Relazione "Noi in Bangladesh..."

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Relazione "Noi in Bangladesh..."
Mercoledì 2 aprile
Mattino: stiamo preparando le ultime cose. Chiama Franca preoccupatissima perché la sua valigia, più piccola delle nostre, pesa 46 Kg … Momento di panico … Poi la considerazione che, se la sua pesa così tanto,
anche le nostre sono fuori peso … Abbiamo anche una valigia in più piena di regali … Peso più peso meno,
che differenza vuoi che faccia: pagheremo il supplemento. Amen.
Suona mezzogiorno: fra un po’ arriva Enrico a prenderci.
Suona il campanello. Dai, forza, si parte: comincia l’avventura. Che emozione!
Passiamo a prendere Franca. Ci stringiamo negli ultimi abbracci, commossi e forse un po’ invidiosi. Siamo tutti
emozionati! Si parte: sono le 12.50.
Aeroporto di Venezia: prendiamo i carrelli, carichiamo le valigie
ed entriamo. Un saluto ad Enrico (con la promessa di un bacio a
Grazia) e via all’imbarco. Prima sorpresa: la valigia di Franca non
pesa 46 Kg, ma molto meno. Forse è stato Franco a starare la bilancia di casa. Comunque le quattro valigie insieme superano di
gran lunga il peso prescritto, ma non paghiamo alcun supplemento e avanziamo.
Alle 15.45 parte da Venezia il volo della compagnia Emirates per
Dubai. L’aereo si presenta bene. Siamo fortunati ad avere molti
posti vuoti: abbiamo così potuto distenderci ed appisolarci, in
considerazione del fatto che l’arrivo a Dubai è previsto alle 23.35
(ora locale). Il decollo e l’atterraggio mi recano palpitazioni: per
la tensione ho stritolato le mani dei miei compagni di viaggio … Ma il volo è stato bellissimo: da ricordare lo
stupendo tramonto visto dall’alto.
Beirut di notte è costellata di mille luci e rabbrividisco al pensiero di sorvolare il territorio libanese e israeliano.
Giovedì 3 aprile
Atterriamo puntuali all’aeroporto di Dubai: è bellissimo l’avvicinamento con tutte quelle luci. L’aeroporto si
presenta splendido, sfavillante, ma rimandiamo la visita al ritorno, visto che dovremo rimanervi per 9 ore. Il
primo impatto dà comunque un’impressione di immensità.
Ci affrettiamo al Gate, visto che la sosta è di solo due ore.
Alle due del mattino (mezzanotte in Italia) ripartiamo con un aereo ancora più grande, stracolmo di gente di
ogni colore e di ogni etnia: a bordo ci rendiamo conto che siamo diventati noi i diversi …. Arrivo previsto a
Dhaka, capitale del Bangladesh, per le ore 8,30 locali, ore 3.30 in Italia.
In avvicinamento assistiamo allo spettacolo dell’aurora, e ringraziamo il Signore di queste cose meravigliose.
Ma nel momento in cui l’aereo comincia a scendere di quota, una coltre spessissima di nuvole copre la città:
che stia piovendo?
Dall’aereo si possono vedere ampie zone palustri che circondano l’aeroporto e si ha l’impressione di stare per finire in acqua.
Non è una bella sensazione …
Si nota subito la stridente diversità fra un aeroporto e l’altro: questo di Dhaka è una modesta costruzione con macchine, furgoni,
scale, pista datati. La vegetazione è lussureggiante e fa da contrasto con la povertà che salta all’occhio fin da subito. All’interno
solo personale e militari con mitra e ricetrasmittenti … Benvenuti
in Bangladesh!
Per il ritiro dei bagagli se ne va un’ora. Inoltre abbiamo avuto il
primo assaggio della considerazione per la donna: i carrelli ti spintonano o ti vengono addosso … Non ti vedono, non esisti … Nessuno chiede scusa.
Ci avviamo all’uscita con il cuore che batte all’impazzata e con lo sguardo a cercare la figura di padre Anthony. Come usciamo dalle porte dell’aeroporto un caldo umido ci toglie il respiro e dal silenzio ci immergiamo nel chiasso di una folla immensa di uomini (non donne) vocianti, urlanti … Una mano si alza, un “ bel tocco di figo” ci viene incontro con un gran sorriso e ci porge la mano, ma abbracciarlo è spontaneo. Ha una
stretta forte, vigorosa. E’ padre Anthony! Finalmente!
Nella confusione cadono le valigie e una quasi si apre.
Subito veniamo accerchiati da bambini, mamme con neonati, storpi, con una voce “silenziosa ma urlante”
che chiede la carità. Questo è uno degli aspetti più strappacuore, ma come possiamo aiutarli tutti?
Il tragitto verso la struttura che ci ospiterà per la notte è allucinante: una confusione di mezzi di ogni genere, un continuo sorpassare a destra e a sinistra, un infilarsi in ogni minimo spazio che si apre. Devi avere gli occhi in ogni direzione. Biciclette, risciò, auto,
CNG (vale a dire i taxi, che altro non sono che dei motoveicoli
tipo “Ape” di color verde con delle panchine nel cassone), corriere, camion, passanti che attraversano in ogni momento, un caos
continuo.
Ogni mezzo dotato di clacson lo ha sempre in funzione: abbiamo
le orecchie rintronate dall’assordante schiamazzo! Si parte, si fanno 10 metri e sei fermo; riparti, prendi velocità, ma sei fermo di
nuovo … La guida è a destra, il senso di marcia opposto al nostro,
le svolte sono fatte in modo opposto al nostro modo di guidare.
Non capiamo niente e abbiamo paura. Per di più Bobu, il nostro autista, guida come un pazzo: siamo sicuri
che prima o poi capiterà qualcosa.
Siamo fortunati: arriviamo alla casa del PIME nella Capitale, dove
padre Anthony soggiorna quando per impegni si reca a Dhaka.
Conosciamo padre Martino, di nazionalità spagnola, padre Saverio, messicano, e padre Mark (che appartengono ai Piccoli
Fratelli di Maria “Maristi”), padre Patrick, amico ed insegnante di
p. Anthony, padre Michele, padre Carlo Dotti, direttore della Casa e in Bangladesh da 34 anni. Conosciamo anche fratel Lucio,
un tipo alquanto bizzarro, che lavora nella favela di Dhaka con
collaboratori cristiani e musulmani.
La loro ospitalità è discreta e gentile. Al nostro arrivo ci assegnano le stanze, ci invitano a sistemarci e a fare un riposino, cosa
che assecondiamo di buon grado, visto che è dal giorno prima
che non dormiamo. Poi mangiamo assieme. Il caldo si fa sentire
e, dopo pranzo, anche la stanchezza, per cui ci rifugiamo in camera con la pala sul soffitto che ci dà un po’
di refrigerio e ci addormentiamo.
Bussano alla porta: Franca si alza e inavvertitamente pesta gli occhiali: rotta la monatura.
Al risveglio mi accorgo di aver portato tante medicine, ma di aver dimenticato quelle mie personali. E sì che le avevo preparate!! Panico… Telefonata al medico di casa… Cominciamo a misurarci con il fuso orario: là in Italia sono le 11.30 circa del mattino,
e qui è pomeriggio inoltrato…
Parliamo con padre Anthony che si attiva subito e alle 17.00 si
parte per il mercato. Prima però facciamo una puntatina in farmacia per cercare le medicine (foto). La farmacia non è altro
che un piccolissimo spaccio senza porte, con un banco e un’infinità di medicine sistemate nelle scaffalature che occupano le
pareti. Entri, prendi, paghi, esci. Un blister di medicine (non una
scatola) viene pagato 600 takka (l’equivalente di 6 euro).
Poi destreggiandosi fra il traffico e correndo in ogni momento il rischio di investire qualcuno, o tamponare o
venire tamponati, arriviamo al mercato. Fra un ammasso di mille bugigattoli/negozietti, mendicanti, cuochi
con banchetti, odori e profumi, sputi di una precisione millimetrica per non colpir qualcuno, entriamo dall’ottico.
Franca prova, si, no, insomma … Prezzo: Anthony ci dice che costano 1000 takka. Luciano traduce a Franca e le dice che costano 100 euro. Franca dice che costano troppo, con 50 euro a casa trova una montatura. Non se ne fa niente e si esce. Anthony
continua a dire: “Poco, poco,.” E ci guarda perplesso. Stiamo tornando alla macchina. Ad un tratto Luciano (bancario), si fa pensieroso e si fa rispiegare da un Anthony sempre più sconcertato il
costo degli occhiali.
Colpo di scena: ha sbagliato ad applicare il cambio… Ed è tutto
dire: costano solo 10 euro. Ritorniamo dall’ottico e si combina l’affare. Nell’attesa degli occhiali nuovi di Franca facciamo un giro
per il mercato: bimbi che ti toccano, mendicanti che ti richiamano, Anthony che ti trascina via… Non abbiamo neanche un thaka da donare. La sera a tavola raccontiamo l’episodio e tutti ridono. Bene: 1 per Luciano,
0 per noi. Intanto mi accorgo di non aver più al polso il braccialetto d’oro che i padrini avevano regalato a
Giulia. Che amarezza! Spero almeno che sia andato nelle mani giuste e che stasera qualcuno possa con
quel braccialetto concedersi di mangiare… Spero in cuor mio che sia stato quel bimbetto scalzo che continuava a toccarmi il braccio.
A letto la sera è difficile addormentarsi, ma alla fine la stanchezza prende il sopravvento sul caldo, malgrado
il suono continuo dei clacson in strada, i versi degli uccelli e il gemito del muezzin musulmano che alle 4.30 del
mattino ci sveglia per la prima preghiera.
Venerdì 4 aprile
Sveglia alle ore 7.00. La colazione è dalle 7.00 alle 7.30 e noi siamo puntualissimi in tavola alle 7.20. Alle 8.00 si
parte per Thakurgaon.
Non è che lasciando la città il traffico diminuisca o sia più tranquillo … L’unica regola che vige sulla strada è
quella del più grosso e di quello che corre di più.
Alle 11.45 ci fermiamo per il pranzo in un locale lungo la strada dove ci servono una zuppa di tacchino piccante, del riso con uova e verdura, palline di pesce, del pollo con patate fritte, del pollo con verdura e salsa:
un pranzo a nostro parere principesco, se è vero che qui si mangia sempre e solo riso.
Riprendiamo il viaggio e ad un certo punto dobbiamo attraversare un ponte costruito dal governo, sul fiume Jamuna. Paghiamo il pedaggio in entrata e padre Anthony ci dice che i piloni
della linea elettrica di questo maestoso ponte sono stati fatti in
Italia. La costruzione stride con le misere abitazioni della gente.
Facciamo una sosta nel pomeriggio per un caffè (acqua calda
e caffé in polvere) presso la prima parrocchia dove il sacerdote
ha prestato servizio: Mariapur. Qui facciamo uso della videocamera per la prima volta.
Visitiamo la scuola femminile presso il convento delle suore di
Santa Maria, e padre Anthony ci presenta Simona, una ragazza
di Thakurgaon, che ha mandato a studiare qui, perché questo è
un collegio prestigioso.
Il viaggio è stato allucinante: abbiamo più volte corso il rischio di sfracellarci contro camion e corriere. L’autista, come già detto, secondo me è pazzo, spericolato e con la mano sempre sul clacson: all’unanimità abbiamo deciso di sabotarglielo per il ritorno a Dhaka. I segnali stradali sono inesistenti: in più di 450 Km abbiamo visto solo 4/5 cartelli con i limiti di velocità a 50 e 70 km/h.
Non esiste alcuna regola convenzionale di educazione stradale. L’unica è quella del fatti in là perché io corro
di più, sono più grosso e suono più forte il clacson. Per fortuna esistono ai bordi delle strade quelle che noi abbiamo chiamato “piste ciclabili”: sentieri dove le persone a piedi camminano e che diventano in caso di bisogno rifugio per le biciclette e i carrettini. L’alternativa, se rimanessero sulla strada, sarebbe la morte sicura.
Quello che colpisce è la remissione con cui queste persone si buttano giù dal ciglio stradale, pur avendo il
carrettino strapieno di pentole, mattoni, animali, pertiche di bambù lunghe 2/3 volte la lunghezza del carrettino stesso in equilibrio instabile, e pur facendo fatica a pedalare e a tenere bilanciato il tutto.
Noi non faremmo questo in Italia: pur brontolando, daremmo modo a chi viene in senso opposto al nostro di
terminare il sorpasso, e poi a nostra volta faremmo lo stesso. Qui no: o si tolgono o si tolgono lo stesso, e ti ritrovi in un pluri-sorpasso a 4 o a 6 mezzi contemporaneamente. Tutto è calcolato al millesimo del millimetro, ma
la sensazione è quella dell’imminente carneficina!
Franca continua a ripetere a Bobu, l’autista musulmano che non capisce una parola di italiano: “ehi., Terensio, và pian, frena. Invece di suonare, frenaaaaaaaa”. Io seduta in mezzo e con un’ottima visuale della strada. “Ragazzi, aiuuutooo, qui non ce la facciamo! Questo è matto… Se capita qualcosa, ricordatevi che vi ho voluto bene.”
Luciano non dice niente da quanta tensione sta accumulando e
il suo piede destro continua a frenare… Non si può rivolgergli la
parola, ti fulmina con lo sguardo. Noi due ridiamo e lui sempre
più nero mormora: “Mi staltra volta non vegno qua!” Noi cantiamo e lui è sempre più preoccupato e incavolato perché tentiamo di spassarcela. Per un tratto di 7 km la strada diventa inesistente, con voragini e buche.
Alle 17.00 raggiungiamo Thakurgaon.
Siamo arrivati e, soprattutto, siamo vivi. Adesso conosceremo i
bambini… Che emozione! Si apre il cancello, tutti i bambini sono
schierati in due ali con al centro due file di danzatori: a destra i
maschi, a sinistra le femmine nei loro abiti colorati, che con la
danza ci hanno accompagnati dall’ingresso fino al cortile.
Due bimbe ci accolgono con il lancio di petali di fiori che prosegue fino alla fine del viale.
Non trovo le parole per dirvi l’emozione, tanto che ho cominciato
a dire a ognuno “Ciao” e ad accarezzare ogni volto, sia piccolo
che giovane.
Luciano:”Ho superato l’emozione filmando.”
Franca: “Un’emozione così grande che si sorrideva piangendo”
Ai nostri “ciao” i bambini ci guardano con qualche perplessità:
quella voce per loro significa “dammi!”. Padre Anthony spiega
loro che vogliamo semplicemente rivolgere un saluto, come “bye, bye!”. Allora anch’essi si mettono a replicare “ciao!”.
Raggiunto il cortile, ci fanno accomodare su alcune sedie poste sotto una tettoia (che poi abbiamo saputo
essere il luogo dove i bambini mangiano) e in segno di riverenza e onore ci lavano i piedi. Arriva in omaggio
un mazzo di fiori e ci dedicano danze e canti. Il giovane che introduce i vari momenti, ci dice che noi siamo
parte della famiglia bangla e da oggi siamo con loro una famiglia. Ci invitano a prendere la parola per presentarci e dire le nostre emozioni … Determinante l’intervento del nostro interprete (Luciano).
Al termine padre Anthony ci dice che i bambini ad uno ad uno volevano salutarci. Accettiamo volentieri, ma
il loro modo di salutare ci lascia sorpresi: prendono la tua mano
destra, se ne appoggiano il dorso alla fronte in segno di riverenza
e poi alle labbra. Facciamo la stessa cosa con le signore anziane
e donne , in segno di rispetto, ma con i bambini, dopo averli lasciati fare, prendiamo i loro volti fra le mani e li baciamo sulle
guance e sulla fronte. Risultato: abbiamo l’impressione che più di
uno si sia rimesso in fila. I giovani alla fine si sono lasciati avvicinare
e volentieri hanno accettato il nostro bacio, fra le risate delle ragazze che poi ho preso in giro quando è stato il loro momento.
Queste ci hanno poi invitato a ballare in cerchio con loro le loro
danze. E’ stato magnifico: abbiamo ballato fino al buio. Alla fine
eravamo esausti e sudatissimi. Non sapremmo dirvi il grado di umidità presente.
Entriamo nella casa di padre Anthony e troviamo sul tavolo della cucina una merenda con i
“ciapati” (frittelle di acqua e farina) con del caffè ed acqua. Dopo una salutare doccia, ci attende una sorpresa: cena all’italiana con spaghetti al pomodoro. Dopo di che
ci concediamo una passeggiata. Incontriamo i bambini e, per
fraternizzare, non ci viene in mente altro che cantare e mimare
“La macchina del capo”. Non capiscono niente, ma ridono e
mimano.
Al rientro consegniamo a p. Anthony i regali che abbiamo portato per lui: capi di abbigliamento e i rasoi di Paolo F., le lettere e le
foto, le magliette dell’associazione, la macchina fotografica, il
salame, i regali per i bambini e per i giovani e la foto di Giulia.
Ore 22.05: ci si corica con il sottofondo di un muezzin musulmano
che poco lontano ha salmodiato per tutta la notte. E’ difficile
dormire perchè il materasso ha uno spessore di appena 5 cm.: le
ossa sono ammaccate, ma almeno non c’è il frastuono della capitale.
Sabato 5 aprile
Si dorme a tratti, fra il cantico del muezzin e rumori di origine a noi sconosciuta. Il gallo canta alle 4.00, e replica poi alle 4.30.
Alle 6.00 sentiamo suonare una specie di campana, che più tardi scopriremo essere la sveglia per i bambini:
un pezzo di ferro legato ad un albero che viene ritmicamente battuto per svegliare la missione.
Tentiamo di riprendere sonno, ma alle 6.30 un coro di voci argentine mi fa alzare dal letto e uscire per capire
da dove viene. Sono i bambini che stanno animando la Santa Messa.
Torno a letto. Quanto sonno!!
Si era concordata la sveglia per le 7.00, per poter essere alle 7.30 alla colazione. Franca è puntuale, ma io
non riesco ad aprire gli occhi … Alle 7.15 Franca mi ripete di alzarmi. Un po’ stordita mi alzo e decido di met-
tere delle coperte fra le tavole del letto e il materasso, per tentare di avere un giaciglio un po’ più morbido. Le ossa delle anche
sono doloranti. Anche Franca ha dormito poco ed è assonnata.
Mentre ci vestiamo esclama: ” Beh! Oggi possiamo stare anche
in mutande!” La frase mi fa spalancare gli occhi. ”Cosa?!?” Mi
guarda e vedendo la mia faccia stravolta si mette a ridere perché capisce di aver detto una cavolata, anche se non le chiaro
cosa…. “Cancella tutto - mi dice - volevo dire in ciabatte!” E
continuiamo a ridere. Aggiorno il punteggio: Luciano: 1; Franca:
1; Michela: 0.
Colazione alle 7.30. Che buoni i ciapati e i porotà!!!
Alle 8.00 padre Anthony ci fa visitare la missione. Entriamo nel
primo edificio che si trova sulla destra dopo aver percorso il viale di ingresso. I bambini nelle aule al piano terra stanno studiando prima di andare a lezione. Visitiamo la classe 1°: ci sono 31 bambini che si alzano in piedi
per salutare, e non si siedono fino a quando l’insegnante o padre Anthony dice loro di sedersi. Nessuno parla
e tutti aspettano educatamente che l’adulto rivolga loro la parola. Ma sorridono, e i loro occhi brillano.
Li salutiamo e facciamo la stessa cosa con le classi 4° e 5°.
Al secondo piano dello stabile ci sono le due camerate dei maschietti: i letti sono tutti contigui tra loro e allineati al centro della
stanza ed ogni bambino condivide il letto con un altro. Anthony
ci spiega che essendo magri trovano spazio in due su un letto…
Non si pensi però che il letto sia grande come i nostri. Guardandoli ci vengono in mente le dimensioni dei lettini da campeggio.
L’altro motivo è che non ha alternative per riuscire ad ospitare
tutti e 109 i bambini che abitano nella missione. Vorrebbe fare di
più, ma questo è queste sono le strutture che ha a disposizione. A
padre Anthony, contando sulla provvidenza, piacerebbe risolvere
il problema con dei letti a castello.
Sul tetto c’è la terrazza che viene usata
per stendere i vestiti e gli “asciugamani” dei bambini ad asciugare.
Scendiamo le scale, dalle quali sporgono i ferri dell’armatura, e
nel sottoscala ci sono le scarpe di plastica che padre Anthony ha
comperato per completare l’abbigliamento scolastico per i bambini/e. In una stanzetta al piano terra c’è la sartoria dove una
donna e due ragazze stanno confezionando le divise per i bambini con la stoffa che ogni anno compriamo. Le stoffe sono bordeaux e a quadretti. Anthony ci dice che ogni divisa dovrebbe bastare due anni per ogni bambino… Siamo perplessi. Si comprenderà poi perché.
Nel secondo edificio che visitiamo, che è situato oltre il cortile, al
piano terra stanno studiando le bambine e le ragazze. La camerata al primo piano è disposta come nell’altro edificio, ma qui dormono anche i bambini più piccoli, quelli che frequentano la scuola materna. Non ci sono lenzuola, ma solo coperte. Ai piedi del
letto (o dove c’è posto) sono posizionate delle cassette di ferro
con lucchetto: sono le valigie dei bambini. La chiave è tenuta legata in vita con un cordoncino sotto gli indumenti.
Saliamo al piano superiore ed usciamo
nella terrazza, da dove padre Anthony ci
illustra l’assetto e la
disposizione della missione. Nel frattempo le bambine, dopo aver
fatto la doccia ed indossato la divisa scolastica, ci raggiungono
con i vestitini lavati (?) e gli asciugamani da stendere. Le aiutiamo
in questa operazione, anche perché alcune sono così piccole
che proprio non arrivano ai fili. Non possiamo fare a meno di rilevare che stiamo stendendo indumenti bagnati ma completamente sporchi: li lavano infatti con l’acqua usata per la pulizia
personale. Non c’è il sapone… Facciamo notare a padre Anthony
che è in arrivo un temporale e che, se nessuno raccoglie la biancheria stesa, i bambini la troveranno bagnata al rientro da scuola,
e fors’anche anche volata via. Ci dice che i “giovànni” (cioè i giovani) che lo aiutano nella missione provvederanno a raccoglierla.
Un’idea potrebbe essere quella di coprire le terrazze con una tettoia: valuteremo l’ipotesi.
Scendiamo e vediamo che i maschietti si stanno facendo la doccia: si spogliano, ma tengono l’asciugamano legato in vita e finché sono sotto l’acqua si tolgono le braghette di tela di cotone e
le lavano. Ma se si lavano con l’asciugamano addosso, come
fanno poi ad asciugarsi? Risposta: non si asciugano. Dopo la doccia dispongono gli indumenti bagnati sulla recinzione del piccolo giardino dove c’è una statua della Madonna. Quindi, dopo aver indossato la divisa, i calzettoni bianchi e le scarpe di gomma bianche, portano a stendere in terrazza le cose da asciugare. Guardiamo i loro asciugamani: ci sembrano più garzette che qualcosa
di adatto ad asciugare…
Aiutiamo i piccoli a sistemarsi: abbottoniamo le camicette della divisa scolastica, sistemiamo le bretelle…
Toh! Qui mancano bottoni… Ci sono delle scuciture e degli strappi… E padre Anthony ci ha detto che durano di solito due anni….mah! Il velcro delle scarpe, a distanza di quattro mesi dall’inizio dell’anno scolastico, già non chiude più. “Perché ci giocano”
dice Anthony. In queste cose tutti i bambini del mondo si assomigliano. Ma ci accorgiamo pure che qualcuno ha le scarpe più
grandi del numero del proprio piede.
Nel frattempo si sono messi in fila in giardino, classe per classe.
Prima di partire dicono le preghiere e poi, mantenendo la fila
indiana, si avviano per il viale che conduce alla scuola governativa fuori dalla missione. Il custode apre il cancello e, cosa che ci
lascia senza parole, i bambini attraversano da soli la strada…
“Aiuto” pensiamo noi.
Con padre Anthony continuiamo la visita della missione. A lato
del secondo edificio ci sono le docce per i maschi, mentre quelle
delle femmine sono dietro la cucina. Questi locali però non hanno nessuna privacy. Ecco perché i bambini si lavano con l’asciugamano in vita: chiunque passi, adulto bambino o bambina, può
vederli. I vani doccia hanno il tetto in lamiera arrugginita e il pavimento è una gettata di cemento sul quale i bambini lavano i propri indumenti. Le docce sono quattro.
Dietro alle docce notiamo i campi e l’orto
della missione. Padre
Anthony ci presenta il
progetto che il Vescovo gli ha consegnato per noi: ci sarebbe da
completare la recinzione del territorio della missione, perché i
“musulmani cattivi” rubano il raccolto, le verdure, il riso, i vestiti dei
bambini e fanno danni. Il missionario ci spiega che quando tre
anni fa è arrivato, il muro non c’era. Ad inizio anno hanno costruito il tratto fronte strada, in quanto i musulmani volevano appropriarsi di 5 metri di terreno. Per fortuna, un
po’ con la testardaggine di Anthony, un po’ con l’aiuto di un ingegnere musulmano
che conosceva i reali confini della missione e un po’ con le conoscenze, sono riusciti a preservare l’area di proprietà, ma hanno
dovuto alzare il muro, sulla cui cima sono prudentemente cementati pezzi di ferro e vetro e che è congiunto ad angolo ad un vecchio muro preesistente: mancherebbero quindi due lati da costruire.
Sul retro dei dormitori sono ospitati gli animali. Anthony ci fa vedere l’ampliamento del porcile, realizzato risparmiando un po’ qua
ed un po’ là sui soldi che in questi due anni gli abbiamo inviato.
Ha costruito un bel muro ed ha acquistato 30 maialini che servono, ogni tanto, ad integrare l’alimentazione dei bambini. Ci sono
anche tre vitelli e una capra che i ragazzi hanno decorato di rosa. Quando il caldo comincia a farsi sentire, rientriamo per un
po’ in casa per cominciare a parlare dei “compiti per casa” che
abbiamo portato dall’Italia, ma rimandiamo la traduzione delle
pagelle ad un altro momento e ci concediamo un break.
Ci rechiamo quindi
a visitare la chiesa
della missione. E’
una chiesa grande,
colorata, forse un po’ buia. Considerando il caldo che fa, si capisce che questa è una scelta, per poter avere un po’ di fresco …
Padre Anthony ci spiega che la missione è stata costruita 30 anni
fa da un missionario del PIME italiano, Padre Poggi, e che la chiesa è stata dipinta 25 anni fa: adesso avrebbe bisogno di una tinteggiatura nuova. Mettiamo tutto nel calderone, poi si vedrà…
Notiamo i banchi: non sono come i nostri, sono delle semplici assi
di legno, alte 20 cm da terra, che vengono usate per sedersi e
per inginocchiarsi. Provo a se dermici su, ma Anthony deve aiutarmi ad alzarmi: da sola non ce la faccio.
Arriva l’ora di pranzo.
Dopo aver mangiato, usciamo in cortile e vediamo che i bambini sono tornati a casa da scuola per il pranzo, che è composto
da un piatto di riso e sugo di verdure. Non c’è chiasso. I bambini
sono sotto la tettoia e in fila stanno ricevendo il companatico.
Aspettano pazientemente che tutti abbiano il piatto pieno, poi si
alzano in piedi per pregare e al termine si buttano sul pasto. Non
usano le posate, ma con la mano destra fanno delle palline di
riso che raccolgono e portano alla bocca.
Non usano la sinistra che serve per pulire il culetto.
Sono seduti su panche di legno ormai consunte e più volte aggiustate, schiena contro schiena, e appoggiano il piatto su di
un’altra panca posta davanti a loro.
Al termine ognuno va a lavare il proprio piatto sotto l’acqua dei
rubinetto e, se ha sete, beve dal piatto e lo ripone quindi in una rastrelliera sotto la tettoia di fianco alla cucina. Tutti ritornano poi a scuola.
Approfittiamo dell’occasione per visitare la cucina, un ambiente
tutto annerito dal fumo, dove sta un enorme forno con grandi
pentole che entrano per metà nelle cavità scavate per contenerle. Qui le persone lavorano accovacciate.
Padre Anthony ci spiega che il tetto tutto arrugginito sarebbe da
rifare: guardando la struttura ci accorgiamo del segno dei tempi
e dell’usura e pensiamo sia uno dei primi progetti da valutare.
All’interno della cucina, oltre al forno e ad una spartana scaffalatura che ospita le pentole, la stanza è piena per metà di sterpaglie secche e gusci di frutti che servono per accendere e alimentare il fuoco.
Dietro alla cucina ci
sono le docce delle bambine, chiuse sui quattro lati con un accesso, E qui vengono lavate anche le pentole… Nei pressi c’è
pure un lavatoio, ma non capiamo a chi serva.
Di fianco a questo lavatoio c’è un punto raccolta di foglie secche, che poi verranno portate in cucina, all’occorrenza.
A seguire ci sono l’alloggio delle suore e poi la chiesa.
Sabato pomeriggio
Trascorriamo il pomeriggio siamo stati coi bambini. Quando arrivano a casa, alle 16.30, si cambiano ed ognuno va ad assolvere
il proprio compito/lavoro: chi a ramazzare le foglie dalle aiuole,
chi a raccoglierle, chi ad annaffiare, chi a spazzare tutto il cortile, chi a lavare il pavimento delle docce, chi a sistemare l’orto,
chi a pulire il porcile e a dar da mangiare ai porcelli, chi a sistemare e dar da mangiare ai vitelli, chi a mettere in ordine le camerate... Ognuno è impegnato in qualcosa perché tutti contribuiscono alla vita della missione.
Suor Benigna, la più anziana delle suore che aiutiamo in missione,
ci offre il caffé e ci consegna un pacco da portare in Italia.
Franca ed io andiamo in orto a dare una mano ai bambini, poi ci mettiamo a giocare con loro verso le 17.30/18.00. Giochiamo a “Chi ha paura dell’uomo nero?”, cantiamo e mimiamo “La macchina del capo” e
“Alla fiera dell’est”. Il bello è che pur non capendo le parole assecondano i nostri passatempi e tentano di
ripetere le parole delle canzoni.
Verso le 19.00, sudatissimi, andiamo a farci la doccia per poi cenare con padre Anthony e padre Ceryl. Facciamo quindi una breve passeggiata per salutare i bambini che stanno studiando e (21.30) e rientriamo per
preparare le preghiere dei fedeli e il discorso che ognuno di noi farà l’indomani all’inaugurazione dell’edificio
polivalente.
Il nostro interprete, Luciano, traduce il tutto per padre Anthony. Buona Notte.
Domenica, 6 aprile
E’ domenica. Il risveglio è anticipato alle 6.30 perché alle 7.00
c’è la santa messa domenicale in missione, alla quale vengono
ad assistere tutti gli abitanti dei dintorni.
La cerimonia è molto più solenne degli altri giorni. Ci dispiace di
non aver portato la macchina fotografica o la videocamera,
perché i bambini sono bravissimi. Oggi non verranno alla cerimonia perché devono andare a scuola.
La colazione si svolge alle 8.15 per tutti. Seguono poi i preparativi
per la cerimonia di metà mattino. Ci rendiamo conto che manca la cornice con la foto di Giulia. Ognuno di noi indossa la maglietta dell’associazione. Alle 9.15 arriva la macchina delle suore
di Madre Teresa di Calcutta con il loro autista. Gentilmente ci
lasciano il posto sui sedili, mentre loro salgono dietro. Questo ci imbarazza non poco, ma non possiamo rifiutare.
Lascio la parola a Luciano: raccontare la giornata, per me è troppo.
Luciano: “ Domenica – Inaugurazione Chiesa - Falabari”.
E’ la giornata cruciale del nostro viaggio, vorrei dire il motivo del nostro viaggio.
Dopo l’ottima colazione, partiamo con il fuoristrada delle suore di Madre Teresa di Calcutta, tipo pick-up con
telone, sotto il quale salgono le suore; a noi è stato riservato il sedile.
Fuori dal portone della missione ci rituffiamo nella bolgia infernale delle città bangladesi che mi ero quasi
scordato nei due giorni trascorsi in missione, senza contatti con l’esterno.
La località non è distante (circa 20 minuti) ed è in aperta campagna.
Al nostro arrivo veniamo accolti da canti e balli come fossimo delle personalità: delle ragazze ballano, mentre le loro madri ci cospargono di
petali di fiori, ci spruzzano acqua, e profumi tipo l’incenso. Anthony ci
spiega che è tipico della cultura bangladese.
Veniamo fatti sedere e ci viene messa al collo una collana di fiori
(bouganville e fiori bianchi), che ben risaltano sulle maglie rosse dell’associazione.
L’emozione comincia a farsi sentire anche perché comincio ad osservare
l’esterno della Chiesa che, nella sua semplicità, è molto bella. In alto sulla
facciata c’è un’iscrizione in lingua bangla che dice: “Santa Giulia prega
per noi”. E’ troppo, non è vero, non è possibile. Padre Anthony ci spiega
che è vero, perché le persone che sono in cielo sono tutte sante.
Anthony ha invitato altri due preti che, con padre Ceryl, suo aiutante,
fanno quattro, la qualcosa dà ancora più maestosità alla cerimonia. Michela ed io veniamo invitati al taglio del nastro e, subito dopo, padre An-
thony procede con la benedizione dell’edificio interno ed esterno e ci chiede di accompagnarlo.
All’inizio della celebrazione, padre Anthony mi invita a dire due
parole. A stento riesco a trattenere le lacrime, per fortuna avevo
preparato qualcosa la sera prima.
La foto di Giulia è stata appoggiata su una sedia davanti all’altare, in maniera che tutti possano vederla. Lo svolgimento della
messa prosegue con canti e balli da parte dei giovani del villaggio e della missione che sono venuti apposta.”
Le sante messe sono seguite dai molti cristiani dei villaggi vicini e
dalla curiosità dei musulmani che guardano dalle finestre cosa
stia accadendo in chiesa.
La chiesa è semplice come lo può essere una bambina, molto luminosa e colorata. Mancano i banchi, come
quelli fotografati a Thakurgaon.
Le preghiere preparate la sera prima vengono proposte durante la preghiera dei fedeli, anche se la commozione chiude la gola, e i piccoli discorsi vengono letti prima della benedizione finale.
Sono sicura che Giulia era lì con noi, presente, felice di stare con
tutti noi. I sentimenti provati sono difficili da spiegare… Il quadro
di Giulia al termine della Messa viene fissato alla parete vicino
all’altare di San Giuseppe. Anthony ha voluto così.
Annessi alla chiesa sono stati costruiti un bagno e una stanza per
il sacerdote che si fermerà al villaggio per le prossime funzioni
domenicali. Per il momento è tutto spoglio. Servirebbero un letto,
un tavolo, delle sedie.
Quando usciamo dalla chiesa, sul prato antistante i giovani, coadiuvati dai loro catechisti, ci intrattengono con alcune danze. Poi
andiamo a visitare il villaggio: povere capanne con la base in
mattoni, ma costruite in fango e acqua, con il tetto di paglia e
con il forno scavato nella terra all’esterno.
La cosa che mi ha colpito è che non hanno finestre, solo una o due feritoie. Sono sempre al buio perché non
c’è corrente. Ma sono pulite e in ordine. Per spazzare non usano le nostre scope, ma un insieme di fili secchi
che adoperano accovacciati. Sono come quelle che usano i bambini per tenere pulito il cortile. Pure cucinano accovacciati. In questo villaggio abita Monica Das.
Chiediamo ad Anthony se la chiesa non poteva essere meno
vistosa, visto il contrasto con le case/capanne degli abitanti del
villaggio. Ci spiega che le persone desiderano che la casa del
loro Signore sia bella, per far vedere a tutti quanto sia bello amare il Signore.
Per il pranzo Anthony preferisce tornare a casa, verso le 14.00,
perché l’acqua non era filtrata e le pietanze troppo piccanti, ci
avrebbero fatto male… Evidentemente tiene molto alla nostra
salute.
Al pranzo si fermano sia padre Joseph che padre Raphael, ai
quali facciamo dono della maglietta della nostra Associazione.
E ci fa mangiare troppo: sempre primo (spaghetti) e secondo,
oggi addirittura il gelato. E pensare che costa tanto, ma non si
può rifiutare la sua ospitalità: gli si farebbe un dispiacere. Gli insegno a fare la macedonia e a mangiarla con
il gelato. Piace anche a padre Raphael. Ci dice che sarà una delle cose che chiederà quando, il prossimo
anno, verrà in Italia.
Il pomeriggio, dopo un’ora di riposino, alle 16.00 andiamo a visitare la struttura delle suore di Madre Teresa di Calcutta, che da
tre anni è attiva vicina alla missione. E’ costituita da due edifici
dove sono ricoverati da una parte gli uomini, dall’altra le donne.
Ci sono anche due bambini della missione: uno con un eczema
alle gambe, l’altro con una distorsione ad un piede. Accolgono
chiunque si presenti alla loro porta. Ci dicono che arrivano a piedi o in corriera e che sono di tutte le religioni. Ci fanno visitare le
stanze e suor Francine, la superiora, in un perfetto inglese ci intrattiene. Hanno alcune stanze dove dormono e vivono, e padre
Anthony ci porta a vedere “il Generatore”: è la cappella, una
piccola stanza in penombra dove si ricaricano con la preghiera.
Vi è esposta una grande immagine di Madre Teresa. Al muro è
appesa una lavagna con un elenco di persone per cui pregare.
Ci offrono uno spuntino e ci intrattengono amichevolmente. E’
facile confidarsi e parlare di quello che c’è nel cuore… Trasmettono una grande pace e serenità che è contagiosa.
All’interno della struttura offrono alle ragazze una scuola di cucito
con una suora maestra che insegna loro il confezionamento di
vestiti. Quando poi hanno imparato, regalano una macchina da
cucire, in modo che possano avviare un’attività. Fin che eravamo
lì è arrivato anche il medico, al quale abbiamo consegnato il misuratore della pressione portato da casa.
Al nostro rientro ci fermiamo a giocare con i bambini: “Girotondo”, “Danza del serpente”, “Bandiera”. Alle
18.30 ci prendiamo una bella doccia per andare poi a cena. Dopo una salutare passeggiata serale, convochiamo la riunione del comitato direttivo per fare il punto della situazione. Siamo sotto ad un albero e la serata sembra tranquilla, ma un vento forte comincia a soffiare e fa cadere un grosso frutto. Meglio rientrare prima di prendere qualcosa in testa. Sparisce la corrente e rimaniamo al buio.
Buona notte.
Lunedì, 7 aprile
Stamattina Franca scende alle 6.30 per andare alla santa Messa.
Al ritorno mi dice che l’ha celebrata padre Ceryl e che stava per
addormentarsi. Padre Ceryl sarebbe il co-parroco, ma più che
mangiare, dormire e fumare nella sua stanza non fa, tanto che
Anthony, al rientro serale dalle visite, si trova con tante cose da
fare e da sbrigare. Ha chiesto al Vescovo per quale motivo gliel’avesse mandato e il Vescovo lo ha pregato di tenerlo perché
nessuno lo vuole…
Dopo la colazione, verso le 9.30 si parte per la sede della diocesi
Dinajpur, per visitare la casa del Vescovo che in questi giorni è
negli Stati Uniti.
Vicino alla curia c’è il convitto del convento delle “Santi Rani Sisters”, dove abbiamo incontrato le ragazze che stiamo aiutando con il progetto “Borsa di studio”. Le suore di
questo ordine, sono le stesse che operano presso la missione di Thakurgaon.
Da qui, siamo andati a conoscere e salutare fratel Ettore, milanese di anni 83, che vive in aperta campagna e gestisce la chiesa
di “Santa Maria del Rosario” del Pime. E’ un prete arzillo e pieno di
vita, che ci aggiorna sulle ultime notizie dall’Italia. Quando arriviamo la chiesa è chiusa, e tocca a lui venirci incontro. La custode
appena sposata continua ad assentarsi, così quando ritorna la
riempie di parolacce. “Tanto – dice fratel Ettore - lei non capisce
niente, e io mi sfogo”.
In quattro anni questo missionario ha fatto costruire il campanile e
tutto quello che c’è attorno: la recinzione con le stazioni del rosario, le stazioni della via crucis, il laghetto, la tettoia per ospitare i
pellegrini giornalieri e il pavimento intorno al laghetto. Ora sta facendo costruire una casa della dottrina per gli abitanti del villaggio.
Salutato fratel Ettore, ci rechiamo al Centro di Formazione e Studio diretto da padre Joseph per salutarlo, ma non lo troviamo.
Ci avviamo così verso la casa del fratello di padre Anthony, Joseph, che ci sta aspettando per il pranzo con la sua famiglia. Veniamo accolti da affetto e calore umano e facciamo conoscenza con mamma Emma, mamma di padre Anthony che vive con
Joseph. I bambini presenti, Porna e Lucy (figlie di Maria Paola e
Joseph), e i loro amichetti ci intrattengono con danze e canti:
Elio Pablon balla per primo, poi Porna, Lucy, Briosi con Elio.
Oditi, con Lucy, Porna e Elio recitano le poesie.
Ci vengono regalati dei fiori. Franca và in “brodo di giuggiole”
quando vede Ernesto. Non so se sia stata l’emozione, ma alla
fine straccia i pantaloni sul “….”. Per fortuna ne avevo un paio di
ricambio.
Conosciamo anche un altro fratello, Patrick, che gestisce una
scuola di computer.
Il clima che si instaura è sereno. La cosa però che proprio non ci
è piace, ma fa parte della loro cultura, è che lasciano la tavola
e le sedie a noi. I bimbi mangiano seduti su di una stuoia all’aperto (la giornata è bellissima e calda) e loro su di una stuoia in
cucina, ma solo dopo che noi abbiamo finito di mangiare mentre loro se ne sono stati a guardare.
Ci scambiamo quindi alcuni regali e pensierini per recarci poi
tutti insieme alla Fiera, una festa che dura parecchi giorni, che
sembra essere veramente qualcosa di grande: un campo con
musica assordante e i banchetti del mercato dove acquistiamo
dei ricordi da portare a casa. Compriamo pure della stoffa per
confezionare i camis-saloar, tipica tunichetta locale. Con questa
ci rechiamo da un apposito sarto. Lasciandoci addosso i nostri
vestiti, una sua collaboratrice ci prende le misure davanti alle
centinaia di passanti. Quando si dice privacy…
Rimaniamo d’accordo con Maria Paola che l’indomani ci porterà lei i camis-saloar confezionati.
Ci spostiamo presso il convitto delle suore di Maria Bambina per
incontrare due ragazze aiutate dall’associazione, ma non le troviamo. Incontriamo invece una suora di 94 anni, che conosce la
mamma di padre Anthony.
Poi si va a visitare la scuola di computer che gestisce Patrick, ma
manca l’energia elettrica e non possiamo vedere niente.
Una, due volte al giorno manca la corrente elettrica in tutto il
paese: il governo infatti privilegia l’irrigazione dei campi nell’utilizzo dell’energia.
E’ il momento dei saluti: ci congediamo da Patrick, Joseph e Maria Paola che si commuove e inizia a piangere come una fontana. Rimaniamo colpiti da questo perché, pur conoscendola da
un solo giorno, le siamo affezionati. Vorremmo incontrarla ancora. Padre Anthony ci promette che ci sarà ancora occasione.
Nel frattempo Franca adotta Maria Paola come una figlia, ed io
come una sorella. Evviva siamo ancora più ricche e fortunate!
Nel rientrare alla missione, andiamo a visitare un tempio Indù, sperso nella campagna.
Arriviamo a Thakurgaon che manca la corrente. Poiche la sera
precedente siamo rimaste al buio, chiediamo a Anthony di farci
vedere come accendere la luce di emergenza: è un filo di corrente a cui è attaccata una lampadina, che illumina solamente
la camera. Non possiamo andare in bagno a lavarci. Decidiamo
di aspettare. Si sente il generatore che lavora di gran carriera.
Dopo cinque minuti silenzio assoluto e buio pesto. Siamo pronte
per andare in doccia, ma se non torna la luce che facciamo?
Siamo fregate! Pensiamo a Anthony al buio sotto la doccia: ma
tanto lui è abituato. Pensiamo a Luciano che si sarà trovato al
buio sotto la doccia: poverino! E noi che facciamo?
Rimaniamo 20 minuti al buio, tanto che Franca decide di lavarsi il
reggiseno e io col telefonino le faccio luce. Poi accendiamo il
computer e lei inizia una partita a solitario. Ad un certo punto mi stanco di guardarla dal letto, mi alzo decidendo di prendere la sedia per sedermi vicina, e penso di provare a schiacciare l’interruttore … E LUCE FU!!!
Ci siamo dimenticate che quando il generatore si spegne, vuol dire che la corrente è tornata. Siamo in ritardo: fra 10 minuti dobbiamo essere a tavola con il Vicario Generale. Chiediamo a Luciano di scusarci e facciamo prima che possiamo. Che figura ! Ecco la nuova graduatoria: Luciano: 1; Franca: 1; Michela: 1.
Dopo cena andiamo a salutare i bambini e incontriamo i piccoli di prima elementare. E’ tutto il giorno che
non ci vedono e vorrebbero giocare, ma è tardi. Perciò li accompagniamo ai bagni e li portiamo a letto.
Dobbiamo stare attenti a non farli agitare, perciò cerchiamo di non fare tanto baccano. Li aiutiamo a mette-
re le zanzariere, che sarebbero tutte da rifare, e auguriamo la buona notte. Dormono vestiti sulle coperte e
chi non ha la zanzariera viene accolto sotto quella che già ospita due bambini.
Martedì, 8 aprile
Ore 6.30 Santa Messa.
Ogni volta che i bambini ci vedono, veniamo assaliti. Abbiamo
paura di pestare i loro piedini, ogni dita delle nostre mani è occupata da una loro manina… Anche le braccia.
La colazione è sempre troppo abbondante: Anthony ci sta viziando e ingrassando.
Alle 9.30 si parte per Shadamohol, villaggio nativo di Anthony,
che però non fa parte della sua parrocchia. Andiamo a visitare
i suoi due fratelli che ancora vi abitano e a vedere una piccola
cappella costruita 300 anni fa da un missionario inglese, in ristrutturazione.
Quando usciamo dal cancello della missione, svoltiamo a destra, e impieghiamo circa un’ora per raggiungere il villaggio fra strada asfaltata, terra battuta con buche, strada in rifacimento con paurose fenditure. Diciamo che o digerisci o… digerisci per forza. Prendiamo una strada di campagna, avanziamo, entriamo in una
foresta di bambù, su di un sentiero rialzato di oltre 1 metro e mezzo rispetto ai campi… Viene da chiederci se
da un momento all’altro la nostra macchina possa capovolgersi.
Arriviamo e, sorpresa!, ci vengono incontro Joseph, poi Maria Paola con i sari e Lucy.
Finalmente conosciamo Shikka e Sumi, che stanno completando la classe 10° e l’anno prossimo, fra aprile e
maggio, faranno l’esame finale e, se ne avranno la possibilità, andranno al college.
Sumi e Shikka sono le figlie del fratello maggiore di Anthony,
Franco, che ha anche un figlio già sposato,Iban, e un nipotino.
Conosciamo anche l’altro fratello di Anthony, Simon, e le sue
figlie Shova e Shati.
I tre nuclei abitano nelle tre case di famiglia. Sono famiglie agiate, perché qui le case hanno porte e finestre con le imposte
di legno, la corrente elettrica e, di conseguenza, l’illuminazione. I fratelli di Anthony coltivano i campi.
Nel villaggio abitano anche altre famiglie di altra religione, ma
la convivenza è tranquilla.
Dietro le case padre Anthony sta ristrutturando la vecchia chiesa. L’idea è di rifare il tetto, ma anche le pareti sono danneggiate e pure il bagno è da sistemare. Attigua alla chiesetta,
sulla sinistra, c’è una casa che il missionario vorrebbe abbattere e riedificare per usarla come doposcuola (in modo da permettere ai ragazzi di studiare al pomeriggio), per
il catechismo e come punto di aggregazione.
Vicino alla chiesa, sulla destra, c’è la tomba del papà di Anthony: è la prima tomba cristiana che vediamo. Il
suo papà è morto 22 anni fa. Era su un camion che trasportava mattoni che, per un incidente, si è rovesciato;
lui è rimasto schiacciato dal carico, lasciando quattro bambini piccoli.
Siamo invitati ad accomodarci e, secondo l’usanza, ci viene servito un dolce locale fatto con riso bollito, latte, zucchero e cannella: un mattone dolcissimo.
Franca rifiuta la sua porzione e dice che ne mangerà un cucchiaio della mia. Io speravo che i cucchiai fossero più d’uno… Alla fine, per pura cortesia, riesco a finire la mia porzione, ma faccio fatica a deglutire… Manca solo che Anthony ci dica che Pierina, a casa, sta preparando gli gnocchi… Aaiuuuto!!!!!
Maria Paola ci chiama in casa e, chiudendo la porta, ci fa spogliare per indossare i camis-saloar che il sarto
ha confezionato. Ci regala inoltre gli orecchini e un pendente
per la collana, con un biglietto scritto.
Usciamo e, fra le risate e gli sguardi dei presenti, consegniamo
alle ragazze e ai bambini i regali e le magliette. Salutiamo tutti e
partiamo per fare ritorno in missione.
Sulla strada passiamo spesso sopra alle stoppie delle piante di
orzo che gli abitanti vi gettano per essiccarle e per farle battere
dalle ruote degli automezzi, dopo averle battute alla bel e meglio sull’aia di casa. In questo modo le stoppie vengono sminuzzate e destinate poi all’alimentazione delle bestie.
Lungo la strada principale, fra le bottegucce, vediamo intermi-
nabili code di persone che, in fila indiana e con un sacchetto in
mano, aspettano di poter comperare il riso del governo. Se dovessero comperarlo al mercato lo pagherebbero 35 Taka / Euro 1
al sacco, mentre il prezzo governativo è il 20% in meno; comunque è sempre un costo eccessivo per le loro possibilità, in considerazione anche del fatto che il valore del riso nel mercato è
molto aumentato negli ultimi mesi.
Arriviamo alla missione: pranzo e riposo. Oggi è veramente caldo!!!
Nonostante la scomodità del letto, riusciamo a dormire. A svegliarci è uno strano rumore che proviene dal cortile: è arrivata la
macchina per separare i chicchi di orzo dalla spiga, per completare l’opera di taglio e raccolta fatta a mano dai bambini sin
dalla mattinata nei due campi di orzo. Due giovani collaboratori di padre Anthony, insieme all’operatore addetto, sovrintendono al passaggio delle spighe nella macchina: i chicchi di orzo cadono a terra vicino alla
macchina, mentre il resto e lanciato a distanza. Ogni tanto qualcuno, compresi i bambini, liberano le foglie di
una pianta ricoperte dal lancio di paglia. Il tutto verrà passato due volte, per riuscire ad avere più raccolto
possibile. Anthony ci dice che riuscirà a fare circa 5 sacchi di orzo. E’ poco. Ma ne ha comperati altri 10 sacchi per mescolarlo con il riso in modo da variare l’alimentazione dei bambini.
Decido di prendere la videocamera e fare la ripresa di tutta la
missione. I bambini mi seguono anche in questo, sono curiosi e
fanno di tutto per venir ripresi.
Luciano e Franca vanno nei campi ad aiutare i bambini, e caso
strano vediamo anche padre Ceryl… Cosa sarà successo??
Luciano, che vorrebbero legare i covoni a modo suo, viene ripreso dai bambini che gli insegnano come fare… Oggi ha imparato
una cosa nuova!
Oggi i bambini non sono andati a scuola perché i maestri avevano una riunione e, oltre a raccogliere l’orzo dei due campi, hanno raccolto anche un campo di aglio. Curiamo le vesciche.
All’imbrunire il lavoro di trebbiatura non è terminato, ragion per
cui si raccolgono i covoni e si ripongono in una classe della missione. All’indomani, prima di andare a scuola, i bambini riporteranno tutto in cortile per ultimare la battitura.
Arriva la sera: doccia, cena e riunione con Anthony. Il missionario ci spiega che oggi pomeriggio è uscito in
moto perché era stato chiamato presso una famiglia la cui bimba di cinque anni è morta perché priva di medicine… Ci sentiamo impotenti di fronte a tanta miseria… Che cosa si può fare?
Visto che domani ci sarà una festa, chiediamo a padre Anthony che i bambini possano mangiare carne e, se
fosse possibile, il gelato. Durante i nostri spostamenti in auto abbiamo notato che girano delle biciclette con
una scatola di latta fissata sulla parte posteriore: è il gelataio.
Mercoledì, 9 aprile
Anche stamattina partecipiamo alla Santa Messa animata dai
bambini, e questa volta ci ricordiamo di filmarla. E’ la nostra ultima giornata in missione e sia padre Anthony che i bambini desiderano che portiamo con noi questo ricordo.
Padre Anthony nell’omelia spiega che la messa vuole essere un
ringraziamento per la nostra visita, per l’aiuto che l’associazione
sta dando alla missione e una benedizione per il viaggio che dovremo intraprendere.
Dopo colazione Anthony ci consegna le foto di tutti i bambini-e/
ragazzi-e che stiamo aiutando, più un pacco di foto nuove.
Questa mattina andiamo a visitare la scuola frequentata dai
bambini di Thakurgaon. Usciti dal cancello principale, per riuscire
ad attraversare la strada dobbiamo aspettare un momento in cui il traffico rallenti: c’è una corriera in sorpasso su un’altra. Quando ci sentiamo al sicuro, sul lato opposto, ci incamminiamo su di una “strada” (che di
strada non ha proprio niente) e arriviamo alla scuola del governo, che è, per il nostro modo di intendere le
case, una costruzione diroccata. Visitiamo le classi e facciamo conoscenza degli insegnanti. In alcune classi i
bambini/e presenti sono 70/80, anche se in alcune ore vengono divisi.
Quando sentiamo parlare una maestra, subito ci vengono alla mente le maestre italiane: questa è senza vo-
ce.
In una classe c’è addirittura la legna da ardere che occupa parte dello spazio a disposizione.
I bambini sono seduti tre/quattro per banco, molto vicini fra loro.
Usano la penna e i colori. Scopriamo che il pensiero che abbiamo portato per loro, e che consegneremo l’indomani, è proprio
azzeccato.
Non tutti hanno la borsa di stoffa per portare i libri e i quaderni,
anzi la maggior parte li porta a mano. Pochissimi (li puoi contare
sulle dita di una mano) hanno lo zainetto o cartella.
La loro ospitalità si concretizza nell’offrirci un semplice rinfresco
con mela, biscotti, aranciata e acqua che non beviamo. Sicuramente ci hanno offerto la loro merenda, ma non puoi rifiutare:
sarebbe un’umiliazione per loro. Ci fanno accomodare mentre loro restano in piedi a parlare con noi.
Chiediamo di conoscere alcune parole:
- BUON STUDIO = Baloo Poro
- QUADERNO = Note Book
- LIBRO = Boi
- PENNA = Colom.
Salutiamo e ci avviamo verso le capanne di paglia e le case di
fango dietro la scuola, abitate dalle famiglie cristiane i cui bambini sono sostenuti dall’Associazione. A casa troviamo Nuel: padre Anthony ci dice che è pigro.
Una di queste case è quella di Pierina, la nostra cuoca, e vi troviamo la figlia maggiore. Pierina ha tre figlie e un ragazzo, e ieri ci
ha chiesto se possiamo aiutarli a studiare.
Alcune di queste costruzioni hanno sul muro un simbolo cristiano,
come la croce, per affermare la propria religione.
Decidiamo di rientrare. Il caldo è insopportabile e sudiamo tanto.
Quando rientriamo alla missione, chiediamo a Padre Anthony
perché sul lato interno della mura sia scavato un fossato, visto
che sulla mura stessa sono stati cementati pezzi di ferro e vetro,
che dovrebbero da soli fare da deterrenti nel caso a qualcuno venisse voglia di scavalcarla. Il fosso verrà pulito dalle macerie, riempito di terra e verrà adibito a orto e giardino, sono cinque buoni metri di spazio a disposizione.
Vediamo arrivare un catechista, con appesi alla bicicletta 10/11 polli ancora vivi: saranno la cena dei bambini per la festa.
Dopo il pranzo ci corichiamo per un breve riposo.
Alle 16.30 scendiamo perché in cortile ci sono musiche e canti di
ragazzi. Notiamo che le panche usate per la mensa sono state
portate in cortile e che la tettoia è diventata un palco. Come al
solito sono state preparate quattro sedie per noi.
Arrivano i 250 ghiaccioli che abbiamo comperato per tutti i bambini della missione e per tutti quelli che si fermeranno. E’ proprio
festa.
Quando il sole comincia a calare, inizia la festa in nostro onore,
organizzata dai “giovànni” (padre Anthony proprio non riesce a
pronunciare la parola “giovani”) della missione e dai bambini.
Franca ed io abbiamo indossato, in onore del Bangladesh e dei
nostri ospiti, il sari che Anthony aveva comperato per noi. Indossarlo è alquanto
complicato, ma il risultato è molto elegante; peccato che le nostre misure ci facciano apparire delle matrone.
Durante la festa, fatta di canti e di balli, viene richiesto un nostro
intervento: li ringraziamo per l’affetto che ci riservano, profondamente e sinceramente ricambiato, per le ore e le sensazioni meravigliose che ci sono state regalate, e li esortiamo ad approfittare dell’opportunità che hanno e di studiare per cambiare la
loro vita.
Quando poi prende la parola padre Anthony e chiarisce che
l’indomani saremmo partiti e che saremmo andati tanto lontano, la commozione comincia a farsi strada. Dice che lui si sente
felice per la nostra presenza e di aver dimenticato le preoccupazioni che inizialmente aveva, perché è la prima volta che ospita
qualcuno. Il risultato è stato superiore a qualsiasi previsione, perché siamo diventati una famiglia, per il nostro modo di lasciarci
coinvolgere dal loro mondo, per aver giocato, cantato e lavorato con loro. Questo legame non si rompe per il fatto che noi siamo in un’altra parte del mondo, e anche che non ci dimenticheranno e che pregheranno sempre per noi. Ci chiede di non dimenticarli… e queste parole fanno rompere quel sottilissimo argine che ognuno cercava di mantenere: le lacrime cominciano a
scendere ed iniziano i saluti, con adulti e bambini in fila che ci
vogliono abbracciare e baciare. E’ proprio questa la differenza:
se il primo giorno c’è stato un timido approccio e si lasciavano
prendere il viso per ricevere i baci, stasera pur salutandoci nel loro modo, dopo aver ricevuto il nostro abbraccio e i nostri baci, sono proprio loro che tornano ad abbracciarci ed a baciarci. Non è facile da spiegare, ma percepisci che non vorrebbero lasciarti. Siamo sicuri, questa volta, di aver abbracciato parecchie volte le stesse persone… gli stessi bambini.
Le bambine specialmente non smettono di piangere. E’ difficile a gesti far loro capire che le amiamo e che
saranno sempre con noi nei nostri cuori, che sarebbe meglio stare vicini e ballare come tentano di farci fare i
“giovànni”. Ci proviamo, ma la tensione non ci fa coordinare i
movimenti del ballo e preferiamo sederci. Siamo esausti. Tutti.
Padre Anthony ci avvisa che la cena è quasi pronta. Noi non riusciamo a liberare le dita delle mani: dobbiamo imporci e facciamo capire che più tardi ci saremo rivisti.
Durante la nostra doccia la musica continua. Indossiamo il camis-saloar, ceniamo e poi torniamo dai bambini che hanno mangiato alle 22.00, anziché alle 20.00 come ogni sera, per la grande
quantità di riso che è stato preparato per la moltitudine di presenti.
La loro festa è durata molto a lungo. Alle 23.00 noi siamo andati
a letto e le musiche ci hanno accompagnati per la nottata.
Giovedì, 10 aprile
Alle 6.30 del mattino partecipiamo alla Santa Messa e, al momento della comunione, abbiamo cantato
“Dolce Sentire”, per contribuire con il nostro canto alla cerimonia.
La colazione scivola via in un clima si suspense e tristezza per l’imminente separazione. Non riusciamo a guardarci negli occhi…
Consegniamo ai bambini e ai “giovànni” i regali portati dall’Italia.
A padre Anthony lasciamo tutte le medicine. Poi andiamo a salutare le suore di Madre Teresa di Calcutta. Provvediamo a caricare le valigie per andare poi a salutare adulti e bambini che si
erano radunati tutti in cortile… Cerchiamo di trattenerci, ma la
commozione prende il sopravvento e alla fine io mi rifugio in furgone perché non ce la faccio più.
Franca, nel giro dei commiati, saluta padre Ceril con due baci e
immediatamente si sente una risata generale: è la prima volta che viene baciato da qualcuno.
Alle 9.30 si parte per la capitale, con sosta a Dinajpur da Joseph e Maria Paola, che ci aspettano per un boccone insieme prima delle lunghe ore di viaggio. Scopriamo che hanno scomodato il cuoco personale del
Vescovo (tanto lui è negli Stati Uniti) per prepararci una pastasciutta al sugo… E come al solito non c’è solo quella, e mi tolgo
una bella soddisfazione assaggiando le pietanze piccanti del
Bangladesh. Very good.
Patrick, fratello più giovane di Anthony, ci chiede di aiutarlo per
la scuola di computer che ha aperto… Gli diciamo di inviarci un
progetto: poi si vedrà. Quante persone sono venute a chiederci
aiuto in questi giorni!
Verso le 12.00 fra saluti, pianti e abbracci ripartiamo, con fermata
breve per caffé e benzina al fine di riuscire ad arrivare a Dhaka
per cena.
L’arrivo a Dhaka è impressionante per il traffico pazzesco e strombazzante, per le continue partenze e brusche fermate degli automezzi, per la gente, la confusione e lo smog che non ti lascia respirare. Inoltre, con il caldo che c’è, siamo obbligati a chiudere i
finestrini per prendere fiato. Quelli che viaggiano in risciò si coprono bocca e naso con il fazzoletto o, alla meno peggio, con le
mani, tanto l’aria è irrespirabile.
Man mano che ci avviciniamo alla città dalla campagna, una
coltre grigia oscura il cielo, tanto da coprire tutto, compreso il colore degli alberi. Impieghiamo circa 1 ora per arrivare dalla periferia della città alla casa del PIME. Dhaka è una città grandissima e
disordinata, molto caotica.
Arriviamo alle 19.45 alla casa del PIME per farci una doccia prima
della cena.
Quando Franca fa per entrare in camera a prendere qualcosa, la porta non si apre più. Chiediamo aiuto e,
dopo una serie di spintoni, padre Michele con un calcio la sfonda, guadagnandosi sul campo il soprannome
di Kung-Fu.
ad 1 metro di terra.
A tavola ci intratteniamo con padre Dotti perché ci delucidi su
alcune cose che ci hanno incuriosito.
-Abbiamo visto tanti cimiteri di musulmani, sepolture recintate da
staccionate di legno, tombe di marmo o semplici cumuli di terra,
in grandi prati o appezzamenti di terreno con pochi sepolcri.
Ci spiega che le disposizioni per la sepoltura dei morti prevedono
che la salma sia posta sotto due piedi di terra, su cui vengono
appoggiate delle canne di bambù; prima di essere ricoperto di
terra, sul corpo viene stesa una stuoia in segno di rispetto. Il problema si presenta quando le manguste o i cani vanno a scavare
la terra per cibarsi dei cadaveri, o quando le alluvioni portano
ancora più in alto il corpo stesso.
I cristiani devono seppellire i corpi dei loro defunti almeno sotto
-Abbiamo notato tanti cani magrissimi randagi, che il nostro autista non si preoccupava di investire sghignazzando.
Padre Dotti spiega che se un musulmano viene toccato da un
cane bagnato mentre si sta recando alla moschea per la preghiera, diventa impuro e deve rilavarsi completamente.
Il cane, per i musulmani, è un essere immondo, privo di considerazione. La sua morte non conta alcunché. Se si vuole recare un’offesa ad una persona in modo pesante, la si apostrofa dicendo “figlio di cane”, o “figlio di maiale”, oppure “figlio di lucertola”.
I cristiani hanno più rispetto, ma niente di più. In alcuni casi sia
cristiani che musulmani tengono i cani vicino alla casa per la
guardia e la difesa della proprietà e del bestiame.
-Rapporto fra fratelli. E’ costume che il fratello maggiore abbia il DOVERE di accudire, dedicarsi, andare a
trovare i fratelli minori, anche se risiedono lontano e comunque fuori dalla casa di famiglia. Se non lo dovessero fare, sarebbero cattivi, perché vengono meno ad una cosa importante, ad un loro preciso impegno morale.
E i fratelli minori sanno che possono chiedere qualsiasi cosa al fratello maggiore, e sanno che egli li aiuterà. Ma non lo chiameranno mai per nome: in segno di rispetto lo chiameranno DADA (se
maschio) o DIDI (se femmina). Sono l’equivalente di Zio e Zia.
-Abbiamo visto che il governo sta cercando di dare un’istruzione
a tutti i bambini. Come fanno a sapere quanti bambini ci sono,
visto che non tutti i bambini vanno a scuola? Alla nascita vengono denunciati? Padre Dotti ci spiega che non esiste anagrafe. Il
governo obbliga i maestri del quartiere/territorio dove è situata la
scuola, a fare il giro di tutte le case per vedere se ci siano bambini in età scolare. Danno loro una divisa e le misere ciabattine in-
fradito, che sono la calzatura ufficiale del Bangladesh.
Il vero problema è che questi bambini sono molto poveri e non
vanno a scuola perché non se lo possono permettere: infatti, se
arrivano in aula senza matita o penna, il maestro li bacchetta o li
rimprovera, e rinunciano alla scuola. Ci sono molti bambini che
non possono permettersi l’istruzione.
Un altro discorso è che se non mangi a sufficienza, non riesci ad
usare il cervello. Sono così affamati che mangiano i topi che vanno a cercare il riso nei sacchi. Il sapore del topo è come quello
del maiale.
Raccontano che un giorno un maestro andò a cercare a casa il
bambino indù che non si era più presentato a scuola, ma a casa
non c’era. Era andato a caccia di topi con altri ragazzi.
In questi giorni si raccolgono le patate: è stata un’annata di abbondanti raccolti, risultato eccezionale, tanto
che la metà non trova spazio nei magazzini frigo governativi. Adesso i bambini sono nei campi a raccogliere
le patate che sono state abbandonate, e i contadini li lasciano fare … Di solito è il contrario.
-Il bambù viene usato per le impalcature per fare le case e per
tanti altri lavori, anche per fare le stuoie.
Quando il bambù viene tagliato, viene immerso nelle grandi pozze di acqua vicino alle case, e la permanenza in acqua uccide
le tarme che si annidano nel tronco.
Poi le canne vengono affettate sottilmente nel senso della lunghezza e lasciate asciugare per terra. Quindi si intrecciano queste sottili fette creando le stuoie, che a loro volta vengono immerse nell’acqua per eliminare le pulci che facilmente vi si annidano.
-Thakurgaon ha all’incirca 50/60.000 abitanti
Dinajpur 150.000.
Venerdì, 11 aprile
Finalmente abbiamo dormito su di un qualcosa che assomiglia ai nostri
letti, ma cominciamo a sognare il nostro. Ci si sveglia alle ore 7.15 dopo
una notte di riposo… Dopo la colazione, alle 8.30 si parte per la visita al
Seminario Minore di Dhaka, dove ha studiato per quattro anni padre Anthony. Visiteremo la cattedrale e il College frequentato da un Anthony
studente.
In una Dhaka abbastanza tranquilla, perché il venerdì è il giorno della festa e riposo per i musulmani, raggiungiamo il Seminario Minore, ad accoglierci troviamo padre Raphael che è stato aiutante a Thakurgaon per
due anni con Anthony, con indosso la maglietta rossa dell’Associazione
che gli abbiamo regalato la domenica.
Visitiamo le classi dei ragazzi del 1°, 2°, 3°, 4° anno, che stanno preparando gli esami. Alcuni sono assenti, perché in preparativi per la festa nazionale di lunedì 14 aprile. Infatti i pianerottoli delle aule e della cappella sono state decorati dai ragazzi e insegnanti, come vuole la tradizione.
Le classi sono situate su due piani, vicino agli alloggi dei ragazzi e del rettore. I ragazzi sono alloggiati in camerate con i letti a castello, e senza spazio
fra i letti e in un caldo opprimente.
E’ una bellissima giornata e, per fortuna, nelle classi ci sono le pale che muovono l’aria, altrimenti non sappiamo come farebbero
a studiare. Anche le scale fra un piano e l’altro, sono state rinfrescate per la prossima festa, sull’alzata di ogni scalino sono tratteggiate delle scritte in bangla.
Ci sono dei sassi colorati messi nei punti strategici del passaggio
dei seminaristi, con le scritte carità/perdono (amore in riferimento
all’enciclica del Papa) in colore verde, silenzio in blu.
Su dei mattoni colorati che fungono da ferma porta è scritto
welcome in caratteri bangla.
Come vuole l’usanza di benvenuto, veniamo fatti accomodare in
refettorio dove è stato preparato per noi un rinfresco. Per buona
educazione mangiamo i dolci ipercalorici, uno con cocco, latte
e zucchero, l’altro con il latte condensato e zucchero: una bomba.
Andiamo a visitare la cattedrale che è all’interno del terreno del
seminario: risulta essere un edificio trasandato, che avrebbe bisogno di una sistemata. Alle porte sono appesi degli avvisi in lingua
inglese e bangla, che invitano a spegnere i cellulari prima di entrare. Suggeriamo a padre Anthony di metterlo anche a Thakurgaon, in modo da ricordarlo a suor Benigna che, durante le Sante
Messe, non lo spegne mai e lo si sente squillare anche due/tre
volte.
Ci salutiamo, ringraziamo e ci lasciamo con la promessa di preghiere. Il rettore, padre Dilip Costa, ci dice che
a giugno sarà in Italia, a Varese per un seminario. Forse ci incontreremo.
Andiamo a Notre Dame, l’istituto dei padri della Santa Croce,
college frequentato da padre Anthony, dove viene ad accoglierci padre Gorge (suo compagno di studi), che ci fa visitare la
struttura, la cappella e in particolare la parte dedicata all’accoglienza dei poveri: il dispensario per le visite dei poveri dei gipsi
(gli zingari). Il dispensario è formato da due stanze per il ricovero
di chi ha bisogno di cure: è un ammasso di corpi distesi sui letti. E’
in costruzione una nuova ala per permettere ai tanti bambini in
giro per la strada di trovare riparo e sicurezza.
C’è anche una cucina esterna che prepara ogni giorno un pasto per i bisognosi che si presentano.
Assistiamo al bagnetto di un bimbetto di pochi giorni.
Visitiamo la scuola tecnica di officina. I ragazzi stanno preparando degli articoli di carpenteria, appendiabiti: fanno parte di una consegna che verrà caricata nel container
in cortile. Verranno inviati in Italia, in Australia e nel mondo.
Di fronte c’è un grande parco per la ricreazione.
Salutiamo e ringraziamo, manifestando a padre Anthony il desiderio di salire in risciò e fotografarlo. Cosa fa?
Va a chiamare un risciò, lo fa entrare nel cortile del collegio per darci modo di fotografarlo. Non era quello
che intendevamo noi … Sembra tutto finto. Amen.
Rientriamo alla casa del Pime per il pranzo, seguito da un piccolo
riposino. Alle 16.00 chiudiamo le valigie, regaliamo a Anthony i
fazzoletti di carta ed i dentifrici e ci rechiamo nel salottino per fare una riunione conclusiva, quasi a tirare le somme del viaggio.
E’ un momento molto bello, intimo e commovente.
Franca chiede a Anthony. “Che idea ti eri fatto di noi? Come ci
pensavi?”
Anthony : “Ero preoccupato per l’impressione che vi sareste fatti
del Bangladesh e per il tempo. Poi tutto bene, ci siamo adattati
come fossimo quasi una famiglia. Tutti sono stati contenti, la mia
famiglia e i bambini.
Ho chiamato a Thakurgaon e i bambini sono tutti tristi. Era la prima volta che ospitavo amici oltreoceano. Sono molto felice. Mi
avete dato gioia, esperienza, coraggio, amore, entusiasmo.”
Luciano: “ Questi sentimenti per me sono molto più importanti dell’aiuto materiale.”
Michela: “Aver visto mi ha aiutato a capire, si vede che i bambini ti amano e che tu li ami. L’aver visto mi fa
capire cosa c’è da fare, ma hai dei bravissimi bambini che fanno tutto”
Franca: “Hai anche dei bravi ragazzi, bravi giovani che ti aiutano!”
Luciano: “Dare la possibilità ai bambini di vivere nella missione è una grande opportunità, perché è un’isola
felice. E’ vero che non tutti vivono in missione, ma il solo fatto di poter studiare è per loro una grande fortuna.”
Franca : “Ho capito che oltre agli ospiti ordinari, molti altri bambini vengono in missione durante il giorno, trovano aiuto nello studio e possono contare su un piatto di riso prima di tornare a casa. E’ un grande aiuto per
le famiglie povere che vivono all’esterno delle mura.”
Anthony: “Io sono contento di poter contare sui soldi che mi mandi (rivolto a Luciano) per i progetti che decidiamo”.
Luciano : “Se ci sono delle priorità per cui è meglio cambiare programma, puoi mandarmi un messaggio e
poi vediamo che fare. Basta saperlo.”
Anthony :”Michelina, guardami, io ho una AIDEA (idea): cambiare le pale dei due dormitori e metterne 2/3
per dormitorio”
Michela rivolta a Luciano : “La cosa è da studiare, perché se mettiamo i letti a castello, non vorrei che i bambini prendano più tosse di quella che hanno già!”
Anthony : “No problema! Fare qualcosa per i piatti. Ora sono all’esterno con polvere e pioggia, pensare fare
armadio aperto sotto. Cosa dici? Salutatemi tutti i benefattori e ringraziate.”
Luciano : “Quanti anni rimane un prete diocesano nella parrocchia?”
Anthony : “10 anni, poi altri 10 rinnovabili. Il Vescovo decide dove c’è da tirare su parrocchia. Lui mi aveva
scritto quando ero nelle Filippine per studio, e mi aveva pregato di andare a Thakurgaon perché il padre che
c’era prima di me, in due anni, non aveva fatto niente.
La missione è stata fondata da padre Poggi del PIME Italia, poi è stata data alla diocesi di Dinajpur e c’è stato per due anni un parroco bangladese. Poi sono arrivato io, da ormai già tre anni.
Il primo parroco bangladese aiutava i bambini, ma non scriveva e non ho trovato documenti che parlino di
questo.
Quando ho iniziato a operare nella missione, il Vescovo mi dava 3.000 euro all’anno. Ho scritto a Paolo: ”Aiuto
emergenza riso.” E’ arrivato aiuto e poi voi. Prima non potevo dormire per i pensieri, chiedevo aiuto al Vescovo e lui mi dava poco. Chiedevo aiuto a suor Gaetanina e lei diceva “Aiuta tu me”. Le tre suore che vivono
alla missione mi aiutano, certo, ma le pago ogni mese.”
Luciano : “Domenica prossima, il 20 aprile, avremo l’assemblea dell’Associazione, per favore Anthony, prega
per tutti noi.”
Michela : “Se vuoi, via e-mail invia un messaggio di saluto, volentieri lo leggeremo:”
Anthony : “Io sono molto contento per vostra visita in missione, con lavoro con bambini per orzo, parlare, amore, baci, camminare, ballare. Per visita famiglia, persone, e altri bambini.
Per me esperienza entusiasmante, gioia. Questa prima parte.
Altra parte per la fede con la chiesa di Falabari dove ci sono molti musulmani e indù. Simbolo perché Giulia
lavora notte e giorno per Gesù ed evangelizzare la popolazione. Il CENTRO è la PREGHIERA = RICARICARSI.”
Prendiamo qualcosa di fresco, sono ormai le 17.30. Salutiamo tutti i presenti, ringraziamo padre Dotti per l’ospitalità lasciando un’offerta (anche per riparare la serratura rotta) e ci avviamo a prendere fratel Lucio per
raggiungere poi l’aeroporto.
Arriviamo, scarichiamo le valigie in mezzo a una bolgia infernale, ringraziamo Bobu, il nostro autista, e con
Anthony entriamo in aeroporto. Sorpresa: non vogliono lasciar entrare Anthony. Delusione cocente! Ci vien
da piangere, ma non possiamo: sarebbe ancora più doloroso. Ci abbracciamo frettolosamente e poi dai vetri ci mandiamo baci… Non è come avremmo voluto. Odio quel militare del c…avolo.
Facciamo incartare le valigie per evitare che si aprano nel tragitto di ritorno, soprattutto nel trasbordo da un
aereo all’altro, e andiamo a mangiare qualcosa. Sono ormai le 19.30.
Alle 21.30 parte l’aereo da Dhaka per Dubai, dove atterriamo in piena notte all’0.45.
Sabato, 12 aprile
A Dubai rimaniamo per 9 ore, alla ricerca di una saletta privata
dove poter riposare, anche pagando. Luciano mi sembra san
Giuseppe che con Maria/Franca va a chiedere ospitalità, ma
non trova alcunché. Ci sediamo sulle sedie lungo il corridoio. Luciano non demorde e nella Loenge trova posto perché tre ragazze cinesi ci lasciano le loro poltrone che occuperemo per tutta la
notte, cercando di dormire, leggere o sonnecchiare.
Io crollo e dormo per tre ore. Luciano e Franca fanno fatica a riposare.
L’aeroporto è immenso, impressionanti sono lo sfarzo e il lusso: noi
pensiamo continuamente alla situazione di tante famiglie bangladesi.
Alle 7.30 andiamo a fare colazione al Caffè Costa con cappuccino e brioches. Qui è proprio tutto grande: tazza da mezzo litro di
cappuccino e brioches enormi.
Ci avviciniamo al Gate 46 per l’imbarco. Alle 10.45 del mattino, in
ritardo di un’ora, ci imbarchiamo sul volo KLP45ITI diretto in Italia.
Stiamo tornando a casa, ma ci sentiamo diversi…
L’atterraggio avviene alle 14.45, in perfetto orario. Effettuate le
operazioni di sbarco e di recupero bagagli, troviamo Enrico ad
aspettarci. Ci abbracciamo. Che bello rivederlo, ci è mancato…
Ce ne rendiamo conto in quel momento. Sarebbe stato bello aver fatto questa esperienza con Grazia e con lui… Sarà per la
prossima volta …
SORPRESONA: Franco è in aeroporto, nascosto ad aspettare il suo
amore, finalmente!!!
Arriviamo a casa Sinico con le bandierine, fiori, brodo caldo preparato da Cristiana: buonissimo.
Primi racconti, allegria, qualche lacrima … Riusciremo a far capire
quello che abbiamo provato e a raccontare quanto visto???
ESPERIENZA MERAVIGLIOSA, RINGRAZIO IL SIGNORE E … GIULIA PER
AVER POTUTO VIVERLA E PER ESSERE TORNATI A CASA.
Prodotto e pubblicato in proprio febbraio 2010.
Diritti riservati ad Associazione Progetto Giulia O.N.L.U.S.
E’ permessa la stampa per la consultazione privata.
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