, si è voluto
conoscere attraverso ogni minimo indizio di
memoria che potesse gettare luce sul suo passato. Lo stesso esercizio di autocoscienza
collettiva si è compiuto a Rio Saliceto. Per
parecchi mesi infatti una folta schiera di collaboratori, guidati da Alberto Battini, ha
frugato negli archivi, ha raccolto fotografie,
testimonianze, interviste e ha riversato il tutto sul tavolo di Alfredo Gianolio perché desse dignità di storia a quei tasselli di cronaca,
e compaginas~e in un disegno organico quella rapsodica ricognizione del passato. Senonché Gianolio ha solo in parte assecondato
quel progetto. Ha cioè preferito costruire la
storia di Rio Saliceto «per spezzoni» in
quanto «l' organicità di una storia locale (egli
afferma nella sua lucida introduzione) conduce inesorabilmente a smussare tutte quelle
diversificazioni, rispetto alla storia generale
d'Italia, che viceversa devono essere il più
possibile evidenziate specie se l'intendimento
è quello, come nel caso, di valorizzare le vicende delle classi sociali subalterne, anomale, entro certi limiti, rispetto alla linea di
comportamento fatta prevalere dai gruppi
dominanti». Se questo è il presupposto metodico, ecco che allora la storia di Rio Saliceto diventa un'accurata indagine sulle «anomalie» di una gente spesso tenacemente re-
frattaria e ostile agli orientamenti ideali e
pratici delle forze dominanti; diventa insomma una originale (ma non certo paradossale)
storia dei «se», quei «se» che la storiagrafia
ufficiale ha sempre esorcizzato come intrusi
e fuorvianti nella valutazione delle vicende
trascorse. Spieghiamoci meglio, ricorrendo
ad una acuta intuizione dello stesso autore:
«proprio perché la storia delle classi subalterne, è una storia monca, non realizzata, è
in definitiva la storia dei' 'se", cioè di ipotesi
che non si verificano per carenza di tutti gli
elementi necessari al loro attuarsi, pur esistendo come spinte e tentativi». Facciamo un
esempio, fra i tanti che l'autore propone:
l'opposizione alla prima guerra mondiale fu
a Rio Saliceto ed altrove pressoché totale, al
punto da produrre una effimera convergenza
fra socialisti e cattolici sul problema della pace. La minoranza interventista pertanto dovette ricorrere ad una sorta di colpo di stato,
seguito da un vero e proprio stato d'assedio
per sgominare l'opposizione nel Paese e nel
parlamento. Di conseguenza, per evitare
spargimento di sangue, l'opposizione socialista e cattolica revocò le manifestazioni di
piazza e i comizi neutralisti. Non così a Rio,
dove «più di 2000 cittadini di ogni sesso e di
ogni colore politico percorsero le strade principali' tristi e indignati, al grido di abbasso la
guerra» (<<La Giustizia» - 23 Maggio 1915).
Ma non è questa la sola anomalia positiva di
Rio Saliceto che Gianolio registra nel passare
in rassegna le vicende che vanno dalla fondazione del Comune (1861) alle grandi lotte
bracciantili per la rinascita produttiva
dell'azienda «Ca' dei Frati». Basti ricordare,
in ordine di tempo, la nascita e il rapido fiorire del movimento cooperativo nel settore
agricolo, edilizio, enologico; la conquista del
Comune da parte dei socialisti (1909) e l'attuazione di una politica urbanistica, ad opera del sindaco Pier Giacinto Terrachini, veramente precorritrice; una massiccia partecipazione agli scioperi agrari del 1920; il tentativo di difesa armata del Municipio contro la
violenza fascista, quando ormai le altre amministrazioni rosse avevano ceduto all'assalto delle squadracce nere, quasi senza colpo
ferire. Una tenace opposizione al fascismo
sbocca infine nella resistenza armata; una re-
102
sistenza che si frastaglia in mille episodi annotati giorno per giorno, luogo per luogo,
nome per nome, dalla fucilazione dei Riesi
Enrico Menozzi e Contardo Trentini avvenuta al poligono di tiro, con don Pasquino Borghi, il 30 Gennaio 1944, alla liberazione del
paese avvenuta ad opera dei partigiani del
primo Battaglione della 77 a Brigata SAP e
del Nucleo locale della 37 a GAP.
L'ultimo «spezzo ne» del volume (<<storie
di uomini e di terre») documenta e racconta
il periodo della ricostruzione e la lunga vicenda che riflette specularmente la storia generale dell' agricoltura italiana, determinata
da una politica che ha portato allo spopolamento delle campagne, a sostegno della proprietà fondiaria, anche se assenteista o mossa soltanto da intendimenti speculativi: ci riferiamo alla lunga e vana lotta per la sopravvivenza e poi per il ripristino della cooperativa agricola di «Ca' dei Frati», lotta che ebbe
i suoi momenti più aspri verso la metà degli
anni '50 ed ebbe penosi strascichi in tribunale, con quello che fu chiamato «il processo
della fame» a carico dei 73 braccianti soci
della cooperativa, costretti a vivere con introiti annui che non superavano le 120.000 lire di allora. Fu il più grosso scontro di classe
del dopoguerra nelle nostre campagne,
l'equivalente della lotta operaia per la salvezza delle «Reggiane».
Ma l'anomalia più costante che la storia di
Rio Saliceto presenta, nel mutare dei tempi e
delle generazioni, consiste nel fatto che dalla
metà del!' ottocento ad oggi sono rimasti
pressoché immutati i rapporti sociali nelle
campagne e anzi in certi casi si sono addirittura involuti, con il passaggio da enti pubblici a privati di alcuni possedimenti, come appunto la grande tenuta di «Ca' dei Frati».
Tuttavia il processo di rinnovamento complessivo è avanzato per altre vie: attraverso
l'intervento popolare di nuove istituzioni; attraverso l'incremento di attività artigianali e
terziarie, spesso complementari allo sviluppo
industriale di centri vicini, come Fabbrico,
Correggio e Carpi; attraverso infine una elevazione generale della cultura di massa ed
esperienze educative di tipo nuovo come la
cooperativa di produzione dei ragazzi delle
elementari, promossa da Romano Valeriani.
È «microstoria» questa? È storia minima,
questa splendida testimonianza di un paese
(e di altri paesi della nostra provincia) che
vogliono conoscersi, andando a ritroso nel
tempo, fin dove è stato possibile rinvenire
tracce di insediamenti umani nel loro territorio, per risalire poi, di documento in documento, da una testimonianza all'altra, fino
al nostro più recente passato? Non ci sembra. In campo storiografico «il massimo e il
minimo non sono misure avverse ma complementari per la identificazione dell'uomo per
il suo ingresso sempre più convinto e libero
nel futuro». Sono parole di Zavattini e cadono opportune a suggello della nobile impresa
di Alfredo Gianolio e dei suoi collaboratori.
BREN (Renzo Barazzoni)
ROLANDO CAVANDOLI - AMLETO P ADERNI, Scandiano 1915-1946. Lotte antifasciste e democratiche: Prefazione di Ivan Basenghi. A cura dell'amministrazione comunale di Scandiano. Tecnocoop, Reggio Emilia, 1980, pp. 308, L. 3000.
Rolando Cavandoli, storico da tempo impegnato nella sofferta e attenta, sempre, ri- .
costruzione delle vicende antifasciste, e Amleto Paderni, partigiano, cui fu il nome di
battaglia di «Ermes», con il loro recente lavoro, impreziosito da diciannove pagine di
documentazione fotografica, hanno offerto
una testimonianza paradigmatica, e degna di
notevole considerazione, su come si possa, e
si debba, scrivere la storia di momenti difficili senza scadere nel manicheismo interpretativo. Se l'immediato e primo dopoguerra
fu caratterizzato da una storiografia partigiana trionfalistica e laudativa, proprio per
tali limiti non accettabili in toto, si assiste oggi, finalmente, a una attenta rivisitazione critica di quei tempi e di quegli avvenimenti: rivisitazione critica che i due valorosi autori
hanno condotto, sulla scorta di documenti e
di indagini, assai bene, muovendo dall'esame, quanto mai lucido, delle condizioni
socio-economiche di Scandiano e dell'area
scandianese sino dalla prima guerra mondiale. La guerra popolare di resistenza, infatti,
fu un fenomeno estremamente vario e complesso, nella diversità della sua intrinseca
dialettica: un fenomeno che sarebbe stato erroneo ridurre o a un mero spontaneismo antitedesco e antifascistico di formazione emotiva o a una semplice fiammata insurrezionale. Nella guerra partigiana confluirono, se
pure non sempre del tutto chiaramente per i
suoi medesimi combattenti, pregresse tensioni e scelte contingenti: tensioni determinate
dal desiderio di lottare contro l'ingiustizia
sociale e scelte dettate dall'esigenza di opporsi alla persecuzione e alla violenza. Una guerra, dunque, quanto mai ricca di profonde
connotazioni e di autentici valori umani.
Chiaramente, si può comprendere bene, dal
saggio dei due autori si delineano, accanto a
notizie in parte inedite e in parte poco conosciute, informazioni già note: e ciò potrebbe
riproporrela discussa questione sulla validità, o meno, e soprattutto sull'opportunità, o
meno, di codeste storie «paesane» e particolari, nelle quali alcuni vorrebbero scorgere
103
soltanto «rifritture» e rielaborazioni di nessun valore. A noi sembra invece, dopo la lettura del saggio medesimo, che il problema
non possa venire né proposto né invocato per
esso, visto il rigore con cui i due autori hanno operato, salvando sempre la necessaria
serietà di fondo, sul piano storiografico, e
proponendo, al contempo, una lettura facile
e piana. Un saggio per specialisti puri non sarebbe uscito, forse, dal giro (<universitario»;
un libro di «amena lettura» partigiana avrebbe fatto sorridere di compatimento. Il Cavandoli e il Paderni hanno saputo imboccare, e percorrere sino in fondo, la giusta strada, nello spirito di quell' Antonio Gramsci citato, nella sua chiara prefazione, da Ivan Basenghi: «lo penso che la storia ... piace ... perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che
riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si
uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi...».
Guido Laghi
ALDO FERRETTI (Toscanino), Sante Vincenzi (Mario), Centro Diffusione Stampa Federazione co,rnunista reggiana, Reggio Em.,
1980, Tecnocoop, pp, 181.
Una biografia di Sante Vincenzi, mancava
veramente. Quando, nel decennale della Liberazione, la Federazione reggiana del PCI
diede alle stampe alcuni opuscoli detti appunto «Quaderni del decennale», dedicati ad
alcune delle maggiori figure dell'antifascismo e della Resistenza: Vittorio Saltini
(Toti) , di Rolando Cavandoli; Angelo Zanti
(Amos) di Loretta Tiso; Paolo Davoli (Sertorio), di Liano Fanti; Camillo Montanari, di
Alfredo Gianolio e Sergio Morini, il nostro
Sante Vincenzi fu lasciato fuori, probabilmente perché non si trovò chi intendesse effettuare delle ricerche su di una figura tanto
complessa.
Vincenzi, lo si sapeva, aveva passato l'infanzia e la prima giovinezza a Parma, aveva
agito per lunghi anni nel Reggiano (nel ventennio e dopo 1'8 settembre 1943), poi era
stato trasferito a Bologna, ove era stato ucciso da fascisti alla vigilia della liberazione, ed
era stato poi decorato di Medagli d'oro «alla
memoria». Ma su queste varie fasi della sua
vita bisognava indagare in tre province, sicché nessuno se ne occupò e la lacuna rimase.
Ora, finalmente, di questo illustre Resistente, si sanno moltissime cose.
Intanto, l'Autore si è preoccupato giustamente di inserire le vicende personali di Vincenzi nel contesto degli avvenimenti nazionali e di quelli del PCI in particolare. Poi si è
sforzato di far emergere, laddove era possibile, qualche tratto saliente della sua poco
comune figura di militante, di perseguitato
politico e di combattente per la libertà, mettendo insieme una quantità di notizie che lo
riguardano, tratte da interviste con Maria
Anafrini, la vedova dai ricordi, fortunatamente, ancora moldo lucidi; da vari compagni di fede che lottarono al suo fianco, ed anche da documenti riservati di fonte fascista,
rinvenuti presso l'Archivio Centrale di Stato
e custoditi in fotocopia presso l'Archivio
dell'Istituto reggiano per la storia della Resistenza. Ne risultano particolari poco noti o
affatto inediti, che valorizzano la ricerca
compiuta. Vediamoli in breve.
Il volumetto inizia con la morte atroce di
Vincenzi, avvenuta a Bologna il 20 aprile
1945, quando fu arrestato, torturato e ucciso
dai fascisti. Quindi, l'A. prende a narrare
della sua infanzia a Parma, ove nasce nel
1895, del suo primo lavoro come «garzone»
muratore e di quello successivo come apprendista aggiustatore meccanico; dell'influenza che hanno su di lui le lotte sociali, del
suo aprirsi alle idee socialiste, di fronte alle
durissime repressioni dei movimenti popolari
in lotta contro la miseria e lo sfruttamento. E
poi, via via, della sua partecipazione alla prima guerra mondiale, delle due ferite riportate, della prigionia durante la quale contrae il
tifo petecchiale e la malaria. Quindi ricorda
l'acquisizione della cittadinanza reggiana e la
contemporanea sua attivizzazione nelle file
del PCI, di cui era stato fondatore; la sua
prima bastonatura subita da una squadraccia, i fermi di polizia inflittigli nel '24 e nel
'25, il suo crescente prestigio come uomo politico, in seguito al quale diviene Segretario
della Federazione reggiane del PCI, il suo
matrimonio, che non gli impedisce di continuare la resistenza al fascismo con ardite
azioni, ma anche con la produzione di stampa clandestina in casa propria, con la partecipazione al 3 o Congresso provinciale del
PCI e, quale delegato, al 3 0 Congresso nazionale svolto si a Lione nel gennaio del 1926.
In quell' anno era strettamente vigilato, come risulta da un documento dell'A.C.S. Poco dopo viene inviato al confino, di dove torna il 10-2-1927.
Malgrado l'ammonizione che limita i suoi
movimenti, diviene «il compagno di maggior
personalità» e riconosciuta capacità, perno
della attività politica provinciale, con incarichi che lo portano spesso fuori provincia o
all'estero. In serguito, è nominato ispettore
per conto del Centro interno del PCI, ma
viene individuato dalla polizia e deve riparare in Francia. Da qui parte alla volta di Colonia ove partecipa, nell'aprile del 1931, al
Congresso del PC!. Subito dopo si reca a
Mosca ove frequenta un rapido corso di par-
104
tito. Quindi torna in Francia e poi in Italia
per riprendere il suo posto nel ricostituito
Centro interno del PCI. Per conto di tale importante organismo viene «impegnato nel
coordinamento interregionale per il Piemonte, la Lombardia e la Liguria».
Poco dopo viene arrestato e deferito al
Tribunale speciale per la difesa dello Stato,
che lo condanna a 12 anni di carcere (molto
interessante a questo proposito il testo della
sentenza).
Per effetto di una amnistia, è liberato nel
giugno del 1933, ma con un periodo di vigilanza. Non si rassegna a svolgere il solo lavoro per vivere, ma svolge attività clandestina
nonostante la vigilanza suddetta, finita la
quale, con le dovute precauzioni, incrementa
il lavoro della sottoscrizione a favore della
«Spagna rossa» ove nel frattempo è scoppiata la ribellione franchista. La polizia, pur
non avendo precisi elementi di accusa, si libera di questo scomodo personaggio arrestandolo e deferendolo alla Commissione
provinciale per il confino, che lo spedisce a
Tremiti per 5 anni. Qui, assieme ad altri confinati, frequenta corsi di studio e partecipa
alle animate discussioni sugli argomenti politici di quegli anni, che precedono la seconda
guerra mondiale. Partecipa pure alla ribellione contro il saluto romano. Per questo viene
trasferito a Ventotene ove è trattenuto altri
due anni oltre a quelli della pena inflittagli.
Viene liberato nel luglio 1943.
Con la caduta del fascismo, viene nominato, come è noto, Vice Commissario per i lavoratori dell'industria, e come tale si impegna (a fianco di Degani che è Commissario)
per promuovere le elezioni delle Commissioni interne nelle principali industrie reggiane.
Svolge tale lavoro con tanta passione che, sopravvenuto l' 8 settembre e la conseguente oc-
cupazione tedesca, se ne stacca dopo qualche
esitazione e in seguito a forti pressioni di dirigenti del suo partito.
Fa parte del gruppo dirigente della Federazione, assieme a Gombia ed a Chiarini (bolognese) e il C.L.N. provinciale, appena costituito, affida a lui il lavoro del Comitato Sindacale Clandestino.
Alla fine del dicembre 1943, Vincenzi viene trasferito a Bologna ove, come Ufficiale
di collegamento del C.U.M.E.R., attraversa
più volte la «linea gotica» per delicate missioni presso la n. 1 Special Force di Firenze, e
a Roma presso il Ministero dell'Italia occuC
pata o presso dirigenti nazionali del suo partito.
Parte per l'ultima volta il 20 febbraio
1945, si reca a Firenze e a Roma e quindi viene paracadutato nel Bolognese ai primi di
marzo. Raggiunge l'Appennino reggiano,
porta l milione per il C.L.N. di Reggio Emilia, scende in città per una fugace visita alla
famiglia.
Qui il cerchio si chiude con la citazione di
varie testimonianze sulla importanza del suo
ruolo agli effetti della Liberazione di Bo.1ogna, sulle circostanze della sua scomparsa,
che determinò il ritardo del movimento insurrezionale.
Dobbiamo dire che fino a questo momento non si conosceva a Reggio la reale statura
di questo intrepido cospiratore e dirigente
partigiano. Soltanto ora, a 35 anni di distanza, si può avere una idea abbastanza precisa
se non completa del personaggio Vincenzi.
Per questo abbiamo motivo di compiacerci con Ferretti, che ha colmato in gran parte,
con questo nuovo libretto, la lacuna che lamentavamo all'inizio.
Guerrino Franzini
Segnalazioni
RENATO BOLONDI (MAGGI), Campagnola Emilia / 8 setto 1943-25 aprile 1945 / I
Caduti per la Libertà. Amm.ne com.le e
A.N.P.I. Campagnola, 1979, pp. 54.
In un agile opuscolo corredato di fotografie, e di alcuni disegni originali di Udo Toniato, sono raccolte le biografie dei dieci partigiani caduti di Campagnola.
L'Autore, Renato Bolondi, che fu Commissario della 77' Brigata S.A.P. operante
nella pianura reggiana, rende così omaggio
al contributo che il suo paese natale, Campagnola appunto, ha dato alla guerra di Liberazione. L'opuscolo comprende anche l'elenco
dei 114 partigiani e degli 8 collaboratori riconosciuti, nonché di 25 case che furono durante la Resistenza luoghi di latitanza, di riunioni o deposito di armi.
Per ciascuno dei caduti Bolondi ha ricostruito in modo essenziale le vicende familiari e personali, che sono poi le vicende di operai, contadini e braccianti, cioè di quelle categorie sociali che furono parte preponderante nella lotta di Liberazione a Campagnola come in tutto il Reggiano.
Sorprende tuttavia che, a 35 anni dalla Liberazione, non si sappia ancora nulla sulla
biografia di Giovanni Piron, fucilato il 15
aprile 1945, di cui si sa soltanto che «era un
giovane piemontese che aveva disertato
dall'esercito fascista».
Pensiamo che sarebbe opportuno inviare
la foto e i pochi dati di cui si dispone, agli
istituti storici della Resistenza e alle ANPI
provinciali del Piemonte (ma forse anche a
quelle del Veneto ... ) per riuscire a saperne di
più su questo giovane sulla cui sorte, oltretutto, si saranno a lungo interrogati, in tutti
questi anni, familiari ed amici.
STUDI IN ONORE DI GIUSEPPE BERTI
A ottanta anni si è spento a Piacenza l'Ono
Prof. Giuseppe Berti, «ragazzo del 1899»,
che dopo aver partecipato attivamente al
movimento cattolico della sua provincia,
esercitò un notevole influsso nella formazione della resistenza piacentina, collaborando
con l'Avv. Daveri, morto poi in campo di
concentramento.
Sulla linea della esperienza personale, e
della competenza di studioso, ha scritto le
«Linee della resistenza e liberazione piacentina» (VoI. 1- 1919-1943, Bologna, 1975), e altre memorie interessanti sullo stesso tema.
Faceva parte dell'Istituto regionale per la
storia della resistenza, collaborando con
grande impegno, nonostante i suoi ottanta
anni. Un incidente stradale ne ha provocato
la fine repentina, proprio mentre si preparava la celebrazione della fausta ricorrenza.
Perché questa non restasse affidata solo alle
parole e all'omaggio commosso di amici e
ammiratori, la sezione locale della Deputazione di storia patria gli dedicava un volume
di studi (Biblioteca storica piacentina, voI.
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di liberazione nel piacentino, e una preziosa
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