Tesi Alceo Smerilli Turchia-Bosnia

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Tesi Alceo Smerilli Turchia-Bosnia
 Facoltà di Scienze Politiche
Corso di Laurea Magistrale in Relazioni Internazionali
Anno Accademico 2010-2011
Tesi in Tecniche del Negoziato Internazionale
La Profondità Strategica turca e
le Relazioni con la Bosnia-Erzegovina
Le evoluzioni della politica estera di Turchia dal
Conflitto tra Islamici, Kemalisti e Kurdi
Relatore
Candidato
Prof. Miodrag Lekic
Alceo Smerilli
Correlatrice
Matricola
Prof.ssa Bruna Soravia Graziosi
612162
1 Indice
Introduzione
06
1. Il Conflitto come problema o come opportunità, Turchia e Bosnia-Erzegovina
07
2. Machiavelli e l’interpretazione del Conflitto
12
3. Le differenze tra Roma Repubblicana e la città di Firenze
14
4. Costituzione Mista
16
5. Politica Estera: diversi umori, un solo interesse nazionale
18
6. Rappresentanza e Libertà
20
Capitolo 1
Turchia, i nuovi equilibri tra le diverse anime
24
1.a Gli Islamici nella Repubblica di Turchia
28
1. L’Impero Ottomano, Scelta della Modernità ai fini difensivi
30
2. Islam Politico Turco. Dall’affermazione del pluripartitismo all’AKP
34
3. L’AKP, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo
42
4. La fonte del consenso di Erdogan: la Società Civile Islamica
49
5. Il Sufismo
50
6. Islamici e Pluralismo: il Neo-Ottomanesimo dentro i confini
52
1.b Kemalisti
55
1. La fine della Guerra Fredda, nuove libertà
55
2. La Lâiklik
57
3. Tanzimât
58
2 4. Negoziato di Losanna, il riscatto dell’orgoglio turco
59
5. Il controllo dell’Islam
62
6. Le Forze Armate Turche: Custodi della Laicità Costituzionale
63
7. L’ascesa dell’Akp e i difficili equilibri con le forze a difesa della laicità in Turchia
66
8. Le elezioni del 12 giugno 2011
70
9. Le aperture della società civile laica agli islamici moderati: tra timori e convivenza
pacifica
72
1.c Kurdi
74
1. I kurdi nell’impero ottomano
75
2. Nascita del Nazionalismo 78
3. La fine della guerra fredda e il ritorno in auge del movimento separatista kurdo
83
4. La democrazia come rimedio alla violenza
85
5. La lotta alla tortura
86
6. L’AKP è la Questione Kurda
88
7. I kurdi, tra sinistra e Islam
89
Capitolo 2
Profondità Strategica
94
1. La dottrina di “Mr Zero Problems”
98
2. Una Turchia rivolta meno ad Occidentale
99
3. Padroni di noi stessi
105
2.a Panturchismo
108
1. La Nuova tesi storica
109
3 2. Ankara e Mosca, un nuovo sodalizio
113
3. La guerra in Afghanistan e il ruolo della Turchia
116
4. Le relazioni con la Cina, la questione degli Uiguri
121
5. L’applicazione di Profondità Strategica alla missione turca in Afghanistan
123
2.b L’Islam in politica estera
125
1. I progetti dei partiti islamisti turchi da Erbakan a Davutoğlu
126
2. Il Nuovo approccio dell’AKP, la Turchia nel nuovo millennio
131
3. L’allontanamento dall’Unione Europea, Stati Uniti ed Israele
132
4. L’Islam nelle relazioni internazionali
136
2.c Neo-Ottomanesimo
144
1. Definizione
144
2. Il Modello Turco nella Primavera Araba
152
3. Due Turchie per un solo Egitto
154
4. La Tunisia dalla Rivoluzione dei Gelsomini
160
5. La laicità tunisina
162
6. L’attivismo turco in Tunisia, una Partnership win-win
163
7. I rapporti tra Turchia e la Libia di Gheddafi
167
8. L’intervento NATO in Libia e la reazione turca
171
9. L’attivismo di Ankara nella Libia libera da Gheddafi
173
10. Il Neo-Ottomanesimo tra idealismo e Realpolitik
173
4 Capitolo 3
L’attore turco nei Balcani Occidentali
176
1. La Repubblica turca e i Balcani da Atatürk ad Erdoğan
179
2. La diplomazia dell’AKP nei Balcani
180
3. Cooperazione Militare turca in Regione
185
4. La Presenza economica turca in Bosnia-Erzegovina e nei Balcani
187
5. Cultura storia e religione, un legame secolare
194
6. La Turchia nei Balcani, intervista a Teoman Duman
199
7. La Percezione dei Bosniaci dell’attore turco
205
8. Una storia non condivisa, percezioni contrastanti
209
Conclusioni
230
1. Critica al “miracolo” economico turco: un’economia a serio rischio recessione 237
2. L’importanza della diplomazia turca
240
Ringraziamenti
243
Bibliografia
244
5 Introduzione
L’uomo multiculturale costruirà il mondo1
Nel nostro elaborato, partendo dall’analisi dei nuovi equilibri interni, cerchiamo di
comprendere il nuovo approccio alla politica estera della Turchia, in particolare in
relazione ai Balcani e alla Bosnia-Erzegovina. Effettuando una ricerca di tipo bottom-up,
ovvero partendo dalle dinamiche interne turche che tengono conto dell’influenza
dell’eredità ottomana e del periodo repubblicano, ci chiediamo se le novità in Turchia, in
particolare il rafforzamento del potere civile sul militare, l’ascesa degli islamici praticanti,
il nuovo coinvolgimento dei kurdi e le reazioni dei laici, influenzino e in che misura la
politica estera.
In quest’introduzione riportiamo dei passaggi dei Discorsi sulla Prima Deca di Tito
Livio di Niccolò Machiavelli circa l’approccio al conflitto che può essere tenuto da uno
Stato. Le Teorie di Machiavelli hanno influenzato il nostro approccio allo studio della
politica estera turca soprattutto in relazione ai Balcani. Machiavelli confrontando la prima
Repubblica romana (509 – 27 a.C.) alla Firenze a lui contemporanea, riconosce nella
capacità di individuare il conflitto tra ricchi e popolo e canalizzarlo in istituzioni quali il
Senato e il Tribuno della Plebe, la base della forza interna ed esterna di Roma. Le
differenze, i conflitti, i diversi umori che animano uno Stato non vengono neutralizzati, ma
riconosciuti e rappresentati dalle e nelle istituzioni. Tale assetto favorisce una pace sociale
interna, i cittadini nella partecipazione alla Res Publica maturano un interesse di stato (in
particolare in politica estera) e l’assetto statale ha il giusto retroterra per difendersi da un
nemico esterno ed espandersi. In opposizione a Roma Machiavelli analizza una Firenze
logorata e fragile al mondo a causa dei tumulti di piazza, violenze ed esili; il potere politico
fiorentino non riconosce i diversi umori che si scontrano nella società, non è in grado di
lasciarli esprimere canalizzandoli in organi istituzionali.
1
Epigrafe della Statua dell’Uomo Multiculturale, Piazza della Liberazione, Sarajevo.
6 1. Il Conflitto come problema o come opportunità, Turchia e Bosnia-Erzegovina
Turchia e Bosnia-Erzegovina sono Paesi composti da diverse anime o forze sociali. La
Turchia è abitata da circa ottantamilioni di persone. Vi sono turchi fedeli alla tradizione
kemalista che intendono difendere la Repubblica secolare e ancorata ai modelli occidentali
e altri, tra i quali i musulmani praticanti i quali piuttosto, si battono per riformare il
sistema, al fine di poter contare nell’arena politica e non aderendo pienamente alla cultura
euro-atlantica. I kurdi sono la minoranza più numerosa di fede musulmana, legati alla loro
lingua, storia, tradizioni differenti da quelle turche, da sempre si battono per un’estensione
dei loro diritti e il loro riconoscimento da parte del governo di Ankara. Gli aleviti
professano una fede più similare all’islam sciita e tra di loro hanno sempre trovato terreno
fertile culti mistici; essi sono per una Turchia tollerante che riconosca la libertà religiosa.
La Bosnia-Erzegovina ha circa cinque milioni di abitanti, tuttavia la sua composizione
è altamente eterogenea. I “popoli costitutivi”, stando al linguaggio dell’accordo di
Dayton2, sono tre: bosgnacchi3, croati e serbi. Secondo l’ultimo censimento che data al
1991, la Bosnia-Erzegovina ha una popolazione pari a 4.363.574 abitanti, di questi il
43,7% Musulmani, 31,4% serbi, 17,3% croati e 5,5% jugoslavi4. Secondo i dati Cia al
luglio 2012 sono riportati 4,622,292 abitanti e al 2000 le proporzioni della popolazione è le
seguente: 48% Bosngnacchi, 37,1% serbi e 14,3% croati5.
2
Accordo di pace che sancisce la fine della guerra di Bosnia firmato da Slobodan Milošević, Alija
Izetbegović, Franjo Tuđman. L’accordo modella anche la Costituzione del nuovo Stato: la Federazione di
Bosnia-Erzegovina. Si sancisce l’intangibilità dei confini della Bosnia-Erzegovina e si riconosce la
creazione di due entità: la Federatia Croato-Musulmana e la Republika Srpska.
http://www.ohr.int/dpa/default.asp?content_id=380, Dayton Peace Agreement, OHR, visionato il 5 dicembre
2011.
3
“The name ‘Muslim’ (Musliman, with a capital ‘M’) has been used to designate the Slavic-speaking
Muslims of Bosnia since the end of the 19th century, but became their official national name only in 1968. In
September 1993, the Bošnjački sabor (Bosniac Assembly) declared ‘Bosniac’ (Bošnjak) to be the new
national name. The latter should not be confused with the term ‘Bosnian’ (Bosanac), which applies to all
inhabitants of Bosnia-Herzegovina. Whereas ‘Bosniac’ was introduced in 1995 into the new Bosnian
Constitution, the name ‘Muslim’ is still frequently used in everyday conversations”.
Xavier Bougarel, “The New Bosnian Mosaic”, Ashgate, Farnham, 2007. pg 1
4
Ibid.
5
https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/bk.html, Bosnia-Erzegovina Factbook,
2000
7 L’accordo di Dayton ripartisce il territorio bosniaco in tre entità: la Federatia
Bosniaco-Croata, rispettivamente divisa in 10 cantoni, la Republika Srpska centralizzata e
abitata prevalentemente dai serbo-ortodossi e il Distretto di Brčko, altamente autonomo.
Lo Stato turco, al contrario, è altamente centralizzato. Entrambi i Paesi sono il
risultato di una storia densissima e originale. Dalla Turchia si è propagato uno dei più
estesi e longevi imperi d’Europa: l’Impero Ottomano, capitolato solo in seguito alla prima
guerra mondiale. Benché abbia subito pesanti sconfitte ed umiliazioni da parte di potenze
esterne che l’hanno portata a vivere traumatiche umiliazioni (tratteremo nel nostro
elaborato della sindrome di Sèvres), la Turchia non è mai stata colonizzata da alcuna
potenza occidentale. L’immagine di una Repubblica turca laica, ancorata all’occidente,
protetta dal potere militare e abitata da soli turchi (e turco ablanti), risulta dalla fondazione
del nuovo assetto post-ottomano. Dal 2002 l’ascesa dei musulmani-moderati (termine che
tranquillizza molto gli occidentali, ma è totalmente inappropriato per chi professa la fede
dell’Islam), comporta la formazione di nuovi equilibri che si vengono a stabilire tra il
potere civile e quello militare. Ankara tenta un nuovo approccio alla questione kurda, cerca
di riconoscere il diritto alla libertà religiosa, utilizza l’Islam come strumento di politica
estera, recupera parte della tradizione ottomana. Questi rivolgimenti ci portano a riflettere
sull’evoluzione dei principi kemalisti e sui nuovi rapporti intessuti tra le forze sociali che
compongono la Repubblica di Turchia.
La Bosnia-Erzegovina ha vissuto un passato quasi opposto benché legato a quello
della Turchia. Ad eccezione dell’orgoglioso periodo medievale del regno di Tvrtko,
regnante di Bosnia dal 1377 al 1391, durante il quale il Paese si distingueva per la fiera
autonomia, forza militare ed estensione territoriale, la storia di questo Stato è sempre stata
altamente determinata dal volere di potenze e forze straniere. Conquistata dall’Impero
Ottomano e in seguito da quello Austro-Ungarico, alla mercé di ambizioni territoriali di
Serbia e Croazia, durante il periodo comunista soggetto passivo delle scelte prese
all’interno della Lega dei Comunisti di Jugoslavia, Savez komunista Jugoslavije, la Bosnia
non ha sempre avuto grande voce in capitolo in eventi fondamentali della sua storia. Ciò
non ha impedito a tale Paese di essere protagonista di cambiamenti e innovazioni in campo
scientifico-tecnologico: Sarajevo è stata la prima capitale europea a realizzare una rete
8 elettrica e costituire la prima tranvia (seconda al mondo dopo San Francisco). La Bosnia
nel periodo socialista ospitava industrie meccaniche e siderurgiche di vitale importanza per
la Jugoslavia. La multiculturalità di Sarajevo e della Bosnia-Erzegovina era vanto, orgoglio
e modello per la Jugoslavia intera, un esempio furono le Olimpiadi Invernali di Sarajevo
del 1984 ricordate oggi dai bosniaci con fierezza e commozione. Le diversità culturali
hanno favorito una produzione artistica e culturale senza pari (si pensi negli anni ’70-’80 al
movimento dei Giovani di Sarajevo) che nemmeno una lunga guerra e 1400 giorni di
assedio della capitale sono riusciti a spegnere.
Percorrendo una delle vie centrali della capitale, ulica Farhadia, possiamo vedere la
testimonianza della tolleranza e convivenza religiosa che contraddistinguevano Sarajevo: si
scorge la moschea da cui prende nome la via, una delle più grandi e splendide chiese
ortodosse del Paese, la cattedrale cattolica, la sinagoga. Tuttavia la città è divisa in due
entità: la prima quella conosciuta ai più è la Sarajevo delle Federatia Bosniaco-Croata,
l’altra è l’enclave della Republika Srpska, Sarajevo Est. Istočno Sarajevo, in passato
Srpsko Sarajevo è sede dell’università, dell’ospedale e di varie istituzioni a beneficio dei
serbo-bosniaci che abitano la capitale. Non stiamo parlando di ghettizzazione o divisione
tipo Berlino Est - Berlino Ovest (un autobus e un filobus collegano le due parti della città e
in una buona mezz’ora di mezzi pubblici è possibile recarsi da un lato all’altro della
capitale), ma di una volontaria separazione dei cittadini che abitano Sarajevo.
La Costituzione di Bosnia-Erzegovina scritta a Dayton, in Ohio, cristallizza le
divisioni dei popoli costitutivi e rende difficili se non improbabili le revisioni costituzionali
e gli avanzamenti nel campo istituzionale. Un recente esempio è la crisi istituzionale che
ha portato la Bosnia-Erzegovina a rimanere senza un governo dalle elezioni dell’ottobre
2010 al gennaio 2012. Dal punto di vista economico, i Paesi dei Balcani Occidentali che
erano parte della Federazione di Jugoslava, sino agli anni ’90 erano più ricchi e sviluppati
dei Paesi dell’Europa dell’est legati al blocco sovietico. Le guerre balcaniche di Bosnia e
Kosovo hanno portato alla perdita del vantaggio economico sui Paesi dell’Europa dell’est e
a evidenti problemi sociali6.
6
Xavier Bougarel, “The New Bosnian Mosaic”, Ashgate, Farnham, 2007
9 La Bosnia-Erzegovina è uno dei paesi più poveri d’Europa7. Stagnazione e crisi
economica, livelli altissimi di disoccupazione (soprattutto giovanile), il caro vita e il valore
esiguo dei salari, l’inefficienze della pubblica amministrazione, una potente criminalità
organizzata e un livello altissimo di corruzione8, portano i cittadini a nutrire una sfiducia
generale nelle deliberazioni di Dayton. Tuttavia gli atteggiamenti sono contrastanti: se la
maggioranza bosgnacca propende per modifiche volte alla maggiore centralizzazione e
unità del paese, la componente serba e quella croata sono maggiormente interessate una
alla secessione e indipendenza o annessione alla Serbia, l’altra alla creazione di un’entità
autonoma croata o annessione alla Croazia.
I partiti nazionalisti (Sda, Sds, Hdz) sono quelli che raccolgono maggiore consenso e
che fomentano le divisioni per fini elettorali. Quello che era considerato il Paese più laico
al mondo vede oggi l’inasprimento delle distanze religiose e il rafforzamento di posizioni
radicali estranee alla cultura bosniaca: ne è la prova l’attentato del 28 ottobre 2011 ad
opera di un giovane Wahabita proveniente dal Sangiaccato serbo, che ha sparato e ferito
due poliziotti di fronte all’ Ambasciata Americana di Sarajevo. In tutto ciò l’evidente e
possente presenza economica ed istituzionale straniera, compresa quella turca, fa sorgere
dubbi circa la volontà e l’interesse di ricucire le divisioni e di lavorare per il rafforzamento
e l’unità della Bosnia-Erzegovina, o piuttosto sull’interesse nel mantenere tale Paese
docile, diviso e economicamente appetibile9.
Turchia e Bosnia-Erzegovina vivono in modo opposto i conflitti interni che li
caratterizzano. Dal 2002 sembra che due Turchie si stiano affrontando. La Turchia
storicamente laica, che riconosce l’importanza del ruolo delle Forze Armate e che è più
fedele all’ideologia kemalista, viene messa in discussione da un’altra Turchia portatrice
delle istanze dei musulmani praticanti, dei kurdi e della società civile interessata ad uno
assetto di primazia circa il potere militare. Nel nostro elaborato cercheremo di chiarire
volontà della parte laica del Paese di difendere e mantenere i modi e abitudini moderni e
occidentali. I revisionisti dell’assetto kemalista propongono un’evoluzione del modello
7
http://data.worldbank.org/country/bosnia-and-herzegovina, Bosnia and Herzegovina, al febbraio 2012
“Corruption in the western Balkans: bribery as experienced by the population”, UNODC United Nations
Office on Drugs and Crime, 2011
9
Luca Leone, “Bosnia Express”, Infinito Edizioni, Roma, 2010. pg 110
8
10 turco in senso più pluralista e un potenziamento delle libertà per tutti i cittadini che abitano
la Turchia. Lo scontro questa volta non è caratterizzato dalla violenza (benché essa
continui a essere presente, anche se in minima parte rispetto al passato) ma è soprattutto
canalizzato nelle istituzioni legittime dello stato e attraverso mezzi pacifici e democratici.
I diritti del popolo kurdo soffrono ancora di lacune evidenti: il sud-est dell’Anatolia,
zona storicamente a maggioranza kurda, è la regione più povera del paese. I kurdi, spesso
discriminati, sono costretti ad emigrare nei grandi centri turchi, o in alternativa lasciano il
Paese. Tuttavia oggi riescono a reclamare i loro diritti non più unicamente attraverso la
lotta armata portata avanti dal PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), ormai
considerato da molte parti della società civile kurda come non rappresentativo delle
istanze, bensì attraverso i partiti politici di ispirazione social-democratica più vicini alla
causa kurda, in ultimo il BDP, Partito della Pace e Democrazia, o all’interno delle fila del
partito di governo, l’AKP, in cui sono presenti diversi parlamentari kurdi. Il partito di
Erdoğan riceve un grande sostegno elettorale tra la popolazione kurda.
La Turchia kemalista, quella musulmano-praticante e il popolo kurdo, si trovano oggi
a portare avanti un conflitto con mezzi pacifici e democratici. Il terreno di scontro è in
realtà un negoziato all’interno d’istituzioni legali. Il dialogo porta ad una maggiore
conoscenza tra le parti. Con fatica si ricorda una Repubblica turca così pacifica al suo
interno.10 Le parti in gioco nella competizione non vogliono nuocere all’interesse
nazionale: la crescita economica turca porta benefici a tutta la popolazione, una politica
estera esemplare inorgoglisce i cittadini, i progressi verso l’integrazione europea o la
partecipazione di Ankara nelle organizzazioni internazionali, migliora lo stato dei diritti
umani.
10
Dal 2006 la resistenza armata del Pkk sembra tornata in auge. Tuttavia nel 2010 i documenti portati alla
luce da Wikileaks dimostrano un coinvolgimento di potenze straniere nel rafforzamento di tale istituzione e
un minor sostegno a tale movimento da parte dei kurdi. Il Pkk negli ultimi anni ’80, anni ’90 era con pochi
dubbi altamente rappresentativo per i kurdi. Dagli anni 2000 i costanti avanzamenti nel campo dei diritti
umani e delle libertà civili e politiche portano il popolo kurdo a canalizzare la lotta attraverso mezzi pacifici e
istituzionali.
11 La pace sociale è concausa della riuscita delle politiche economiche che hanno portato
la Turchia ad uscire dalla crisi del 2000-2001 e a renderla una delle economie più solide
della regione e con ritmi di crescita più sostenuti al mondo. La politica estera teorizzata dal
già professore di Relazioni Internazionali, poi consulente di Erdoğan e oggi Ministro degli
Affari Esteri: Ahmet Davutoğlu, oltre a ricercare i legami con i popoli turcofoni, intende
rinsaldare i rapporti con i Paesi che si trovano all’interno dei vecchi confini ottomani e
utilizza l’islam come strumento di dialogo, pace e cooperazione internazionale.
Benché non vi siano episodi di violenza (ad eccezione degli sporadici attentati
dell’esigua minoranza wahabita), in Bosnia-Erzegovina il conflitto tra le diverse forze
sociali è portato avanti in modo molto diverso rispetto all’esempio turco. Ciò porta la
Bosnia-Erzegovina ad uno stallo politico-economico e istituzionale, debole al suo interno
nonché quasi totalmente priva di una politica estera rappresentativa del Paese.
2. Machiavelli e l’interpretazione del Conflitto
Al termine “conflitto” possono essere attribuiti due significati. Il più noto è legato al
senso di contrasto: urtare, venire a conflitto, combattere. Altra interpretazione è quella che
vede il “conflitto” come incontro e scambio, rimescolamento e arricchimento, ricerca di
armonia11.
Battezzato come padre della scienza politica nonché fondatore del realismo politico
moderno, il fiorentino Niccolò Machiavelli, 3 maggio 1469 – 21 giugno 1527, ragiona
11
Tito Lucrezio Caro, De Rerum Natura, Mondadori, Sagrate (Mi), 2007. Versi 1209-1232.
Tra i presocratici Eraclito interpreta il conflitto come motore delle cose o forza positiva. Gli opposti per
Eraclito sono frammenti di un’unica realtà che permane immutabile e racchiude in sé il cambiamento.
Nell’eterogeneità e dispersione scaturisce Polemos (guerra o conflitto) attraverso il quale le parti si
definiscono. lo scontro violento non è l’unico modo di interagire con la diversità: dialettica e ragione possono
essere mezzi finalizzati a conoscere un’identità opposta e dunque definirne la propria. Interagire con l’altro è
finalizzato a comprendere se stesso, senza annullarne gli opposti, bensì, nelle diversità, ricercare un’unità più
generale. Nella molteplicità e dispersione, è possibile ricercare un ordine proprio attraverso il conflitto. In un
frammento Eraclito sostiene che: “Il conflitto è padre di tutte le cose e di tutte è il Re”. Eraclito, traduzione
Angelo Tonelli, “Eraclito dell’Origine”, Feltrinelli, Milano, 2007.
12 attentamente sul concetto di conflitto. Per conflitto intendiamo non quello esterno, interstatale, bensì le relazioni che intercorrono tra le diverse anime che compongono un’entità
statale, che sia essa una città (come la Firenze del quindicesimo secolo) una Repubblica
(come la Repubblica romana, 509 – 27 a.C.) o un Impero (come l’impero Romano, 27 a.C.
476 d.C.).
Machiavelli definisce umori le diverse parti che compongono uno Stato. E’ in tal
modo che intende le forze sociali presenti in un’entità statale, la cui varietà dei rapporti
determina la salute del corpo politico. Il riconoscimento del conflitto, inteso come
eterogeneità, può portare al rafforzamento dello Stato. Attraverso l’istituzionalizzazione
delle parti in competizione tra loro all’interno di una città o repubblica, il conflitto non
viene neutralizzato ma canalizzato in strutture legali e gestibili, come ad esempio gli
organi di rappresentanza. Ciò inietta forza all’entità statale e favorisce una pace sociale
interna. A differenza di Thomas Hobbes, Karl Marx e molti altri autori, il punto in
Machiavelli sul conflitto non è la neutralizzazione di esso ai fini di trovare un ordine nello
stato, al contrario è necessario riconoscerlo e preservarlo per rafforzare l’entità statale e
favorirne stabilità e durata.
Per umori Machiavelli intende essenzialmente nobili e popolo, dal capitolo nono del
Principe:
“[...]quando uno privato cittadino, non per scelleratezza o altra intollerabile violenza,
ma con il favore delli altri sua cittadini diventa principe della sua patria, [...] dico che si
ascende a questo principato o con il favore del populo o con il favore de’ grandi. Perché in
ogni città si trovuano questi dua umori diversi;”12
Dal capitolo quarto del libro primo dei Discorsi:
“sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de' grandi; e
come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro, come
facilmente si può vedere essere seguito in Roma; [...]Né si può chiamare in alcun modo
con ragione una republica inordinata, dove siano tanti esempli di virtù; perché li buoni
12
Niccolò Machiavelli, Il Principe, Einaudi, Torino, 1961, Capitolo nono
13 esempli nascano dalla buona educazione, la buona educazione, dalle buone leggi; e le
buone leggi, da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano: perché, chi
esaminerà bene il fine d'essi, non troverrà ch'egli abbiano partorito alcuno esilio o violenza
in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della publica libertà” 13.
In questo studio, ci arroghiamo il diritto di interpretare gli scritti di circa cinque secoli
or sono per comprendere una realtà molto diversa, quella attuale, in cui i conflitti in uno
stato non sono quelli tra i due umori nobili e popolo, bensì tra gruppi religiosi, sociali,
linguistici, politici le cui interrelazioni rafforzano o indeboliscono i due Paesi che
considereremo: Turchia e Bosnia Erzegovina.
Nelle sue opere, specificamente nei Discorsi sulla Prima Deca di Tito Livio,
Machiavelli ricorre all’esempio di Roma, in particolare alla fase repubblicana. Rileggendo
i primi dieci libri dello storico Livio, Machiavelli ritrova nella presenza delle parti
contrapposte: Plebe e Senato, la grandezza di Roma: “rimanendo mista, fece una republica
perfetta: alla quale perfezione venne per la disunione della Plebe e del Senato”14.
3. Le differenze tra Roma Repubblicana e la città di Firenze
Firenze, madre matrigna che prima nutre Machiavelli e poi l’esilia, è protagonista
delle Historiae Fiorentinae. L’autore ripercorrendo il secolo trascorso vuole dimostrare le
cause della debolezza della sua città. Anche in quest’opera come del resto nel Principe e
nei Discorsi, Machiavelli fa leva sull’importanza del popolo al fine di garantire un
equilibrio interno. Tra un ordinamento esclusivo come quello fiorentino (in cui i conflitti
sono concentrati sulla gestione del potere, sull’estromissione di una parte della città dal
governo o dalle proprietà) ed uno inclusivo come quello della repubblica romana, al fine di
creare e garantire un ordinamento stabile che sia capace di difendersi da incursioni esterne,
13
Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Einaudi, Torino, 2000. Libro Primo,
capitolo quarto.
14
Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Einaudi, Torino, 2000. Libro Primo,
Capitolo Secondo
14 è necessario che il popolo che armato fa forte la città, abbia diritto a rappresentarsi nel
dibattito politico.
Nel proemio delle Historiae utilizza di nuovo l’esempio romano:
“In Roma, come ciascuno sa, poi che i re ne furono cacciati, nacque la disunione intra
i nobili e la plebe, e con quella infino la rivina sua si mantenne; così come Atene, così tutte
le altre Repubbliche che in quelli tempi fiorirono”15.
Strada diversa è quella scelta dalla sua città:
“Ma di Firenze in prima si divisero infra loro i nobili, dipoi i nobili e il popolo, e in
ultimo il popolo e la plebe; e molte volte occorse che una di queste parti rimasa superiore,
si divise in due: dalle quali divisioni ne nacquero tante morti, tanti esili, tante destruzioni di
famiglie, quante mai ne nascessero in alcuna città della quale si abbia memoria”16.
Le divisioni portano a tumulti e scontri di piazza. Il conflitto si esprime in violenza,
essa distrugge una città che brilla di punti di forza e virtù:
“E veramente, secondo il giudicio mio, mi pare che niuno altro esemplo tanto la
potenza della nostra città dimostri, quanto quello che da queste divisioni depende, le quali
arieno avuto forza di annullare ogni grande e potentissima città. Nondimeno la nostra
pareva che sempre ne diventasse maggiore: tanto era la virtù di quelli cittadini e la potenza
delo ingegno e animo loro a fare sé e la loro patria grande, che quelli tanti che rimanevono
liberi da tanti mali potevano più con la loro virtù esaltarla, che non aveva potuto la
malignità di quelli accidenti che gli avieno diminuiti opprimerla. E senza dubbio, se
Firenze avesse avuto tanta felicità che, poi che la si liberò dallo Imperio, ella avesse preso
forma di governo che l’avesse mantenuta unita, io non so quale republica, o moderna o
15
Nicolò Macchiavelli, Istorie Fiorentine, Einaudi, Torino, 1961. Proemio
16
Ibid.
15 antica, le fusse stata superiore: di tanta virtù d’arme e di industria sarebbe stata
superiore”17.
Roma e Firenze (come Turchia e Bosnia Erzegovina), sono entità composite da diversi
umori. Ma se Roma riesce a fare leva su tali forze sociali, Firenze rimane ingabbiata nella
sua violenza.
“Gli umori, come la medicina ippocratico-galenica prescriveva, sono fluidi e
necessitano di circolare nel corpo, alla cui vita e salute sono tutti indispensabili. Ed è il
loro mescolamento (incontro/scontro) che produce l’equilibrio salutare, mentre si ha
malattia quando uno di essi si isola dagli altri e cerca di sopravanzarli debordando dai
propri limiti e alterando le giuste proporzioni del loro rapporto: salute è circolazione,
malattia è fissazione”18.
4. Costituzione Mista
Secondo Machiavelli il fondamento della grandezza di Roma risiede nella riuscita
della regolamentazione dei conflitti. Riconosce il ruolo politico della plebe e lo
istituzionalizza nel Tribunus Plebis.
Con la creazione del Tribuno della Plebe, oltre a dare voce al popolo, si viene ad
instaurare un sistema di Check and Balance con il Senato. Nell’attiva partecipazione
politico-istituzionale la Plebe per Machiavelli si eleva in alcuni casi a essere guardia della
libertà. Attraverso un controllo reciproco le leggi che ne nascono non possono che essere
motivate da un interesse generale piuttosto che particolaristico.
“As the rival groups jealously scrutinize each other for any signs of a move to take
over supreme power, the resolution of the pressures thus engendered will mean that only
those “laws and institutions” which are “conducive to public liberty” will actually passed.
Although motivated entirely by their selfish interests, the factions will thus be guided, as if
17
Ibidem
18
Raffaella Gherardi, La Politica e gli Stati. Carocci, Roma, 2004, pg 94
16 by an invisible hand, to promote the public interests in all their legislative acts: “all the
laws made in favour of liberty” will “result from their discord”19.
La Costituzione mista che viene ad affermarsi rappresenta l’istituzionalizzazione e la
canalizzazione del conflitto. La disuguaglianza del sistema non viene neutralizzata, anzi
esaltata in un insieme di ordini e leggi che riescono a regolarla senza farla precipitare in
una lotta a tutto campo. Il conflitto interno tra plebe e Senato è “uno inconveniente
necessario a pervenire alla romana grandezza”20. E’ essenziale che i conflitti siano regolati
entro la sfera pubblica, in questo modo si impedisce agli scandali, ovvero i conflitti tra
privati per questioni private, di dilagare e corrompere la città. “I conflitti non vengono
esorcizzati, ma messi al lavoro: incanalati entro strutture istituzionali che non consentono
(o non dovrebbero consentire) loro di debordare ed espandersi in modo libero e
sconsiderato, come un fiume senza argini”21.
L’importanza determinante di tale equilibrio non è rintracciabile esclusivamente
nell’instaurazione di un equilibrio istituzionale. A fondamento dello studio di Machiavelli
risiede
l’antropologia
dell’uomo,
taglio
d’analisi
che
conferisce
al
filosofo
un’impareggiabile attualità. E’ nel crescere del conflitto delle parti di una proto-società che
viene concepita l’idea di giustizia:
“Nacquono queste variazioni de' governi a caso intra gli uomini: perché nel principio
del mondo, sendo gli abitatori radi, vissono un tempo dispersi a similitudine delle bestie;
dipoi, moltiplicando la generazione, si ragunarono insieme, e, per potersi meglio difendere,
cominciarono a riguardare infra loro quello che fusse più robusto e di maggiore cuore, e
fecionlo come capo, e lo ubedivano. Da questo nacque la cognizione delle cose oneste e
buone, differenti dalle perniziose e ree: perché, veggendo che se uno noceva al suo
benificatore, ne veniva odio e compassione intra gli uomini, biasimando gl'ingrati ed
onorando quelli che fussero grati, e pensando ancora che quelle medesime ingiurie
19
Quentin Skinner, Machiavelli a very short introduction, Oxford University Press, Oxford 2000, pg 74
20
Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Einaudi, Torino, 2000. Libro Primo,
capitolo sesto.
21
Raffaella Gherardi, La Politica e gli Stati. Carocci, Roma, 2004, pg 94
17 potevano essere fatte a loro; per fuggire simile male, si riducevano a fare leggi, ordinare
punizioni a chi contrafacessi: donde venne la cognizione della giustizia.”22.
5. Politica Estera: diversi umori, un solo interesse nazionale
Abbiamo già posto l’accento sull’influenza di un Governo misto nella maturazione di
un desiderio comune di libertà e di un’opposizione ai singoli interessi dei privati. A questo
punto riflettiamo sull’importanza del coinvolgimento del popolo nelle scelte di indubbia
rilevanza quali la politica di espansione. Queste scelte conferiscono al popolo una grande
responsabilità e accrescono l’attenzione per l’interesse nazionale. Secondo Machiavelli una
politica estera espansiva è auspicabile ai fini della concordia interna:
“La cagione della disunione delle republiche il più delle volte è l’ozio e la pace; la
cagione della unione è la paura e la guerra”23.
A questo punto intendiamo apportare una precisazione: per Machiavelli e come lui i
filosofi precedenti o di alcuni secoli successivi, parlare di politica estera attiva equivale a
riflettere circa questioni riguardanti essenzialmente la guerra. Intendere la politica estera
come diplomazia, negoziato, scambi economici, soft law, è un concetto che si sviluppa in
una fase storica successiva, ovvero quella risultante dalla formazione degli stati-nazionali e
dallo sviluppo di interrelazioni economico-commerciali e dunque del consolidamento della
diplomazia moderna.
Se per politica estera attiva di Roma o Firenze Machiavelli intende una politica di
guerra, possiamo, con i dovuti accorgimenti, attualizzare tale analisi ai nostri tempi. Anche
se caratterizzata da soft law piuttosto che dall’uso delle armi, consideriamo la politica
estera della Turchia come espansiva in quanto attivissima a livello internazionale, e
tuttavia quasi essenzialmente pacifica, giammai caratterizzata da ozio. Al contrario la
Bosnia Erzegovina, fragile al suo interno e ancor più a livello internazionale, influenzata
22
Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Einaudi, Torino, 2000. Libro Primo,
Capitolo Secondo
23
Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Einaudi, Torino, 2000. Libro Secondo,
capitolo venticinquesimo
18 non poco dal volere di altri Stati e organizzazioni internazionali, spesso passiva rispetto
all’ingerenza di imprese multinazionali, nonché di potenti organizzazioni del crimine
organizzato, ci fa riflettere sul grado di indipendenza esterna ed interna e sui parallelismi
con l’esempio della città fiorentina nel tardo medioevo.
Passiamo ora a considerare tre aspetti positivi che Machiavelli espone circa la politica
estera espansionista di Roma.
In primis la sconfitta dei nemici esterni accompagnata da un giusto jus ad bellum e il
rispetto e coinvolgimento dei popoli conquistati che devono essere lasciati liberi,
garantisce la libertà esterna della Repubblica di Roma24.
“I popoli conquistati che vivevano in un territorio libero, non dimenticano la libertà.
Quando i Romani conquistarono Atene, la lasciarono libera e la mantennero sotto le sue
leggi. Ciò fu una strategia di successo tale da mantenere l’ordine senza un grosso
dispiegamento di forze”25.
“Vollono tenere la Grecia quasi come tennono gli spartani, facendola libera e
lasciandole le sua legge, e non successe loro: tale che furono constretti disfare di molte
città di quella provincia per tenerla” 26.
In secundiis l’espansione della Repubblica porta a dei benefici economici che Roma
ridistribuisce favorendo il benessere. Un popolo al quale vengono garantiti quantomeno i
24
A tal proposito il fiorentino Matteo Palmieri, qualche anno prima di Machiavelli scriveva: “S’elegga
sempre la tranquilla pace innanzi alla tribolante guerra; et per ogni tempo si consigli et elegga quella pace
che manca di fraude; et le guerre in tal modo si comincino che niuna altra cosa che pace paia cerco per
quelle.” Punto di essenziale importanza nell’analisi di Palmieri è la descrizione della Repubblica Romana nel
suo atteggiamento di non accanirsi contro gli sconfitti, al contrario proteggerli e accoglierli nella città,
garantendo loro la cittadinanza come nel caso dei Volsci, dei Tuscolani e dei Sabini. Matteo Palmieri, Vita
Civile, Firenze. Sansoni 1982. pg 116.
25
Matteo Palmieri, Vita Civile, Firenze. Sansoni 1982. pg 116
26
Niccolò Machiavelli, Il Principe, Einaudi, Torino, 1961, Capitolo quinto.
19 bisogni primari è meno incline alla ribellione. Nel caso di pericoli esterni non si opporrà a
dover patire sacrifici.
Capitolo 32, libro I Discorsi: “Ancora che ai Romani succedesse felicemente essere
liberali al popolo, sopravvenendo il pericolo, [...]il Senato, dubitando della plebe, [...] per
assicurarsene la sgravò delle gabelle del sale, e d'ogni gravezza, dicendo come i poveri
assai operavano in beneficio publico se ei nutrivono i loro figliuoli; e che per questo
beneficio quel popolo si esponessi a sopportare ossidione, fame e guerra; non sia alcuno
che, confidatosi in questo esemplo, differisca ne' tempi de' pericoli a guadagnarsi il
popolo;”27
In ultimo il coinvolgimento della classe popolare nelle scelte di politica estera così
come in quelle di amministrazione della Repubblica, permette al popolo di essere attore
attivo nella vita statale. Il conflitto canalizzato in organi istituzionali di rappresentanza
rafforza la formazione di un’idea di giustizia, permette al popolo di sentirsi parte del tutto
il che dà vita a un sentimento di responsabilità, e infine favorisce la libertà nella
repubblica.
6. Rappresentanza e Libertà
“A mixed constitution is the best suited for promoting virtù and upholding liberty”28.
Machiavelli trova la maggiore libertà di un popolo nello stato che più può durare. Il
governo misto garantisce al potere costituente di essere sempre reattivo al cambiamento e
vigile all’interesse comune. Il conflitto è dunque necessario alla liberazione di tutte le forze
interne in un ordinamento e all’utilizzo di esse come motore parte di un corpo unico: lo
Stato.
La libertà per un ordinamento statale equivale ad un’indipendenza dalle potenze estere
(libertà esterna) e assenza di soggiogo di un tiranno (indipendenza interna). Ma la libertà è
27
Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Einaudi, Torino, 2000. Libro Primo,
Capitolo trentaduesimo
28
Quentin Skinner, Machiavelli a very short introduction, Oxford University Press, Oxford 2000, pg 74
20 un concetto unico composto da due aspetti uno causa dell’altro: l’ordinamento che riesce a
utilizzare le forze sociali al suo interno come forza propulsiva piuttosto che distruttiva ha
più probabilità29 di mantenersi libero all’esterno. La grandezza di uno stato è legata al
viver libero: libertà e rappresentanza.
In tempi più recenti, il filosofo John Rawls nel Diritto dei Popoli elabora delle
opinioni non troppo distanti dall’interpretazione di Machiavelli circa i concetti di giustizia
e libertà. Immanuel Kant vedeva nella formazione di una confederazione di repubbliche
libere la condizione di una Pace Perpetua, sulla stessa linea interpretativa John Rawls
intende ragionare sul diritto dei popoli. In Law of the People Rawls intende una
“concezione politica del giusto e della giustizia valida per i principi e le norme del diritto e
della pratica internazionali”30 che parte dalla maturazione dell’idea di giustizia all’interno
dei popoli. La sua è una visione bottom-up: per arrivare ad una pace internazionale è
necessario che ci sia stato un processo volto a perseguire una pace interna e un
ordinamento giusto e ragionevole. Una condizione necessaria affinché si venga a maturare
l’idea di giustizia all’interno di un popolo è la presenza di istituzioni che permettano la
partecipazione degli individui alla cosa pubblica: “la democrazia costituzionale deve avere
istituzioni politiche e sociali che conducano effettivamente i loro cittadini ad acquisire
l’appropriato senso di giustizia man mano che crescono e prendono parte alla vita della
società. Essi saranno allora capaci di comprendere i principi e gli ideali della concezione
politica, di interpretarli e applicarli ai casi che via via si presentano, e saranno di solito
motivati ad agire in modo a essi conforme quando le circostanze lo richiedono. E’ questo
che conduce alla stabilità per le ragioni giuste”31.
Nella sua analisi Rawls pone come soggetti del diritto internazionali i popoli, non gli
individui o gli stati. Nell’opera precedente: Theory of Justice, Rawls estendeva la giustizia
29
La Fortuna maligna o benigna ha voce in capitolo sulla riuscita di un ordinamento. Il fatalismo è moderato
da un comportamento virtuoso che costruisce gli argini di un fiume in piena, ma che mai può essere
completamente controllato.
30
John Rawls, Il Diritto dei Popoli, Einaudi, Torino, 2001
31
Ibidem
21 come equità al diritto internazionale. Nel Law of the People prende in considerazione
cinque tipi di società: i popoli liberali ragionevoli, i popoli decenti, gli stati fuorilegge, le
società svantaggiate da condizioni sfavorevoli e le società governate da forme di
assolutismo benevolo.
Per popolo decente Rawls descrive “società non liberali le cui istituzioni di base
soddisfano certe condizioni specificate di giusto e giustizia politici (incluso il diritto dei
cittadini a svolgere un ruolo effettivo, per esempio attraverso associazioni e gruppi, nelle
decisioni politiche) e inducono i loro cittadini a onorare un diritto ragionevolmente giusto
per la società dei popoli)”32.
Sono solo i popoli liberali e quelli decenti che Rawls immagina come attori nella
creazione del diritto dei popoli. I popoli decenti sono caratterizzati da una dottrina
comprensiva, rispetto delle diverse componenti interne, possibilità di consultazione, di
partecipazione interna. La partecipazione avviene per gruppi, non per individui, un
esempio è la partecipazione attraverso la propria comunità religiosa minoritaria. Nella
partecipazione nel gruppo si prende parte alla cosa pubblica e si ha modo di maturare il
senso di giustizia. Affinché un popolo sia capace di dialogare ai fini della creazione di una
giustizia internazionale tra popoli, non è necessario che si tratti solo di un popolo liberale.
Attraverso partecipazione e tolleranza un ordinamento composito favorisce la maturazione
del senso di giustizia che allontana gli individui dalla corruzione e li rende più inclini al
perseguimento di un interesse pubblico e alla non rivolta. Le dottrine comprensive aiutano
il perseguimento di una stabilità e pace sociale in un ordinamento. Il rispetto di una
composizione eterogenea interna è stata condizione fondamentale per la durata secolare
dell’impero romano, che estendeva la cittadinanza ai popoli conquistati e permetteva la
continuità dei riti religiosi ( a condizione che non ci fosse un indebolimento del ruolo
dell’imperatore) e, fino al primo ventennio del ventesimo secolo dell’Impero Ottomano,
caratterizzato da un mosaico di popoli e comunità religiose.
La Turchia nel pieno della sua crescita economica ed attivismo diplomatico torna oggi
in contatto con la Bosnia-Erzegovina. Il primo Paese dopo decenni di esclusione dall’arena
32
Ibidem
22 politica di islamici praticanti e kurdi tenta un nuovo approccio maggiormente pluralistico
all’interno e si proietta oltre i confini con una diplomazia energica, ambiziosa e libera dai
vecchi schemi propri della Guerra fredda. La Bosnia-Erzegovina bloccata dallo stallo
istituzionale di Dayton e dei numerosi problemi sociali, accoglie la Turchia in maniera
contrastante a seconda del punto di vista del popolo costitutivo.
Nel finale della nostra tesi, tenteremo di comprendere se la Turchia possa
rappresentare un attore capace e intenzionato a permettere alla Bosnia-Erzegovina di
superare i numerosi problemi sociali e lo stallo istituzionale risultante dall’assetto di
Dayton. Gli attori che compongono la Bosnia-Erzegovina percepiscono in modo diverso e
contrastante la diplomazia di Davutoglu.
Effettuando la nostra ricerca di analisi della diplomazia turca dalla BosniaErzegovina, Stato che racchiude le potenzialità, le ricchezze e le contraddizioni dei
Balcani, riflettiamo sull’efficacia della politica estera di Turchia e sulla percezione di essa
da parte di una regione prioritaria per Ankara.
23 Capitolo 1
Turchia,
i nuovi equilibri tra le diverse anime
«Quando sono salito sul ponte e ho guardato il panorama, ho capito che era ancora
meglio, ancora più bello di vedere le due rive assieme. Ho capito che il meglio era essere
un ponte fra due rive. Rivolgersi alle due rive senza appartenere»33
In questo modo Orhan Pamuk descrive Istanbul nell’omonimo romanzo del 2003.
L’unicità della città inter-continentale non è altro che una sineddoche dell’intera Turchia.
Paese con una popolazione quasi esclusivamente musulmana, s’immerge nel
Mediterraneo rivolgendosi all’Europa, come ha sempre fatto sin dai tempi dell’Impero
Ottomano. La Turchia della Repubblica kemalista ha scolpito il termine “laicità” nella
pietra costituzionale. Prende parte a tutte le organizzazioni regionali europee sorte dopo la
Seconda Guerra Mondiale ad eccezione dell’Unione Europea. Nel 1952 aderisce alla North
Atlantic Treaty Organization, costituendone il secondo esercito più numeroso dopo quello
statunitense. E’ membro originario dell’OSCE e dell’OCSE, tra i Paesi di quest’ultima
organizzazione è l’economia più in crescita. Membro del Consiglio d’Europa, dal
Novembre 2010 al maggio 2011 la Turchia ne ha detenuto la Presidenza.
Tuttavia gradualmente la Turchia non si limita a volgere lo sguardo prettamente ad
Ovest. Sin dai primi governi dei partiti islamici degli anni ’80, passando per il crollo del
muro di Berlino e della logica bipolare fino al primo decennio del ventunesimo secolo, la
Turchia delinea quelli che l’attuale Ministro degli Affari Esteri Ahmet Davutoğlu ha
definito i “tre vettori di politica estera”: Panturchismo, Islam e Neo-Ottomanesimo. Questi
tre elementi sono presenti nella politica estera turca già in fasi precedenti all’ascesa
dell’AKP: il Panturchismo, legato alle formazioni più nazionaliste lega la Turchia a tutti i
popoli e Paesi turcofoni, dall’Azerbaigian alla Mongolia. I partiti d’ispirazione islamista
dagli anni ’70 agli anni ’90 cercano di utilizzare l’Islam e il recupero delle tradizioni
ottomane come mezzi di politica estera. E’ solo con l’ascesa dell’AKP tuttavia che i tre
33
Orhan Pamuk, Istanbul, Einaudi, Torino, 2003
24 elementi assumono nuovi significati e si fondono in un’unica strategia di politica estera
argomentata nel testo scritto da Davutoğlu: Profondità Strategica.
Le evoluzioni nella politica estera riflettono uno storico cambiamento interno: per tre
tornate elettorali dal 2002 al 2011, un partito islamista riceve un altissimo consenso
popolare riuscendo da solo a guidare il governo, promuovere rilevanti riforme
costituzionali e soprattutto declassare il potere militare a beneficio di quello civile.
Se dalla fondazione della Repubblica (1923) un unico modello di stato era tollerato
ovvero quello secolare, nazionalista, indivisibile, occidentale, il cui esercito era custode dei
valori fondamentali, nell’ultimo decennio assistiamo ad un’entrata nella scena politica dei
musulmani praticanti e di un nuovo atteggiamento nei confronti e da parte della minoranza
kurda. La Turchia conta ottanta milioni di abitanti, con la sua storia intensa è un Paese
unico ed eterogeneo, al cui interno possiamo rintracciare tre grandi gruppi portatori di più
specifici interessi: kemalisti, musulmani praticanti e kurdi. Se per quasi un secolo, la prima
fazione attraverso l’esercito, gli organi giurisdizionali e istituzionali, i partiti nazionalisti
(in primis il Partito Repubblicano Turco di diretta derivazione kemalista) è riuscita a
conservare il modello di Turchia pensata da Atatürk, dal 2002 siamo testimoni di uno
scontro tra le diverse fazioni.
Il conflitto tra le tre anime di Turchia ha sempre caratterizzato la Repubblica sin dalle
riforme degli ultimi anni ’20 e anni ‘30. Nei decenni di costruzione della Repubblica si
relega l’Islam alla sfera prettamente privata. La repressione della rivolta kurda di Dersim
(1937-38), manifesta l’indiscutibile volontà della classe politica turca di escludere
dall’amministrazione elementi che possano minare l’indivisibilità territoriale. Violenza e
restrizioni delle libertà si sono perpetrate sino in epoca post-bipolare, negli anni ’90 la
Turchia rischia di implodere in quella che assomiglia molto ad una guerra civile tra lo
Stato turco, rappresentato dall’esercito, e la resistenza kurda, rappresentata dal PKK. Il
Refah Partisi è il partito a vocazione islamica più importante sino ad allora e, forte dei suoi
consensi, sfida le Istituzioni secolari provocando l’ira della Corte Costituzionale e i timori
dei laici. Il Partito verrà chiuso con un atto di forza da parte della Corte Costituzionale
turca su impulso delle forze laiche in particolare dei militari. La chiusura del Refah Partisi
25 viene legittimata dalle sentenze dei giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Gli
anni ’90 terminano con una traumatica crisi economico-finanziaria e la voglia di voltare
pagina. Gli attori interni, kemalisti, islamici e kurdi, pagato il conto salato dei loro errori,
pongono le basi di una nuova fase storica. L’anima kemalista comprende che la
modernizzazione e il benessere turco dipendono da un nuovo approccio più aperto e mirato
verso la globalizzazione: bisogna permettere il liberismo economico e delegare più scelte
in chiave europeista. Gli islamici comprendono che il loro ruolo in politica dipende dalla
capacità di mediazione e accettazione delle regole basilari della Repubblica turca; un
comportamento in aperta opposizione alle Istituzioni provocherebbe il timore da parte di
molti cittadini e restrizioni alle libertà di espressione e rappresentanza ad opera delle
Autorità. Il miglior modo di entrare in politica è la modernità, l’accettazione del pluralismo
e l’ancoraggio all’Europa come ispirazione e assicurazione al fine di tranquillizzare tutti i
cittadini dell’accettazione dei principi democratici.
I kurdi cercano spazi non-violenti per far valere i loro diritti. E’ perpetuo lo sforzo di
sostenere i partiti social-democratici vicini al movimento kurdo i quali accettano i
compromessi politici. La diaspora kurda, sempre più organizzata e attiva, porta la
questione all’attenzione delle democrazie occidentali che sono sempre più accorte a
monitorare lo status del rispetto dei diritti umani di tale popolo. Parte della popolazione
kurda non sentendosi totalmente rappresentata nei partiti filo-kurdi d’ispirazione socialdemocratica, o scegliendo di effettuare un voto “strategico”, sostengono e cercano di
influenzare le politiche del partito di governo, ricercando nei nuovi principi pluralistici dei
musulmani moderati un nuovo mezzo per combattere le loro battaglie.
Il conflitto in nome delle libertà e diritti dei gruppi interni alla Turchia permane anche
nel ventunesimo secolo e si caratterizza per un approccio non violento. Nel Parlamento,
nelle fondazioni e associazioni, nelle università e nei caffè si discute e ci si confronta.
L’uso di un dialogo minaccioso e della violenza è ancora presente nella realtà turca, ma in
modo oggi minoritario. Le tre anime della Nazione turca esprimono le loro richieste nei
canali legali ed istituzionali. Il conflitto si canalizza e la Turchia brilla per ottime politiche
economiche ed una ineguagliabile politica estera.
26 Il Neo-Ottomanismo e l’uso della religione come strumento di politica estera, il
Panturchismo che riconosce il ruolo primario dell’attore russo nelle relazioni con gli
“stan”, riflette un cambiamento in primis interno: l’inclusività e il pluralismo propri del
periodo ottomano, scalzano l’esclusività e il nazionalismo autoritario di derivazione
kemalista.
L’AKP traina il cambiamento e di esso si dichiara unico promotore e interprete.
Tuttavia negli ultimi anni di governo spinte nazionaliste e frange intolleranti nei confronti
di laici e kurdi mostrano un partito meno riformista di quello che era ai tempi della sua
fondazione. I cambiamenti che avvengono nella Turchia sono da attribuire senz’altro alla
classe dirigente competente e patriottica, ma sono da rintracciare nell’elettorato islamico,
negli atteggiamenti dei kurdi e nei comportamenti dei laici. Le scelte della Corte
Costituzionale turca di non sciogliere l’AKP a seguito della proposta di eleggere Abdullah
Gül come Presidente della Repubblica (2007) o il mancato colpo di forza da parte
dell’esercito, possono essere lette prescindendo da calcoli strategici nella competizione per
un potere esclusivo. Anche i laici appaiono accettare il cambiamento e nei loro canali di
partecipazione, pur se per la prima volta non da un ruolo di leadership indiscussa, di questo
sono portatori.
Una Turchia capace di mettersi in discussione è oggi attore determinante negli
equilibri mediorientali e mediterranei. La Turchia attraverso i Balcani e la BosniaErzegovina si confronta con l’Europa e indipendentemente dall’Europa diviene
protagonista nei Balcani e nella Bosnia-Erzegovina.
27 1.a Gli Islamici nella Repubblica di Turchia
La conclusione della Guerra Fredda dà inizio a un decennio incerto in cui sembra che
il modello democratico – occidentale – capitalista, risultato vincitore, debba contagiare
tutti i Paesi del globo al fine di assicurare una sorta di “Pace Perpetua”. La fine dell’assetto
bipolare nel mondo comporta altresì un aumento della complessità della capacità
d’interpretazione delle relazioni internazionali. Si scatenano conflitti in territori circoscritti
dei cinque continenti, compresa l’Europa della nascente UE, nel cui cuore, i Balcani, si
susseguono due guerre nefaste. Il modello vincente di democrazia liberale appare l’unico
assetto possibile e auspicabile, tuttavia la maggioranza degli Stati al mondo non l’ha mai
sperimentato. Il 23% della popolazione mondiale è costituito da musulmani. Nel marasma
globale, nel disorientamento e distacco dagli stringenti schemi dei decenni precedenti,
l’Islam politico si fa strada nelle comunità islamiche. L’Islam politico prende la sua forza
dalle comunità, dalle società, che riscoprono la religione come mezzo associativo, come
elemento unificante, come certezza in un’epoca senza bussola.
I valori proposti dai vincitori Stati Uniti d’America sono percepiti come alieni ed
estranei. Nel primo decennio del ventunesimo secolo assistiamo all’ascesa economica e
geopolitica di nuove potenze mondiali (Cina, India, Russia e Brasile) e regionali
(Indonesia, Sud-Africa e Turchia) le quali al loro interno sono caratterizzate da un sistema
più o meno distante, se non alternativo al modello democratico di stampo euro-atlantico.
Nell’area mediterranea e mediorientale la guerra all’Iraq del 2003, la difficoltà di gestione
post-bellica nel territorio afghano e l’aggressività israeliana nei confronti delle popolazioni
arabe, provocano nelle comunità musulmane un risentimento, la volontà di un riscatto
d’orgoglio e la ricerca della fratellanza e unione in reazione ad un modello in declino
portatore di valori alieni.
In tale contesto una Turchia guidata da un partito islamista, abitata da ottanta milioni
di persone, protetta da un esercito con pochi pari al mondo, caratterizzata da una crescita
economica sbalorditiva, si propone come potenza regionale di un’area vastissima e di
importanza strategica globale. A renderla così attrattiva tra i popoli arabi e persiani è
l’assetto interno caratterizzato da Islam e modernità, binomio che se rivolto a un pubblico
28 europeo o americano viene reso piuttosto con “Islam e democrazia”. Tuttavia l’entusiasmo
nei confronti dello sviluppo turco e dell’ascesa degli islamici praticanti al potere
intimorisce molti osservatori. L’Italia e gli Stati Uniti ad esempio, che nelle loro differenze
sostengono entrambe l’entrata della Turchia nell’Unione Europea e mantengono con
questo Stato importanti relazioni economiche, descrivono i membri dell’AKP come
“musulmani moderati”, termine non molto sensato per un musulmano, utilizzato al fine di
tranquillizzare il grande pubblico timoroso di una cultura diversa percepita come
inconciliabile con un assetto democratico se non addirittura civile.
L’appartenenza religiosa di un popolo, le rivendicazioni pacifiche dei praticanti di un
culto non dovrebbero turbare opinionisti, politici ed esperti internazionali. Eppure nei
dibattiti circa gli equilibri mediorientali e le relazioni tra Turchia e Unione Europea si
discute molto sul peso della religione islamica, proprio perché islamica. Benché solo una
minima parte dei concetti espressi nel Corano possano essere considerati “islam politico”
ed essi siano prevalentemente di natura privatistica, ciò che preoccupa gli osservatori
dell’incremento della pratica alla fede musulmana, è la difficoltà di molti fedeli di poter
scindere tra sfera privata/religiosa, e sfera pubblica. A turbare l’“occidente” (termine
difficilmente denotativo da dieci anni a questa parte) è la percezione di un incremento delle
quote dei praticanti e l’ascesa al potere del partito islamista, l’AKP, Partito della Giustizia
e dello Sviluppo. Si teme che la Turchia si allontani dal ruolo di baluardo occidentale e
modello laico e moderno seppur musulmano.
La Turchia è abitata per il 99,8 percento da musulmani, prevalentemente sunniti,
tuttavia non manca una componente alevita e sciita. Tra i culti mistici, benché illegale dal
1925, quello Sufi è presente nella penisola anatolica da secoli ed influenza cultura e
politica dagli anni ‘60. L’Islam politico inquieta gli osservatori di un Paese che per decenni
ha ricoperto il ruolo di fedele alleato alla parte ovest del globo, in una zona strategica,
complessa e che dagli anni ’20 (ma forse anche nell’ultima fase del periodo imperiale)
controlla e struttura la religione.
29 1. L’Impero Ottomano, Scelta della Modernità ai fini difensivi
L’Islam turco, simile a quello balcanico, ha caratteristiche europee, abituato a secoli di
convivenza pacifica con altri culti e popolazioni. L’Impero Ottomano nel quale Istanbul
era sede del Califfato, vivendo nell’incubo dell’instabilità e disgregazione dell’Impero,
persegue per secoli una politica di riconoscimento e cristallizzazione delle differenze.
Attraverso il sistema dei Millet, gli ottomani portavano avanti un divide et impera in stile
romano che ha permesso la stabilità e longevità dell’Impero più duraturo e forte del mondo
islamico. In luoghi di convivenza (più o meno) pacifica come la Penisola Balcanica,
prosperano culti mistici come il Sufismo e hanno vita importanti movimenti intellettuali, lo
stesso Mustafa Kemal e il movimento dei Giovani Turchi nasce a Salonicco.
L’incorporazione nell’amministrazione ottomana di tecniche moderne di governance,
burocrazia ed esercito, prende a modello Stati europei quali Prussia, Francia e Gran
Bretagna. Il cosiddetto processo di “occidentalizzazione” tuttavia è frutto di una libera
scelta effettuata da uno Stato sovrano, mai come imposizione di una conquista coloniale.
La riflessione circa le necessità di riforma nascono già dagli ultimi anni del
diciassettesimo secolo. Se fino ad allora l’Impero Ottomano prosperava dal punto di vista
economico, culturale e amministrativo protetto da un’infallibile macchina militare, nelle
potenze europee si irradia la rivoluzione industriale che fornisce agli occidentali le basi di
una superiorità militare. La competizione e l’interdipendenza contribuiscono ad uno
sviluppo rapido in Europa a un propagarsi dello spirito del capitalismo e della modernità.
Nei confini della Sublime Porta gli ottomani si chiedono: “Given that it is a fact that we are
in possession of the true faith, why are we loosing wars to infedels?”34.
Lungo il 1800 “il malato d’Europa” intende curarsi attraverso un processo di riforme.
Il Tanzimat, riorganizzazione dell’Impero Ottomano, avviato nel 1839 ricerca la soluzione
oltre confine. Vengono inviati legati in ogni parte d’Europa e si accolgono tecnici da
Berlino, Parigi e Londra al fine di riformare l’esercito. La riforma di un esercito imperiale
impone grandi spese, segue dunque la riflessione circa una riforma più generale del
sistema finanziario e amministrativo.
34
Brian Silverstein, “Islam and Modernity in Turkey”, Palgrave MacMillan, New York, 2011. p 38.
30 Scopo delle riforme è salvare l’Impero. Le minacce all’unità dell’Impero sono
rintracciabili sia nella comunità musulmana, che nei Millet cristiani ed ebrei. Spinte
secessioniste arrivano dalle periferie musulmane dell’Impero, in particolare nelle provincie
arabe. Il generale albanese Mehmet Ali che in seguito al ritiro napoleonico riprese il
controllo sull’Egitto, governatore della Provincia, negli anni ’30 è portatore di forti spinte
autonomiste.
Nei Millet non-musulmani s’insinuano idee di nazionalismo spesso fomentate da
potenze rivali come l’Impero Austro-Ungarico o quello Zarista, le quali fanno leva sulle
comunità Cristiane cattoliche e ortodosse. Nella fase del Tanzimat, 1839 – 1876, ispirata
dalla filosofia illuminista del bordolese Montesquieu, nasce l’“ottomanesimo”. Tale
corrente di pensiero implica un approccio più comprensivo ed inclusivo nei riguardi delle
Nazioni non musulmane. L’accettazione della differenza nell’uguaglianza di fronte alla
legge vuole spezzare il legame tra i Millet non-musulmani e le potenze europee che
sembrano voler scaricare le loro contraddizioni e tensioni in territori chiavi quali i Balcani.
La fine del periodo di riforme vede la presa di potere del trentaquattresimo sultano
dell’Impero Ottomano, Abul-Hamid II, al potere dal 1876 al 1909. In una fase di crescente
difficoltà a difendere indivisibilità e stabilità nel territorio imperiale, Abdul-Hamid si
richiama all’ Ittihad-i Islam, l’unità pan-islamica.
Le riforme guidano il Paese verso un sistema più assolutista e una gestione del potere
più centralista. Al fine di evitare la disgregazione, la tendenza di conduzione del potere in
modo centralista coinvolge anche la professione dell’Islam. Il Sultano, leader del Califfato,
controlla i culti mistici, in particolare le sette Sufi, le quali vengono sempre più limitate. La
religione diventa gradualmente gestita dalle Istituzioni imperiali. Il concetto di Laiklik
turca35 sembra iniziare ad affermarsi già in un periodo precedente alla fondazione della
Repubblica.
35
A differenza della laïcité francese che implica la separazione tra potere temporale da quello spirituale, la
Laiklik turca prevede il controllo della Chiesa da parte delle istituzioni statali. Il concetto sarà affrontato più
approfonditamente nelle prossime pagine.
31 Negli ultimi anni dell’ottocento, gli Ulema (i dotti musulmani delle “scienze
religiose”) dibattono circa la fedeltà da accordare al Sultano - Califfo. Assistiamo ad un
avvicinamento graduale al CUP, Comitato per l’Unione e per il Progresso, movimento in
opposizione ad Abdul-Ahmid II, che comprende diverse componenti della società
ottomana in particolare i Giovani Turchi. L’allontanamento dal Sultano e l’avvicinamento
al CUP è da leggere come una evoluzione delle tradizioni islamiche ottomane. In questo
passaggio di legittimità gli ulema vedono nella figura di un Sultano sempre più autoritario
e incapace di difendere l’Impero e dunque la comunità dei musulmani, un dittatore.
Secondo il Corano, la funzione del piccolo Jihad è quella di ribellarsi al despota per
difendere la comunità islamica. Gli ulema concentrano l’attenzione sul ruolo fondamentale
della Umma, la consultazione dei fedeli. Dalle provincie imperiali scalpitano movimenti
riformatori. Tra le proposte di riforma spicca quella del 1896 pubblicata nel giornale
Cairota Kanun-i Esasida (Costituzione) ad opera di un gruppo di intellettuali tra i quali
Köprülülü Sheikh Aliefen- dizâde hoja Muhyiddin. La petizione rivolta ad Abul-Hamid
pretende l’istituzione della Camera dei Deputati Ottomana, il Parlamento.
“We shall once more consider you as the giver of life to religion [din] and nation
[millet]. [...]It has been promised [in the Quran] that this religion would be improved by a
reformer evey hundreds years. [...] The reformer of this century will be he who inaugurates
a Chamber of Deputies and who gives freedom to the Islamic community [millet-i
Islâmiye] We pray as a favor from God that you will, before fifteen days have passed,
realize an auspicious and noble act in proportion to the moral and worldly nobility of your
office. If not, until our last breath, we shall make all efforts necessary for the glorification
of religion and the liberation of the country [vatan], Oh our Sultan”36.
I leader spirituali delegittimano il Sultano e accordano fiducia ai Giovani Turchi a
seguito della sconfitta della Prima Guerra Mondiale. Alla débâcle bellica segue l’accordo
di pace di Sèvres. Nella città francese si consuma il più grande trauma della storia turca: la
Sindrome di Sèvres. Nel 1919 l’Impero Ottomano è inerme di fronte ai dictat degli europei
vincitori. Cedendo di fronte a ogni richiesta gli ottomani sono costretti a pagare riparazioni
di guerra, devono accettare la perdita dei territori balcanici, la formazione di una grande
36
Brian Silverstein, “Islam and Modernity in Turkey”, Palgrave MacMillan, New York, 2011. pg 38.
32 Armenia e di un grande Kurdistan, la cessione di alcune isole all’Italia e l’occupazione di
parti dell’Anatolia da parte dell’esercito greco.
La guerra di liberazione nazionale è guidata da Mustafah Kemal che appellandosi
all’unione dei musulmani e al nazionalismo turco, libera la penisola anatolica. Forti della
vittoria i Giovani Turchi si siedono al tavolo di contrattazione a Losanna. Gli occidentali
accetteranno le richieste dei Turchi accordando una nuova fiducia al soggetto appena
fondato: la Repubblica turca. Il nuovo assetto repubblicano riceve fiducia da parte delle
comunità musulmane, si pensi alle sette Sufi o agli aleviti, che nell’ultima fase imperiale
hanno sofferto maggiormente dei controlli centralisti e delle restrizioni alle libertà di culto.
Le guerre balcaniche e il primo conflitto mondiale provocano un acuirsi di ferocia e
intolleranza. Si vengono a formare flussi di rifugiati che assomigliano a veri e propri
scambi di popolazioni tra musulmani e cristiani. Città anatoliche come Smirne,
storicamente abitate da greci-ortodossi
vengono abbandonate in un lasso di tempo
rapidissimo, così come Salonicco, la cui popolazione musulmana si riversa interamente in
Anatolia. La Turchia ospita rifugiati scampati a guerre fratricide. L’Anatolia diviene
penisola abitata quasi esclusivamente da musulmani, il genocidio armeno effettuato sul
finire della Prima Guerra Mondiale, aiuta tale condizione.
Atatürk nel processo pre-fondativo e costituente della Repubblica si appella
inizialmente all’unità dei musulmani. L’articolo due della Costituzione del 1924
proclamava l’Islam religione di Stato, l’unificazione nazionale transita attraverso il credo
religioso. La religione è utilizzata come mezzo di “turchizzazione” (creazione della
Nazione turca). Negando le differenze con la minoranza kurda, Mustafa Kemal Atatürk
dichiarerà: “siamo tutti turchi perché siamo tutti musulmani”. Nel Nutuk, lungo discorso,
nell’ottobre 1927 Mustafa Kemal di fronte alla Grande Assemblea Turca pronuncia le basi
del suo pensiero costituzionale che possono farsi coincidere con le famose “sei frecce”
ovvero: Nazionalismo, Repubblicanesimo, Etno-populismo (unità dei turchi, identificati
nel credo religioso indipendentemente dalla classe sociale, nell’unità della Nazione),
Statalismo, Rivoluzionarismo (o riformismo) e dalla Costituzione del 1928, Laicità (o
secolarizzazione).
33 Il 10 aprile del 1928 l’articolo due della Costituzione precedente, Islam religione di
Stato, viene abrogato. La laicità è un principio fondamentale e fondante della Repubblica. I
militari ne sono i custodi. Tra gli anni 1928 e 1934 sono emanate una serie di leggi pro laicità e per la propensione della Repubblica all’occidente condizionando la cultura del
popolo turco. Si stabiliscono: educazione laica, abbandono dell’alfabeto arabo a favore di
quello turco-europeo, uso del calendario e della numerazione internazionale, chiusura dei
luoghi di preghiera dei dervisci e dei sufi, utilizzo del cappello “all’europea” in
sostituzione al fez, abolizione dei titoli onorifici propri del periodo imperiale, divieto di
indossare abiti imperiali.
La Repubblica turca ai fini della sua preservazione esclude i musulmani praticanti
dall’arena politica. L’islam è relegato alla sfera privata e comunque gestito e controllato
dalle istituzioni pubbliche.
2. Islam Politico Turco. Dall’affermazione del pluripartitismo all’AKP
La tradizione religiosa turca è complessa e ricca, variando da pratiche pre-islamiche
per passare al prevalente Islam sunnita, dalle minoranze ebree e cristiano-ortodosse sino ad
arrivare agli aleviti, sciiti, zarahustriani e altre sette. La società turca è quasi
esclusivamente musulmana, tuttavia per ottant’anni nella Repubblica secolare la religione
ha avuto spazio unicamente nelle pratiche private.
La nascita del multipartitismo nel 1946 rappresenta un punto di svolta per l’Islam
politico. Il CHP, Partito Repubblicano del Popolo, Cumhurriyet Halk Partisi, di diretta
derivazione kemalista, viene sfidato e perde il monopolio del potere. Il Partito
Democratico, DP, guidato da Adnan Menderes vince la maggioranza parlamentare nelle
elezioni del 1950. Maggiormente svincolato dalle idee prettamente kemaliste, il DP ricerca
consenso nelle periferie, tra gli scontenti dell’occidentalizzazione. Di atteggiamento più
liberale riduce parti delle restrizioni culturali nei confronti dei kurdi e degli islamici
praticanti. Le politiche di Menderes ricevono alti consensi nell’entroterra agricolo, luoghi
in cui la religione è maggiormente diffusa.
Le politiche di Menderes sono viste dai kemalisti come pericolose per l’ordine
repubblicano, così il 27 Maggio 1960, senza spargimento di sangue, l’esercito interviene
34 arrestando i membri del governo e molti deputati del Partito Democratico. I militari
assumono il potere. “L’intervento diretto dei militari per proteggere la sicurezza e la
stabilità del Paese viene motivato come giusta reazione alle continue violazioni alla
Costituzione operate dal Partito di governo con il consenso della Grande Assemblea
nazionale che perde dunque ogni legittimità nei confronti del popolo”37.
A legittimare l’intervento armato vi è inoltre il clima di malcontento popolare causato
dal peggioramento della situazione economica. L’anno successivo al golpe viene
promulgata una nuova Costituzione che, se da un lato rafforza il potere politico dei
militari, dall’altro pone le basi per un avanzamento della società civile in senso liberale. Si
favorisce il liberismo economico a vantaggio dell’industria incrementando la libertà
d’associazione. L’aumento dei diritti porta alla proliferazione di moltissimi gruppi
religiosi. Le organizzazioni fioriscono per tutti gli anni sessanta. Nel 1963 la Corte
Costituzionale afferma in una sentenza la coincidenza tra i diritti fondamentali sanciti nella
Costituzione del 1961 e i diritti posti a base della Convenzione Europea dei Diritti
dell’Uomo, inaugurando una linea di rilettura dei diritti fondamentali alla luce della
Convenzione stessa.
Il cambiamento socio-economico contribuisce alla fondazione del primo partito
politico con un esplicito richiamo all’Islam: Milli Nizam Partisi, MNP, Partito dell’Ordine
Nazionale. Fondato il 28 gennaio del 1970 sotto la leadership di un ingegnere proveniente
da Konya, Necmettin Erbakan, l’MNP proporrà un nuovo ordine sociale ed economico con
maggiore riguardo e ispirazione ai dettami dell’Islam. Il Partito guidato da Erbakan avrà
vita breve visto che la Corte Costituzionale turca imporrà la sua chiusura a causa di
presunte attività anti-secolari. La sentenza è successiva al secondo colpo di stato militare
del dopoguerra, 12 marzo 1971. L’esercito interviene a fronte dell’emersione di spinte
islamiche e di estrema sinistra. Gli anni ’68 e ’69 sono caratterizzati da violenti scontri di
piazza, prevalentemente ad Istanbul, tra studenti e forze dell’ordine. Movimenti religiosi,
rivendicazioni kurde e ambienti legati a una sinistra radicale, mettono in discussione
l’ordine repubblicano e la subordinazione della Turchia agli interessi statunitensi. Il
37
Antonello Biagini, “Storia della Turchia contemporanea”, Bompiani, Milano, 2002. pg 50.
35 Parlamento, lacerato da forti tensioni, non garantisce stabilità, così i militari si sentono
costretti a intervenire.
L’11 ottobre 1972 viene fondato il Milli Selamet Partisi, MSP, Partito della Salvezza
Nazionale, guidato di lì a breve da Erbakan. Dalle elezioni parlamentari del 1973, nelle
quali l’MSP conquista l’11,8% dei consensi, il Partito di Necmettin Erbakan diverrà
indispensabile per le coalizioni di governo alleandosi prima con l’ala sinistra del
Parlamento, guidata dal Partito Repubblicano del Popolo, il CHP, in seguito con partiti più
conservatori come l’Adalet Partisi, AP, Partito della Giustizia. Il Milli Selamet Partisi in
evidente continuità con il Milli Nizam Partisi teneva insieme Islam e nazionalismo turco.
Sempre più polemico riguardo il processo di occidentalizzazione scelto dalla Turchia,
l’MSP dichiara che tale propensione turca frammenti la società e porti alla perdita della
grandeur nazionale. Si propone per la prima volta un cambio netto in politica estera,
ovvero l’allontanamento dai vincoli occidentali per volgere lo sguardo ai Paesi islamici. Il
Partito di ispirazione islamica declama lo sviluppo di un’industrializzazione locale e il
rafforzamento e l’indipendenza economica che favorirebbero la Turchia come guida per il
mondo islamico.
“In place of ties to the West, the MSP favored the creation of a Muslim Common
Market, with the Islamic dinar as its common currency, and the development of a Muslim
Defence Alliance”38.
L’MSP è un partito che rappresenta un’unione di differenti forze islamiche e gruppi
conservatori. La leadership conservatrice di Necmettin Erbakan viene messa in discussione
da alcune fazioni interne al partito, le stesse che emergeranno negli ultimi anni ’90 e che
costituiranno le basi della fondazione dell’AKP. Il terzo e più violento colpo di stato
militare del 12 settembre 1980 impone la chiusura di tutti i partiti, tra i quali il Partito della
Salvezza Nazionale. Ad Erbakan e ai più alti quadri dell’MSP viene impedita la
partecipazione alla vita politica per un periodo di dieci anni.
Il partito riemerge sotto un altro nome, il Refah Partisi, RP, Partito della Prosperità.
Al Partito della Prosperità fondato nel 1983 non viene accordato il diritto a partecipare alle
38
Jacob Landau “The National Salvation Party in Turkey”, Asian and African Studies, Vol. 11, 1976, pg: 57.
36 elezioni dello stesso anno, tuttavia questo appare l’unico limite imposto dal Consiglio di
Sicurezza Nazionale. Nel 1987 Erbakan torna a guidare il Refah Partisi. Tale formazione
acquista gradualmente consensi nell’entroterra turca sino a riuscire a rientrare in
Parlamento nel 1991 in seguito alla formazione della coalizione elettorale con l’IDP, il
Partito Democratico Riformista e il partito di estrema destra Milliyetçi Hareket Partisi,
MHP, Partito del Movimento Nazionalista (che in seguito alle elezioni prenderà le distanze
dal Refah Partisi). Negli anni ’90 il Partito della Prosperità vede un inaspettato aumento
dei consensi: nelle elezioni locali del 1994 il Refah raggiunge il 19,1% delle preferenze e
conquista numerosissimi comuni tra i quali Istanbul e Ankara.
Nelle elezioni parlamentari del 1995 guadagna il 21,4% dei voti e con i suoi 158 seggi
su 550 diventa il Partito di maggioranza relativa semplice. Il Parlamento turco risultante
dalle elezioni del ’95 è frammentato. Il Refah forma una coalizione di governo di centrodestra con il Dogru Yol Partisi (DYP – Partito della Retta Via). Le altre forze partitiche
preoccupate da un’ascesa delle forze islamiste, si raccolgono in un’alleanza laica. Il 28
giugno 1996 per la prima volta dalla formazione della Repubblica Turca nel 1923, il ruolo
di Primo Ministro turco viene ricoperto da un leader la cui identità politica e personale
trova fondamento nell’Islam. Affermandosi con un 21,3 percento dei voti totali,
conquistando centocinquantotto seggi su un totale di cinquecentocinquanta, il Partito della
Prosperità dopo un’intensa manovra ha la possibilità di formare un governo di coalizione
con il Partito della retta Via, DYP, Doğru Yol Partisi, di Tansu Çiller.
Viene a formarsi una strana coalizione tra un Primo Ministro pro-islamico e la leader
filo-europea dei laici. Numerose organizzazioni della società civile polemizzano contro
Erbakan. Il 28 febbraio 1997, il Consiglio di Sicurezza Nazionale, riunitosi su impulso dei
militari, presenta ad Erbakan una lista di raccomandazioni per prevenire attività antisecolari. Le Forze Armate accompagnano il comunicato del 28 febbraio con una serie
d’incontri e iniziative volte a mobilitare le forze laiche contro l’ascesa degli islamici.
Questo processo viene definito: “colpo di stato post-moderno”.
Il 16 gennaio 1998, il Refah Partisi viene chiuso a seguito di una decisione della Corte
Costituzionale turca. Il Presidente del Partito Erbakan e diversi parlamentari vengono
37 accusati di aver avuto in diverse occasioni comportamenti e formulato opinioni
confliggenti con la natura laica dello Stato turco e soprattutto di aver rilasciato pubbliche
dichiarazioni di sostegno all’islamizzazione della società, del diritto e delle pubbliche
Istituzioni. Si contestava particolarmente una serie di attività finalizzate alla sostituzione
del sistema politico laico con un modello multi-giuridico di carattere teocratico,
caratterizzato dalla supremazia giuridica e morale del Corano e della legge islamica. Il 22
maggio 1998 gli esponenti del Refah ricorrono alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo,
impugnando la sentenza di scioglimento della formazione politica ritenuta da essi lesiva di
diverse delle libertà garantite dalla Convenzione di Roma.
Secondo i ricorrenti gli esponenti del Partito non hanno mai propugnato ufficialmente
la negazione del principio di laicità, alla cui osservanza il programma politico del
movimento aveva costantemente dimostrato di ispirarsi. Le dichiarazioni dovevano
ritenersi non sufficienti a sostenere le valutazioni della Corte Costituzionale per una
pluralità di motivazioni: si trattava di opinioni estrapolate dal senso generale del discorso
in cui erano calate e riferibili solo a singoli militanti in seguito espulsi dal partito e non al
Refah nel suo complesso. Non si registrava l’attivazione di alcuna inchiesta penale a carico
degli autori delle dichiarazioni e dei comportamenti indicati come lesivi della legalità
costituzionale; inoltre nessuno dei censurati obbiettivi politici del Partito Refah si era
tradotto in legge o in progetto di legge. Sulla contestata teoria della pluralità dei sistemi
giuridici (sistema dei Millet, di tradizione ottomana, abolito con il Trattato di Losanna nel
1923), evocata dal presidente del Partito in discorsi pubblici, questa non intaccava la
centralità del principio di laicità, bensì si riferiva all’introduzione di un modello legale di
convivenza organizzata, compatibile con il tradizionale assetto del diritto pubblico turco e
tale da consentire ai cittadini dei più diversi orientamenti ideologico-religiosi di vivere in
conformità con i precetti della religione da essi favorita.
La Cedu accoglie il ricorso, tuttavia nella sezione a sette giudici a maggioranza
quattro contro tre i giudici di Strasburgo non condannano la Turchia, non trovando
illegittima la restrizione alla libertà di associazione in quanto immotivata o non
proporzionale allo scopo di salvaguardare il regime laico e democratico della Repubblica. I
membri del Partito della Prosperità ricorrono alla Grande Camera. La sentenza dei
38 diciassette giudici della Grande Camera sul caso Refah Partisi, non si discosta dal primo
giudizio. Parafrasando i paragrafi della sentenza: il giudice europeo chiamato a verificare
la compatibilità di un partito islamico fondamentalista con i diritti protetti dalla
Convenzione, conferma l’illegittimità di un progetto politico volto ad instaurare un sistema
multi-giuridico implicante discriminazioni fondate sulla religione, ad applicare la legge
islamica alla comunità musulmana (Sharia) o come diritto comune, senza alcuna facoltà di
scelta da parte dei singoli; a realizzare l’ ”ordine giusto” eventualmente con l’uso della
forza (Jihad) come metodo di lotta politica decisamente contrario a qualunque concezione
democratica. Un partito che promuove modifiche delle strutture costituzionali deve
utilizzare metodi pacifici.
“[...]the Court considers that a political party may promote a change in the law or the
legal and constitutional structures of the State on two conditions: firstly, the means used to
that end must be legal and democratic; secondly, the change proposed must itself be
compatible with fundamental democratic principles”.
Segue la condanna alla violenza che mina alla democrazia e ai principi della
Convenzione:
“It necessarily follows that a political party whose leaders incite to violence or put
forward a policy which fails to respect democracy or which is aimed at the destruction of
democracy and the flouting of the rights and freedoms recognised in a democracy cannot
lay claim to the Convention’s protection against penalties imposed on those grounds”39.
La sentenza definitiva è presa all’unanimità. Ciò che la caratterizza è l’enfasi sul
rischio della violenza. La pronuncia è stata emessa in seguito all’attacco alle Torri Gemelle
dell’11 settembre 2001. I giudici di Strasburgo sono stati criticati per aver espresso un
giudizio di merito entrando nell’arena del dibattito Islam e Democrazia.
Le critiche interne, quelle dei tre giudici dissenzienti nel primo giudizio, sostengono
che, considerato il fatto che il partito è in vita dal 1983 e dunque sia portatore di un passato
incensurato, abbia sempre utilizzato metodi democratici e conti 4,3 milioni di iscritti; ne
39
“Case of Refah Partisi (the welfare party) and others v. Turkey”, ECHR, Grand Chamber, 13 february
2001, Strasbourg.
39 segue che il pericolo dell’utilizzo della violenza non sia credibile e che i discorsi utilizzati
come prova del carattere minaccioso del Partito vadano reinseriti nel contesto in cui sono
stati declamati e analizzati più approfonditamente.
Operando un esame di merito sulla natura e sui caratteri della fede islamica i giudici
della Corte sostengono un’incompatibilità tra l’assetto democratico della convivenza civile
e le regole della sharia. Non pochi esperti hanno criticato la decisione assunta dal massimo
organo giurisdizionale europeo, in quanto caratterizzata da una forte colorazione politica.
Secondo Marco Parisi: “[...]l’insieme delle valutazioni addotte per escludere la
fondatezza della denunciata violazione del dettato convenzionale poggerebbe sul
concetto[...] della minaccia antidemocratica rappresentata dall’Islam, la cui formulazione è
accompagnata da un’analisi molto superficiale della congruità delle prove presentate dalla
difesa governativa”40.
L’intollerabilità delle opinioni espresse dai membri del Refah e il presunto progetto di
eversione sembrano giustificati solo perché la formazione si sia richiamata ai principi
dell’Islam. Stefano Ceccanti, commentando la sentenza della Grande Camera emessa, nel
febbraio 2003 nel saggio Anche la Corte di Strasburgo arruolata nella “guerra di
civiltà”?, criticherà la Corte Europea “vittima di una paranoia securitaria post-11
settembre”41.
Secondo Maria Cristina Folliero la minaccia del diffondersi dell’Islam in Europa
costituirebbe: “il lutto non elaborato, il retro pensiero unico, spettinato e laterale che si fa
largo nelle marce contro la costruzione di moschee, che affiora dalla richiesta di classi
differenziate nelle scuole pubbliche, di somministrazione controllata di libertà religiosa
agli extracomunitari di fede islamica, tutte espressioni di un confronto interreligioso ridotto
40
Marco Parisi. “Il Caso Refah Partisi: il principio di laicità alla prova della Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo”. in “l’Islam tra dimensione giuridica e realtà sociale”. Il Libro, la Bilancia e il Ferro (a cura di
Onorato Bucci), Napoli, Esi, 2006. p 581.
41
Stefano Ceccanti: Anche la Corte di Strasburgo arruolata nella “Guerra di civilità”?. Quaderni
costituzionali. 2002. p 83.
40 alla stregua di una storia da teatro dei pupi siciliani con tanto di buono ma sanguinario
crociato che ci difenderà tutti dal feroce e basta feroce Saladino”42.
Tuttavia, le critiche alla Cedu circa la chiusura del Refah, sono prevalentemente
interne al dibattito occidentale. Parte dei componenti del partito islamista comprende che
benché un partito islamico possa contare su un largo bacino elettorale, il consenso non
basta per l’efficacia politica. In Turchia l’arte della politica è arte del compromesso. Non si
nega il carattere democratico del sistema, ma non si omette la caratteristica di protezione
del sistema stesso.
La Turchia è una democrazia protetta. Tale termine denota un sistema democratico
che prevede dei mezzi interni volti a fronteggiare azioni che tentino di distruggere il
sistema utilizzando percorsi istituzionali. Le origini della democrazia protetta derivano dal
crollo della Repubblica di Weimar. Il concetto di militant democracy viene definito da
Loewenstein nel 1937 durante il suo esilio negli Stati Uniti. L’autore voleva sensibilizzare
l’opinione pubblica criticando quei sistemi autoregolatori delle democrazie, che proprio
attraverso norme e procedure legali avevano favorito “the Trojan horse by which the
enemy enters the city”. Per la prima volta nella storia dei partiti islamisti turchi, si apre una
frattura tra due fazioni una alternativa all’altra: i tradizionalisti e i modernisti.
Dalla ceneri del Refah rinasce il Fazilet Partisi, FP, Partito della Virtù, sotto la guida
del conservatore Recai Kutan. Quasi tutti i quadri del Refah confluiscono nel Partito della
Virtù. Il partito tende a mostrarsi molto più moderato e circospetto rispetto il precedente.
All’interno del Partito della Virtù competono due fazioni: la prima è composta dai
geleliekfile, i tradizionalisti, l’altra dai yenilikfiler i modernisti.
I modernisti sono guidati da Abullah Gül e Recep Tayyip Erdoğan. Essi rappresentano
una nuova generazione che intende sfidare Recai Kutan e il vecchio Erbakan. In una
competizione che non ha pari nella storia dei partiti d’ispirazione islamica, i modernisti per
uno scarto esiguo si ritrovano in minoranza nel congresso del partito. Nel 2001 la Corte
Costituzionale turca deciderà di dichiarare fuorilegge e dunque chiudere il Partito della
42
M.C. Folliero, “Questo Diritto Ecclesiastico”, in M. Parisi (a cura di), L’insegnamento del Diritto
Ecclesiastico nelle Università italiane, Napoli, 2002. pg 123
41 Virtù. La chiusura determina la scissione della formazione islamica in due partiti: l’ala
conservatrice formerà il Saadet Partisi (SP – Partito della Felicità), mentre l’ala riformista
guidata da Recep Tayyip Erdoğan fonderà l’AKP, il Partito della Giustizia e dello
Sviluppo.
Alle elezioni parlamentari del 3 novembre 2002, l’SP riceverà solo il 2,5% dei
consensi. Il Partito della Giustizia e dello Sviluppo, l’AKP guidato da Recep Tayyip
Erdoğan s’imporrà come primo Partito nel Parlamento della Repubblica di Turchia con
uno sbalorditivo 34% dei voti.
3. L’AKP, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo
I membri dell’AKP sono pronti sin da subito a collaborare con le Istituzioni secolari
repubblicane. Nel programma del Partito si enfatizza la lealtà ai valori fondamentali della
Costituzione turca. Le radici del Partito e dei leader affondano nei movimenti islamici
praticanti, tuttavia il Partito della Giustizia e dello Sviluppo non si definisce partito
islamico bensì democratico-conservatore, descrivendosi come la variante turca dei partiti
cristiano-democratici europei. In particolare il modello è quello tedesco del CDU. Il
riferimento ai cristiano democratici è molto importante per il modo in cui l’AKP vuole
essere percepito sia oltre i confini turchi che all’interno degli stessi.
Ad Occidente il partito di governo vuole mostrarsi conservatore e democratico,
proiettato verso la modernità e dunque l’Unione Europea. All’interno del Paese il
messaggio è molto simile e strumentale: l’AKP vuole tranquillizzare l’anima secolare della
Turchia e tutte le Istituzioni quali il Partito Repubblicano del Popolo, la Corte
Costituzionale, le Forze Armate e più in generale la società civile laica, del carattere non
rivoluzionario dei suoi intenti. L’AKP è composto da musulmani praticanti, ma turchi,
moderni e filo-europei e dunque filo-democratici. La rassicurazione degli intenti pacifici
tranquillizza i laici, in tal modo si protegge da eventuali scioglimenti e deroghe alla libertà
di associazione.
Curioso è il parallelismo contemporaneo: nelle prime elezioni pluraliste che si
susseguono nei Paesi usciti dalle rivoluzioni arabe, i partiti ad ispirazione islamica si
richiamano spesso al modello di islam democratico dell’AKP. A distanza di dieci anni
42 dalla creazione del partito, l’AKP è modello per quelle fazioni che godono di un grande
bacino elettorale, ma che spaventano parte della società civile dei loro Paesi e
intimoriscono europei e americani circa il loro intento democratico. L’AKP del secondo
decennio del ventunesimo secolo è il CDU del decennio precedente.
Le fazioni islamiste dall’MNP (1970) all’SP (2002) non avevano richiami religiosi nel
nome o nello statuto; ciò viene pensato per tutelarsi dalla chiusura che, ai sensi degli
articoli 61 e 62 della Costituzione tuttora vigente, può essere effettuata nel caso di presenza
di riferimenti o attività anti-secolari. Tuttavia i partiti islamisti precedenti all’AKP
criticano apertamente l’assetto kemalista della Repubblica laica di Turchia, la cultura
occidentale a cui la Turchia aderisce sin dagli anni venti viene considerata come
colonialista ed oppressiva. Nel contrasto tra forze islamiste e forze secolari, anche la
memoria storica manca di condivisione: se i primi si richiamo alla fase ottomana come
periodo di grandezza e orgoglio e interpretano la decadenza dell’Impero come
conseguenza del tentativo d’imitazione delle nazioni europee, i laici al contrario
descrivono la fase imperiale come oscurantista e presentano la fase della presa di potere
dei Giovani Turchi e della fondazione della Repubblica come una netta frattura con il
passato.
In politica estera le forze kemaliste non hanno mai mancato di ancorare la Turchia a
ogni organizzazione internazionale occidentale, e hanno sempre cercato di consolidare le
alleanze con Israele, Europa occidentale e Stati Uniti. Le forze islamiste precedenti
all’AKP criticavano il ruolo turco nell’Alleanza Nord Atlantica e si opponevano
veementemente all’adesione della Turchia all’Unione Europea. Quest’ultima viene
criticata in quanto Club Cristiano volenteroso di limitare la sovranità culturale ed
economica del popolo turco. L’UE rappresenta un nuovo tentativo di sfruttamento
economico da parte di potenze neo-coloniali. Le visite estere di Erbakan durante il breve
mandato da Primo Ministro si concentrano tutte tra Asia e Africa, principalmente in Paesi
musulmani quali Iran, Malaysia, Pakistan, Indonesia, Singapore, Egitto, Libia e Nigeria.
Nelle sue dichiarazioni la Turchia in Europa spianerebbe la strada ad Israele. L’adesione
minerebbe la storia, cultura e indipendenza della Turchia.
43 I partiti islamisti immaginano una politica estera portata avanti dalla fratellanza dei
popoli musulmani. Grazie alla sua potenza demografica, tradizione storica e posizione
geografica, la Turchia potrebbe essere il Paese qualificato a guidare un’idea di Nazioni
Unite Islamiche con varianti musulmane di UNESCO, NATO, organizzazione del
commercio e unione monetaria. Il carattere universale dell’Islam è accompagnato da un
forte nazionalismo, ciò è manifesto nell’idea del ritorno di una Grande Turchia che
memore del passato imperiale guidi il mondo islamico. In ultimo i partiti islamisti hanno
una politica estera anti-Israele e non pochi membri dei movimenti covano risentimenti
antisemiti. Questa posizione ha spesso irrigidito gli islamisti contro le Nazioni Unite
spesso troppo indulgenti nei riguardi di Israele.
L’AKP opera una frattura evidente con le precedenti formazioni islamiche soprattutto
nella sua prima fase di governo. L’Unione Europea diviene slogan martellante della
campagna elettorale in vista delle elezioni del 3 novembre 2002. L’AKP si presenta come
la fazione più europeista di una Turchia uscita da una devastante crisi economica. Erdoğan
definisce l’UE come un “grande spazio democratico”. Ankara si dimostra volenterosa di
collaborare con il Fondo Monetario Internazionale. La Turchia guidata da Erdoğan
intraprende una serie di politiche volte a favorire efficienza economica, privatizzazioni e
attrazioni di investimenti diretti esteri.
I primi successi dell’AKP derivano dall’interpretazione del partito del bisogno del
popolo turco di entrare in una nuova fase storica libera dalla paura di una recessione
economica o delle restrizioni alle libertà fondamentali. La base elettorale del partito,
elezione dopo elezione, raccoglie un consenso sempre più ampio.
Il Partito della Giustizia e dello Sviluppo presenta le caratteristiche di un catch-all
party. Riceve consensi da diverse fazioni della società turca43. Viene sostenuto in primis
dai musulmani praticanti, l’elettorato classico dei partiti islamisti. Essi vedono nell’AKP il
loro mezzo per poter conquistare quei diritti, come la libertà d’associazione, partecipazione
o espressione, spesso limitati dalle forze secolari. Consenso sbalorditivo proviene da forze
lontane dalla tradizione conservatrice: nelle regioni sud orientali dell’Anatolia, la regione
43
Ergon Ozbudun, William Hale, “Islamism, Democracy and Liberalism in Turkey. The case of AKP”,
Routledge, New York, 2010, pg 33
44 kurda, moltissimi kurdi sostengono la formazione di Erdoğan. I kurdi e diverse altre forze
antecedentemente legate ai partiti socialisti, sostengono l’AKP in quanto portatore di ideali
riformisti e antagonisti al modello militarista repubblicano. L’AKP, al pari dei partiti
islamisti suoi predecessori, fa molta presa nelle periferie della Repubblica, tanto nelle zone
agricole (si pensi alla regione kurda) quanto nei quartieri più disagiati dei centri principali.
Il partito di Erdoğan è portatore degli interessi di una nuova borghesia anatolica composta
da piccoli e medi industriali ed imprenditori, le cui attività non sono situate ad Istanbul o
nella regione occidentale turca, bensì nell’entroterra turco, nei pressi della città di Konya.
La formazione della borghesia anatolica avviene grazie alle liberalizzazioni di Turgut
Özal. Fondatore e Segretario del Partito della Madrepatria, (ANAP), Özal ricopre
l’incarico di Primo Ministro in seguito alle elezioni del novembre 1983 e rimane una figura
dominante del centro-destra turco sino al 1991. La figura di Turgut Özal sotto molti punti
di vista anticipa il ruolo storico che rivestirà in seguito Recep Tayyip Erdoğan. Ritroviamo
diverse similarità tra i due leader dal punto di vista personale e politico. Nati nell’entroterra
turco in famiglie conservatrici, formatisi nelle migliori università sia Özal che Erdoğan
possono essere definiti musulmani devoti.
Le politiche di liberalizzazioni prese da entrambi sono strettamente legate e ispirate a
scelte di politica estera. Alla politica liberista seguono provvedimenti liberali. Seguendo gli
alleati Ronald Reagan e Margaret Tatcher, Özal sostiene le regole del libero mercato e
della riduzione del ruolo dello Stato in economia. Durante il suo mandato sono ridotte le
imposte e i dazi e i controlli alle importazioni, la Lira turca diviene completamente
convertibile e il tasso di interesse non viene più determinato dal Governo, bensì dal
mercato. Queste riforme favoriscono una crescita economica costante fino ai primi anni
novanta. Le liberalizzazioni sono accompagnate da tentativi di riforma delle scuole ImamHatip, un programma di costruzione delle moschee e i primi tentativi di limitare il divieto
di indossare il velo alle donne nelle sedi pubbliche. Anche Özal come Erdoğan si scontrerà
da un lato con le forze secolari (come la Corte Costituzionale che in una decisione del
1989 dichiara incostituzionali i tentativi di permettere il velo) e dall’altro dai gruppi interni
all’ANAP caratterizzati da nazionalismo e conservatorismo religioso.
45 Abbiamo già menzionato l’eterogeneità dell’elettorato del Partito della Giustizia e
dello Sviluppo. In molti vedono la borghesia anatolica nata dalle liberalizzazioni degli anni
ottanta come la prima ragione del successo dell’AKP o comunque come lobby
determinante.
La larghissima base popolare che nelle elezioni del giugno 2011 rasenta la metà dei
votanti è da rintracciare in primis proprio nei successi nel campo economico. L’AKP
prende le redini del governo in seguito alla crisi bancaria e valutaria del 2000, in cui
l’inflazione viaggiava anche oltre il 75%. Nei dieci anni successivi l’economia turca si
distingue per stabilità e la cronica inflazione a due cifre si riduce drasticamente. Il Governo
dell’AKP è riuscito a contenere la spesa pubblica, vendere aziende di Stato per trenta
miliardi di dollari e aprire nuove vie commerciali per il business turco, triplicando il
volume delle esportazioni negli ultimi otto anni. Secondo i dati Ocse44, nel 2003 il Pil turco
era pari a 587,8 miliardi di dollari, nel 2010 raggiunge la cifra di 1116 miliardi45,
divenendo la diciassettesima economia al mondo secondo i dati Cia46. Il Pil procapite nel
2003 era pari a 8.790 dollari l’anno, esso cresce a 15.320 nel 2010. L’inflazione, che nel
2001 era pari al 54,4%, scende al 21,6% nel 2003 e si mantiene tendenzialmente poco
inferiore al 10% sino al 201147.
La crescita media annua è maggiore di qualsiasi Paese europeo raggiungendo i picchi
di 9,4 e 8,4% rispettivamente nel 2004 e 2005. Dato importante è la tenuta della Turchia
nella crisi mondiale del 2008, è infatti uno dei paesi meno colpiti. Il governo non ha
bisogno di intervenire a salvaguardia delle banche.
Seguendo gli studi OCSE i Paesi più colpiti dalla crisi sono quelli che negli anni
precedenti presentavano un saldo di conto corrente negativo, una crescita bassa e un debito
pubblico alto. La Turchia nel periodo pre-2008 non soffriva di nessuna di queste lacune
economiche.
44
http://www.oecd-ilibrary.org/economics/country-statistical-profile-turkey_20752288-table-tur, Country
statistical profile: Turkey 2011-2012 OECD, ultimo aggiornamento: 18 gennaio 2012
45
Ibid.
46
https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/tu.html, Cia, ultimo aggiornamento
febbraio 2012
47
http://www.oecd-ilibrary.org/economics/country-statistical-profile-turkey_20752288-table-tur, Country
statistical profile: Turkey 2011-2012 OECD, ultimo aggiornamento: 18 gennaio 2012
46 Grafico Ocse circa le previsioni di crescita post crisi.
Nel primo trimestre del 2010 la Turchia ha messo a segno un tasso di crescita sul Pil
dell’11,4%, secondo soltanto alla Cina. I tassi di crescita tra il 2010 e il 2011 superano le
previsioni OCSE: nel 2010 la Turchia è cresciuta complessivamente dell’8,9%. La crescita
è accompagnata dall’aumento delle esportazioni di +13,4% nel 2010, ma anche delle
importazioni, +32% soprattutto gas e petrolio. Ankara vuole sfruttare la propria posizione
geografica nel grande gioco energetico, il 72% degli idrocarburi del mondo si trova nelle
sue vicinanze. La Turchia si candida al ruolo di hub energetico transitando nel suo
territorio gli idrocarburi provenienti da Iran, Repubbliche centro-asiatiche, Federazione
Russia e Paesi del Golfo.
Nel 2001 Turchia e Russia stringono l’accordo di cooperazione in Eurasia. Da allora i
rapporti tra i due Stati nemici sino ai primi anni ’90, sono caratterizzati da distensione e
sempre più marcata collaborazione. Nel 2004 Putin è il primo leader del Cremlino in
trentaquattro anni a visitare la Turchia. La Russia è oggi il primo partner commerciale
della Turchia con un interscambio pari a 33,8 miliardi di dollari toccato nel 2008. L’export
russo verso la Turchia è basato al 70% sull’energia, più un 20,5% di metalli e un 2,9% di
prodotti chimici. Quello turco punta sui macchinari, equipaggiamenti, veicoli, industria
tessile, alimentare e chimica. Nel 2009 la Turchia ha investito in Russia per oltre sei
miliardi di dollari. Ankara è presente massicciamente anche con le sue compagnie di
47 costruzioni che nell’ultimo decennio hanno ottenuto contratti per diciassette miliardi di
dollari.
Negli anni ’90 la Turchia tentando di costruirsi un nuovo profilo come potenza
regionale, s’insinua nel vuoto sovietico volendo prendere il posto di Mosca nelle
Repubbliche centro-asiatiche. L’intento era quello di sfruttare i forti legami etnici e
linguistici con Azerbaigian, Turkmenistan, Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan. I
governi di Ankara tentano, nel ritiro sovietico, di far leva sul panturchismo. Tuttavia le
Repubbliche
neo-indipendenti
insofferenti
a
guide
dall’alto
hanno
voglia
di
autodeterminarsi e non legittimano certo una Turchia caratterizzata da una modesta
economia. Gli interscambi commerciali con questa regione tentennano fino alla crisi del
2000. Dal 2002 le cooperazioni riprendono a livello bilaterale, ma la Turchia riconosce
l’influenza russa nei confronti di tali Repubbliche, e nella sua ricerca di diventare hub
energetico importando materie prime anche da questi Paesi, si prodiga affinché piena sia la
fiducia della Russia nei suoi confronti.
La solidità del sistema turco si basa sull’economia reale. Il miracolo economico delle
“tigri anatoliche” deriva dalla nuova classe di businessman turchi, la piccola e media
borghesia musulmana che sostiene il partito del Primo Ministro Erdoğan e il Presidente
Abdullah Gül originario di Kayseri. E’ proprio Kayseri, l’antica Cesarea, capitale
dell’omonima provincia dell’Anatolia Centrale in cui si concentra il boom economico
turco. Una regione lontana da Istanbul, tradizionale, religiosa, imbevuta di valori
patriarcali. Qui metà delle donne circola con il velo e il Ramadan è osservato rigidamente.
Zona laboriosa di artigiani e imprenditori, nel 2004 Kayseri entra nel Guinness dei
primati: in un solo giorno si aprono centotrentanove imprese. E’ qui che si producono il
90% dei mobili della Turchia e abbondano industrie tessili, chimiche, zuccherifici, società
elettroniche. Le esportazioni di beni prodotti dalle regioni anatoliche sono aumentate da
ventuno fino a centocinquanta punti percentuali negli ultimi anni.
48 “A new form of Turkish Islam is emerging here, one which is pro-business and profree market, and it's being called Islamic Calvinism”48.
Secondo gli abitanti della cesarea, business e Corano si conciliano bene, Maometto
prima di diventare profeta era commerciante. Notare come cambi l’economia turca aiuta a
comprendere l’ascesa di nuove élite e classi sociali accompagnate da un modello di
sviluppo diverso rispetto al passato. Nelle regioni di Kayseri e Konya il partito di Erdoğan
raccoglie un netto consenso.
4. La fonte del consenso di Erdogan: la Società Civile Islamica
E’ nella società civile che il partito di Erdoğan trova la sua linfa vitale. I Musulmani
turchi si sono da sempre raccolti e organizzati in associazioni, fondazioni, giornali,
periodici, case editrici, radio, network televisivi, corsi coranici, studentati universitari,
corsi di preparazione all’università, sindacati islamici, associazioni imprenditoriali e
industriali, in particolare la MÜSİAD, (Müstakil Sanayici ve İş Adamları Derneği,
Associazione Indipendente di Imprenditori e Industriali), gruppi informali, ordini Sufi e
altre comunità religiose.
Il settore della società civile in Turchia ha beneficiato delle riforme di armonizzazione
all’Unione Europea. In processo iniziato nel 1995 ha avuto un determinante apporto
dall’AKP attraverso le revisioni costituzionali, in ultima quella del 12 settembre 2010.
Erdoğan si è adoperato specialmente per ridurre le restrizioni legali all’operato delle
associazioni. Alcuni critici sostengono che molti beneficiari delle riforme siano le
associazioni di stampo Sunnita, come i membri del network internazionale Gülen, lobby
conservatrice di gran peso. “Inspired by a little-known Turkish imam, the Gülen movement
is linked to more than 1,000 schools in 130 countries as well as think tanks, newspapers,
TV and radio stations, universities and even a bank”49.
Tra i giornali legati al movimento di Fetullah Gülen vi è lo Zaman in lingua turca e il
48
“Turkish toil brings new form of faith”, http://news.bbc.co.uk/2/hi/business/4788712.stm, 13 marzo 2006
49
Edward Stourton, What is Islam's Gulen movement? http://www.bbc.co.uk/news/world-13503361, 25 May
2011
49 Today’s Zaman, in lingua inglese.
Il movimento è attivo nella promozione del dialogo religioso tra Islam, Cristianesimo
e Ebraismo. Caratterizzato da un forte internazionalismo è presente nella diaspora turca.
Altra componente della società civile molto importante in Turchia (presente anche nel
movimento Gülen) è rappresentata dai Sufi.
5. Il Sufismo
Il Sufismo è caratterizzato da un’interpretazione interiore della religione. La tolleranza
e la non violenza portano i sufi ad accogliere il Grande Jihad (la lotta interna del fedele)
rigettando il piccolo Jihad (lotta difensiva contro un nemico esterno). Più volte gli studiosi
hanno sottolineato50 l’influsso determinante del monachesimo cristiano siriaco, del
pensiero neo-platonico dello gnosticismo e delle antiche religioni orientali. Quanto alle
fonti principali della dottrina queste sono il Corano e la Sunna, le quali per le loro
caratteristiche si prestano ad una lettura prevalentemente interiore e spirituale della
religione e della vita del fedele. Per queste particolarità il sufismo viene presentato come
corrente musulmana più aperta ai valori della tolleranza e non violenza.
Il Sufismo riesce a svilupparsi in regioni e contesti multi-religiosi. Sotto la
dominazione araba si stabilisce in Sicilia ed Andalusia. E’ presente in molte parti
dell’Impero Ottomano, prevalentemente in Bosnia, nel Sangiaccato e in Albania. Molti sufi
rifugiati dalle Guerre Balcaniche apporteranno all’Anatolia una ricchezza culturale e
religiosa, tuttavia dal 1925, ovvero dai primi tempi della Repubblica, il culto Sufi viene
bandito per legge. I sufi in Turchia continueranno ad esistere clandestinamente. Gli ordini
Sufi, o fratellanze (tarikatlar) sopravvissute negli ordini dei Naksibendi o dei Kadiri,
rimangono attivi nella scena islamica attraverso organizzazioni politiche o imprenditoriali.
Le sette, benché inserite in un contesto sunnita, mantengono dei loro elementi sciiti.
Così come per gli aleviti, la loro adesione a elementi religiosi divergenti li porta a non
sostenere unilateralmente il partito islamista di turno, in quanto spesso temuto di essere
promotore di un unico Islam consentito, ovvero quello sunnita.
50
G.Filoramo (a cura di), “Islam”. Biblioteca universale, Laterza.Torino. 2002. Pg 181 e seguenti.
50 I primi casi di sostegno Sufi a partiti politici sono da rintracciare con la nascita del
pluripartitismo. L’appoggio era affidato ai partiti d’opposizione al CHP di un’ideologia
conservatrice del sistema kemalista, dunque meno incline alle aperture circa la libertà di
associazione dei gruppi mistici. Le tarikatlar sosterranno negli anni ’50 il Governo di
Adnan Menderes, leader del Partito Democratico, più tollerante nei confronti delle
tradizioni islamiche. Negli anni ’70 cercheranno di influenzare l’MSP, il Partito di
Salvezza Nazionale, guidato da Erbakan. E’ tuttavia in seguito al colpo di stato dei generali
del 1980 che le fratellanze riusciranno ad insinuarsi meglio in politica. Il Capo di Stato
Maggiore delle Forze Armate Turche, poi Presidente ad interim della Repubblica, Kenan
Evren enfatizza la sintesi turco-islamica (Turk-Islam sentezi) come formula per l’identità
nazionale. Evren preferisce i movimenti religiosi agli estremismi di destra e sinistra che
minano all’ordine e all’unità della nazione. La religione ben inquadrata nei sistemi statali è
strumento d’interesse nazionale.
I gruppi Sufi negli anni ’80 si dividono nel loro sostegno partitico tra Refah Partisi e
Partito della Madrepatria. L’ANAP viene sostenuto perché di ideali conservatori e liberali,
forte e capace di guidare la Nazione turca in opposizione al Partito Repubblicano del
Popolo. Il Partito della Madrepatria riceve il consenso Sufi perché guidato da Turgut Özal ,
musulmano praticante, ma non tradizionalista, uomo di formazione internazionale e grande
carisma e soprattutto legato personalmente alla setta dei Sufi Naqshbandi.
Ad oggi molte organizzazioni legate al culto Sufi, svolgono pressioni sul partito di
governo. Diversi membri dell’AKP, tra i quali lo stesso Erdoğan, sembrano simpatizzare
per il culto mistico. Il Partito della Giustizia e dello Sviluppo raccoglie consensi dai Sufi
perché visto come liberale, capace di ampliare le libertà di culto e d’associazione. Tuttavia
il partito di Erdoğan è spesso criticato (e temuto) dalle organizzazioni mistiche perché al
suo interno molti membri conservatori sembrano voler difendere e imporre il sunnismo.
Inoltre le organizzazioni legate ai mezzi di comunicazione di massa temono il “lato
oscuro” dell’AKP ovvero le restrizioni alla libertà di espressione e alle politiche punitive
contro giornalisti e intellettuali più critici nei confronti del Partito di governo.
6. Islamici e Pluralismo: il Neo-Ottomanesimo dentro i confini
51 Le elezioni del 12 giugno 2011 confermano il sostegno popolare al partito di Recep
Tayyip Erdoğan: l’AKP riceve 21.399.082 delle preferenze, pari al 49,83% dei voti. I 327
seggi attribuiti al partito, non sono sufficienti a poter modificare la Costituzione senza
accordi con le altre formazioni.
I motivi dello storico consenso elettorale sono diversi, in primis la stabilità economica
e più in generale tutti gli evidenti successi in campo economico nell’ultimo decennio.
Tuttavia, se quasi la metà dell’elettorato turco ha sostenuto il Partito della Giustizia e dello
Sviluppo è probabile che le ragioni non siano esclusivamente economiche. La Turchia vive
un cambiamento storico in cui l’AKP è un diretto risultato e in parte anche artefice.
Per la prima volta il potere civile surclassa quello militare. Decenni di restrizioni alle
libertà in ultimo il colpo di stato post-moderno del 28 febbraio 1997 o gli scontri
istituzionali per l’elezione di Gül nel 2007, hanno messo in guardia gli islamici da
comportamenti troppo distanti dalle regole costituzionali secolari turche.
Al contempo non si vuole nemmeno dubitare della fedeltà dei discorsi e del
programma del partito dell’AKP e di parti del suo elettorato ai principi fondativi
costituzionali turchi. Lo stesso Erdoğan che è stato vittima di restrizioni alle libertà
personali in seguito alla chiusura del Refah Partisi, ha commentato i diversi colpi di stato
militare come necessari nei momenti di disordine istituzionale, legittimando l’operato
dell’esercito. Sembra che gli islamici abbiano interiorizzato la volontà di governare
attraverso compromessi con le diverse anime della Turchia, parte per strategia, parte per
adesione piena ai principi repubblicani.
Il successo degli islamici è da rintracciare nella rottura dell’atteggiamento di scontro e
opposizione che li distingueva sino agli anni ’90. In riferimento alla storica tensione tra
Stato e religione l’AKP sostiene, molto più chiaramente di quanto abbiano fatto in
precedenza altri partiti islamico-conservatori, che il secolarismo è una condizione
indispensabile per la democrazia perché “permette alle persone di tutte le religioni e credi
di organizzare le loro vite in ogni direzione”51 e che i “principi di Atatürk sono il più
51
Sito ufficiale AKP, programma http://eng.akparti.org.tr/english/partyprogramme.html, al 10 dicembre 2008
52 importante veicolo di modernizzazione del Paese”. Il movimento islamista trasla da una
politica strettamente identitaria ad un’apertura liberale che incoraggia e riconosce le
diversità.
Nei programmi dell’AKP e nei discorsi si enfatizzano valori universali quali la
democrazia, i diritti umani, lo stato di diritto, il governo limitato, la tolleranza pluralista e il
rispetto della diversità. I principi a fondamento del partito richiamano sia valori
orgogliosamente autoctoni turchi che i legami con l’Europa e l’Ovest:
“Regarding fundamental rights and freedoms, our Party will achieve the following
objectives:
Standards in the area of human rights contained in the international agreements to
which Turkey is a party, especially in the Universal Declaration on Human Rights,
European Convention on Human Rights, Paris Charter and Helsinki Final Act shall be put
into force.”52
Il Pluralismo e la partecipazione nella società democratica sono sia il mezzo che il
fine del governo del Partito islamico.
Abbiamo dimostrato come il Partito poggi su una base eterogenea. La società civile
turca musulmano-praticante, raccolta in fondazioni e associazioni di tipo caritatevole,
culturale, religioso o economico, accetta di convivere in una Turchia laica. Il pluralismo
politico poggia le basi su un pluralismo culturale.
Il neologismo “neo-ottomanesimo” viene utilizzato nelle relazioni internazionali per
descrivere una politica estera turca che riscopre i confini imperiali. Possiamo spingerci a
considerarne la diretta derivazione di questo vettore di politica estera proprio dai nuovi
equilibri interni. Principi quali il pluralismo, il consociativismo e l’inclusione di diverse
componenti interne all’arena politica scalzano i paradigmi kemalisti dell’esclusività della
partecipazione al potere di una sola parte della società, ovvero quella più laica, nazionalista
e repubblicana.
52
Ibidem
53 Sarebbe troppo ottimistico tuttavia parlare di accettazione compiuta del pluralismo a
livello culturale e politico. In Turchia rimangono aperte molte questioni. Nonostante la
strabiliante vittoria elettorale, il partito di governo non è in grado da solo di poter riformare
la Costituzione, dovrà dunque perseguire come in passato politiche parlamentari ricercando
voti negli altri partiti. L’AKP si posiziona in un centro pivotale tra le diverse fazioni
parlamentari. Motivo derubricante i rapporti tra kurdi e sinistra liberale con i musulmani
praticanti sono il pluralismo e l’evoluzione dell’ordine kemalista. L’AKP cercherà
l’appoggio degli indipendenti kurdi nelle riforme in senso meno militarista e più liberale.
Tuttavia il punto di incontro con i lupi grigi dell’MHP sono molteplici per quanto riguarda
le politiche conservatrici. Nel dialogo tra AKP con il Partito del Movimento Nazionalista,
MHP, e membri del primo partito d’opposizione, il CHP, il consenso è facilmente
raggiungibile su politiche nazionaliste, spesso in funzione anti-kurda.
Nonostante le ottime premesse e gli eccellenti risultati circa un’evoluzione dell’assetto
interno turco in senso più pluralista e tollerante, numerosi rimangono i nodi irrisolti, che in
un periodo di pace e prosperità economica non intaccano il rafforzamento del partito di
governo, ma che potrebbero riaffiorare in un cambio d’equilibri.
54 1.b Kemalisti
Nella sua strada verso il modernismo la Turchia opta per un modello di Repubblica
secolarizzata. Tale scelta è effettuata nei primi anni di fondazione della Repubblica
scolpendo il valore della laicità nella pietra costituzionale. Questo cambiamento dei
costumi e dell’organizzazione di stato che viene presentato come una netta frattura con il
precedente assetto ottomano uscito sconfitto ed umiliato dalla Prima Guerra Mondiale.
Mustafah Kemal Atatürk, padre della Turchia repubblicana, nazionalista e laica, opera
una scelta in politica estera di chiusura ed indipendenza dall’estero e allo stesso tempo lega
la Turchia alle potenze occidentali, quali Stati Uniti ed Europa dell’Ovest. Lo Stato turco è
abitato da musulmani, ma la gestione laica del potere tranquillizza gli interlocutori
occidentali. Un esercito armato delle più moderne tecnologie e formato da centinaia di
migliaia di uomini preparati alla guerra e pronti a reagire ad ogni minaccia ai principi
fondativi della Repubblica, viene visto di buon occhio e sostenuto da un occidente che
guarda alla posizione geografica della Turchia come difficile e strategicamente rilevante.
La Turchia è un avamposto troppo importante per gli equilibri mediorientali e
mediterranei. Una Turchia amica dell’Ovest è necessaria per un Israele circondata da Arabi
ostili. Una Turchia laica è un ottimo modello alternativo all’Iran di Khomeini. Una Turchia
forte è un buon alleato contro l’Unione Sovietica.
Le deroghe alle libertà di autodeterminazione del popolo kurdo, alla libertà di
espressione e partecipazione dei musulmani praticanti e di tutte le componenti di Turchia
che non accettano pienamente i principi kemalisti, , la compressione dei diritti degli
Armeni e il rifiuto di fare chiarezza storica sul genocidio di questo popolo tra il 1915-17,
trovano la loro giustificazione nel particolare periodo storico e in una posizione geografica
unica. E’importante che la Turchia rimanga laica e filo-occidentale, a tutti i costi.
1. La fine della Guerra Fredda, nuove libertà
L’adesione ai valori occidentali, i contatti economici, diplomatici, istituzionali e
culturali avvicinano i turchi all’Europa delle libertà. L’adesione alle organizzazioni
internazionali, alle carte dei diritti, ai forum interculturali semina nell’intelletto e nei
55 comportamenti dei turchi il seme del superamento del sistema kemalista che pur aveva
all’inizio imposto tale interscambio. Gli anni ’90 e il primo decennio del nuovo millennio,
liberano la Turchia dai rigidi schemi bipolari. La libertà internazionale si propaga
all’interno e i turchi si scontrano tra loro stessi per affermare o conservare nuove o vecchie
libertà.
I musulmani praticanti e i kurdi si oppongono ai difensori del modello kemalista
lottando per il loro diritto alla partecipazione politica. I kemalisti si oppongono a tale
cambiamento perché temono la perdita delle libertà occidentali, le libertà moderne e laiche.
I kemalisti temono l’arabizzazione della società turca o l’ascesa di un Khomeini dispotico.
Il dialogo prima violento tra i portatori dei diversi valori appare oggi più disteso. La paura
di un’islamizzazione della società permane in molti ambienti laici turchi. Gli oppositori del
regime temono il comportamento dispotico di Erdoğan repressivo nei confronti di
giornalisti, intellettuali, militari oppositori al regime. Quello che negli ultimi anni ha
portato a un maggior appoggio e a una minore opposizione al partito di governo è
l’assicurazione dell’AKP di non tentare un colpo islamico. Dopo dieci anni la società civile
laica, e di riflesso la Corte Costituzionale e i militari, sembrano avere meno paura e
accettare il cambiamento, ma non certamente da osservatori passivi. Le dimissioni delle
alte sfere militari dell’estate 2011 sembra far intendere che anche i militari abbiano
accettato non tanto la primazia di un governo islamico sulla forza militare, quanto il
principio democratico del potere civile che prevale su quello militare.
Sembra che l’abilità di Erdoğan e Davutoğlu in politica estera non dispiaccia alle
Forze Armate turche. Una Turchia che riscopre il nazionalismo, che alza la testa di fronte
alle potenze occidentali, che è attiva nelle missioni di pace oltre confine e che è pronta a
violare il diritto internazionale nella lotta agli indipendentisti kurdi dai cieli iracheni,
tranquillizza i militari che se pur comprendono un doveroso ridimensionamento (non
eccessivo, ma storico) del loro ruolo, si sacrificano ai fini di perseguire l’importante
interesse nazionale. La Turchia kemalista e laica, attraverso la laicità supera il kemalismo
originario.
56 2. La Lâiklik
La laicità nei Paesi europei prende ispirazione dal modello francese risultante
dall’illuminismo e dalla rivoluzione. Per laïcite si intende “une valeur universaliste et
humaniste, positive et inclusive (affirmation des libertés individuelles et publiques) avant
d'être négative (séparation des Eglises et de l'Etat) ou exclusive (libre-pensée)”.53
Con il termine turco lâiklik s’intende un tipo di secolarismo in cui lo Stato controlla ed
inquadra le religione. La lâiklik dunque non prevede una semplice separazione tra Stato e
sfera religiosa, bensì è la Costituzione che emana la necessità di vigilanza e controllo della
religione ad opera delle Istituzioni statali. La religione si distanzia progressivamente dalla
sfera politica: l’atto storico più simbolico è l’abolizione del califfato il 3 marzo 1924.
L’Istituzione era sopravvissuta provvisoriamente all’abolizione del sultanato nel novembre
1922 e alla proclamazione della Repubblica il 29 ottobre 1923. Il primo testo
costituzionale approvato dalla Grande Assemblea Nazionale il 20 Aprile 1924 prevede
all’articolo 2 l’Islam come religione di Stato. Nella fase fondativa della Repubblica,
l’Islam è strumento di turchizzazione. Nel 1923 Mustafah Kemal negando l’esistenza di
minoranze musulmane nel territorio turco (lampante è la negazione dei kurdi) dichiarerà:
“siamo tutti turchi perché siamo tutti Musulmani”. L’unificazione nazionale transita
attraverso il credo religioso.
Abbiamo già menzionato il discorso di Mustafa Kemal di fronte il Parlamento
nell’ottobre 1927 in cui vengono enunciate le “sei frecce” turche, ovvero Nazionalismo,
Repubblicanesimo, Statalismo, Rivoluzionarismo e Etno-populismo. L’unità dei turchi
identificati nel credo religioso, in una fase di guerra di liberazione nazionale evolve in
Secolarizzazione (sesta freccia) nella Costituzione del 10 aprile 1928, quando si sancisce la
laicità come principio costituzionale abbandonando ogni riferimento all’Islam. La Turchia
diviene così il primo stato laico nel mondo musulmano. Ad oggi oltre la Turchia solo il
Senegal sancisce la laicità come principio costituzionale. Il concetto di lâiklik s’inizia ad
53 Jean-Paul Burdy et Jean Marcou. “Laicité/Laiklik : Introduction”. Cahiers d'études sur la Méditerranée
orientale et le monde turco-iranien, n°19, janvier-juin 1995. pg 1. 57 affermare già nell’ultima fase dell’Impero Ottomano. Abbiamo già menzionato l’intento
modernizzatore dell’Impero in una fase di successione delle sconfitte militari. L’esercito
ottomano perde contro gli europei rafforzati dal propagarsi delle tecnologie risultanti dalla
Rivoluzione Industriale.
3. Tanzimât
Per Tanzimât s’intende la riorganizzazione amministrativa dell’Impero. Le prime
riforme vengono attuate dai Sultani Selim III (1789 – 1807) e Mahmut II (1808 – 1830),
ma il processo di riforme conosciuto come Tanzimât fa seguito all’Editto imperiale della
Gülhane del 1839 e viene portato avanti dai Sultani Abdülmecid I and Abdülaziz sino alla
promulgazione nel 1876 del Kanûn-ı Esâsî, legge fondamentale, o prima Costituzione
Ottomana promulgata dal Sultano Abdülhamid II scritta dai membri dei Giovani Turchi. Il
Tanzimât è caratterizzato da un approccio tecnico alle riforme di tipo essenzialmente
militare,
amministrativo,
giuridico,
educativo,
fiscale
e
finanziario.
Tuttavia
“inéluctablement, ce processus "technique" engendre un phénomène de sécularisation
politique et sociale, et débouche sur un renforcement de l'Etat et des pouvoirs du Sultan, en
affaiblissant les autorités religieuses et leurs compétences traditionnelles.”54
Il programma di riforme si effettua al fine di contrastare il lento declino del “malato
d’Europa”, pensando che l’occidentalizzazione e il rispetto delle popolazioni non
Musulmane dei diversi Millet, avrebbe fermato l’aggressività delle Grandi Potenze. Si
riformano le istituzioni militari e religiose. Si adottano pratiche europee e si cambiano i
costumi, come le uniformi. Viene adottata la coscrizione maschile universale, si contrasta
la corruzione. Sono promulgate leggi secolari a favore della coesistenza pacifica dei
Musulmani e dei non Musulmani, Turchi e Greci, Armeni ed Ebrei, Kurdi ed Arabi. Nel
1839 si dichiara l’uguaglianza di fronte alla legge dei Musulmani e dei non Musulmani
dell’Impero Ottomano.
Le riforme non arrestano il declino imperiale. Le insurrezioni di Bosnia del 1875, la
guerra con la Serbia e il Montenegro, lo sdegno e le proteste delle potenze europee di
54 Jean-Paul
Burdy et Jean Marcou. Laicité/Laiklik : Introduction. Cahiers d'études sur la Méditerranée
orientale et le monde turco-iranien, n°19, janvier-juin 1995. pg 10. 58 fronte alle cruenti repressioni a seguito delle ribellioni bulgare, i moti secessionisti degli
arabi, porteranno il Sultano Abdul-Hamid II (1876 – 1909) a sospendere la Costituzione
nel 1878 e a perseguire per tre decenni un regime assolutista. L’esercito non esita a
reprimere brutalmente alcune minoranze cristiane autoctone, principalmente gli armeni.
Con Abdul-Hamid II si attuano politiche volte alla centralizzazione territoriale. Il
Sultano, si appella all’unione pan-islamica (ittihad-i İslâm) contro la disgregazione
dell’Impero la cui capitale è sede del Califfato. Le tecniche di modernizzazione motivate
dal tentativo di rafforzare e difendere la comunità musulmana prevedono l’appropriazione
da parte del Governo di molte istituzioni Islamiche come le Moschee, le Madrasse, gli
spazi dei Sufi. L’Impero tenta di inquadrare e controllare la religione, al fine di difendere e
rafforzare l’entità statale.
Il passaggio da un periodo di tolleranza religiosa a un approccio di controllo
dell’Islam, suggeriscono una continuità tra le scelte imperiali e le politiche kemaliste.
Tuttavia Atatürk intende presentare le riforme secolari come in netta frattura con il passato
ottomano: la Repubblica turca si propone al mondo come un soggetto nuovo. Questa scelta
viene effettuata in vista del Negoziato di Losanna.
4. Negoziato di Losanna, il riscatto dell’orgoglio turco
La conferenza di Losanna ebbe luogo nella città svizzera tra il novembre 1922 e il
luglio 1923. Si trattò di un negoziato per trovare l’accordo di rimpiazzo al Trattato di
Sèvres, non riconosciuto dal governo della Repubblica turca nata in seguito alla guerra di
liberazione nazionale dalle forze occupanti e alla presa di potere dei Giovani Turchi guidati
da Mustafa Kemal Atatürk.
I Giovani Turchi avevano abolito il Califfato e l’assetto imperiale. Nella fase prenegoziale i turchi si preparano a presentare una delegazione che rappresenti un soggetto
nuovo, forte di una guerra vinta, ma moderno e volenteroso di instaurare un dialogo con le
potenze occidentali. Allo stesso tempo i turchi non vogliono pagare i debiti contratti
dall’Impero Ottomano sommati ai risarcimenti di guerra imposti a Sèvres.
59 Il capo delegazione turca è il Ministro degli Affari Esteri Mustafa İsmet İnönü, già
negoziatore nell’armistizio di Mudanya l’11 ottobre 1922. Egli sin da giovanissimo
aderisce al CUP, Comitato di Unione e Progresso che raccoglie il movimento dei Giovani
Turchi. Per l’esercito imperiale İsmet İnönü combatterà nelle guerre Balcaniche, in
Rumelia (Grecia), nello Yemen e durante la Prima Guerra Mondiale nel Caucaso e in
Palestina sotto il comando di Mustafa Kemal. Dopo l’occupazione di Costantinopoli del 16
marzo 1920 si unisce al Movimento Nazionale Turco e guida il Fronte Occidentale
dell’Esercito della Grande Assemblea Nazionale verso la liberazione nazionale
dall’occupazione straniera.
Per la delegazione turca il BATNA (Best Alternative To a Negotiated Agreement) è
stabilire la sovranità del nuovo Paese chiamato “Repubblica di Turchia” e la legittimazione
della Grande Assemblea Nazionale di Ankara.
La fase negoziale si apre il 20 novembre 1922. Il tavolo delle contrattazioni divide due
fazioni, la prima è composta dalla sola Turchia, la seconda dai vincitori della Prima Guerra
Mondiale: Impero Britannico, Francia, Italia, Giappone, Grecia, Romania e Stato SerboCroato-Sloveno. Il negoziato è lungo e concitato, interrotto da una protesta turca il 4
febbraio 1923. I turchi nella città svizzera non intendono prostrarsi alle richieste dei
vincitori, l’atteggiamento negoziale differisce totalmente dai rappresentanti di Istanbul a
Sèvres. L’orgoglio turco è una fiamma viva negli ambasciatori della nuova Turchia.
Nel gennaio del 1923, Turchia e Grecia firmano la "Convention Concerning the
Exchange of Greek and Turkish Populations". Il trattato di scambio delle popolazioni
greche e turche coinvolge approssimativamente due milioni di persone, un milione e
mezzo greci anatolici e cinquecento mila musulmani in Grecia. La convenzione ha effetti
retroattivi circa i movimenti di popolazione che iniziano con le guerre balcaniche del 1912.
L’accordo con la Grecia e l’intemperanza dei turchi gioca a favore di questi ultimi
nelle negoziazioni. Il negoziato per il Trattato di Losanna tra Turchia e vincitori del primo
conflitto mondiale, interrotto a febbraio, si riapre ad aprile. Il britannico Lord Curzon
guida la delegazione degli alleati.
60 La capitolazione dell’Impero Ottomano aveva portato a accordi incredibilmente
sfavorevoli nei confronti dell’Anatolia, che entrambe le parti della contrattazione
trovavano ora inappropriati. Le sconfitte ottomane avevano favorito il flusso degli
investimenti diretti esteri, che non rispondevano alle giurisdizioni musulmane e avevano
minato all’indipendenza del territorio ottomano. Ciò in continuità ai secoli dei sistemi delle
capitolazioni, ovvero i contratti bilaterali tra potenze europee, in particolare Inghilterra e
Francia, e Impero Ottomano. Le capitolazioni garantivano agli europei grandissima
autonomia economica e giuridica.
Gli alleati, posto il fatto che molti cittadini avevano effettuato investimenti notevoli
nel territorio turco, pretendevano di tutelare tali investimenti sotto certe condizioni. Le
condizioni includevano un sistema legale parallelo nel quale i consolati si sarebbero
occupati del diritto degli investimenti diretti esteri. Un preludio alla protezione diplomatica
degli investimenti.
I turchi non intendono concedere un sistema giuridico parallelo a quello unico di
Turchia e interrogano gli europei sul motivo della diffidenza nel sistema giuridico di
Ankara. Tali particolari condizioni giuridiche non sono state richieste agli Stati di nuova
indipendenza quali Bulgaria e Grecia. Lord Curzon spiega che la diffidenza nasce dal fatto
che la Turchia è un Paese Musulmano e dunque molto distante dalle pratiche e tradizioni
europee.
A quel punto i rappresentanti di Mustafa Kemal Atatürk non cederanno alle richieste
inglesi tranquillizzando gli interlocutori circa il loro immotivato timore. La Turchia non
era musulmana, ma laica. La Repubblica era cosa diversa dall’oscurantista Impero
Ottomano. La Turchia riconosceva e tutelava le minoranze non musulmane ed era in
procinto di lavorare per creare un ordinamento laico e occidentale.
Il lungo negoziato termina con l’accordo del 24 luglio 1924. I Turchi riconoscono la
perdita dei territori nord africani, balcanici, il Mosul, le isole mediterranee cedute a Grecia
e Italia. Tuttavia raggiungono il BATNA: Gli europei accettano i confini risultanti dalla
guerra di liberazione nazionale (quelli attuali) e riconoscono la soggettività internazionale
della nuova Repubblica Turca, la quale tranquillizzati gli interlocutori circa la laicità dei
61 suoi intenti, salvaguarda il suo sistema giuridico ed economico dall’indipendenza esterna.
Inoltre la tenacia diplomatica porta alla rinegoziazione dei debiti precedentemente contratti
dall’Impero Ottomano e che dopo Sèvres erano eccessivi per i turchi.
Nelle debolezze dell’impero ottomano gli investimenti esteri che rispondevano ad una
giurisdizione diversa da quella di Istanbul indebolivano l’autonomia dell’Impero.
Attraverso la difesa dell’unicità del sistema giuridico nazionale Atatürk prepara la Turchia
ad una fase autarchica, necessaria per costruire la basi solide del Paese.
La laicità dunque se da un lato tranquillizza le potenze europee circa la modernità del
Paese, dall’altro difende la Turchia da infiltrazioni straniere.
5. Il controllo dell’Islam
Le riforme di secolarizzazione dello Stato vengono effettuate principalmente tra il
1928 e il 1934. Queste vogliono facilitare la modernizzazione del Paese, la propensione
dello stesso verso occidente attraverso una rivoluzione culturale dall’alto. Inoltre si cerca
di enfatizzare la rottura con la cultura araba ed il passato ottomano. Si riforma il sistema
educativo in senso laico, le scuole religiose vengono integrate nel sistema scolastico
pubblico con deroga per le minoranze religiose. La preghiera sarà in turco, non in arabo.
L’alfabeto non userà più caratteri arabi, ma s’impiegherà l’alfabeto turco, molto più
intellegibile con i caratteri delle lingue europee. Si adottano calendario e numerazione
internazionale, ponendo la domenica come giorno di riposo settimanale. L’uso del cappello
“all’europea” sostituisce il fez, si chiudono i luoghi di preghiera dei dervisci, si aboliscono
i titoli onorifici propri del periodo imperiale e s’impone il divieto di indossare abiti
imperiali.
Lo strumento di regolazione dell’Islam è il Diyanet İşleri Başkanlığı, la Direzione
degli Affari Religiosi posto sotto l’autorità del Primo Ministro. Il Diyanet amministra solo
il ramo Sunnita dell’Islam. “It does not serve or organize other branches or other
religions—which shows that the Turkish state, although secular, is not equidistant from all
religions. Christianity and Judaism are not managed by a dedicated branch of government
62 such as the Diyanet. They are self-governing but subject to Turkish laws and regulations,
particularly those pertaining to minorities.”55
Il Diyanet ha le funzioni di amministrare le settantasette mila Moschee turche,
nominare o destituire gli imam e i muezzin, dopo aver sorvegliato la loro formazione nelle
scuole o presso la nuova Facoltà di Teologia di Istanbul. Il Diyanet supervisiona le opere
d’insegnamento dell’Islam, i libri di preghiera e i manuali della morale religiosa.
Il Consiglio dispone di un budget considerevole ben superiore rispetto a molti altri
ministeri.
La laicità kemalista si impone ad una società che, se escluse le élite delle grandi città
affacciate sul Mar Mediterraneo, non era preparata. Un laicismo attivo, alle volte virulento
soprattutto per tutti gli anni ’30. Il secolarismo turco facilita la Turchia nel dialogo con
l’occidente. Il controllo del carattere laico dello Stato viene effettuato da diverse Istituzioni
statali, in primis le Forze Armate.
6. Le Forze Armate Turche: Custodi della Laicità Costituzionale
Sin dal processo riformatorio del Tanzimat il primo organo Istituzionale a beneficiare
della modernizzazione è stato l’esercito.
Il protagonismo dei militari è un retaggio
dell'Impero ottomano: durante il sultanato la distinzione tra musulmani e non, risiedeva
proprio nel fatto che solo i primi potessero accedere alle cariche di governo e al servizio
militare.
"Obblighi militari e incarichi politici procedevano di pari passo per i soldati
musulmani, costituzionalmente 'fedeli' perché religiosamente 'fedeli', quindi politicamente
e militarmente affidabili. I non musulmani potevano ben dirsi ottomani, ma erano
inesorabilmente 'infedeli' sul piano religioso, dunque 'inaffidabili' sul piano politico e
militare"56.
55 Angel Rabasa, F. Stephen Larrabee, “The Rise of Political Islam in Turkey”. Rand, National Defense
Research Institute. Santa Monica (Ca) 2008. Pg 21 56 Michele Carducci, Beatrice Bernardini d'Arnesano, “Turchia. Si governano così”, il Mulino, 2008, p.97 63 Nell'impero ottomano, i militari erano garanti dell'assetto vigente, caratterizzato da un
ordinamento di tipo islamico. Nell'epoca kemalista i militari assurgono a difensori del
nuovo assetto, democratico e laico. La fedeltà militare si trasforma da fedeltà religiosa a
fedeltà costituzionale. Le Forze Armate sono state fautrici della vittoria della Guerra di
Liberazione Nazionale ed hanno guidato la Turchia nella sua fase catartica della storia
moderna ovvero il quinquennio 1918-1923, dalla sconfitta della Prima Guerra Mondiale, il
disintegrarsi dell’Impero e Sèvres, fino alla guerra di liberazione, la fondazione della
Repubblica e Losanna.
A differenza di Germania e Italia, o della Penisola Iberica e Grecia, o degli Stati
dell’Europa dell’Est, la Turchia non ha subito il trauma della sconfitta della Seconda
Guerra Mondiale, o del collasso di un regime fascista o comunista. In Europa queste
sconfitte hanno indebolito il ruolo dei militari a vantaggio delle forze civili. In Turchia la
mancanza di una perdita bellica ha preservato il ruolo privilegiato dei militari, la cui
funzione viene vista come strumentale per la salvaguardia dell’assetto repubblicano.
Immedesimandosi nel ruolo di padre educatore, entrano in politica nei momenti di
maggiori disordini sociali o rischio degli stessi. Sono fautori di due Carte costituzionali e
quattro colpi di stato (l’ultimo il cosiddetto colpo di stato post-moderno senza spargimento
di sangue del 1997).
Il primo intervento data il 27 Maggio 1960. Un gruppo di ufficiali dell’esercito si
oppone al governo del Partito Democratico. A guidare il colpo di stato è il generale Cemal
Gürsel. Il “ritorno nelle caserme” avviene diciassette mesi dopo a seguito della
promulgazione della nuova Costituzione liberale. Il coup d’état viene motivato dai
disordini civili causati dai disagi economici. I militari non vedevano di buon occhio
l’ascesa al potere del Partito Democratico, vincitore delle due elezioni parlamentari
precedenti, sempre più tollerante ed aperto alle forze islamiche e in opposizione al Partito
Repubblicano CHP, più vicino agli interessi militari.
Al Colpo segue la costituzione di due organi di storica importanza per la Turchia: il
Consiglio di Sicurezza Nazionale e la Corte Costituzionale. Il primo verrà riformato con la
Costituzione del 1982. La Corte Costituzionale nasce come strumento di difesa dei principi
64 kemalisti, il fine è quello di bilanciare e controllare il potere dei partiti affiché essi non si
discostino dai principi fondatori della Nazione. La sua composizione (almeno fino alla
revisione costituzionale del 2010) non dipende dal Parlamento. La Turchia è una
democrazia protetta e la Corte Costituzionale appellandosi agli articoli 61 e 62 della
Costituzione, su proposta del Procuratore Generale della Repubblica, può sciogliere quelle
formazioni politiche che minano al carattere secolare della Repubblica.
Il secondo coup d’état avviene il 12 marzo del 1971. La situazione è molto tesa in
Turchia: le manifestazioni giovanili iniziate nel ’68 assumono caratteri violenti e antiamericani. Gli scontri con le forze dell’ordine terminano spesso con bagni di sangue. Il
Primo partito islamista, Milli Nizam Partisi, MNP, Partito dell’Ordine Nazionale, che
riceve consistenti consensi elettorali, respinge apertamente gli ideali kemalisti provocando
l’ira delle Forze Armate verso un colpo di stato decisamente più violento del precedente.
Il terzo e più incisivo coup d’état, data il 12 settembre 1980. L’intervento dei militari
segue un periodo di duri scontri di piazza e un attivismo violento da parte dell’estrema
destra. Nascono negli anni ’70 movimenti indipendentisti del popolo kurdo. Il Parlamento
appare instabile e incapace nel riportare l’ordine, il nuovo Partito guidato da Erbakan
sembra anche questa volta anti-istituzionale. L’intervento militare è seguito da tre anni di
gestione del potere e dalla promulgazione di una nuova Carta Costituzionale.
Tra le numerose riforme, importante è il nuovo articolo 118 riguardante il Milli
Güvenlik Kurulu, MGK, Consiglio di Sicurezza Nazionale. Godendo di grande
indipendenza, formula pareri indirizzati all’esecutivo su materie concernenti la sicurezza
nazionale. La composizione diventa la seguente: Il Capo di Stato (che presiede), il Primo
Ministro, i Ministri della Difesa, degli Interni e degli Affari Esteri, il Capo di Stato
Maggiore e i comandanti dell’Esercito, Marina, Aviazione e Gendarmeria. L’organo che
nasce con ruolo consultivo si dimostra sempre più preponderante nelle scelte politiche. Gli
oggetti di discussioni trattati negli anni dal Consiglio di Sicurezza Nazionale sono: il
sistema elettorale, il rafforzamento del potere esecutivo, la definizione di strategie di
contrapposizione al movimento islamista e a quello kurdo. Assistiamo a una legittimazione
65 costituzionale del ruolo dei militari nella sfera politica, non tanto quanto strumento del
potere civile quanto come guardiano autonomo e costantemente vigile.
Come spiegato nelle parti precedenti il “colpo di stato post-moderno” del 28 febbraio
1997 non ha visto l’uso della forza armata, ma le pressioni del Consiglio di Sicurezza
Nazionale sul Partito Islamista Refah Partisi. Gli organi risultanti dalle due Costituzioni
emanate dal Potere Militare, il Consiglio di Sicurezza Nazionale e la Corte Costituzionale,
senza l’uso della forza armata, ma attraverso i loro poteri istituzionali, hanno sciolto il
partito islamista in quanto anti-costituzionale perché promotore di attività anti-secolari.
7. L’ascesa dell’Akp e i difficili equilibri con le forze a difesa della laicità in
Turchia
Con le elezioni del 3 novembre 2002, per la prima volta la Turchia è guidata da un
partito islamista. Gli equilibri tra governo ed esercito e organi a difesa della laicità dello
Stato sono molto tesi.
Tuttavia il primo quinquennio è caratterizzato da una pacifica distensione. I generali,
la Corte Costituzionale, il Consiglio di Sicurezza Nazionale non intendono destabilizzare
l’ordine turco a pochi anni dalla crisi economica del 2000-2001. Il partito di Erdoğan in
discontinuità con le formazioni islamiste che l’hanno preceduto trova negli Stati Uniti e
soprattutto nell’Unione Europea un alleato e un modello a cui tendere.
La politica estera attivissima coinvolge l’apparato militare: la Turchia invierà
contingenti di pace in moltissime parti del mondo in particolare nei Balcani, nel Medio
Oriente e in Afghanistan. L’opposizione del Parlamento alla proposta statunitense circa
l’utilizzo del fronte sud-orientale turco per attaccare l’Iraq nel 2003 non provoca
particolarmente i militari: quella irachena è una guerra contestata non solo dal popolo
arabo, ma dalla stragrande maggioranza dei musulmani. Una Turchia capace di tenere testa
agli Stati Uniti non dispiace ad un esercito orgoglioso e nazionalista.
La politica estera dell’AKP presenta importanti novità con il passato di gestione del
potere kemalista. Tuttavia non mancano elementi di continuità. La politica estera dei
kemalisti aveva come priorità la logica di sicurezza nazionale e il coinvolgimento
dell’esercito. Prioritaria è sempre stata la lotta al separatismo kurdo. Le scelte di politica
66 estera di Erdoğan debuttano tutte con obiettivi securitari che solo successivamente portano
alla messa in pratica dei principi di Davutoğlu enuncianti in Profondità Strategica, in
primis il Neo-Ottomanesimo. Le politiche di distensione con Siria e Iran, sono prese in
collaborazione con le Autorità degli stati nemici al fine di combattere gli autonomisti
kurdi,
in
particolare
nell’alleanza
PKK
e
PJAK
(autonomisti
kurdi-iraniani).
L’emancipazione dagli Stati Uniti nel rifiuto dell’appoggio alla guerra in Iraq è motivato
da logiche di sicurezza: Saddam Hussein non era alleato di Ankara, ma la destabilizzazione
del regime iracheno minava alla sicurezza dei confini turchi, tra le regioni kurde d’Iraq e
Turchia. I militari si rendono conto del pericolo di mostrarsi alleati in una guerra odiata dai
musulmani e che urta agli interessi nazionali, securitari turchi.
Il distacco da Israele è successivo a queste iniziative distensive con i popoli arabi del
Medio Oriente. I musulmani al potere nei primi cinque anni di governo sono
particolarmente attenti ai discorsi e agli atti politici non volendo provocare gli organi a
difesa della laicità né inquietare la società civile turca. Le tensioni più rilevanti avvengono
in relazioni alla presenza delle mogli velate dei parlamentari dell’AKP. In diverse visite
ufficiali lungo il 2003 con i militari e il Presidente della Repubblica Sezer, descritto dagli
intellettuali turchi come “bastione della difesa della laicità” dello Stato, le mogli dei leader
del partito di governo, Erdoğan e Gül, non sono le benvenute. Mrs Emine Erdoğan è
dunque gradita alla Casa Bianca, ospite della famiglia Bush, ma non nell’abitazione del
Presidente nel suo Paese.
Questi nervosismi che non causano lo scontro istituzionale, provocano spesso ironia
da una parte dei turchi circa le eccessive rigidità del sistema. Il 27 aprile 2007 il Primo
Ministro Erdoğan rivolge un appello ai deputati della Grande Assemblea affinché votino al
primo turno il candidato alla presidenza Abdullah Gül, già Ministro degli Affari Esteri.
Quest’ultimo viene considerato dalle forze a difesa della laicità, come islamista ostile
alla laicità della stato. Contro la sua elezione, il Partito Repubblicano del Popolo, il CHP,
Cumhuriyet Halk Partisi, porta avanti un ostruzionismo parlamentare; si appella alla Corte
Costituzionale,
per
eccepire
un’eventuale
irregolarità
procedurale.
Alla
prima
convocazione dell’Assemblea (primo voto) gli Alti ufficiali dell’esercito diffondono un
comunicato via internet, battezzato “comunicato di mezzanotte” con cui si allertano i
67 cittadini sul rischio che l’appoggio monopartitico alla candidatura di Gül possa nuocere
alla laicità dello Stato, costringendo, in tal caso, a un eventuale intervento a tutela delle
Istituzioni. La Corte Costituzionale vigila sulle votazioni e ad Ankara, Smirne e Istanbul si
organizzano manifestazioni di piazza a difesa della laicità. L’atmosfera ricorda quella
precedente alla chiusura del Refah Partisi, circa dieci anni addietro. Erdoğan si difende con
l’attacco, sciogliendo anticipatamente l’Assemblea e indicendo nuove elezioni. Il 22 luglio
2007 si svolgono le sedicesime elezioni generali in Turchia. Le previsioni parlano di
un’alta astensione legata al periodo estivo. Gli elettori stupiscono: votano oltre l’84% dei
turchi, (nel 2002 il tasso era stato poco superiore al 79%). L’elettorato turco riconferma il
sostegno al partito di Erdoğan con uno sbalorditivo 46,6% delle preferenze (nel 2002 le
preferenze erano state del 34%).
Forte del sostegno popolare l’AKP riesce ad eleggere Abdullat Gül alla presidenza.
Gül è il primo Presidente della Repubblica “non solo musulmano, ma dichiaratamente
islamico”57. Sua moglie indossa pubblicamente il turban, causa di tante controversie
giudiziarie giunte persino davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
A elezioni appena concluse la Corte Costituzionale non sarebbe potuta intervenire
contro la scelta del Parlamento, se non provocando un conflitto senza precedenti con
l’Assemblea e gli elettori. Nell’estate 2007 l’AKP indice un referendum, approvato dai
turchi, per l’elezione diretta del Presidente. Il 12 settembre 2010 assistiamo all’ultima
riforma costituzionale. Erdoğan, come De Gaulle, si appella di nuovo agli elettori
attraverso un referendum costituzionale. Nonostante una forte opposizione nella regione a
maggioranza alevita e soprattutto nelle province più industrializzate ad ovest del Paese e
una fortissima astensione nella regione kurda, il 57,94% dei votanti è favorevole alla
riforma costituzionale. In essa viene ampliato il godimento dei diritti per le donne, i minori
, i disabili e gli anziani. Sono estese le libertà sindacali e il diritto allo sciopero. Viene
introdotta la figura dell’ombudsman e soprattutto si ridimensiona il potere dei militari
introducendo la possibilità di essere giudicati dai tribunali civili e riducendo il ruolo del
57 Michele Carducci, Beatrice Bernardini d’Arnesano, “Turchia: si governano così”. Il Mulino, Bologna, 2008. pg.
88
68 Consiglio di Sicurezza Nazionale (abolizione art. 15). Assistiamo ad un’importante riforma
della magistratura e ad un ampliamento del potere del Parlamento.
Quella del 2010 è solo l’ultima delle numerose revisioni costituzionali della Carta
fondamentale, il testo costituzionale del 1982 è stato emendato di quasi un terzo del suo
contenuto originario. Grande impulso alle revisioni provengono dall’Unione Europea,
Ankara cerca di adeguarsi agli standard democratici richiesti da Bruxelles. Revisionata nel
1987, 1993, 1995, 1999 (due volte), 2001, sotto la guida dell’AKP la Costituzione verrà
modificata nel 2004, 2007 e soprattutto con la più ampia revisione (seconda solo a quella
del 2001) del 12 settembre 2010.
Se la Costituzione del 1982 sanciva il ruolo autonomo predominante dell'esercito,
nella figura del Consiglio di Sicurezza Nazionale, l’AKP ha ridotto, nel corso degli anni e
mediante importanti riforme, lo status dei militari nella vita politica del Paese. Le riforme
riguardanti il controllo civile sui militari, sono state caldeggiate dall'Unione Europea, la
quale ha posto il problema come una priorità essenziale per garantire il funzionamento
democratico del Paese e ne ha fatto dunque una delle condizionalità cogenti per l'ingresso
della Turchia in Europa.
Nella revisione del 2001, 26 dei 36 articoli emendati, riguardano i diritti dell'uomo,
sulla spinta della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Il 24 novembre 2001 è stata anche
approvata la prima grande riforma del Codice Civile. Nel 2004, con la ratifica del
protocollo numero 13 della CEDU, è stata definitivamente abolita la pena di morte.
Revisioni considerevoli, per comprendere il processo storico di cambiamento che sta
vivendo la Turchia, riguardano le Istituzioni che storicamente sono state baluardi della
difesa della laicità repubblicana, in particolare il Presidente della Repubblica, il Consiglio
di Sicurezza Nazionale e la Corte Costituzionale. Abbiamo già parlato della modifica
istituzionale del 2007 che a seguito del più duro scontro tra forze kemaliste e musulmanopraticanti ha portato l’elezione diretta a suffragio universale del Presidente della
Repubblica.
Il Consiglio di Sicurezza Nazionale, nel 2001 vede modificata la sua composizione a
favore dei membri civili su quelli militari riconducendo la sua natura a quella di “advisory
69 body”. Nel 2003 perde la possibilità d accesso incondizionato in tutte le agenzie civili
(supervisione al cinema e alla musica). Nel 2004 viene eletto il primo diplomatico civile
come Segretario generale del MGK. Nel 2006 il Codice Penale Militare viene modificato
per impedire l’estensione della giurisdizione delle corti militari sui civili.
Anche la Corte Costituzionale subisce delle modifiche importanti. Già nel 2001 a
seguito di un dialogo con la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, venivano emendati gli
articoli 68 e 149 della Costituzione circa lo scioglimento dei Partiti. Possono essere
imposte sanzioni ai partiti politici, se le azioni commesse dai suoi membri violino un
numero sostanziale di principi. La Corte, in luogo della completa dissoluzione, opererà
quindi attraverso strumenti restrittivi nei confronti di tali partiti (ad esempio attraverso
tagli al finanziamento pubblico). La Corte Costituzionale per sciogliere un partito
necessiterà della maggioranza dei tre quinti, maggioranza più che assoluta. Così come per
il Consiglio di Sicurezza Nazionale, la sua composizione viene allargata a diciassette
membri. Al Presidente della Repubblica viene accordata la prerogativa di nominarne
quattordici, i restanti tre saranno nominati dall'Assemblea Nazionale. Questo emendamento
attribuirà al Capo dello Stato un potere senza precedenti. Con l'emendamento dell'articolo
147, si stabilisce che i giudici rimangano in carica per dodici anni, senza la possibilità di
essere rieletti (prima della riforma i giudici erano inamovibili e restavano in carica fino a
65 anni). La loro carica è, inoltre, incompatibile con qualsiasi altro tipo di mandato.
8. Le elezioni del 12 giugno 2011
Le ultime elezioni confermano il sostegno popolare alle politiche del partito di
governo.
La vittoria è favorita anche dalla crisi del primo partito di opposizione, il CHP,
Cumhuriyet Halk Partisi, il Partito Repubblicano del Popolo. Dall’origine del
pluripartitismo nel 1950 il CHP, di diretta derivazione kemalista, che ha sempre adottato
una logica conservatrice dei principi costituzionali, è in lento declino elettorale. Ad oggi il
Partito raggiunge a malapena il 20% dei consensi. Secondo il politologo Hamit Bozarslan:
“Il principale movimento d’opposizione [all’AKP] è il Partito Repubblicano del Popolo
(CHP) che si presenta come social-democratico, ma che durante gli anni duemila si è
caratterizzato per una posizione proto-fascista e ultra-nazionalista”. Il CHP non è guidato
70 oggi dal suo leader carismatico, Deniz Baykal, il quale è stato costretto ad abbandonare la
vita politica a causa di uno scandalo sessuale. Il Segretario del Partito è oggi Kemal
Kiricdaroglu. Quest’ultimo ha origini kurdo-alevite, tuttavia non ha mai dimostrato
l’intenzione, o il coraggio di dichiarale. Al contrario in piena coerenza con il Partito
dimostra nei confronti del movimento kurdo una forte rigidità nazionalista turca.
Kiricdaroglu è quello che molti kurdi considerano un “collaborazionista”. Nella lunga lotta
per il diritto alla liberazione nazionale tra PKK e Stato turco i morti sono oltre trentacinque
mila. La maggior parte degli obiettivi del PKK sono sempre stati i Guardiani dei Villaggi,
ovvero i kurdi che collaboravano con la Autorità turche per mantenere la pace e il controllo
del territorio del sud-est. Personalità come Kiricdaroglu o molti altri esponenti dell’AKP
sono criticati fortemente dalle anime più dure del Movimento kurdo. In Turchia essere
kurdo non vuol dire di conseguenza appoggiarne la causa.
Il 29 luglio 2011, il Capo di Stato Maggiore Isik Kosaner, i Capi di Esercito, Marina e
Aereonautica della Repubblica di Turchia hanno rassegnato le dimissioni dal loro incarico
richiedendo il
pensionamento anticipato.
Il gesto in piena opposizione al Governo
dell’AKP, precede di pochi giorni il vertice del Consiglio Militare Supremo Turco (YAS)
sede in cui vengono decisi gli avanzamenti, incarichi e licenziamenti degli alti ufficiali. I
quattro protestano contro l’impossibilità di avanzamento di diversi militari arrestati con
l’accusa di aver partecipato al tentativo di golpe Bayloz e all’organizzazione clandestina
Ergenekon. Bayloz, Colpo di Martello, che secondo i magistrati aveva l’obiettivo nel 2003
di mettere fine al Governo Erdoğan, ha già portato agli arresti 250 appartenenti alle forze
armate. L’operazione contro gli ultranazionalisti cospiratori di Ergenekon (nome ripreso
dal mitico luogo dell’Asia centrale focolare di tutte le stirpe turche) ha portato all’arresto
di centinaia di persone, tra cui giornalisti, politici, accademici.
Le risposte di Erdoğan alle dimissioni dei militari sono sembrate calme e composte
ribadendo la volontà di revisionare la Costituzione ridimensionando ulteriormente il potere
dei militari.
Il 5 gennaio 2012 L’ex Capo di Stato maggiore turco, Ilker Basbug, è stato arrestato
per ordine della Procura di Istanbul. E’ la prima volta che il più alto grado dei militari
71 viene sottoposto ad un procedimento penale in Turchia, l’accusa è la cospirazione contro il
governo di Ankara guidato dall’AKP.
Lo scontro genetico tra l’esercito laicista e il potere politico d’ispirazione musulmana
è in una svolta: oggi non è più il potere politico a essere subalterno a quello militare, come
è sempre stato prima dell’ascesa dell’AKP. Ma la classe militare è ancora molto potente e
amata dal 50% della popolazione turca.
Abbiamo visto come la quasi-devozione per tale istituzione nasca in seguito allo
smembramento dell’Impero Ottomano: il vecchio regime ottomano aveva perso oltre alla
Prima Guerra Mondiale anche tutta la credibilità della popolazione. L’esercito diventò il
punto centrale del movimento nazionalista a causa della sua vittoria nella guerra di
indipendenza, non vi erano entità rivali nel vecchio regime.
9. Le aperture della società civile laica agli islamici moderati: tra timori e
convivenza pacifica
La pratica privata della religione è oggi largamente accettata anche all’interno dei
circoli più secolari. E’ meno comune da parte dei laici l’associazione automatica della
pratica religiosa alla cultura arabo-mediorientale. Tuttavia permangono paure di
un’islamizzazione della società e il desiderio di prevenire tale condizione al fine di
difendere lo stile di vita occidentale. La società civile laica, in particolare la classe media,
teme primariamente un condizionamento dei costumi; la classe politica secolare, l’élite
imprenditoriale e intellettuale, è più spaventata circa l’Islam politico e lo slittamento
strategico della Turchia verso est.
“Much of the secular urban middle class views the implications of Islamist influence
through a “lifestyle” lens. Concerns about political Islam per se or a strategic drift to the
“East” are more prevalent among intellectuals, business elites, and secular political
class.”58
58 Angel Rabasa, F. Stephen Larrabee. “The Rise of Political Islam in Turkey”. RAND, National Defense
Research Institute, 2008 Santa Monica (Ca). pgg 3-4. 72 Nonostante gli episodi di frizione tra civili e militari, legati in particolare ai casi
Ergenekon e Bayloz, negli ultimi anni i rapporti tra Islam politico e potere militare
sembrano assumere un tono più cooperativo. Nonostante l’attenzione a difesa della laicità e
indivisibilità della Nazione rimanga sempre alta, dopo dieci anni di governo, l’AKP
riformatore, ma non rivoluzionario viene accettato dalle Forze Armate. Il partito di
Erdoğan negli ultimi anni sembra aver mosso la sua linea politica in senso sempre più
nazionalista.
Il nazionalismo avvicina l’AKP alle forze secolari. Le dichiarazioni di condanna del
terrorismo legato all’indipendentismo kurdo fanno presa sulla popolazione turca. Circa la
lotta al Pkk, il fatto di lasciare carta bianca all’esercito sulle incursioni nel nord dell’Iraq
soddisfano il TSK (sigla delle Forze Armate Turche). Il ritrovato orgoglio turco capace di
rispondere alle provocazioni dell’Europa di Nikolas Sarkozy e Angela Merkel riceve un
consenso generale. L’attivismo della politica estera turca presente in numerose missioni di
pace al mondo (si pensi alla Georgia, Libano, Bosnia-Erzegovina, Kossovo, Afghanistan)
accontenta i militari.
La società turca, anche a causa del particolare sistema educativo, della peculiare
posizione geografica e della storia e tradizioni, è sempre stata caratterizzata da un marcato
nazionalismo. Benché si trattasse di un unico popolo in un unico Paese, per decenni il
nazionalismo dei kemalisti era in diretta opposizione a quello dei musulmani praticanti. I
primi in politica estera immaginavano una Turchia forte tra le potenze occidentali, i
secondi una Turchia guida tra i Paesi musulmani. La fine della guerra fredda e dei difficili
anni ’90 culminati con la crisi economica-finanziaria del 2000-2001, porta al
ricongiungimento di un unico nazionalismo portato avanti da un partito islamista sostenuto
da diverse componenti della società.
La Turchia si smarca dai limiti precedenti ed è libera di guardare oggi ad ovest quanto
ad est, politica considerata vincente tanto dai musulmani praticanti, tanto dalle forze
secolari come i militari (attore importante nella politica estera turca). Il nazionalismo di
oggi risulta da un pluralismo interno e dall’accettazione reciproca di due diverse anime: i
musulmani praticanti e i kemalisti.
73 1.c Kurdi
I kurdi sono la minoranza musulmana più numerosa di Turchia. Difficilmente
conteggiabili per via della carenza di statistiche e censimenti ufficiali, si pensa siano pari a
circa un quarto della popolazione turca. La cifra complessiva dei kurdi di Turchia varia dai
diciotto ai venticinque milioni.
Il popolo kurdo è autoctono della zona di Mesopotamia. Gli storici considerano i kurdi
come appartenenti al ramo iraniano della grande famiglia dei popoli indo-europei. I
nazionalisti kurdi datano il debutto dell’era kurda al 612 avanti Cristo, data di fondazione
dell’Impero dei Medi a seguito della conquista sugli assiri e la dominazione di tutto l’Iran e
dell’Anatolia centrale.
Le invasioni turco-mongole nella seconda metà del quindicesimo secolo compattano i
kurdi in un’entità autonoma, uniti dalla loro lingua, cultura e civilizzazione, ma
frammentati in una serie di principati. La coscienza d’appartenenza ad un unico Paese
prende forma. Il Kurdistan, terra dei kurdi, non prende forma in un’unica entità statale.
Tale territorio comprende una zona divisa nelle periferie di quattro Stati: Turchia, Siria,
Iraq e Iran.
I confini statali accentuano le differenze tra kurdi dai diversi passaporti portandoli
spesso ad essere strumento di uno Stato nella lotta contro un altro. Nella guerra tra Iraq di
Saddam Hussein e Iran dell’Ayatollah Khomeini (1980-’88), gli iraniani armarono i kurdi
iracheni contro il regime di Saddam, e similmente fece quest’ultimo nei confronti dei kurdi
iraniani. Ciò ha portato ad una lotta fratricida tra kurdi e una concentrazione della violenza
proprio nelle regioni a maggioranza kurda. Si pensi alle bombe chimiche utilizzate da
Saddam per reprimere la resistenza kurda all’interno dei suoi confini nazionali tra il 1987 e
il 1988.
Se la maggioranza dei kurdi abita nella regione tra i quattro Stati, le difficoltà
economiche, le instabilità politiche e i disordini sociali hanno imposto un fenomeno di
migrazione verso i grandi centri dei propri Paesi o all’estero. Masse di kurdi di Turchia
costretti dalla miseria o dagli scontri tra indipendentisti ed esercito, abbandonano il sud-est
74 dell’Anatolia per abitare i grandi centri turchi, in particolare Istanbul, dove si stimano oltre
due milioni e mezzo di kurdi.
La diaspora kurda nel mondo vede una forte presenza degli stessi nei territori dei
Paesi ex-sovietici, in Afghanistan, negli Stati Uniti e Canada e soprattutto in Europa, in
particolare in Germania, Francia, Inghilterra, Belgio e Paesi Scandinavi. I migranti si fanno
ambasciatori dei disagi delle genti dei luoghi originari, promuovendo attività per la
conoscenza della questione kurda. I kurdi espatriati, spesso compattandosi nella loro
comunità, costituiscono un punto di forza per la lotta kurda. Soprattutto negli anni ’90 dal
nord Europa arrivavano sostegni di tipo economico-strategici alla lotta del PKK dei kurdi
di Turchia. L’Unione Europea che fa dei diritti umani una condizionalità di adesione e
cooperazione allo sviluppo, pone la questione kurda all’ordine del giorno nei Paesi in cui
vivono, in particolare nei confronti dell’europea Turchia. La questione kurda assieme al
riconoscimento del genocidio armeno e all’occupazione di Cipro nord è un punto
imprescindibile nei negoziati con Bruxelles.
1. I kurdi nell’impero ottomano
Agli inizi del sedicesimo secolo le terre abitate dai kurdi divengono il centro degli
scontri tra Impero Ottomano e Persiano. A fronte delle espansioni dello Scià di Persia che
intende imporre lo Sciismo, gli Ottomani hanno interesse nell’assicurare le proprie
frontiere orientali per poter iniziare una campagna di espansione verso i Paesi arabi. Nel
1514 nella battaglia di Çaldıran, il sultano Selim I infligge una pesante sconfitta allo Scià
Ismail I. L’Armenia e il Kurdistan sono annessi all’Impero Ottomano. Temendo che la sua
vittoria non sia sufficiente per mantenere stabile un territorio di confine tanto vasto e
strategico, il Sultano riconosce ai principi kurdi i loro diritti e privilegi antecedenti in
cambio della difesa delle frontiere dell’Impero in caso di conflitto perso-ottomano.
Il territorio viene diviso in Sangiaccati e Distretti, lasciando grande autonomia ai
kurdi. Lo status speciale del Kurdistan assicura tre anni di pace e auto-governo. Questo
atteggiamento nei confronti dei kurdi non si discosta particolarmente dalle pratiche
dell’Impero Ottomano, che nasce nel territorio anatolico proprio dall’unione di diverse
religioni, strutture politiche e popolazioni. L’Impero Ottomano abitato prevalentemente da
75 musulmani favorisce l’espansione dell’Islam, lottando per esso; tuttavia, nonostante secoli
di dominazione, in particolare nelle province europee la maggioranza della popolazione
continuerà ad essere cristiana. Armeni, Bulgari, Greci, Serbi professano la propria
religione sotto il dominio ottomano partecipando attivamente all’economia, alla milizia e
alla cultura dell’Impero. Gli incentivi alla conversione erano numerosi: convertirsi
all’Islam avrebbe significato una minore tassazione, una più agevole ascesa nella
burocrazia e nell’esercito, in generale un numero maggiore di privilegi.
Tuttavia il concetto di tolleranza nell’Impero Ottomano implica l’accettazione della
differenza. Gli ottomani temono l’incubo della disgregazione e instabilità. Le loro
conquiste sono accompagnate da un ristabilimento degli equilibri precedenti. Il principio è
quello del divide et impera di tipo romano. Le differenze dei popoli conquistati sono
riconosciute e cristallizzate. Un poeta ottomano descrive la politica di conquista e divide et
impera come la neve che cade in un frutteto e ghiaccia i frutti, così l’Impero conquista e
esalta le differenze, al fine di non unire i conquistati ad una lotta di indipendenza. “In
conquering the Balkans in the fourteenth century, Turks did not, either at the time or later,
think about denationalizing other peoples or imposing upon them a different culture. The
Turkish rule may be compared to the snow that covers up the crop and protects them
against winter freeze.”59
Popoli musulmani quali kurdi o arabi, i cristiani ortodossi, gli ebrei, vengono coinvolti
nell’amministrazione dell’Impero. Gli appartenenti ai diversi culti hanno grande autonomia
all’interno del loro Millet. Con il termine “Millet” s’intendono quelle comunità religiose o
Nazioni organizzate secondo una propria legislazione e leader religiosi, responsabili al
Governo centrale solo per alcuni doveri quali le imposte e il mantenimento della sicurezza
interna.
“Toleration in the Ottoman Empire was not simply overlooking another person’s
inappropriate behaviour like talking loudly, dressing improperly, and the like, but living
harmoniously with people whose worldviews were quite different. Non-acceptance, thus
59
Kemal H. Karpat, “The Memoirs of N. Batzaria: The Young Turks and Nationalism”, International Journal
of Middle East Studies 6 (1975), p. 293.
76 discrimination, implies the adoption of a universalistic conception of justice. In
recognizing other religions, Islam, in the Ottoman context, did not insist on own its
universalism at the expense of others. Consequently, there was no logical reason to
transform the difference into sameness. Groups did not have to be similar for them to have
a place in the overall arrangement. Difference between diverse ethnic and religious groups
was not eradicated; different ethnic and religious groups were vertically integrated into the
state”60.
Non vi era un progetto universale di omogeneizzazione. Nell’Impero venivano
utilizzate due categorie: Musulmani e non-Musulmani. Non vi erano criteri di etnia. I
vertici ottomani parlavano principalmente turco, utilizzata come lingua veicolare. Il
termine “turco” connotava l’etnia turca, albanese e kurda (ma non araba). Ai kurdi veniva
lasciata molta autonomia, dal punto di vista pragmatico, era molto difficile controllare una
regione con una tale conformazione territoriale. Nelle montagne i kurdi hanno sempre
difeso la loro indipendenza anche precedentemente al periodo ottomano nei confronti di
assiri, macedoni, romani, parti, persiani, arabi e mongoli.
L’interesse dell’area per gli ottomani risiedeva nella necessità di difendere i confini
orientali dell’Impero, non c’era il desiderio o la necessità di sottomettere i kurdi o
assimilarli. Le uniche richieste dal Governo centrale riguardavano imposte e leva militare.
Fino al tardo diciannovesimo secolo gli ottomani permettevano l’uso di nomi kurdi
per i centri geografici nel Kurdistan così come dovunque nell’Impero. Durante il
diciannovesimo secolo, essendo l’Impero minacciato dalle potenze europee, intraprende un
controllo gradualmente più stretto nei confronti dei Millet non-musulmani, limitandone
libertà e autonomie.
Già dal Tanzimat e lungo tutta la fase di ispirazione agli Stati europei come modelli
per riformare l’Impero, gli ottomani intraprendono una serie di riforme adottando politiche
di centralizzazione prendendo misure contro i potentati locali, compresi quelli Kurdi, e
60
Metin Heper, “The State and Kurds in Turkey”. Palgrave Macmillan. 2007, New York. p 27
77 esercitando in tali zone un più stretto controllo dell’autorità centrale. Per tale obiettivo,
tuttavia gli ottomani hanno sempre preferito astenersi da politiche etniche.
La centralizzazione è gradualmente più stringente. La sconfitta militare con la Russia
negli anni 1877-78 scatena l’allarme di una penetrazione delle potenze nemiche europee
attraverso le minoranze religiose e la volontà di unire i popoli musulmani. La
centralizzazione provoca resistenze dei non-turchi: kurdi, arabi, albanesi. Ai kurdi si
richiede un incremento della coscrizione, una confisca delle armi e l’uso coatto
dell’alfabeto arabo a discapito di quello persiano.
I capi clan nelle ribellioni dei kurdi tuttavia non chiedono la secessione dal Governo
centrale, in quanto si identificano nel Califfato di Istanbul. La legittimità dei capi tribù
risiedeva proprio nel campo religioso, per loro, essere parti dell’Impero musulmano
piuttosto che di un’entità indipendente kurda era preferibile: in uno Stato kurdo i capi
avrebbero perso la loro base di legittimazione religiosa.
Durante il regno di Abdul-Hamid II si cerca di limare le differenze attraverso una
politica di scolarizzazione ed integrazione. L’assimilazione viene descritta dal Sultano
come irrazionale. Secondo il Sultano turchi, kurdi, albanesi e arabi, sono fratelli di
un’unica famiglia tenuti insieme dalle fede islamica. Abdul-Hamid II disdegna l’idea di
un’unica nazione: all’interno di un Impero possono convivere diverse anime.
2. Nascita del Nazionalismo
Il movimento dei Giovani Turchi nasce nel 1889 da gruppi diversi di studenti che,
ispirati dai Carbonari italiani, condividono ideali modernisti e riformatori in opposizione
alle restaurazioni del Sultano Abdul-Hamid II. Nel 1906 viene fondata la Commissione per
l’Unione e il Progresso, il CUP il quale si batte per una monarchia costituzionale.
Il CUP rappresenta principalmente i Giovani Turchi, ma al suo interno troviamo altri
movimenti ed esponenti di molte popolazioni oltre ai turchi: albanesi, bulgari, arabi, serbi,
ebrei, greci, kurdi ed armeni. Il movimento dei Giovani Turchi guida la rivoluzione del
1908 che depone Abdul-Hamid II in favore di Mehmet V e inaugura la seconda stagione
costituzionale.
78 Nei Giovani Turchi emergono alcuni elementi di rottura con la cultura ottomana: in
primis il nazionalismo. Il nazionalismo era un concetto estraneo alla cultura ottomana. Un
Impero eterogeneo che non vuole provocare una disgregazione, essendo così esteso,
necessita di trovare altri paradigmi a fondamento dell’Unione quali il pluralismo, la
convivenza, la tolleranza.
Dopo un secolo d’imitazione dei modi e della cultura europea, oltre alle idee di
riforma dell’esercito e dell’amministrazione, altre teorie penetrano tra i pensatori turchi. Il
nazionalismo e gli ideali della rivoluzione francese che s’irradiano tra gli intellettuali
tedeschi ed italiani a seguito delle conquiste napoleoniche, arrivano sino in Turchia. La
Prima Guerra Mondiale rompe decenni di pace nel suolo europeo, lo scontro sarà in nome
del nazionalismo e porterà alla lotta tra popoli.
Il Panturanesimo è un movimento politico per l’unione dei popoli turanici. Ciò
implica un concetto di razza turca che originata nel luogo leggendario di Ergenekon in
Mongolia, è scesa passando per lo Xinjiang cinese, il Kazakistan, il Kyrgyzstan,
l’Uzbekistan, il Turkmenistan, l’Azerbaijan sino all’Anatolia. I Giovani Turchi influenzati
dalle idee di pan-germanesimo o pan-slavismo sviluppano tale concetto. I tempi sono
quelli precedenti la Prima Guerra Mondiale. I Giovani Turchi vedono nelle crisi zariste e
nell’alleanza con la Germania, la possibilità di attrarre i popoli legati dalla lingua e storia
turca.
Ziya Gökalp, attivista politico e intellettuale del movimento dei Giovani Turchi
esprime in questo modo l’idea di nazione:
“A nation [that] is not a racial or ethnic or geographic or political or volitional group
but one composed of individuals who share a common language, religion, morality, and
aesthetics, that is to say, who have received the same education."61.
Il nazionalismo turco si afferma in un periodo di sviluppo della coscienza nazionale
nei Millet non-musulmani, rafforzate dalle potenze europee nemiche dell’Impero
61
Taha Parla, “The Social and Political Tought of Ziya Gökalp”, 1876 - 1924. Social, Economic and Political
Studies of the Middle East. Volume XXXV, pg: 34
79 Ottomano e dai moti secessionisti dei musulmani non turchi. Le cruente guerre balcaniche
del 1912-13, segneranno l’emergere del nazionalismo turco, nella sua visione turanica.
Nella prima guerra balcanica, 1912, Serbia, Montenegro, Bulgaria e Grecia dichiarano
guerra all’Impero Ottomano portando il suo arretramento nei Balcani e la costituzione di
un’Albania indipendente. La seconda guerra balcanica, questa volta contro la Bulgaria,
vede una Turchia schierata con gli ex Stati rivali, ma tuttavia meno influente in regione
rispetto alla Serbia in ascesa.
I Giovani Turchi si percepiscono come gli strenui difensori dell’Impero. In apparenza
il nazionalismo è un modello alternativo all’idea di ottomanesimo islamico portato avanti
da Abdul-Hamid II. Tuttavia nel CUP sono presenti non solo esponenti del popolo turco. I
Giovani Turchi coinvolgendo kurdi, albanesi e arabi intendono presentare il panturanesimo
come elemento rafforzativo dell’ottomanesimo, non alternativo. L’Impero Ottomano
subisce cocenti sconfitte durante la prima guerra mondiale. Il livello di violenza è
altissimo, simile a quello di una guerra civile in cui modelli alternativi si abbattono uno
contro l’altro sino all’esaurimento, all’annullamento di una parte a favore dell’altra62. In
questo turbine di violenza il senso di accerchiamento e disperazione dei turchi provoca una
delle più grandi tragedie del ventesimo secolo: il genocidio armeno.
Episodi di violenza contro gli armeni erano iniziati negli ultimi decenni del periodo
imperiale, nella fase di costruzione di un ottomanismo-islamico contro gli oppositori non
musulmani. In anni di debolezza dell’Impero Zarista è più facile scatenare violenze contro
gli armeni piuttosto che contro le popolazioni non-musulmane in altre zone dell’Impero.
Nel 1915 gli armeni erano accusati di tramare con i russi contro l’Impero Ottomano. A
testimonianza odierna della più efferata tragedia della Prima Guerra Mondiale, non vi è
una memoria condivisa. Secondo i turchi non si sarebbe trattato di un genocidio, ma di un
massacro di non più di trecentomila armeni. Secondo gli armeni il numero dei morti si
avvicina intorno al milione e mezzo.
62
Dan Diner, “Raccontare il novecento”, Garzanti, Milano, 2007. p 98
80 La fine della guerra e il trauma di Sèvres portano i Giovani Turchi a compattarsi
contro le potenze straniere verso una guerra di liberazione nazionale. I turchi si stringono
sotto la bandiera del nazionalismo. Mustafah Kemal Atatürk, liberata l’Anatolia dal
dominio straniero, utilizzerà il nazionalismo per fondare la Repubblica.
La Turchia a causa dei massacri intra-religiosi, dello sterminio degli armeni, degli
scambi di residenti cristiani con musulmani, vede al suo interno una popolazione
essenzialmente musulmana. Non tutti gli abitanti di Turchia sono turchi: vi sono moltissimi
abitanti provenienti dai Balcani, in particolare Bosnia ed Albania, vi sono caucasici e
Kurdi.
Tutte le popolazioni non-turche musulmane, eccettuati i kurdi, rappresentano una
piccola parte di popolazione, non raggruppate in grandi comunità. Interesse di Ankara è
quello di assimilare tali popolazioni distribuendole all’interno del territorio. Notiamo una
particolare apertura nella concessione della cittadinanza e accoglienza nei riguardi di
queste popolazioni.
Nei confronti dei kurdi l’atteggiamento appare opposto: se nei primi anni di
fondazione dal 1923 al 1928 l’elemento Islam univa i diversi popoli di Turchia sotto la
religione, quando l’Islam lascia spazio al principio della laicità militante viene negata
l’esistenza dei kurdi. Se fino a pochi anni prima i kurdi ricoprivano importanti cariche
imperiali, avevano combattuto a difesa dell’Impero e avevano persino preso parte al
genocidio armeno, pochi anni sono sufficienti a negarne l’esistenza da parte delle Autorità
turche.
La popolazione kurda differisce nelle caratteristiche dagli altri musulmani non turchi.
I kurdi costituiscono oltre il 10% della popolazione totale, sono concentrati in una precisa
zona geografica. Inoltre la loro storia li contraddistingue per forte volontà di autonomia e
indipendenza. I kurdi abitano nella periferia turca ai cui confini si trovano altri Stati: Siria,
Iraq, Iran le zone prossime alla Turchia sono abitate da kurdi. La zona kurda è ricca di
materie prime (in primis l’acqua) e si trova in una posizione strategica e complicata.
Dopo aver definito i kurdi “turchi di montagna” e negato loro diritti linguistici e di
autonomia, Ankara ha interesse a mantenere la zona abitata dai kurdi come calma e
81 controllata. Si preferisce mantenere la regione agricola, agricola lontana dagli sviluppi
tecnologici e industriali nel resto del territorio turco. La regione è bene che rimanga
povera, retta da un sistema agricolo di tipo feudale, in cui latifondisti controllano il
territorio mantenendolo arretrato.
La Repubblica teme spinte secessioniste: non è possibile mettere in discussione
l’indivisibilità del territorio turco. A custodia del territorio turco vi sono i militari. Il
nazionalismo diviene strumento di fondazione repubblicana: la Turchia dev’essere forte e
unita. Per tale motivo non possono essere riconosciute altre entità al di fuori dei turchi, a
meno che inoffensive, come le esigue minoranze cristiane ed ebree, o le minoranze
musulmane anch’esse modeste come i bosniaci, i caucasici e gli albanesi.
Il kemalismo pur presentando elementi di continuità con gli ultimi decenni imperiali
dal Tanzimat in poi, si presenta come nuovo e rivoluzionario, pronto a riformare la donna e
l’uomo turco. Durante gli anni ’30 idee di razza ed esaltazione della Nazione provenienti
dagli autoritarismi e totalitarismi europei (in primis quello nazista), influenzano gli
amministratori turchi. I detentori del potere d’ora in avanti dovranno sposare l’ideale di
Turchia unica e indivisibile, turco-ablante, laica, ancorata all’occidente e nazionalista.
I kurdi escono fuori dalla stanza dei bottoni del potere e dell’amministrazione. Ai
kurdi sarà vietata la loro lingua, cambieranno i nomi di persone e città. Le libertà saranno
limitate in nome dell’indivisibilità della nazione. La storia della Repubblica è caratterizzata
sì da un’evoluzione graduale delle libertà fondamentali e diritti, tuttavia in modo molto
lento e sempre cooptato dalle Autorità di governo. La neutralità nella seconda guerra
mondiale, difende gli equilibri turchi da scossoni sistemici, preservando il ruolo primario
dei militari e la sacralità dei principi fondatori.
La situazione di squilibrio delle libertà e dei diritti continua per tutta la Guerra Fredda:
la Turchia nel Medio Oriente è il bastione moderno, laico e fedele del polo occidentale. I
musulmani laici ed europeisti non ostili ad Israele sono circondati da un’armata rossa
aggressiva, da arabi ostili e da un Iran anti-americano. L’occidente tollera deroghe ai diritti
e alle libertà di parti della popolazione in nome della tutela dell’alleato turco, affinché
rimanga tale.
82 3. La fine della guerra fredda e il ritorno in auge del movimento separatista
kurdo
La guerra fredda termina e negli anni ’90 la Comunità Internazionale riscopre i diritti
umani a discapito del dominio riservato degli Stati. Negli ambiti dei diritti e libertà
fondamentali, a fare pressioni sulla Turchia vi sono due organizzazioni internazionali: la
prima nasce dall’evoluzione di un organismo internazionale di cooperazione economica in
uno di più ampie e ambiziose competenze, l’Unione Europea, l’altro è il Consiglio
d’Europa e dunque la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che vive uno storico
allargamento ai Paesi ad Est di Berlino.
La questione kurda nell’opinione pubblica europea prende vita a seguito delle
informazioni date dai mezzi di comunicazione di massa. Gli anni ’90 rivoluzionano l’idea
di comunicazione, i giornalisti sono più liberi di trasmettere le informazioni le quali
viaggiano veloci. Le immagini di violenza e disperazione dei kurdi iracheni vittime dei
bombardamenti di Saddam Hussein non lasciano indifferenti. I televisori tedeschi
proiettano video di violenza e scontri tra esercito turco e indipendentisti kurdi, i carri
armati sono prodotti dalla Germania e il pubblico si sdegna. L’arrivo di barconi che
trasportano kurdi, provenienti dalla Turchia e che sbarcano nelle coste italiane, sconcertano
l’opinione pubblica del Paese.
La diaspora kurda si fa ambasciatrice in tutto il mondo dei disagi che vive il popolo
kurdo nei luoghi di origine, in particolare nel sud-est Anatolia. Negli anni ’90, la Turchia
consolida l’interesse di entrare a far parte del progetto di Unione Europea. Per rispettare i
criteri di Copenhagen per l’adesione deve intraprendere un nuovo atteggiamento nei
confronti della minoranza più numerosa.
Le Forze Armate turche temendo un ridimensionamento del loro ruolo portante si
presentano al mondo come difensori del carattere laico del Paese, ancora soggetto a derive
anti-occidentali (in questo senso si può spiegare il colpo di stato post-moderno del 1997), e
difensori dell’unità nazionale e della lotta al terrorismo. I militari assumono un
atteggiamento sempre più intransigente nei confronti dei moti indipendentisti kurdi.
83 I kurdi assistendo alla primavera dei popoli post-dominazione sovietica rafforzano le
file del PKK, il movimento dei Lavoratori del Kurdistan, che prende il monopolio della
lotta di liberazione nazionale. Negli anni ’90 le file del PKK si riempiono di giovani donne
e uomini, i guerriglieri trovano rifugio nei villaggi dell’Anatolia. Lo scontro assume le
caratteristiche di una guerra civile tra le Forze Armate turche e il PKK che riceve un
consenso maggioritario tra i kurdi.
La lotta armata è accompagnata da un’opera diplomatica di pressioni internazionali e
dai tentativi di evolvere la situazione attraverso mezzi istituzionali. Si susseguono
formazioni politiche che, con una certa regolarità, vengono sciolte dalla Corte
Costituzionale turca su impulso dei militari attraverso l’MGK, il Consiglio di Sicurezza
Nazionale.
Il Partito Laburista del Popolo, Halkın Emek Partisi, Hep, fondato il 7 giugno 1990,
viene sciolto nel luglio 1993. Alcuni esponenti del partito si candidano nelle fila del
Partito Social-Democratico, SHP. Sedici dei ventidue candidati esponenti dell’Hep
vengono eletti tra gli indipendenti nella Grande Assemblea Nazionale. Tra questi c’è Leyla
Zana, la prima donna kurda eletta nel Parlamento turco. La carriera di parlamentare sarà
tuttavia brevissima: Leyla Zana terminerà il suo discorso di giuramento all’Assemblea in
lingua kurda provocando l’ira dei deputati. Per questa ragione sarà accusata di separatismo
e condannata a quindici anni di carcere. Dal mondo nascono appelli circa la sua
liberazione: il Parlamento Europeo attribuisce nel 1995 il premio Sakharov per la libertà di
pensiero a Leyla Zana. Viene candidata al premio Nobel per la pace nel 1995 e nel 1998.
Dopo un lungo iter processuale dal 2001 al 2004, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
condanna lo Stato turco per illegittimità del processo che ha portato all’incarcerazione di
Leyla Zana.
Nel frattempo viene fondato il Partito Democratico, Demokrasi Partisi, Dep, chiuso il
16 giugno del 1994. Nasce in seguito una nuova formazione kurda, il Partito Democratico
del Popolo, Halkın Demokrasi Partisi, Hadep, sciolto il 13 marzo 2003.
Il Partito della Società Democratica, Demokratik ve Toplum Partisi, Dtp, fondato in
vista delle elezioni parlamentari del 2007, viene sciolto l’11 dicembre 2009.
84 4. La democrazia come rimedio alla violenza
L’impulso dell’Unione Europea è stato determinante nell’evoluzione dei rapporti tra
governi di Ankara e kurdi. Nella seconda parte degli anni ’90 l’Unione Europea manda
messaggi chiari alla Turchia: la fine delle contrattazioni dell’Unione doganale e la ripresa
della cooperazione finanziaria (’95), il Consiglio Europeo di Lussemburgo (‘97) ed infine
il Consiglio Europeo di Helsinki (‘99) sanciscono la piena candidatura della Turchia
all’UE a condizioni che si rispettino i criteri di adesione di Copenhagen.
L’ascesa al potere dell’AKP, partito che basa la sua campagna elettorale proprio
sull’adesione all’Unione avvicinano come non mai Ankara e Bruxelles. Il partito di
Erdoğan si ancora all’Europa per prevenire tentativi di scioglimento da parte delle
Istituzioni fermamente legate alla tutela della laicità.
I criteri di Copenaghen sono i seguenti:
Criterio politico: presenza d’istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo stato
di diritto, i diritti dell'uomo, il rispetto delle minoranze e la loro tutela.
Criterio economico: esistenza di un'economia di mercato affidabile, capacità di far
fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale all'interno dell'Unione.
Criterio dell'"acquis comunitario": l'attitudine necessaria per accettare gli obblighi
derivanti dall'adesione e, segnatamente, gli obiettivi dell'unione politica, economica e
monetaria. Affinché il Consiglio europeo possa decidere di aprire i negoziati, deve risultare
rispettato il criterio politico.63
Circa il criterio economico, la Turchia può dirsi quasi totalmente integrata (se si
escludono la libertà di circolazione delle persone e gli aiuti all’agricoltura). Turchia e
Comunità Economica Europea iniziano negoziati di cooperazione economico-commerciali
nel 1963 con gli Accordi di Ankara. Le liberalizzazioni e le riforme in tal senso a seguito
della crisi del 2000-01 soddisfano gli interlocutori europei.
Il Parlamento turco si prodiga verso l’armonizzazione dell’acquis communautaire
effettuando riforme significative per consolidare il carattere democratico del regime.
63
“Criteri di Copenhagen, http://europa.eu/scadplus/glossary/accession_criteria_copenhague_it.htm, al 3
novembre 2011
85 Le revisioni costituzionali, le modifiche al codice penale, le leggi per un’estensione
delle libertà fondamentali e dei diritti umani non possono non riguardare principalmente la
minoranza kurda, la quale soffre di lacune di libertà sociali, civili e politiche.
La Turchia in un decennio abolisce completamente la pena capitale, autorizza canali
televisivi in lingua kurda e l’insegnamento dell’idioma (legge del 2002). S’inaspriscono le
pene per il reato di tortura e abuso di potere (reati diffusi nella regione kurda), si
ridimensionano libertà d’azione, autonomia e il potere dei militari, anche attraverso le
limitazioni al ruolo e controllo del Consiglio di Sicurezza Nazionale.
Nell’agosto 2002 il Parlamento modifica la legge sulle Imprese e Teletrasmissioni
delle Stazioni Radio e dei Canali Televisivi permettendo trasmissioni in lingue diverse e
dialetti tradizionali usati dai cittadini turchi nel loro quotidiano. Inizialmente il kurdo non
era compreso in questa definizione, ma nel luglio 2003 il Parlamento adotta una
legislazione specifica circa la possibilità di video-trasmissioni in lingue minoritarie. Il
primo gennaio 2009 iniziano le trasmissioni dell’emittente statale Kurdish TRT Channel,
alla cui inaugurazione il Primo Ministro Erdoğan articola persino qualche parola in lingua
kurda.
Nell’ottobre 2001 il Parlamento adotta una riforma costituzionale che aumenta il
numero dei membri civili nel consiglio di Sicurezza Nazionale. L’articolo 118 della
Costituzione viene revisionato enfatizzando il carattere consultivo dell’Istituto. Al comma
terzo si legge: “The National Security Council shall submit to the Council of Ministers its
views on the advisory decisions that are taken and ensuring the necessary coordination
with regard to the formulation, establishment, and implementation of the national security
policy of the state”64.
5. La lotta alla tortura
Nel ruolo di osservatori presso le Nazioni Unite e l’Unione Europea, le
OrganizzazioniNon Governative denunciano l’uso della tortura da parte delle Autorità
turche nei confronti dei criminali politici, in particolare kurdi. Dal 1980 al 1987 Amnesty
International denuncia la tortura di quasi tutti i duecentocinquantamila arrestati per reati
64
The Constitution of Republic of Turkey. Art. 118
86 politici.
Nel 1992 il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (CPT) dopo le sue
ispezioni in Turchia nel settembre ’90, ottobre ’91 e dicembre ’92 decide di rendere
pubblici i documenti che mostrano un perpetuo e diffusissimo utilizzo della tortura
(soprattutto nelle carceri) e una mancanza da parte delle forze politiche nel risolvere questa
questione. Agli avvocati che denunciano questa piaga, sono difficilmente accordati
permessi di visitare i loro assistiti o i luoghi dove sarebbero accadute le torture. Molti
legali subiscono persecuzioni. Le organizzazioni sui diritti umani che denunciano le
pratiche della tortura vengono ostacolate: negli anni ’90 ad Amnesty International non è
permesso aver sedi in Turchia, e Insan Haklari Dernegi (IHP) organizzazione turca dei
Diritti Umani, è oggetto di persecuzione costante da parte delle autorità. La popolazione
kurda è la più colpita dalle pratiche della tortura. Sotto legge marziale e stato di emergenza
(situazione quasi perpetua nel sud-est dell’Anatolia) le torture sono all’ordine del giorno e
attraverso la legge anti-terrorismo sono tutelati i torturatori, i quali godono di ampia libertà
d’azione.
Nel 2001 riforme legislative ed emendamenti costituzionali per conformarsi ai
parametri di Copenhagen mostrano una tolleranza zero contro la tortura. Ai plausi
dall’Europa seguono nuovi controlli da parte del CPT e delle organizzazioni umanitarie. Il
Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura attua controlli nel Settembre 2003 e nel
Dicembre 2005. La delegazione, agendo sotto il mandato del Consiglio d’Europa, nota
come le pratiche della tortura siano diminuite nei luoghi di detenzione, ma aumentate
durante i trasferimenti o effettuate in aree isolate (come nei boschi). Rapporti dell’Unione
Europea plaudono alle riforme, ma criticano che a gran parte di esse non siano seguite
misure appropriate per la corretta applicazione. Le carenze riguardano la mancanza di
assistenza legale, i mezzi e le conoscenze limitate da parte dei medici per diagnosticare
torture, l’omertà e l’impunibilità degli esecutori.
Nel settembre 2004 il Parlamento adotta un nuovo codice penale che prevede
l’inasprimento delle pene per la tortura: il reato è punito dai tre ai dodici anni di detenzione
(antecedentemente la maggioranza dei condannati scontava la pena in carcere in appena
due anni). Per torture particolarmente gravi è previsto oggi anche l’ergastolo e poliziotti
87 che non denunciano episodi di tortura rischiano sino a tre anni di detenzione.
I procuratori hanno dal 2003 un’ampia indipendenza circa l’investigazione di tale
reato, senza dover passare per le autorizzazioni dei governi locali.
6. L’AKP è la Questione Kurda
“Come unica nazione all’interno di un solo paese e sotto una sola bandiera,
lavoreremo per risolvere la Questione Kurda mediante l’introduzione di più democrazia.
Non trascuriamo alcun problema poiché trascurare i problemi è indice di mancanza di
rispetto verso la nostra sacra società. Prendiamo in considerazione tutti i problemi e
siamo pronti ad affrontarli. Perciò mi rivolgo a tutti coloro che chiedono cosa avverrà
della Questione Kurda: rispondo che la Questione Kurda è in cima alla mia lista dei
problemi da risolvere”.
Primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan, Diyarbakir, 12 Agosto 2005.
Parlando in un evento ufficiale dell’esistenza di una Questione Kurda, Erdoğan sfida
un tabù. Il fatto che lo faccia a Diyarbakir di fronte case popolari viene accolto
positivamente dalla popolazione kurda, tuttavia non minando il consenso dell’elettorato
turco.
Il leader dell’AKP non è il primo politico ad affrontare la Questione, nel 1987
Suleyman Demirel, una delle più importanti figure politiche turche, leader prima del
Partito della Giustizia (AP) poi quello della Retta Via (DYP), sostiene che la Turchia deve
riconoscere la realtà kurda. Come la maggior parte delle personalità che tratteranno
l’argomento dopo di lui, Demirel argomenterà che i disagi dei kurdi nascono dalle
condizioni di povertà socio-economiche. Sviluppare economicamente il sud-est
dell’Anatolia risolverà la questione kurda.
Turgut Özal è il politico che più ha denunciato lo squilibrio dei diritti a sfavore del
popolo kurdo. Di madre kurda, Özal non si limita a una spiegazione della lotta kurda come
una reazione alla povertà. Özal riconosce la necessità di condurre l’Anatolia verso una
regione che accetti la multiculturalità.
88 Da musulmano praticante, per Özal l’Islam costituisce un forte legame tra la
popolazione. Per primo Özal parla non solo di necessità di investimenti nella regione, ma
anche dell’evoluzione della Repubblica accentrata verso un sistema federale. Özal muore
nel 1993, prima di allora aveva promosso la partecipazione politica dei kurdi, proprio negli
anni della sua presidenza (1989-’93) nasce l’Hep, la prima formazione politica filo-kurda.
Le aperture più significative della storia della Repubblica avvengono sotto impulso del
Primo Ministro Recep Tayyip Erdoğan, la cui moglie è di Siirt, del sud-est Anatolia.
L’AKP è criticato duramente da molte fazioni kurde. Lo stesso Abdullah Öcalan,
leader del PKK e simbolo della resistenza kurda, intervistato da Marco Ansaldo circa
l’istituzione di un canale televisivo in lingua kurda dichiarò:
“Lo Stato istituisce il suo canale. E con il canale in lingua curda vuole creare anche i
suoi curdi. Attraverso quella tv si vuole completare l'opera mettendo sotto controllo la
dimensione culturale”65.
Critica simile avviene dai rappresentati di UIKI: Ufficio di Informazione Kurdistan
Italia, i quali descrivono come collaborazionisti i kurdi candidati nell’AKP o nei sostenitori
della formazione.
L’AKP promuovendo e pubblicizzando politiche di sviluppo soprattutto per quanto
riguarda bisogni di prima necessità nelle regioni del sud – est Anatolia, inserisce candidati
kurdi nelle circoscrizioni del sud - est ricevendo consensi elettorali.
7. I kurdi, tra sinistra e Islam
La lotta kurda si divide in due famiglie ideologiche, la prima legata al marxismoleninismo, la seconda alla religione islamica.
Dalle contestazioni studentesche del ’68 turco nasce un movimento intellettuale di
autonomia dei kurdi. Gli studenti provenienti dalla regione kurda, nelle principali
65
Marco Ansaldo, “Ocalan: Io, da dieci anni nell' Alcatraz turca ma la nostra lotta non si fermerà”, La
Repubblica, 14 febbraio 2009
14 febbraio 2009
89 università turche trovano nell’ideologia rivoluzionaria marxista i principi di lotta del
popolo oppresso.
Tali principi avranno presa nei momenti di maggiore repressione da parte dello Stato,
soprattutto ad opera delle Forze Armate.
Il PKK, Partiya Karkerên Kurdistan,di ideologia marxista-leninista, fondato da
Abdullah Öcalan nel novembre 1978 propugnerà attraverso la lotta armata il
conseguimento dell’indipendenza del Kurdistan.
Il PKK crescerà negli anni ’80 a seguito del colpo di stato militare. Negli anni ’90 la
regione kurda era amministrata da uno Stato d’Emergenza e la legislazione anti-terrorismo
provoca per reazione un senso di rappresentatività del movimento da parte della
popolazione. Migliaia di giovani donne e uomini confluiscono nelle file del movimento
rivoluzionario che sfida uno dei più grandi ed armati eserciti al mondo.
Il PKK è un movimento internazionalista, finanziato negli anni ’80 dall’Unione
Sovietica. Gli esponenti del movimento solidarizzano con le ali più estreme della
resistenza kurda in Siria, in Iraq (dove l’opposizione comunista sostiene i ribelli del PKK)
e in Iran con il Partito per una Vita Libera in Kurdistan, PJAK, oppositore di Ahmadinejad.
I partiti che si susseguono dagli anni ’90 ad oggi si rifanno tutti ad un’ideologia
social-democratica, e vengono costantemente chiusi (l’ultimo il DTP, chiuso nel 1999) per
accuse di complicità con i terroristi del PKK.
Nonostante i discreti successi elettorali, i partiti filo-kurdi non raccolgono il consenso
di tutta la popolazione kurda di Turchia.
Nelle elezioni del 2007 il DTP riesce a far eleggere 20 indipendenti kurdi. Tuttavia il
partito riceve solo il 4% dei consensi (in calo rispetto la formazione precedente: Dehap,
6%).
Nelle elezioni del 2011 il BDP, Partito della Pace e della Democrazia, Barış ve
Demokrasi Partisi, riuscendo a fare eleggere 36 indipendenti, registra il 5,8% dei consensi.
90 Una quota importante dei kurdi per motivi di arretratezza socio-economica o per
protesta, non si reca alle urne elettorali. Tuttavia è da riportare l’incremento dei consensi
da parte dell’elettorato kurdo nei confronti del partito di Governo.
L’Islam è un elemento di forza e unione tra i kurdi. Questa popolazione presenta una
tendenziale aderenza alla laicità non solo in Turchia. Nella fase post-bellica irachena ad
esempio, la componente kurda era molto importante per gli americani al fine di
controbilanciare i meno laici sciiti. In Turchia l’Islam appare come mezzo di superamento
del nazionalismo e dunque del kemalismo, l’assetto che ha relegato i kurdi ad un ruolo di
subordinazione.
Il sostegno a formazioni che siano riformiste circa il nazionalismo e la conservazione
della primazia del potere militare sul civile, hanno sempre fatto presa nelle periferie turche.
I kurdi sostengono dapprima il Partito Democratico, prima formazione in opposizione al
CHP lungo gli ’50 e, similmente agli islamici, votano per i partiti conservatori o islamisti i
quali si fanno portatori di un superamento dello status-quo. Riceveranno un discreto
consenso il Partito della Giustizia, Adalet Partisi, AP, il Partito della Retta Via, Dokru Yol
Partisi, DYP, il Partito della Madrepatria, Anavatan Partisi, ANAP di Turgut Özal e dal
2001 il Partito della Giustizia e dello Sviluppo.
Le elezioni del 2007 e del 2011 mostrano un incremento dei consensi nei confronti
dell’AKP.
Abbiamo già descritto l’eterogeneità del consenso accordato al partito di
governo. I kurdi che sostengono Erdoğan sono quelli che hanno beneficiato del boom
economico, e dunque parte della borghesia, i kurdi musulmani praticanti, le fasce povere
che vedono nelle politiche (spesso populiste) di Erdoğan una grande speranza.
Molti kurdi nel sostegno all’AKP, piuttosto che al partito filo-kurdo, effettuano un
voto strategico. Il decennio del 2000 è caratterizzato dal riemergere di un forte sentimento
di nazionalismo, ciò è evidente nell’ascesa dell’MHP, partito dei lupi grigi, che nelle
elezioni del 2007 e del 2011 riceve circa il 13% dei consensi. A difendere le Forze Armate
vi è il CHP, il partito di diretta derivazione kemalista.
Il PKK dal 2007 torna a minacciare la sicurezza dello Stato. Gli scontri con l’esercito
sono all’ordine del giorno. Documenti di wikileaks mostrano come il Pkk abbia ricevuto
91 finanziamenti dalla Cia. Informazione sconvolgente che pare sia motivata dall’interesse di
Washington di mantenere una spina nel fianco dell’alleato turco.
Gli attentati del PKK sembrano in realtà rafforzare la solidità del Governo: agli atti di
violenza seguono dichiarazioni durissime di Gül ed Erdoğan che sono molto apprezzate dai
nazionalisti turchi. Le Forze Armate hanno carta bianca nella lotta contro i militanti kurdi.
Il PKK appare divenire un nemico comune che aiuta la distensione dei rapporti tra militari
e Governo e tra Governo e nazionalisti. Benché negli ultimi anni il PKK sembra sia
ritornato ad essere attivo nella lotta, è evidente la minor presa sui kurdi. La società civile
kurda si oppone spesso al PKK rischiando ritorsioni. La Camera di Commercio di
Diyarbakir (DTO) ha avanzato parecchie proposte moderate di sviluppo della questione
kurda, come creare un ambiente stabile per la crescita economica e l’occupazione,
criticando apertamente il PKK e l’uso della violenza che crea instabilità, ed è soprattutto
fonte di povertà, disoccupazione e prostituzione. Il Centro delle Donne, KAMER, è
un’organizzazione molto attiva nella regione kurda che si occupa dei diritti delle donne,
contro la violenza e il delitto d’onore. La presidentessa, Nebahat Akkoç, donna molto
rispettata in regione con un passato da fervente sostenitrice dei diritti dei kurdi, ha
apertamente condannato le violenze del PKK e le sue richieste, sostenendo che i diritti
delle donne non si piegheranno a quelli della lotta per l’autodeterminazione (come
chiedono i guerriglieri).
I kurdi di Turchia, filo-europei, in quanto riconoscono all’Europa il ruolo motore dello
spill-over democratico, riconoscono oggi i mezzi di lotta democratica ed istituzionale. La
crescita economica, le politiche di estensione delle libertà e dei diritti, canalizzano il
bisogno di partecipazione dei kurdi. Il riconoscimento di questa terza anima della Turchia,
l’accettazione della sua partecipazione alla cosa pubblica, permette la traslazione del
Conflitto che da violento diventa pacifico.
La Turchia come la Roma repubblicana beneficia delle sue differenze e ricca della sua
società conflittuale, riesce a canalizzarle nei canali istituzionali contribuendo alla pace
sociale e a una spinta propulsiva oltre i confini. La nuova Turchia si candida oggi a leader
92 della regione mediorientale. Ponte tra Europa e Asia, la Turchia è parte di entrambi i
continenti, ma a nessuno vi appartiene.
93 Capitolo 2
Profondità Strategica
“Il mondo si aspetta grandi cose dalla Turchia”.
In questo modo Ahmet Davutoğlu Ministro degli Affari Esteri turco lascia intuire la
Weltanschauung del suo Paese. Le affermazioni di tale pensatore sarebbero parse
nazionaliste e utopiche agli esordi del nuovo millennio a causa degli instabili anni ’90
terminati con la crisi economico-finanziaria.
Spesso gli analisti politici utilizzano quattro fattori per collocare uno Stato tra le
grandi potenze mondiali o regionali. Questi sono la demografia, la potenza militare,
l’economia e la cultura. Per intenderci, al tempo della guerra fredda, le due superpotenze
mondiali, Stati Uniti e Unione Sovietica soddisfano tutti e quattro i fattori essendo abitati
da una popolazione elevata, avendo una potenza militare quasi equiparabile tra di loro, un
potere economico indiscusso e due modelli, il capitalismo e il comunismo, che vengono
importati da molti Stati nel globo, in quanto generano un certo fascino e interesse
nell’adesione. Utilizziamo questi quattro fattori per valutare il grado di potenza regionale
dell’attore turco.
Demografia. La Turchia è abitata da 78,785,548 persone66, l’età media è 28,5. Il tasso
di crescita superiore alla Germania lascia intendere il superamento dello Stato più
popoloso europeo di lì a pochi anni. Dopo l’Egitto, Ankara guida il Paese più popoloso del
Mediterraneo e di tutto il Medio Oriente (l’Iran conta poco meno di settantotto milioni di
abitanti). La Turchia è inoltre uno dei Paesi musulmani più abitati al mondo.
Potere Militare. Le Forze armate turche, Turkiye Silahli Kuvvetler, sono le eredi della
potente tradizione militare ottomana. Con una presenza di oltre cinquecentomila uomini
articolati nelle classiche tre armi: Esercito, Marina e Aeronautica, lo strumento militare
turco è oggi in ambito Nato, secondo per ampiezza solo a quello americano. Nella regione
66 Cia.gov factbook. https://www.cia.gov/library/publications/the-­‐world-­‐
factbook/rankorder/2119rank.html?countryName=Turkey&countryCode=tu&regionCode=mde&rank
=17#tu, 3 novembre 2011 94 mediorientale solo l’esercito israeliano può essere considerato paragonabile a quello turco.
Militari israeliani e turchi hanno raggiunto numerosi accordi di cooperazione militare sino
agli ultimi anni ’90. A differenza dell’esercito di Israele, i militari turchi non sono percepiti
nell’area mediorientale come aggressivi. Lo spettro del ritorno del Sultano che sottomette i
popoli arabi viene sfatato dall’operato dell’esercito altamente critico della fase ottomana. I
turchi svolgono missioni di pace fuori confine, ma solo a guerra terminata senza spingersi
ad interventi aggressivi oltre confine. Gli unici casi d’incursioni sono l’intervento su Cipro
nel 1974, dove oggi risiedono circa trentamila soldati, e i raid nel nord dell’Iraq in
funzione anti-PKK. I militari turchi, presenti in numerosissime missioni di pace,
dall’Afghanistan ai Balcani, dal Libano alla Somalia, godono di alta reputazione.
Economia. Nell’ultimo decennio la Turchia è passata da un’economia estremamente
volatile a una relativa stabilità, mentre la cronica inflazione a due cifre si è drasticamente
ridotta. Attraverso politiche di privatizzazioni e attrazione dei capitali la Turchia ha
venduto aziende di Stato per trenta miliardi di dollari e aperto nuove vie commerciali per il
business turco, triplicando il volume delle esportazioni negli ultimi otto anni. Abbiamo
precedentemente riportato i dato OCSE e CIA che dimostrano una sbalorditiva crescita del
reddito procapite e complessivo. Dato importante è la tenuta della Turchia nella crisi
mondiale del 2008 è infatti uno dei paesi meno colpiti. Il governo non ha bisogno di
intervenire a salvaguardia delle banche. Le proiezioni al 2050 posizionano la Turchia a
terza economia europea e nona a livello mondiale. Tra il 2010 e il 2011 il Pil ha avuto delle
crescite vicine all’11% superando talvolta la Cina. Importando idrocarburi da Russia, Iran,
Repubbliche Centro-Asiatiche, Caucaso e Paesi Arabi diviene hub energetico verso
l’Europa in una zona ricca di materie prime: il 72% degli idrocarburi del mondo si trova
nelle sue vicinanze.
Cultura. I nuovi equilibri tra kemalisti, musulmani praticanti e kurdi modificano le
strutture interne dello Stato turco e così il modo in cui viene percepita dall’esterno. Per
decenni il modello turco è stato molto apprezzato dall’Occidente in quanto Stato
musulmano, ma democratico e vicino all’ovest. Oggi l’ascesa dei musulmani praticanti, se
da un lato intimorisce gli occidentali, dall’altro porta la Turchia ad essere sempre più
ammirata dai popoli vicini. Le indagini dal 2009 a oggi da parte della Fondazione turca
95 per gli studi economici e sociali (TESEV) sulla percezione della Turchia nei Paesi
dell’area mediorientale, in particolare Egitto, Giordania, Libano, Palestina, Arabia Saudita,
Siria, Iraq e Iran, mostrano l’apprezzamento degli intervistati nel binomio Islam e
Democrazia. E’ l’identità musulmana in primis, seguita dalla spinta economica, dal
governo democratico e infine dall’atteggiamento protettivo verso i diritti dei
palestinesi/musulmani che stimolano apprezzamento e considerazione degli intervistati
arabi e iraniani nei confronti del paese della Sublime Porta. La Turchia acquista popolarità
nelle politiche di opposizione ad Israele, iniziate dall’ascesa dell’AKP. Il ruolo guida di
Ankara durante la primavera araba è stata bene accolta dai popoli in rivolta: i partiti di
ispirazione islamica che si stanno via via affermando nelle elezioni post-rivolta, esprimono
un chiaro riferimento alla Turchia dell’Islam e della modernità, una Turchia che dialoga
con l’Occidente così come con l’Oriente e il sud del mondo.
La Turchia del nuovo millennio ha grandi ambizioni, ben espresse dal suo Ministro
degli Affari Esteri: Ahmet Davutoğlu, autore di Stratejik derinlik: Türkiye'nin uluslararası
konumu, Profondità Strategica, la posizione internazionale della Turchia, pubblicato nel
2001.
Davutoğlu nasce il 26 febbraio 1959 a Konya, nell’Anatolia centrale. Regione
conservatrice e ad alto numero di musulmani praticanti, da Konya si propaga la crescita
economica turca portata avanti dalle tigri anatoliche, la nuova classe imprenditoriale e
industriale.
Prima professore universitario nel 2003, qualche anno dopo la pubblicazione di
Profondità Strategica, viene nominato ambasciatore dal Presidente della Repubblica Sezer
e per molti anni sarà consigliere del Primo Ministro Erdoğan.
Il primo maggio 2009 Davutoğlu sarà nominato capo della diplomazia turca. Nella
classifica Top 100 Global Thinker of 2010, Foreign Policy posiziona al numero sette
Ahmet Davutoglu “for being the brains behind Turkey's global reawakening”.
Secondo la rivista la Turchia di Davutoğlu dovrebbe sfruttare la sua posizione
geografica e l’identità laica e democratica di un Paese Musulmano, per costruire ponti tra
Europa, Caucaso e Medio Oriente. La diplomazia del capo della diplomazia turca
96 riconcilia gruppi politici antagonisti in Iraq e contribuisce a rafforzare il ruolo di hub
energetico della Turchia che collega gas e petrolio di territori del Caucaso e del mondo
arabo all’Europa.
Nel 2011 Foreign Policy ripropone la stessa classifica posizionando Ahmet
Davutoğlu, questa volta assieme al suo Primo Ministro Recep Tayyip Erdoğan alla
sedicesima posizione.
“This year, with the crises of the Arab Spring, their vision came to pass as Turkey
achieved a level of influence in the Middle East it hasn't had since the collapse of the
Ottoman Empire”.
La Turchia, il cui modello esercita un fascino nei confronti dei popoli arabi e iraniani
è indubbiamente uno dei pochi vincitori dei rivolgimenti mediterranei. Molto prima dei
leader occidentali, con una grande risonanza il leader dell’AKP intimò Hosni Mubarak ad
ascoltare il suo popolo: "I say that you must listen, and we must listen, to the people's
outcry, to their extremely humanitarian demands".
Profondità Strategica è giunto in Turchia alla sua 47°edizione ed è stato tradotto in
persiano, arabo, albanese e in greco. Il testo esprime la dottrina della politica estera turca
alla luce dei cambiamenti globali che coinvolgono Ankara.
Solido alleato Nato durante la guerra fredda, la Turchia era l’unico Stato assieme alla
Norvegia a confinare con l’Unione Sovietica. La Turchia è stato il primo Paese a cui
applicare la teoria del containment di Truman. L’alleanza e cooperazione militare per
decenni soddisfano l’élite politica che promette fedeltà in cambio di soldi e armi. La
Turchia per quarantaquattro anni si percepiva come angolo sud-orientale d’Europa,
bastione contro il red scare.
Il “Big Bang” geopolitico del biennio 1989-‘91 rappresenta una svolta per la Turchia
liberandola dai condizionamenti politico-geografici: da appendice dell’Europa dell’ovest
vuole adesso sfruttare la sua posizione geografica e la tradizione storica per presentarsi
piuttosto come un Paese centrale e non più periferico.
97 La politica estera turca proietta il Paese in tre continenti. Se per decenni la peculiare
posizione geografica della Turchia inquieta le élite statali, oggi i turchi riscoprono i
vantaggi e le opportunità di poter rappresentare un ponte tra continenti. Alle domande circa
lo slittamento dell’asse da occidente ad oriente Davutoğlu chiarisce che l’unico asse per la
Turchia è Ankara.
La nuova politica estera turca comporta degli elementi di rottura con i principi
kemalisti: viene recuperata l’eredità ottomana e l’Islam diviene vettore di politica estera.
La Turchia si riscopre come potenza islamica, antica sede dell’ultimo Califfato e
dell’ultimo Impero islamico, tra tutti il più longevo e forte della storia.
1. La dottrina di “Mr Zero Problems”
Nel perseguire la sua politica estera, Ahmet Davutoğlu porta avanti la dottrina dello
“zero problemi con i vicini”. Attraverso l’utilizzo del soft-power la Turchia si fa mediatrice
tra gli Stati e vuole superare le ostilità regionali. La Turchia è sempre presente nelle aree di
crisi sfruttando una credibilità ad oggi in crescita rispetto i Paesi d’Occidente.
A differenza del passato Ankara non vuole più avere Stati con cui non poter dialogare
e commerciare. Se nel dicembre 1998 l’esercito turco si allineava sul confine siriano
minacciando l’attacco in caso di non collaborazione alla lotta al PKK, il decennio seguente
è caratterizzato da un’intensa cooperazione economica e sino alla recente crisi di Assad da
ottime relazioni diplomatiche. L’acerrimo nemico sciita viene oggi difeso dai primi
ministri turco e brasiliano sull’inasprimento delle sanzioni internazionali, dal 2000 al 2008
gli scambi commerciali tra Turchia e Iran sono passati da un miliardo a dieci miliardi di
dollari. La Turchia oggi ha grandissimi interessi e influenza in Iraq: gli investimenti nel
Kurdistan sono ingenti, in particolare nella città di Kirkuk. All’esercito è assicurata
collaborazione e libertà nella lotta al Pkk. Condividendo l’interesse di mantenere stabile
l’Iraq e in generale il Medio Oriente e contenere le ambizioni iraniane nella regione,
Ankara e i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Bahrain,
Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman, Qatar) rafforzano relazioni.
Se un tempo la Russia rappresentava il primo pericolo di Ankara, oggi è il primo
partner commerciale. Nella crisi più nera la Grecia modera i toni con una Turchia più
98 vicina economicamente. Incontri diplomatici mostrano dei primi tentativi di accordo con
l’Armenia. Molti serbi oggi visitano la Turchia: Belgrado e Ankara intensificano le
relazioni diplomatiche rendendole note a Bruxelles. La Turchia è attiva nella fase
transitoria nordafricana mostrando attenzione ai diritti dei popoli arabi.
La dottrina dello zero problemi con i vicini implica un gioco di triangolazioni. Nelle
relazioni con le Repubbliche centro-asiatiche e con la Bosnia-Erzegovina vi è un impegno
della diplomazia di Ankara nel non rischiare tensioni con altri Paesi. Nei confronti delle
Repubbliche centro-asiatiche, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e
Uzbekistan, la Turchia riconosce il ruolo di primazia su queste Repubbliche da accordare
alla Federazione Russia e nelle negoziazioni e contrattazioni non s’interpone tra Mosca e i
vecchi satelliti. Aprendosi alla Bosnia-Erzegovina in Europa, Ankara non manca di
coinvolgere la Serbia per evitare che Belgrado si senta accerchiata e prepari una
contromossa. La diplomazia di Ankara appare vincente, eppure non mancano le critiche, in
gran parte interne, proprio sulla dottrina dello “Zero problems”.
Il tentativo della Turchia di non avere problemi con i vicini, secondo alcuni la porterà
all’isolamento diplomatico. Ad oggi notiamo importanti tensioni con Israele e un
allontanamento con gli Stati Uniti, Germania e Francia.
2. Una Turchia rivolta meno ad Occidentale
Gli analisti che maggiormente criticano i nuovi rivolgimenti di Ankara temono che
l’ascesa degli islamici possa portare all’allontanamento dall’Occidente. Più la Turchia si
democratizza e più si allontana dall’Occidente.
Il rapporto tra Turchia e Israele è inversamente proporzionale alle relazioni tra Ankara
e i Paesi arabi. Per decenni turchi e arabi si sono scrutati con diffidenza: gli arabi temevano
che la potenza militare di diretta derivazione ottomana potesse riscoprire mire di conquista.
Inoltre il laicismo non era ben visto. D’altro canto tra i turchi era diffusa la percezione che
gli arabi fossero dei traditori essendosi schierati con la Gran Bretagna contro l’Impero
Ottomano durante la Prima Guerra Mondiale.
I rapporti migliorano da quando la Turchia è guidata da un partito islamico e
orgoglioso della sua religione. Per conquistare il cuore degli arabi, la Turchia si avvicina
99 alla causa palestinese manifestando una più o meno forte opposizione ad Israele.
Il blitz israeliano contro la Mavi Marmara in cui perdono la vita nove cittadini turchi
rappresenta l’incidente diplomatico più grave nella storia recente tra Israele e Turchia.
Israele teme una Turchia che compete con l’Egitto per la leadership e che stringe
relazioni importanti con Siria, Hamas e soprattutto Iran. La cordialità e intensità dei
rapporti tra Tel Aviv e Ankara che durante gli anni ’90 aveva raggiungo accordi di
cooperazione militare, entra in contrasto con la dottrina politica di “zero problemi con i
vicini” e con l’ascesa di Erdoğan.
Erdoğan è un personaggio non amato dall’establishment israeliano per via della sua
vicinanza ad ambienti antisemiti nel periodo di militanza nel Refah Partisi.
Escludendo la Turchia dal ruolo di mediatrice negli scontri mediorientali (Libano,
Gaza), Israele umilia Ankara, la quale non nasconde la sua ira nel venire a conoscenza di
dossier giornalistici che dimostrano un sostegno logistico delle forze Israeliane ai ribelli
del PKK. Gli accordi tra Ankara, Brasilia e Teheran circa le contrattazioni per addolcire la
posizione della Comunità Internazionale sull’energia nucleare iraniana, seguono al
dramma della Freedom Flottilla e manifestano un allontanamento storico tra Israele e
Turchia.
Circa gli alleati Nato la Turchia rimase interdetta dai tentennamenti degli occidentali
nel fornirle rassicurazioni di protezione nell’intervento della guerra del Golfo. I turchi
coltivano un risentimento nei confronti degli europei a causa delle continue denunce sul
maltrattamento dei kurdi, sulle ondate islamofobe, leggi sull’immigrazione e
sull’arroganza dei membri dell’Unione Europea nel pretendere standard più elevati per la
Turchia rispetto agli ultimi Paesi entrati. L’opinione pubblica turca rimane particolarmente
turbata dalle guerre balcaniche. In quella situazione europei e americani non si dimostrano
all’altezza di gestire il conflitto dal punto di vista diplomatico e militare, non riuscendo a
evitare stragi e violando il diritto internazionale.
Turchia e Stati Uniti sono legati dalla fine del secondo conflitto mondiale, momento
in cui il Regno Unito non avendo più le possibilità di difendere l’avanzata di Mosca verso i
Dardanelli, cede la responsabilità a Washington. Da allora Turchia e Stati Uniti hanno
100 intrattenuto ottimi rapporti economici e diplomatici. La prima collaborazione militare
avviene negli anni ’50, in occasione del conflitto in Corea. Gli Stati Uniti caldeggiano
l’adesione della Turchia in ogni organizzazione europea dalla Nato, all’Oece, dall’Ocse
all’Osce sino alle evidenti pressioni sull’Unione Europea.
Le relazioni iniziano a incrinarsi il primo marzo 2003, data in cui la Grande
Assemblea Nazionale rifiuta di concedere basi all’attacco all’Iraq dal suo territorio. Nel
gennaio 2005, un sondaggio di BBC World Service riporta l’opposizione dell’82% dei
turchi alla politica mediorientale americana.
La Turchia si allontana da Israele per avvicinarsi alla Russia, che nel frattempo torna a
contare negli equilibri mondiali. Turchia e Russia contano un interscambio pari a quaranta
miliardi di dollari: quattro volte superiori a quelli tra Stati Uniti e Turchia. Turchia e
Russia mostrano segni d’insofferenza a politiche di europei e statunitensi nel Caucaso e
Mar Nero, durante l’invasione russa della Georgia, Ankara, non prendendo posizione, entra
in collisione con gli Stati Uniti. La Turchia vicina alla Siria, Iran e Brasile insospettisce
Washington. Recenti documenti di wikileaks mostrano il sostegno di Washington al PKK.
Tale atteggiamento, come già accennato nel capitolo precedente, può essere spiegato come
la volontà di tenere una spina nel fianco del dubbioso alleato.
I Paesi europei che oggi ostacolano maggiormente l’adesione della Turchia in Europa
sono Germania e Francia. La Germania è il primo partner economico europeo, nonché il
secondo Paese al mondo con più abitanti turchi. Tra prime, secondo e terze generazioni se
ne contano oltre tre milioni e mezzo. L’opposizione della Germania all’adesione della
Turchia in Europa è motivata dalla paura che l’apertura provocherebbe forti flussi
migratori. Il “no” alla Turchia è fortemente motivato da questioni elettorali.
I mesi di dicembre 2011 e gennaio 2012 sono caratterizzati dalle tensioni
diplomatiche tra Francia e Turchia. Il 22 dicembre 2011 l’Assemblea Nazionale vota a
maggioranza condivisa la proposta di legge che condanna il negazionismo del genocidio
armeno. La legge prevede una pena di detenzione di un anno e 45.000 euro di multa. Sino
ad oggi è stato perseguibile unicamente il negazionismo della Shoah. La Francia ha
riconosciuto nel 2001 il genocidio commesso tra gli anni 1915 e 1917, che, secondo una
101 parte degli storici ha provocato un milione e mezzo di vittime armene. La Turchia
riconosce la morte di trecentomila - cinquecentomila persone, ma le considera vittime della
Prima Guerra Mondiale, non di un genocidio. Il Presidente della Repubblica Abdullah Gül
(che pare aver cercato di raggiungere telefonicamente Sarkozy, negatosi per giorni)
evidentemente irritato ha commentato:
“Per noi non è possibile accettare questa proposta di legge che nega il diritto di
respingere accuse infondate e ingiuste contro il nostro Paese e la nostra Nazione”67.
Nei giorni successivi il governo turco ha richiamato il proprio ambasciatore da Parigi,
congelato le visite bilaterali e interrotto i programmi di cooperazione militare negando la
possibilità di atterraggio o attracco agli aerei o navi da guerra francesi. Si condanna la
legge come “una politica fondata sul razzismo, la discriminazione e la xenofobia” e
ammonendo che “simili ferite si rimargineranno molto difficilmente”.
Da Everan, il Ministro degli Affari Esteri Edouard Nalbandian ha espresso la sua
“gratitudine” alla Francia per l’impegno sui diritti umani universali.
Ispiratore del progetto è lo stesso Nikolas Sarkozy contenuto inizialmente dal Ministro
degli Affari Esteri Alain Juppé, il quale secondo le Canard enchaîné avrebbe bollato come
“stupidaggine ridicola” tale proposta. I critici accusano Sarkozy di una trovata elettorale.
In Francia la comunità armena conta circa seicentomila unità, tra le quali spiccano
personalità influenti come il cantante Charles Aznavour e il politico Patrick Devedjian. La
proposta di legge sarà respinta nel marzo 2012 dal Consiglio Costituzionale.
Le tappe dell’attivismo francese a favore della questione armena precedono sempre
una tornata elettorale. Il riconoscimento del genocidio (2001) precede le elezioni
legislative del 2002. Per diversi anni nessuno mostra particolare interesse alla questione
fino alla proposta simile a quella attuale che punisce i negazionisti, lanciata meno di un
anno prima delle elezioni del 2007. Dall’elezione di Sarkozy all’inizio della campagna
elettorale del 2011 non vi sono segni evidenti di voler perseguire una battaglia contro i
67 “Francia-Turchia: Parigi e Ankara ai ferri corti su armeni”, Ansamed, 20 dicembre 2011. 102 negazionisti. Secondo Wikileaks il consigliere diplomatico di Nikolas Sarkozy: Jean Daviv
Leavitt, volerà ad Ankara poco dopo l’elezione del 2007 per rassicurare di non voler
portare avanti alcun provvedimento che urterebbe la sensibilità dei turchi.
Oltre a cercare il consenso tra gli elettori vicini alla causa armena, l’Ump intende
sedurre l’elettorato timoroso della presenza dei musulmani in Francia. La Francia è il
Paese più musulmano d’Europa dopo la Turchia, contando dai cinque ai sei milioni
d’islamici.
I discorsi per ribadire il “no” secco francese all’adesione turca in Unione Europea
tranquillizzano fette importanti dell’elettorato conservatore. Anche nel dibattito della
primavera 2007 a ridosso delle elezioni per l’Eliseo, in pochi minuti dedicati alla politica
estera Nicola Sarkozy ribadì (nonostante nessuno gli avesse posto la questione) la sua
opposizione alla Turchia europea accusando Ségolène Royal (la quale rimase
evidentemente stupida e spiazzata) di non pensarla allo stesso modo.
Oltre alle questioni elettorali tuttavia appaiono interessanti gli attriti degli interessi
geopolitici. Francia e Turchia intrattengono importanti relazioni economico-commerciali:
la Francia è il quinto mercato di esportazione per Ankara, e il sesto per beni importati.
Negli ultimi anni appare evidente la scelta francese di concentrarsi sull’area mediterranea.
Sembra che Germania e Francia abbiano stipulato un tacito accordo d’interesse in
politica estera: se la Germania, come ha sempre fatto nella sua storia, si espande verso l’est
europeo, i Balcani sino alla Russia, la Francia si proietta sul Mediterraneo e Medio Oriente
e si propone come potenza leader dell’area. Tuttavia la Turchia forte della sua crescita
economica e della sua popolarità nei Paesi ex-ottomani si scontra con gli interessi francesi.
I due Paesi sono entrati in collisione prima dell’intervento della Nato in Libia. Nel
marzo 2011, Erdoğan dichiara ad Istanbul: "I wish that those who only see oil, gold mines
and underground treasures when they look in [Libya's] direction, would see the region
through glasses of conscience from now on." Rincalzando la critica circa gli interess
economici nell’intervento il presidente Gül afferma: "The aim [of the air campaign] is not
the liberation of the Libyan people," he said. "There are hidden agendas and different
interests."
103 Nelle settimane precedenti, il Ministro degli Interni Claude Guéant, che per anni ha
ricoperto il ruolo di consigliere del Presidente, ha parlato dell’intervento in Libia come di
una crociata, scatenando l’ira dei turchi.
Nella Libia di Gheddafi la Turchia era presente economicamente con i suoi
investimenti pari a quindici miliardi di dollari. Nel territorio gli oltre venticinquemila
turchi erano impiegati nelle duecento compagnie turche nel Paese i cui profitti rasentavano
i quindici milioni di dollari l’anno.
La Politica diplomatica turca, orgogliosamente critica nei confronti della Francia
l’avvicina ai popoli nordafricani: nei viaggi in Tunisia, Egitto e Libia, Erdoğan viene
accolto con ovazioni.
Nell’ultimo periodo inoltre le tensioni sulla proposta di legge sul genocidio armeno
hanno coinvolto un altro attore: l’Algeria. Erdoğan infatti nel gennaio ha posto la questione
del riconoscimento del genocidio del 15% della popolazione algerina dal 1945 al 1962 da
parte dell’esercito francese. Erdoğan ha richiamato all’attenzione il fatto che il padre di
Nikolas Sarkozy, Pal, era legionario in Algeria, e dunque il Presidente è bene che rifletta
sulla politica colonialista del Paese prima di accusare Ankara di crimini contro l’umanità.
Le reazioni da parte del Primo Ministro algerino, Ahmed Ouyahia, non hanno tardato.
Ouyahia chiede alla Turchia di non strumentalizzare i morti algerini. Le esternazioni
critiche sulla Turchia hanno portato ad un dibattito interno algerino. Ali più vicine
all’islam politico, in particolare i due partiti d’opposizione, l’MSP, il Movimento Sociale
per la Pace, vicino ai Fratelli Musulmani, e il Partito di Ennhada, Partito di Rinascita
dell’Islam, accusano il Primo Ministro di perseguire una politica filo-francese. Secondo gli
islamici algerini il Primo Ministro sbaglia a criticare il leader turco che si dimostra
sensibile alla memoria della guerra d’Algeria.
La diplomazia di Ankara continua a collezionare successi nell’area mediterranea, area
d’interesse primario per il Paese. Dal punto di vista geo-economico una Turchia proiettata
verso Medio Oriente, Asia e Africa, allontanandosi dall’Europa sembra avere come
obiettivo l’emancipazione dall’interdipendenza economica. La politica economica europea
tende a restringere il cerchio dei suoi membri. Il consigliere economico di Erdoğan Ali
104 Babacan attua manovre espansive in contrasto con le restrizioni di Francoforte per
prevenire l’importazione della recessione Europea. L’U.E. è il principale mercato di
esportazione turco.
3. Padroni di noi stessi
“Il ruolo periferico assegnato alla Turchia dalla classe politica dominante non
corrisponde in verità né alla realtà né alle tradizioni del popolo turco, né tantomeno alle
sue aspettative per il futuro. La società turca è impegnata nella ridefinizione di se stessa,
conseguenza naturale della crisi che sta vivendo.”
Il miglior interprete del suo Paese, Ahmet Davutoğlu descrive la nuova fase storica di
una Turchia che dev’essere libera di determinare il suo asse strategico-geopolitico. La
Turchia dev’essere aperta, flessibile e dinamica, visto che oggi gli equilibri regionali le
permettono di superare una staticità passiva. Deve mostrarsi come Paese “tanto europeo
quanto asiatico, tanto balcanico quanto caucasico, tanto mediorientale quanto
mediterraneo.”
Al di là degli equilibri internazionali, la nuova definizione della politica estera turca
deve provenire da una spinta interna, da una volontà psicologica. Nella storia i popoli che
investono il ruolo di ponte devono garantire una forte identità e fiducia in se stessi. Gli
esempi sono plurimi, in particolare interessante è il riferimento ottomano: “E gli ottomani,
che consideravano la varietà come una ricchezza e non come una fastidiosa contraddizione,
operando all’interno del paradigma islamico dominante nelle regioni più complesse ed
eterogenee della storia umana hanno dimostrato il dinamismo necessario a fondare una
nuova civiltà e un nuovo ordine politico”.
Per Davutoğlu è necessario che la Turchia sia soggetto e non oggetto della sua politica
estera, deve inquadrare quali siano i suoi interessi strategici, il suo hinterland geopolitico e
“rifondare la propria identità, la propria mentalità e la propria cultura politica”.
Vantaggio qualitativo della Turchia è la sua cultura storica e i legami con Paesi
prossimi che oggi vivono momenti critici. La Turchia ha dei vantaggi e possibilità di
contare in tali zone.
105 La geografia del Paese è sicuramente strategica, tuttavia la geografia di per sé non
porta vantaggi se non viene accompagnata da un’intensa attività diplomatica. E’ infatti la
diplomazia la variabile che si adatta al variare delle condizioni internazionali, soggetta a
reinterpretazioni e riaggiustamenti.
“I fattori geografici e storici non bastano: l’importanza della collocazione geopolitica
è sempre stata legata alla tradizione e al genio di chi la utilizzava”.
Gli atteggiamenti di Stati Uniti ed Europa dimostrano come l’intento di questi attori
nei riguardi della Turchia fosse il mantenimento dello status quo. A guerra fredda
terminata, la Turchia non può basare la propria politica estera sul mantenimento dello
status quo. “La strategia della Turchia per il nuovo secolo può riassumersi nella
riorganizzazione in forma alternativa dei rapporti con i centri di potenza e nella creazione
di un hinterland fondato su rapporti culturali, economici e politici storicamente
consolidati”.
Il professore di Relazioni Internazionali, all’interno del suo testo inserisce l’Equazione
della Potenza:
G = ( SV + PV ) x (SZ x SP x SI )
G = Potenza
SV = Fattori Costanti
PV = Variabili
SZ = Mentalità Strategica
SP = Pianificazione Strategica
SI = Volontà Politica
Più specificamente
G = [ ( t + c + n + k ) + ( ek + tk + ak ) ] x (SZ x SP x SI ).
106 Le costanti t = storia, c = geografia, n = demografia, k = cultura, ricomprese nei
Fattori Costanti sono sommate alle variabili: capacità economica, capacità tecnologica e
capacità militare, rispettivamente ek, tk e ak. Il tutto dev’essere moltiplicato per la
mentalità strategica, la pianificazione strategica e la volontà politica.
Davutoğlu assegna alla Turchia otto aree di influenza: Balcani, Mar Nero, Caucaso,
Caspio, Asia centrale turcofona, Golfo Persico/Arabo, Medio Oriente, Mediterraneo.
Davutoğlu recupera la tradizione kemalista nelle idee nazionaliste di un’unione entolinguistica turca: il panturchismo. Recupera al tempo stesso la vocazione ottomana
riscoprendo i vecchi confini imperiali nel Medio Oriente, nord Africa e Balcani così come
gli ideali di pluralismo e tolleranza e utilizza l’Islam come strumento di distensione dei
rapporti dei popoli e politica estera.
I tre vettori nei quali si inquadra la politica estera turca sono dunque: Panturchismo,
Neo-Ottomanesimo e Islam.
107 2.a Panturchismo
Il vettore di politica estera denominato panturchismo, collega la Turchia al Caucaso e
all’Asia centrale, riscoprendo la radice eurasiatica e i legami fra i diversi popoli turcofoni.
Gli Stati indipendenti nati dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, con i quali la Turchia
vuole intraprendere una politica estera forte dei legami etnici e linguistici sono:
Azerbaigian, Turkmenistan, Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan.
Famiglie linguistiche turche68
Panturanismo e Panturchismo sono movimenti di pensiero che si affermano dalla
seconda metà del diciannovesimo secolo. Periodo in cui le idee di nazionalismo dai
Balcani si spargono per tutto l’Impero.
Se il Panturanismo si afferma tra i Giovani Turchi in particolare dal 1889 ad Istanbul e
mirando a raccogliere in un’unica formazione politica tutte le stirpi turche esistenti al
mondo (Ottomani, Turcomanni, Uzbechi, Chirghisi, Baschiri, Azerbaigiani, ecc...), il
Panturchismo è un movimento che costituisce una fase più moderna ed etnicamente assai
più ridotta del panturanismo. Nasce alla fine della prima guerra mondiale e consiste nella
68
Ahmed Tarcan, “Language Observatory”. University of Dicle, Diyarbakir. Febbraio – Marzo 2006.
108 convinzione, diffusa in molti ambienti politici turchi, di una precisa responsabilità della
Repubblica turca nei riguardi di quelle minoranze di Turchi, già Ottomani, che vivevano o
vivono fuori dei confini dell'attuale Turchia.
Il Panturchismo si afferma parallelamente al Pan-Slavismo e al Pan-Germanesimo,
tuttavia i turchi hanno sempre rimarcato le distanze da questi movimenti in quanto
caratterizzati precipuamente da una componente di razza. Il Panturchismo si presenta come
legame linguistico e culturale, ponendo in secondo piano il criterio etnico, se non
addirittura razziale, che pure lo ha a lungo caratterizzato.
1. La Nuova tesi storica
“Fatta la Turchia, facciamo i turchi”. Il Panturchismo s’inquadra in un periodo di
affermazione del nazionalismo in Turchia. Dalla fine degli anni ’20 e per tutti gli anni ’30
vengono attuare riforme di netta rottura con il passato. Il nazionalismo diviene un principio
costituzionale.
Il Panturchismo si lega al nazionalismo e al mito di Ergenekon, luogo leggendario
della Mongolia dal quale sarebbe originata la prima popolazione turca, nomade e guerriera
che attraversando l’Asia giunge sino all’Anatolia. “La Tesi Storica Turca” viene presentata
e discussa nella Prima e Seconda Conferenza sulla Storia Turca del 1932 e 1936. Si
formulano teorie scientifiche circa le origini etniche dei turchi. I testi di storia criticano
l’oscurantismo del periodo islamico-ottomano e esaltano il concetto di Nazione turca. Le
critiche al Panturchismo lo fanno complice delle violenze perpetuate contro i popoli non
turchi: armeni, greci, assiri e kurdi.
Ad oggi nella società turca è evidente l’orgoglio dei cittadini per la turchità. Ciò
deriva da un sistema di educazione che esalta l’orgoglio nazionale, dal senso di
accerchiamento da parte dei vicini per decenni ostili, dall’atteggiamento arrogante degli
europei. L’orgoglio dei turchi deriva dall’indipendenza di una regione spesso sconfitta e
umiliata, ma mai colonizzata e che per secoli ha guidato uno degli Imperi più tenaci e
innovativi della storia.
109 “I turchi di Turchia dichiarano un interesse palese verso i turchi dell’Asia centrale, e
dichiarano spesso di preoccuparsi poco del fatto che gli azeri appartengono allo sciismo,
dal momento che essi appartengono anche alla turcofonia”.69
Secondo Jean-Paul Roux, le popolazioni turcofone dell’Asia centrale ricambiano
questo senso di prossimità oggi come nel periodo sovietico. Lo sgretolamento dell’Unione
Sovietica ha portato all’indipendenza di nuovi Stati i quali, nel vuoto lasciato da Mosca,
cercano un nuovo posizionamento internazionale.
La Turchia è il primo Paese che riconosce le Repubbliche centro-asiatiche. Nel
ripiegamento sovietico i turchi cercano di inserirsi per colmare il vuoto sovietico,
sfruttando i legami etno-linguistici.
La Turchia viene vista come la più importante porta aperta tra occidente e Asia
centrale. Sono di ceppo turco le lingue che parlano gli azeri, i tatari, i bashkiri, i kazaki, gli
uzbeki, i kirghizi, i turkmeni, fino agli jacuti della Siberia e agli Uiguri della Cina
occidentale, in totale tra i 130 e i 160 milioni di persone fuori dalla Turchia.
Il primo summit dei capi di Stato di paesi turcofoni viene organizzato già nel 1992. Il
sogno accarezzato dal nazionalismo turco viene portato avanti anche dai due presidenti
moderati: Turgut Özal e Suleyman Demirel che parlano della possibilità della Turchia di
divenire, dopo la guerra fredda, una potenza regionale che possa rappresentare l’intero
mondo turcofono. Tale progetto viene incoraggiato dal Presidente statunitense George H.
Bush in chiave anti-iraniana, contenendo la spinta propulsiva della rivoluzione, e al fine di
elevare la Turchia al ruolo cardine nel trasporto delle risorse energetiche del bacino del
Mar Caspio.
Sappiamo che tale strategia turca non andrà a buon fine durante gli anni ’90. Le
pompose teorie panturchiste sono portate avanti da un Paese che vive gravi conflitti interni
ed è caratterizzato da un’economia traballante. Negli anni ’90 gli “stan” hanno voglia di
autodeterminarsi, di essere padroni del proprio destino, non necessitano di alcun fratello
maggiore, tanto meno della Turchia. Inoltre a differenza di altri stati ex-sovietici, le
69
Jean- Paul Roux, Storia dei Turchi. Argo, Lecce, 2000. p 290
110 Repubbliche centro-asiatiche rimarranno sempre legate a Mosca, e ciò si è evidenziato a
partire dal ritorno della Federazione russa come potenza mondiale sotto la guida di
Vladimir Putin. L’ascesa di India, Cina e Russia, l’importanza dell’Iran e i tentativi
d’infiltrazione americana in quella regione del mondo in una fase storica in cui a dettare
legge è la forza globalizzante del mercato, rendono obsolete motivazioni di politica estera
emotive e sentimentali.
Il concetto di Panturchismo di per sé non è sufficiente. Appare piuttosto un artificioso
mezzo di politica estera. In alcuni casi la strumentalizzazione di tale ideologia può essere
addirittura deleteria nei rapporti internazionali. Ciò è anche motivato dal fatto che, le
popolazioni degli stati in questione non sono omogenee. Ciò rientrava nei piani di Stalin di
disegnare confini di province o satelliti sovietici in modo da non andare a costituire nazioni
omogenee, che forti di tale caratteristica avrebbero potuto compattarsi a livello statale
contro l’egemonia sovietica.
Le popolazioni non turcofone che abitano questi paesi non sono entusiaste di
quest’enfasi data a teorie Panturchiste. Nell’ultimo decennio tuttavia il Panturchismo viene
di nuovo utilizzato dalla diplomazia di Ankara, questa volta in modo meno aleatorio, ma di
accompagnamento a serie politiche di soft power che la nuova Turchia, in crescita
economica e di ambizioni internazionali, porta avanti con tenacia e competenza.
Vengono firmati centinaia di accordi di cooperazione economica, commerciale e
culturale. Si moltiplicano le visite tra capi di stato. Vengono promosse borse di studio per
studenti universitari. Il 3 ottobre 2009 viene firmato “The Establishment of the
Cooperation Council of Turkic Speaking States”. Il Consiglio viene formato al decimo
summit dei capi di Stato dei Paesi turcofoni, organizzato nell’ottobre 2010 a Istanbul.
Istanbul è anche la sede del Segretariato dell’organizzazione. La Tika, Agenzia dello
Sviluppo e Cooperazione Turca, è molto attiva in regione e si occupa principalmente di
fornire assistenza tecnica a questi Stati.
Secondo il Ministero degli Affari Esteri turco: “Turkey’s trade volume with the
countries of the region was about 6.5 billion USD by the year 2010 and the total
investments of Turkish companies in the region exceeded 4.7 billion USD. The total value
111 of projects realized by Turkish contracting companies in the region has reached the level of
around 30 billion USD. Nearly 2 thousand Turkish companies are operating on the
ground.”70
La Turchia si propone come hub energetico della regione per favorire il transito del
gas di cui questi Stati sono ricchi, verso l’Europa, in particolare il gas non russo che
dovrebbe passare per il gasdotto Nabucco. La Turchia è presente in organizzazioni
internazionali che legano questi Paesi in particolare l’ECO, Economic Cooperation
Organization. L’organizzazione non è identificabile come turca in quanto vi sono presenti
Paesi popolatissimi e influenti come l’Iran e il Pakistan di chiara composizione non-turca.
In un’epoca in cui il mondo spinge per grandi federazioni, l’ideologia di moda nei
primi del ‘900, il Panturchismo, come afferma Jean-Paul Roux, sembra appartenere solo al
campo dell’utopia. L’avvicinamento dei Paesi turcofoni potrebbe portare alla costituzione
di una Grande Turchia alternativa all’Unione Europea. Tuttavia numerosi ostacoli vi si
frappongono. In primis la non continuità territoriale dei Paesi, l’eterogeneità della
composizione degli stessi, le differenze linguistiche evidenti: benché molte repubbliche
abbiano sostituito i caratteri cirillici con quelli latini per avvicinarsi al turco i primi
tentativi d’incontri tra capi di Stato senza interpreti hanno provocato non poche difficoltà e
incomprensioni.
E’ tramontato l’effimero e velleitario sogno panturco di una grande comunità
turcofona “dal mediterraneo alla Cina” sbocciato dopo la caduta dell’URSS.
Il Panturchismo di per sé non deve essere sopravvalutato. Tuttavia la “simpatia” nei
rapporti diplomatici può essere un elemento di grande importanza se accompagnato da una
efficace politica di soft power. Ad oggi si registrano ottime aperture e relazioni tra la
Turchia e le Repubbliche centro asiatiche.
I successi diplomatici della Turchia sono accompagnati da un atteggiamento attento
alla Federazione russa. Si riconosce a Mosca il ruolo privilegiato su queste repubbliche.
70
Relazioni con le Repubbliche centro-asiatiche. http://www.mfa.gov.tr/turkey_s-relations-with-centralasian-republics.en.mfa, al 5 novembre 2011
112 Nelle sue aperture a est Ankara non utilizza i legami etno-linguistici solo per legarsi ai
Paesi turcofoni, bensì si inserisce nell’isola-mondo con l’intento di restarci per contare e
intrattenere relazioni con India, Cina e soprattutto Russia.
La presenza del contingente turco in Afghanistan è motivato da tale interesse.
2. Ankara e Mosca, un nuovo sodalizio
Gli imperi ottomano e russo hanno combattuto numerose guerre l’uno contro l’altro.
La Turchia e la Russia attuali hanno in comune un passato imperiale, e condividono il
trauma della fine dello stesso e un conseguente senso d’isolamento ed accerchiamento da
ciò risultato. Sino ai primi anni ’90 Mosca rappresentava la prima minaccia per la Turchia
filo-occidentale.
Gli ultimi anni del ventesimo secolo portano i due attori a scrutarsi e conoscersi
mantenendo diffidenza, ma incrementando interesse. La fine della Guerra Fredda non
determina l’annullamento istantaneo del sospetto tra Mosca ed Ankara. Le ragioni dei
risentimenti tra i due Paesi sono motivati dall’incubo delle minacce all’indivisibilità dei
territori.
Dalla metà del 1800, la Turchia ospita la diaspora caucasica delle popolazioni
musulmane perseguitate dagli zar. Nel territorio anatolico confluiscono abkhazi, ossetini,
balcari, daghestani e ceceni. Queste comunità musulmane, si integreranno nell’Anatolia
mantenendo un contatto con le terre d’origine. Benché non sembri che i governi turchi
abbiano direttamente aiutato la causa cecena, la comunità in Turchia appare offrire un
sostegno ai nemici della Russia.
Da parte sua Mosca finanzia il Pkk, prima al fine di destabilizzare un nemico
occidentale, poi finita la Guerra Fredda come ritorsione al sostegno ceceno. Mosca si
rifiuta per tutti gli anni ’90 di considerare il PKK come organizzazione terroristica.
Le distensioni sono accompagnate da una serie d’incontri istituzionali. Nel dicembre
1997 il Primo Ministro russo Viktor Chernomyrdin recandosi in Turchia ragiona sugli
interessi strategici dei due Paesi. In un clima di tensione circa il progetto di oleodotto
Baku-Tblisi-Ceyhan, si promuove il progetto Blue Stream.
113 Blue Stream, da Eni.it.
Il sistema è posseduto e gestito dalla società Blue Stream Pipeline Company BV
(BSPC), una joint venture paritetica tra Eni e Gazprom. Il progetto comprende la
costruzione di un sistema di trasporto del gas attraverso il Mar Nero, dalla regione di
Krasnodar, nella Russia meridionale, sino alle vicinanze di Ankara, per una lunghezza
complessiva di circa 1.250 chilometri, di cui 385 sottomarini. Il Blue Stream è attivo dal
2003.
Il viaggio di Bülent Ecevit, Primo Ministro turco, nel novembre 1999 è un punto di
svolta nelle relazioni tra i due Paesi. Ecevit sostiene che la questione cecena sia affare
interno alla Russia, la Russia così accetta una politica di non-intervento circa il problema
kurdo.
Gli attacchi dell’11 settembre hanno favorito un avvicinamento dei due Paesi in
chiave anti-terrorista e di cooperazione economico-commerciale. Dopo un lungo lavoro
diplomatico nel 2001 a New York, Turchia e Russia stringono l’accordo di cooperazione in
Eurasia. Nel 2002 Recep Tayyip Erdoğan in visita a Mosca viene ricevuto dal Primo
Ministro Kasyanov e dal Presidente Putin. Il rifiuto del Parlamento turco della mozione del
marzo 2003 circa il permesso da accordare all’esercito americano di accedere al territorio
iracheno attraverso la Turchia rappresenta la più importante manifestazione di
114 indipendenza turca dagli Stati Uniti. La Turchia compie quella scelta non per antiamericanismo, ma perché sono maturi i tempi di una politica più autonoma in regione, in
alcuni casi confliggente con gli interessi americani. La Turchia negli anni passati aveva già
sacrificato parte del suo commercio nell’embargo all’Iraq.
Il rifiuto della Turchia viene percepito da Mosca come segno di autonomia e
indipendenza. La lealtà incondizionata agli Stati Uniti propria durante la guerra fredda è al
termine.
Contestualmente l’ingaggio degli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan impegna a tal punto
Washington in quelle aree da lasciare a Turchia e Russia un maggior margine di manovra
nel Caucaso e nel Medio Oriente.
Il 5 e 6 dicembre 2004, Vladimir Putin è il primo Presidente russo a recarsi in visita
ufficiale in Turchia dopo trentadue anni. La visita di Putin rafforza le relazioni tra i due
Paesi: Putin firma sei accordi di cooperazione militare ed economica. La Russia sostiene la
membership turca in Unione Europea, la Turchia il ruolo di osservatore della Russia presso
l’Organizzazione della Conferenza Islamica. Erdoğan e Putin si incontrano dieci volte in
cinque anni. Il Presidente Abdullah Gül compie una visita ufficiale nel febbraio 2009, egli
è stato il primo Presidente turco a visitare la Repubblica Autonoma di Tatarstan.
L’atteggiamento positivo russo nel favorire gli incontri tra Turchia e popolazioni turcofone
musulmane viene interpretato come segno di fiducia.
Russia e Turchia condividono interessi nel Caucaso, nei Balcani, nel Medio Oriente.
L’attitudine di Davutoğlu dello zero problems in politica estera aiuta la Turchia a muoversi
in queste regioni prevenendo tensioni irreparabili con la Russia. Gli interessi convergenti
di Turchia e Russia in molte parti del mondo, si pensi ad esempio alla volontà di pace e
dialogo con l’Iran o alla necessità di avere un Iraq e un Afghanistan stabile, fanno dei due
Paesi più che competitor, alleati.
La guerra tra Russia e Georgia circa l’Ossezia e la mancanza di condanne da parte
della Turchia è stato esemplificativo dei nuovi interessi turchi più svincolati dalla Nato e
più legati alla Russia. La Federazione russa costituisce oggi il primo partner economico
della Turchia. Secondo l’Istituto Turco di Statistiche (Türkiye Istatistik Kurumu)
115 l’interscambio tra i due Paesi nel 2008 era pari a trentotto miliardi di dollari. L’export
russo verso la Turchia è basato al 70% sull’energia, più un 20,5% di metalli e un 2,9% di
prodotti chimici.
Il 63% del gas naturale e il 29% del petrolio consumato in Turchia derivano dalla
Russia. L’export turco punta sui macchinari, equipaggiamenti, veicoli, industria tessile,
alimentare e chimica. Nel 2009 la Turchia ha investito in Russia per oltre sei miliardi di
dollari. Ankara è presente massicciamente anche con le sue compagnie di costruzioni che
nell’ultimo decennio hanno ottenuto contratti per diciassette miliardi di dollari. Ogni anno
2,8 milioni di turisti russi scelgono la Turchia, in particolare la sue coste, come meta
vacanze.
Attraverso la compagnia russa Atomstroyeksport, il Governo di Mosca collabora con
la Turchia per la costruzione di un reattore nucleare. La Turchia è il primo Paese Nato a
sviluppare con la Russia una cooperazione tecnica nella sfera militare. Alla Turchia
interessano i progetti militari circa sistema missilistici di medio raggio come gli S-300 o S400.
3. La guerra in Afghanistan e il ruolo della Turchia
Il 7 ottobre 2001 inizia il conflitto afghano. Americani, inglesi, australiani e l’alleanza
del Nord (popolazioni afgane) lanciano l’operazione Enduring Freedom contro il governo
talebano. L’impulso principale dell’intervento deriva da Washington a seguito
dell’attentato alle torri gemelle. Le ragioni della guerra non sono economiche ma
securitarie: l’Afghanistan talebano è un campo di addestramento per le truppe jihadiste che
sono riuscite ad insinuarsi nei Balcani (in questo caso con il consenso americano) e hanno
attaccato obiettivi americani in Africa sino ad aggredire il cuore degli Stati Uniti.
L’obiettivo di Washington è rovesciare il regime talebano, sostnere un nuovo governo
amico, avere una base in Afghanistan per poi espandersi in regione, inizialmente in Iraq
per il quale Stato evidenti sono gli interessi economici e strategici. La guerra afghana vuole
essere leggera, veloce e limitata utilizzando il numero minore di truppe e sforzi. Nella
“crocevia dell’Asia centrale” è già crollato l’Impero Sovietico, a causa dei suoi errori nel
periodo 1979-89.
116 L’intervento vuole anche lanciare un messaggio ai nemici e “amici” dell’America.
Mostrando la sua potente macchina da guerra, Washington mette in guardia i nemici, e
lancia un messaggio di forza e rassicurazione ai creditori del primo Paese debitore al
mondo (che si appresta ad entrare in una fase di recessione economica).
Nella guerra globale al terrorismo, gli americani non vogliono apparire come crociati
contro la religione islamica. Per tale motivo l’alleato turco è di fondamentale importanza.
In poche settimane i Signori della Guerra dell’Alleanza del Nord, grazie anche al sostegno
aereo statunitense e britannico, raggiungono e liberano Kabul.
Il 1°novembre 2001 Ankara si dichiara disponibile ad inviare novanta uomini delle
sue forze speciali. Le truppe turche prendono parte ad Enduring Freedom addestrando le
milizie anti- talebane dell’Alleanza del Nord, che comprendevano anche le bande uzbeke
leali a Rashid Dostum, ed effettuando altresì interventi umanitari di emergenza.
I militari turchi sin dal principio del conflitto uniformano la propria condotta operativa
a regole d’ingaggio restrittive, che ne escludono la partecipazione ad azioni militari
offensive, circoscrivendo il ricorso della forza al solo caso di autodifesa rispetto a una
minaccia incombente.
Nel dicembre 2001 la Conferenza di Bonn dà vita all’ International Security
Assistence Force. L’Isaf ha come fine quello di fornire alle nuove autorità nazionali
afghane una forza ulteriore per estendere in tutto il Paese l’ambito di esercizio della
sovranità del Governo e del Parlamento di Kabul71.
71
http://www.isaf.nato.int, 10 giugno 2011
117 Fonte: Afghanistan Addio!, Limes, Marzo 2010.
La Turchia assume due volte il comando dell’Isaf. Il 18 giugno 2002 il generale Hilmi
Azin Zorlu subentra all’inglese McColl. I soldati turchi passano da duecentosettantasei a
milletrecento unità. Con Zorlu la situazione si stabilizza: il 3 Novembre 2003 l’Isaf revoca
il coprifuoco notturno che era in vigore a Kabul praticamente dal 1979. Il contingente turco
è schierato a Kabul e vara circa 175 progetti a profitto della rinascente amministrazione del
Paese, addestrando anche il primo nucleo di militari al servizio del nuovo esecutivo
provvisorio guidato da Hamid Karzai.
Dal 13 febbraio al 5 agosto 2005 la Turchia assume nuovamente il comando dell’Isaf
con il generale Ethem Erdagi. Il 6 aprile 2007 i turchi rilevano dai francesi la guida del
Comando regionale della capitale mantenendola sino al 6 dicembre seguente, prima di
trasferirlo agli italiani. Per l’occasione Ankara delibera un nuovo rafforzamento del
proprio contingente dislocato in Afghanistan che riceve 400 uomini supplementari e
persino una coppia di elicotteri Black Hawk, adibiti a funzioni diverse dal combattimento,
quali il trasporto e l’evacuazione dei feriti.
118 I militari turchi si sarebbero distinti anche per aver preceduto gli americani nella
pratica di alcuni principi basilari della dottrina di contro insurrezione elaborata da
Petraeus: il Comando regionale della capitale avrebbe condotto in media una sessantina di
pattugliamenti quotidiani a piedi, mentre la maggioranza degli altri contingenti occidentali
preferiva cercare di controllare il territorio di propria competenza utilizzando gruppi di
mezzi blindati. Le unità turche, inoltre, in segno di fiducia nei confronti della popolazione
locale, effettuano le proprie perlustrazioni senza indossare i giubbotti antiproiettili e gli
elmetti.
Il 31 ottobre 2010, la guida turca torna a occuparsi di Kabul. L’accademia militare
della capitale è un progetto finanziato e gestito da Ankara. L’investimento è pari a 8,7
milioni di dollari e ad oggi conta ottocentoundici iscritti. Dal 2006 la Turchia assume la
leadership della provincia di Wardak, area pashtun con larga presenza talebana. Nella zona
di Wardak, il PRT (Provincial Reconstruction Team) turco conta solo 150 soldati. E’
l’unico PRT sottoposto alla guida di un funzionario civile e al contempo dotato del più
numeroso personale non militare. Nella regione di Wardak i turchi al 2009 hanno
promosso duecento progetti di un valore di trentamilioni di dollari. Tra i vari progetti
riportiamo la costruzione di tre scuole elementari, una clinica medica, un istituto tecnico
agricolo, diverse strutture sportive e magazzini alimentari.
Nel 2011 i turchi sono riusciti a superare l’ostilità statunitense nella costruzione di un
nuovo PRT nella zona per loro più interessante: il Nord. Il terzo PRT sarà a Shibergan
nella zona Uzbeka prima controllata dal signore della guerra: Abdul Rashid Dostum, il
quale guida da sempre gli uzbeki contro i Taliban. Personaggio controverso è stato sempre
sostenuto dalla Turchia, dove spesso si è ritirato.
Tra i 2002 e il 2007 in tutto il territorio afghano la Turchia si è adoperata per la
costruzione di quattro ospedali, diverse cliniche e ventisette strutture scolastiche. Molto
pubblicizzate sono anche le duecentosessanta borse di studio a studenti afghani e gli aiuti
mirati a quattordicimila famiglie e ottomila bambini, per un valore di duecento milioni di
dollari.
Le vittime turche dall’inizio del conflitto sono di appena due militari caduti in un
incidente stradale il 14 luglio 2009. Attualmente in Afganistan sono presenti oltre 1700
119 militari, concentrati in zone molto rischiose. Essi intrattengono un ottimo rapporto con la
popolazione e quest’elemento garantisce loro sicurezza (tant'è vero che in diverse
occasione è capitato che alcuni convogli Isaf applicassero insegne turche sui loro mezzi per
evitare di essere attaccati). I motivi di tale cordialità ed accettazione degli afghani nei
confronti dei turchi sono da rintracciare nei legami storici, culturali e religiosi.
Le prime relazioni risalgono alla dinastia turca dei Ghaznavidi in Afghanistan nel
periodo X, XII secolo. L'Impero Ottomano e l'Afghanistan intrattengono scambi per secoli.
I Giovani Turchi esercitano un richiamo notevole sui Giovani Afghani che tentano di
perseguire la modernizzazione del loro Paese. Durante la Prima guerra mondiale ha presa
notevole in Afghanistan l’appello del Sultano ad entrare nel conflitto al fianco della
Sublime Porta e degli imperi centrali, attaccando il Raj britannico in nome della difesa
dell’Islam.
Nel 1920 l’Afghanistan è la prima Nazione che riconosce il Parlamento Turco. Turco
fu il primo segretario alla difesa afghana. All'epoca di Ataturk, lo stesso invia un
contingente turco al fine di divenire la scorta personale del re afghano Kahn. Prototipo di
modernizzazione lungo il ventesimo secolo, prima dell'instaurazione del regime talebano,
Ankara è corsa più volte in aiuto delle popolazioni turcofone: turkmeni, uzbeki, kirzichi e
kazaki. Alla presenza civile e militare Ankara ha affiancato un’energica azione diplomatica
e una singolare moltiplicazione degli interventi sulla scena afghana. I turchi agiscono come
potenza regionale centro-asiatica partecipando a importanti eventi internazionali promossi
dall’Alleanza Atlantica, Nazioni Unite e G8, ma anche promuovendone altri in Anatolia.
Il 29 e 30 aprile 2007 ha luogo il primo vertice trilaterale con Hamid Karzai e Pervez
Musharraf ad Ankara sfociando nella Dichiarazione che tra le altre cose impegna
Afghanistan e Pakistan a intensificare l’azione bilaterale nella lotta al terrorismo. Il 1°
aprile 2009 è organizzato un altro meeting per rilanciare il processo di pace. Per il Pakistan
questa volta c’è Asif ali Zardari.
Il 30 dicembre Gül e Ahmadi-Nejad firmano una nota congiunta secondo la quale
viene respinta l’ipotesi che al conflitto in atto in Afghanistan potesse essere data una
risposta meramente militare.
120 La Turchia convoca ad Istanbul il 26 gennaio 2010 una conferenza internazionale
dedicata all’Afghanistan alla quale oltre a Gül, Karzai e Zardari, partecipano delegazioni
provenienti da Cina, Iran, Tagikistan e Turkmenistan, anticipando di due giorni il vertice
londinese. Nel dicembre 2010 Karzai propone di istituire un Taliban office in Turchia. La
nuova strategia caldeggiata dagli americani e inglesi di riabilitare i talebani redimibili
viene ben intercettata da Gül che nei mesi successivi propone il suo Paese per l'istituzione
di tale organo diplomatico. Al febbraio 2012 tuttavia sembra che la sede del Taliban office
sarà piuttosto nel Qatar.
Il governo di Erdoğan sull’Afghanistan agisce in una prospettiva di lungo periodo. A
differenza degli europei e dei canadesi (la cui presenza è strumentale a preservare il
proprio status nella Nato e consolidare le loro relazioni con gli Stati Uniti), i turchi sono in
Afghanistan con la presumibile aspirazione di restarci e svolgervi un ruolo di rilievo per un
esteso periodo di tempo. La profondità strategica turca arriva sino al bacino dell’Amu
Darya, il corso d’acqua che tocca Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan e Afghanistan.
Per Ankara l’impegno in Afghanistan ha finito con l’assumere gradualmente una
valenza molto più ampia, rispondendo al desiderio turco di stabilire una presenza ed
esercitare un ruolo significativo in quell’area del mondo.
La Turchia assieme ad altre potenze dimostra un interesse serio e non solo mediatico
nel voler stabilizzare il territorio afghano. Oltre alla Turchia, altri Stati gravitano attorno
all’Afghanistan, in particolare Russia, Cina, Pakistan, India e Iran. Rispetto questi Stati la
Turchia manca di vicinanza geografica all’Afghanistan. La presenza nel Paese porta la
Turchia in diretto contatto e collaborazione con Russia, Cina e India. Le relazioni con le
due super-potenze economiche asiatiche crescono negli ultimi anni, in particolare con la
Repubblica Popolare Cinese.
4. Le relazioni con la Cina, la questione degli Uiguri
Nonostante la paura cinese di spinte secessioniste da parte degli Uiguri (la
popolazione musulmana turcofona distribuita prevalentemente nella regione autonoma
dello Xinjiang) la relazioni tra Turchia e Cina sembrano andare in una buona direzione in
questi ultimi anni. Nel 2009 le critiche di Erdoğan circa la repressione cinese agli Iuguri ha
121 portato tensione diplomatica tra i due Paesi:
“We see that Uyghurs living in Turkey along with our people who have felt this
bitterness themselves express their right- eous protest against these events. We have
always seen our Uighur brothers, with whom we have historical and cultural ties, as a
cooperation bridge between us and China, with which we have good relations. Our
expectation is that these incidents which have reached the level of brutality are stopped
immediately and the necessary measures are taken in accordance with universal human
rights concerns. Turkey, a member of the UN Security Council for 2009 and 2010, will
raise the issue in the UN”72.
Qualche tempo dopo Erdoğan definì le repressioni: “genocidio”.
Il Ministro degli Affari Esteri della Repubblica Popolare Cinese rispose mettendo in
guardia i cittadini cinesi sul suolo turco, e li consigliò di evitare i luoghi affollati.
Nell’ottobre 2010, il Primo Ministro cinese, Wen Jiabao visita la Turchia. Si pongono
le basi di una discussione circa la cooperazione bilaterale in diversi settori, in particolare
quella economica. Il vice Presidente dell’Assemblea degli Esportatori Turchi, Mustafa
Çıkrıkçıoglu, dichiara che gli anni tenderanno a “the era of China and Turkey”.
Parallelamente la Cina sviluppa interazioni diplomatiche e commerciali con Cipro e
Grecia. Il Ministro degli Affari Esteri cinesi, Yang Jiechi, visita Nicosia negli stessi giorni
in cui il Primo Ministro si trova ad Ankara. Wen Jiabao lasciata la Turchia si reca ad Atene
per discutere circa una partnership strategica tra i due Paesi. La Cina finanzia il Porto del
Pireo, uno dei porti più importanti e strategici del Mediterraneo. Pechino firma accordi con
Bulgaria, Siria e Iran (la Cina è uno dei primi destinatari degli idrocarburi iraniani). La
Cina ha interessi nel Kurdistan Iracheno.
I legami tra Cina con Turchia e Paesi circostanti prevengono Ankara da atteggiamenti
eccessivamente critici circa la minoranza Uigura.
Gli interessi turchi e cinesi si incontrano nell’Afghanistan: Pechino ha investimenti
economici in corso e vuole mantenere il confine afghano prossimo alla regione musulmana
cinese, più stabile possibile.
72
David Babayan, “Pan-turkism and Geopolitics of China”, 21st CENTURY, n.1 (9), 2011, Marzo 2011
122 5. L’applicazione di Profondità Strategica alla missione turca in Afghanistan
L’importante presenza turca e gli accorgimenti alla missione in Afghanistan
s’inseriscono in un più ampio progetto di politica estera.
Ritroviamo nella missione elementi chiave di Profondità Strategica, come i tre vettori
di politica estera: Neo-Ottomanesimo, Islam e Panturchismo.
Il Neo-Ottomanesimo è sicuramente il vettore meno presente rispetto gli altri due. Gli
elementi di continuità con il periodo imperiale risiedono nella tradizione secolare delle
relazioni tra Istanbul e Kabul. Inoltre c’è un altro elemento tipico dell’Impero Ottomano
che è oggi presente nella missione afghana. Per secoli i militari ottomani erano presenti in
territori lontani dell’Impero contribuendo alla gestione delle province al fine di mantenere
stabili i territori. L’atteggiamento di un tempo è riscontrabile nella situazione attuale. Sono
tuttavia il Panturchismo e l’Islam i vettori più evidenti nella missione afghana.
Il panturchismo è facilmente individuabile innanzitutto nell’interesse che Ankara
nutre nella zona dell’Asia centrale, portandola all’Ergenekon altaico, culla mitica delle
stirpi turche. Il vettore del panturchismo si manifesta nei tentativi della Turchia di inserirsi
nel gioco afghano attraverso i legami etnico-culturali con la popolazione uzbeka. Gli aiuti
a Rashid Dostum risalgono agli anni ’90 e sono continui sino ad oggi. L’interesse della
Turchia per la zona settentrionale del Paese l’ha portata a istituire il suo terzo PRT nella
provincia dello Shibergan. La popolazione turcofona uzbeka e turkmena sommata, non
raggiunge il 15% del totale della popolazione distribuita in pashtum (42%), tagiki (27%),
hazara (9%)e baluci (2%). Se la Turchia vuole continuare a contare nel territorio insieme
alle altre grandi potenze a seguito del ritiro americano è bene che allarghi il suo sostegno a
un più ampio bacino popolare. Ankara s’impegna nella costruzione di rapporti anche con
leader più disponibili delle comunità settentrionali non turcofone a partire da Mohammed
Mahaqqeq, un hazara che intratterrebbe con Teheran rapporti meno stretti che in passato –
come del resto stanno facendo anche russi e indiani che si muovono nello stesso terreno.
Entra così in gioco il terzo vettore: l’Islam. L’appartenenza alla fede musulmana
avvantaggia la Turchia rispetto i vari contingenti Nato più Russia, India e Cina. Grazie alla
comunanza religiosa i turchi non sono percepiti come invasori. Gli atteggiamenti di
123 favorire i pattugliamenti senza mezzi blindati ed elmetti, l’importanza del personale civile
turco nei Prt aiutano la distensione tra turchi e afghani. In nome dell’Islam si cercano
legami con gli Hazara e nei PRT a Kabul e Wardak di maggioranza Pashtun, nessun
afghano viene discriminato e tutti possono usufruire dei progetti portati avanti dalla
Turchia.
Se il panturchismo è sempre stato in auge anche ai tempi dei leader turchi: Demirel e
Suleyman, il richiamo all’Islam è una novità nella politica estera turca e trova la sua linfa
dall’establishment dell’AKP.
124 2.b L’Islam in politica estera
La Turchia è abitata da circa ottanta milioni di persone, l’Islam è la religione del
99,8% della popolazione. L’Impero Ottomano esteso ed eterogeneo ai fini della stabilità e
longevità dello stesso ha cercato di perseguire nel tempo una politica liberale nei confronti
dei culti diversi dall’Islam e dell’Islam stesso, così come l’espansione di Roma non
portava all’annullamento degli usi e costumi delle popolazioni assoggettate.
Nell’ultima fase dell’Impero Ottomano tuttavia, i Sultani dalle Moschee di Istanbul
richiamano i fedeli nelle zone dell’Impero all’unità, alla fratellanza e alleanza contro gli
invasori.
Il richiamo non è abbastanza forte da evitare la secessione di popoli lontani dalla sede
del Califfato, benché musulmani. Dalla fondazione della Repubblica e dal coinvolgimento
della Turchia nella zona occidentale del globo, l’Islam è relegato alla sfera privata. La
gestione dello Stato sarà solo laica e nazionalista.
L’attrazione del “Modello Turco”è tuttavia precedente al ventunesimo secolo. Sino al
2001 l’idea di Modello turco apprezzato dal blocco occidentale o dai quei Paesi con una
più o meno grande comunità islamica, era quello di un Paese a maggioranza musulmana,
pur tuttavia caratterizzato da una gestione laica del potere. Musulmano ma laico, moderno
e soprattutto democratico.
Il primo decennio del nuovo millennio debutta con la parola “fine” circa i postumi
della guerra fredda. La logica di subordinazione a un Polo sembrava poter continuare
durante gli anni ’90, tuttavia è la stessa fisica che ci insegna l’assurdità del concetto
dell’unipolarismo. Il mondo si frammenta in diversi poli d’attrazione o repulsione: superpotenze, medie-potenze, potenze in ascesa, potenze in declino. Globalizzazione e
frammentazione. Villaggio globale o un globo di villaggi.
In un mondo sempre più contorto, i popoli riscoprono le tradizioni e l’orgoglio delle
particolarità e differenze. Il modello sovietico è fallito, quello americano è in declino e
nella sua rozza guerra in Iraq scatena un risentimento tra i musulmani. La guerra in
125 Afghanistan mostra un occidente fragile, l’ascesa dei movimenti xenofobi e il razzismo nei
confronti degli immigrati, oggi diffusi dai media, dà l’immagine di un Occidente ostile.
Nuove potenze ascendono nello scacchiere mondiale i cui modelli sono diversi da
quelli precedenti e le cui pretese circa la gestione interna del potere vengono meno rispetto
agli impegni commerciali.
Gli islamici praticanti cercano un ruolo nello Stato. Gli Stati più o meno disorientati
dai rivolgimenti globali utilizzano la religione per camminare su un terreno più
interpretabile, distensivo, pacifico.
La diplomazia turca cosciente del potenziale del proprio Paese e reattiva circa i
rivolgimenti del globo riscopre l’Islam come strumento di politica estera.
1. I progetti dei partiti islamisti turchi da Erbakan a Davutoğlu
La presenza dell’Islam come elemento di politica estera deriva da un impulso da parte
della società turca. A tal riguardo assistiamo ad una dinamica bottom-up, ma solo
successiva ad un primo input top-down.
Lo Stato turco non è caratterizzato da un “governo minimo”. Quasi invasive le
Autorità turche sono presenti in società con l’intento di inquadrarla e indirizzarla verso i
principi fondamentali della Costituzione.
Gli islamici riescono gradualmente a insinuarsi in politica solo in seguito alla volontà
da parte delle Autorità turche di procedere verso l’estensione democratica del diritto di
partecipazione politica che porterà al pluripartitismo e all’entrata nell’arena politica dei
movimenti islamisti.
Questa prima elargizione di diritti e libertà da parte della classe dirigente turca porta le
comunità islamiche a influenzare con le loro istanze i politici della Grande Assemblea
Nazionale i quali a loro volta, tentano di trasformare la politica estera del Paese.
L’Islam era una componente identitaria dell’Impero Ottomano sotto la leadership del
Sultano-Califfo. La fondazione della Repubblica e i decenni di costituzione della stessa
portano gli amministratori turchi ad adottare politiche volte alla secolarizzazione al fine di
126 relegare la religione ad un affare personale della coscienza individuale. Il fine delle
Autorità repubblicane è quello di creare uno stato moderno, razionale e rimuovere l’Islam
dalla sfera politica. I vasti programmi di secolarizzazione epurano la religione dalla vita
pubblica e dalle istituzioni politiche. L’Islam tuttavia sopravvive nelle famiglie e nella vita
comunitaria. Gruppi d’individui insoddisfatti delle istituzioni e valori dell’élite continuano
un’opposizione clandestina e privata. Nonostante le politiche di secolarizzazione l’Islam
rimane depositario per regolare la vita sociale delle masse giorno per giorno.
Dalla società vengono a formarsi gruppi organizzati che gradualmente riescono ad
ascendere a luoghi di potere, come l’amministrazione politica. L’evoluzione della classe
politica modifica la politica estera del Paese. La Turchia rimane imbrigliata nella logica
bipolare sino agli anni ’90. Tuttavia prima di allora sono presenti tentativi di smussamenti
della staticità della posizione internazionale turca che aumentano tanto gradualmente
quanto l’inserimento degli islamici in politica.
La transizione al sistema multipartitico dal 1946 e la nascita e l’affermazione delle
formazioni a ispirazione islamista riportano gradualmente l’Islam in politica. Punto di
svolta a favore dell’Islam avviene paradossalmente proprio a seguito del colpo di stato
militare del settembre 1980. Necmettin Erbakan fonderà un nuovo movimento islamico, il
Refah Partisi, che per anni è portatore delle istanze dei musulmani scontenti del sistema
turco.
Il coup d’état del 1980 contribuisce al rafforzamento dei partiti conservatori in quanto
l’atto militare viene intrapreso con l’obiettivo di colpire l’estrema sinistra e le
organizzazioni kurde. Contribuendo all’apertura di nuove scuole coraniche e istituendo
l’insegnamento religioso nelle scuole primarie e licei, i militari auspicano di creare uno
Stato più omogeneo e limare le polarità della società turca indebolendo le comunità
politiche islamiche.
L’islamizzazione della società non intimorisce i turchi: “After all, they [said], what
could be more natural in a world shaken by sudden and far-reaching change than for
127 people to turn toward religion or seek to affirm an identity confused by a fast-paced
Westernization imposed from above?”73
L’incremento del peso dell’Islam nelle politiche interne influenza la politica estera
negli anni ’90. L’interesse della Turchia nelle questioni balcaniche, in particolare
l’attenzione alla situazione dei bosniaci, risulta principalmente dagli appelli degli islamici.
“It was exclusively for Islamic appeal that Turkey took an active interest in the
Balkans, and particularly in the Bosnians.”74
Nell’ottobre 1995 la Turchia inaugura ad Ankara un ciclo di conferenze per
coordinare le attività islamiche nelle repubbliche dell’Asia centrale, nel Caucaso, nei
Balcani e nella Turchia stessa. In queste conferenze il Presidente Demirel sottolinea
l’importanza dell’Islam come base per la solidarietà e cooperazione. Mesut Yilmaz, leader
del Partito della Madrepatria dichiara: “Islam remained the rising star of all times”.75
In questi anni gli islamici e gli avversari laici dibattono in discorsi pubblici e nei
media su temi quali i conflitti in Cecenia, Bosnia, Nagorno-Karabakh e il confronto tra
Islam e Cristianesimo. Negli ultimi anni ’80 e ’90 l’ascesa dell’Islam politico contribuisce
alla messa in discussione dell’influenza dell’identità Occidentale sulla Turchia e della
scelta in politica estera dell’orientamento del Paese legato all’Ovest.
I successi elettorali degli anni ’90 del Refah Partisi sono motivati da un insieme di
fattori. Il Primo Ministro Tansu Çiller, la prima donna a guidare la Turchia, molto critica
nei confronti della formazione di Erbakan incolperà tale Partito per le numerose difficoltà
di adesione all’Unione Europea: “The failure to admit Turkey would almost certainly
ensure the Welfare Party’’s victory in the elections.” 76
Anche il leader del Partito della Sinistra Democratica, Demokratik Sol Parti, DSP,
Mustafa Bülent Ecevit, personalità politica storica della Turchia, (che l’Ambasciatore
Mirsilo paragona a Berlinguer, in opposizione a Suleyman Demirel che incarnerebbe
73
Eric Rouleau, “The Challenges to Turkey,” Foreign Affairs 72 (Nov.- Dec., 1993): 110––126, p. 119.
Rouleau, “Turkey: Beyond Atatürk,” Foreign Policy, No. 103, Summer 1996. p. 78.
75
Ibid.
76
Barkey, H. “Turkey, Islamic Politics, and the Kurdish Question”, World Policy Journal, 1996 p. 43.
74
128 piuttosto un Andreotti turco) argomenta il disappunto degli alleati occidentali circa il
Paese, proprio a causa dell’incremento del fondamentalismo islamico.
La politica estera del Refah Partisi è caratterizzata da un forte disappunto agli ideali
dell’Occidente e da un’opposizione ad Israele. La retorica contro Israele è talmente forte
da degenerare in antisemitismo. Come già riportato, lo stesso Erdoğan nel 1993 manifesta
la sua critica agli Stati Uniti e si lascia sfuggire alcune gravi affermazioni antisemita. Il
Partito della Prosperità intende rafforzare le relazioni con i Paesi mediorientali. I membri
del Rafah enfatizzano le differenze religiose e culturali con l’Unione Europea e sono molto
critici circa l’adesione alla stessa. Il 6 luglio 1993 il deputato Hasan Dikici, esponente del
Refah Partisi, dichiarerà:
“The EU is an integration model based on a Christian-Western culture; it is a political
integration; it is an effort to create a European State. It is a Catholic European Union
established according to a Christian ideology. Turkey is a Muslim country. With the aim of
increasing the material welfare of the Turkish people, to try to have a place in the
European Union means to abandon our political, social, and cultural values. If Turkey joins
the EU our sovereign rights will be transferred to the Catholic EU. The decision to be a
member in the EU was made against the will of our nation and should be withdrawn for the
future of our nation.77
Le idee di Necmettin Erbakan non differiscono particolarmente: “Turkey should
cooperate with Muslim countries through which she can realize the goal of being a leader,
instead of being a servant in the EU.”78
Egli accusa le altre formazioni politiche di tradire cultura, tradizione ed essenza turca
imitando i modelli europei accettando un secondo Sèvres. Erbakan promette di modificare
il ruolo della Turchia come leader del mondo islamico stabilendo un’Unione Islamica
verso la costituzione delle Nazioni Unite Islamiche, un’Organizzazione Islamica di Difesa
(modello Nato), una moneta comune per gli Stati musulmani e un mercato comune.
Secondo Erbakan la mancanza di solidarietà tra le nazioni Musulmane deriva dalla
77
Yücel Bozdaglioglu, Turkish Foreign Policy and Turkish Identity. Editore: Charles G.MacDonald, Florida
International University. 2003. pg 134
78
Ibid. p
129 mentalità occidentale degli amministratori turchi. La classe politica ”instead of trying to
assume such a leadership role and thus serving the ‘‘Just Order,’’ choose to serve
imperialism and Zionism”79 il mondo musulmano ha bisogno della leadership turca.
L’avvicinamento della Turchia all’UE allontana Ankara da questo ruolo.
La frattura tra laici e islamisti è molto forte in questi anni. Nel breve periodo di
coalizione del Partito della Prosperità con il Partito della Madrepatria, le attitudini in
politica estera dei leader delle due formazioni riflettono la dualità turca tra laici e islamici.
Tansu Çiller visita i leder europei confermando la volontà turca di aderire
all’Organizzazione regionale. Nella prima visita estera ufficiale, Necmettin Erbakan viene
ricevuto dal leader della Fratellanza Musulmana. Tansu Çiller visita istituzioni e capitali
europee, parallelamente Erbakan visita Paesi caratterizzati da un Islam radicale, quali Iran
e Libia e con essi stipula importanti relazioni commerciali. Violando embarghi
internazionali, la Turchia siglerà accordi d’importazioni di gas naturale con Libia e Iran
per un valore di venti miliardi di dollari. La Turchia di Erbakan è molto critica nei
confronti delle Nazioni Unite, organizzazione internazionale percepita come portatrice
degli interessi israeliani e americani. Nel dicembre 1996 la delegazione turca vota contro le
risoluzioni di condanna alle violazioni dei diritti umani in Iran, Corea del Nord, Cina, Cuba
e Libia.
Erbakan si reca in visite ufficiali in Libia, Malesia, Indonesia e Pakistan, rafforzando
il legame della Turchia nel mondo islamico, come mai era accaduto nella storia
repubblicana.
La Turchia discute sulla possibilità di un’instaurazione di una cooperazione di difesa
bilaterale con l’Iran in chiave anti-PKK. Erbakan si oppone all’embargo Onu all’Iraq di
Saddam. La Turchia subirà dei danni economici dall’isolamento iracheno. Ankara farà
pressioni sulle Nazioni Unite affinché inizino le negoziazioni e la riapertura al commercio
del petrolio. Nell’ottobre 1996 il Ministro della Giustizia Sevket Kazan, criticando le
sanzioni Onu le bollerà come ingiuste e dichiarerà “it is Turkey’’s duty to stand by its
friend”80.
79
80
Ibid. pg 134
Richard Myddelton, “Turkey Pushes East,” The Middle East, October 1996.
130 Il Refah porta avanti il progetto D-8, Developing Eight, un’organizzazione di
cooperazione economica tra otto Paesi islamici circa le aperture commerciali, in particolare
nel mercato energetico, la promozione del turismo e la cooperazione in materie bancarie e
di privatizzazioni. I Paesi pensati sono Turchia, Bangladesh, Egitto, Indonesia, Iran,
Malesia, Nigeria e Pakistan.
2. Il Nuovo approccio dell’AKP, la Turchia nel nuovo millennio
La chiusura del Partito della Prosperità e la fine del ventesimo secolo portano ad un
ripensamento della strategia degli islamici praticanti. L’AKP, formazione che intende
presentarsi come riformatrice, nuova, moderna e dinamica, prenderà nette distanze dai
partiti islamisti suoi predecessori. Ribadendo l’intendo di voler preservare il carattere laico
del Paese respingerà le critiche dell’intento di voler stabilire la Sharia nel Paese.
Il superamento del Patto di Varsavia libera la Turchia del suo principale nemico ad
Est, rendendola centro di una serie di Paesi ad essa inferiori dal punto di vista militare ed
economico. La Turchia parallelamente migliora le relazioni con l’Unione Europea e
intraprende politiche di vicinato. La fine dell’Unione Sovietica e della Federazione
Jugoslava portano allo scatenarsi di conflitti nella penisola Balcanica e nel Caucaso al cui
coinvolgimento la Turchia non può sottrarsi. Il coinvolgimento della Turchia nel Medio
Oriente coinvolge il Paese in dinamiche di nuova complessità.
Nel 1999 l’Unione Europea accetta la candidatura ufficiale della Turchia.
Dalla campagna elettorale in vista delle elezioni del 2002, l’Akp manifesta l’intento di
far aderire la Turchia all’Unione Europea, contribuendo al consenso elettorale di un popolo
entusiasta nel partecipare al progetto europeo.
Parallelamente un uomo molto vicino ad Erdoğan, Ahmet Davutoglu, teorizza
l’opportunità della Turchia di sfruttare la sua posizione geografica e la sua tradizione
storico-culturale per intraprendere una politica di apertura con le Nazioni vicine.
Criticando the Clash of Civilization di Samuel Huntington, il Professore di Relazioni
Internazionali sostiene: “the history of civilisations is not composed only of clashes. [...] A
comprehensive civilisational dialogue [...] is needed for a globally legitimate international
131 order81”.
Secondo Davutoglu la Turchia deve essere un ponte tra occidente e mondo
Musulmano, la cui missione deve essere quella di mediare tra i due mondi e contribuire
alla pace regionale e globale.
La tradizionale repulsione dell’élite repubblicana a collaborare con i vicini
mediorientali viene superata dalla nuova missione turca di cercale il ruolo di mediatrice,
Stato Musulmano e vicino agli occidentali. Nonostante gli evidenti avanzamenti verso
l’adesione all’UE, si procede verso una maggiore indipendenza dall’occidente, in
particolare dagli Stati Uniti.
Nelle relazioni con il Medio Oriente la Turchia fa largo uso di soft-power economico,
politico e culturale.
3. L’allontanamento dall’Unione Europea, Stati Uniti ed Israele
Dal 2002 al 2005 il Parlamento turco approva una serie di riforme di armonizzazione
all’Unione Europea per fare arrivare la Turchia più velocemente verso il traguardo del
rispetto dei criteri di Copenhagen.
Nelle visite ufficiali Erdoğan è accolto con netto sostegno all’adesione della Turchia
dai leader italiani, inglesi, spagnoli, belgi e persino greci. Perseguendo la dottrina dello
“zero problemi con i vicini”, i rapporti tra Ankara e Atene tendono alla distensione.
George W. Bush sostiene l’alleato turco e il Commissario Europeo all’allargamento,
Günter Verheugen, plaude gli avanzamenti turchi.
I Paesi che sono meno entusiasti della possibilità di una Turchia europea sono Francia,
Germania e Austria. L’ascesa delle destre in questi tre Stati porta un atteggiamento molto
critico nei confronti della Turchia. Le destre, in particolare l’UMP, si dimostrano
inflessibili nei riguardi dei turchi, strumentalizzando la paura di parti dell’elettorato circa
un incremento della popolazione musulmana.
Contestualmente l’elezione del nazionalista Tassos Papadopoulos nella Cipro greca
del 2003 pongono il termine alla graduale distensione tra Ankara e Nicosia. Papadopuolos
81
Ahmet Davutoglu, 'The Clash of Interests; an Explanation of the World (Dis) Order”, Perceptions
(Ankara) Vol. 2, No.4 (1997-98).
132 si oppone alla riunificazione dell’isola in vista dell’ingresso dell’UE. Il referendum del 24
aprile 2004 circa il Piano di Kofi Annan, viene bocciato dai ciprioti greci i quali entrano in
Unione Europea, ma senza Cipro Nord.
Ankara entrerà in conflitto con Nicosia, la quale pretende di essere riconosciuta dalla
Turchia, pena ogni veto possibile circa l’adesione.
La Turchia inizia a percepire l’adesione all’Europa con un orizzonte, benché la
Turchia faccia molti sforzi per accedervi esso rimane sempre distante. In due anni i
sondaggi turchi dimostrano un calo di entusiasmo della popolazione nel progetto europeo,
se nel 2004 il 67,5% dei turchi sosteneva con forza l’ingresso della Turchia in Europa,
vedendolo come una delle priorità governative, nel 2005 tale quota scende a 54,7% e nel
2006 solo 32,2 punti percentuali.
Nel novembre 2005 i conservatori turchi rimangono negativamente colpiti dalla
sentenza dei giudici di Strasburgo.La Cedu nel caso Leyla Şahin v. Turchia, non
condannano quest’ultima circa le restrizioni a Leyla Şahin sul suo diritto ad indossare il
velo. Alla studentessa di medicina dell’università di Ankara era stato impedito di
frequentare le lezioni velata.
Intanto Romania e Bulgaria si apprestano ad entrare nell’Unione e le contrattazioni
con la Croazia sono caratterizzate da una inaspettata rapidità. Il nuovo Commissario
europeo all’allargamento, Olli Rehn, sostituito Verheugen assume un atteggiamento molto
critico nei confronti della Turchia recriminando in particolare l’articolo 301 del codice
penale che perseguita coloro che insultano la “Turchità”. Per tale articolo sono punibili il
premio Nobel Orhan Pamuk e il giornalista torco-armeno Hrant Dink.
Con l’ascesa all’Eliseo di Nikolas Sarkozy nel 2007 il cammino della Turchia verso
l’adesione viene interrotto. Temi come l’Unione Europea saranno minoritari nelle
campagne elettorali turche.
La Turchia criticherà i proclami xenofobi e le politiche altamente restrittive circa le
migrazioni mediterranee difendendo le comunità islamiche in Europa, ricevendo grandi
consensi nei paesi destinatari delle migrazioni in particolare la Germania, dove la comunità
turca conta circa tre milioni e mezzo di individui.
133 I rapporti con gli Stati Uniti subiscono una flessione nel 2003 in occasione della
guerra in Iraq. I rapporti tra Washington e Ankara sono ottimi da oltre mezzo secolo,
soprattutto dopo l’attacco alle Torri Gemelle il Presidente Ecevit manifesta tutta la
solidarietà agli Stati Uniti sostenendo da subito la missione di pacificazione afghana.
Tuttavia l’intervento in Iraq del 2003 si scontrava con un’opinione pubblica contraria
alla guerra e rischi circa la sicurezza nazionale nel caso di intervento dalla regione kurda di
Turchia. Nonostante i rapporti tra Turchia e il regime Baathista di Saddam Hussein fossero
tutt’altro che amichevoli, la destabilizzazione del nord iracheno sarebbe stato troppo
rischioso sia secondo il Governo così come per i militari. Negli embarghi iracheni e nella
guerra del Kuwait la Turchia aveva già avuto molti danni economici.
Inoltre l’intervento in Iraq avrebbe compromesso i rapporti con i Paesi arabi con i
quali iniziava una graduale distensione e cooperazione.
Nel gennaio 2003 inizia un’operazione negoziale portata avanti da Abdullah Gul. Gul
gestisce un coordinamento di diversi Paesi mediorientali e dialoga con l’Iraq, al fine di
soddisfare le richieste dell’Onu circa il disarmo iracheno. L’11 gennaio il Ministro turco
Kürşad Tüzmen vola a Baghdad. Il 24 gennaio si riuniscono ad Istanbul i Ministri degli
Esteri di Turchia, Giordania, Siria, Arabia Saudita, Iran, Egitto. Il 3 febbraio in una
missione segreta si recano ad Ankara il deputato iracheno Taha Hassan Ramadan e il
Ministro degli Affari Esteri del governo di Saddam Naji Sabri.
Il rifiuto della Grande Assemblea Nazionale del marzo provoca l’ira degli americani.
Tuttavia il “gran rifiuto” turco all’appoggio americano e l’atteggiamento sempre più
d’opposizione ad Israele e di difesa ai Palestinesi mostra una Turchia orgogliosa, forte e
vicina alle istanze dei musulmani.
La “zero problems policy” di distensione ai paesi confinanti allontanano Ankara da
Tel Aviv.
L’apice dello scontro tra i vecchi alleati è la questione della Freedom Flottiglia. Nella
vicenda del blitz israeliano contro la Mavi Marmara hanno perso la vita nove attivisti, otto
dei quali turchi, uno di doppia cittadinanza statunitense e turca. La denuncia di Erdoğan
134 contro Israele è stata plateale e durissima, costringendo Tel Aviv a piegarsi a fronte di
alcune richieste del leader turco, anche sotto consiglio del Segretario di Stato americano:
Hillary Clinton.
L’interesse di Ankara sulla regione mediorientale la spinge a difendere palestinesi ed
Hamas: in una fase storica di declino egiziano, la potenza competitor in regione è l’Iran,
altro Stato non arabo, come la Turchia, ma a differenza di questa, sciita.
I rapporti tra Turchia e Israele erano intensi e cordiali per tutti gli anni ’90 sino a
raggiungere importanti accordi di cooperazione militare. Le relazioni iniziano ad incrinarsi
nel 2000, anno in cui Yossi Sarid, ministro dell’educazione israeliano propone di inserire
nei programmi di storia il “genocidio” armeno; poco dopo scoppia l’intifada al-Aqsà
sfociata in un’ondata d violenza fra israeliani e palestinesi che colpisce molto i turchi. Nel
2003 Erdoğan descrive la politica israeliana verso i palestinesi come “terrorismo di Stato”.
Israele ha sempre sospettato circa le idee personali di Erdoğan su Israele. Il Primo Ministro
turco sin dalla formazione è stato vicino ad ambienti molto critici di Israele, alcune figure
del Refah Partisi hanno avuto anche esternazioni antisemite, e anche un suo discorso del
1993 assume caratteri antisemiti e antiamericani.
Israele nega alla Turchia il ruolo di mediatore nella crisi siriana del 2004 e nel
conflitto di Gaza nel 2008. Ankara migliora i rapporti con Paesi nemici di Israele in primis
la Siria, l’Iraq e soprattutto l’Iran.
Nel 2005-06 vengono fuori notizie giornalistiche circa il sostegno israeliano al
movimento separatista kurdo Partîya Karkerén Kurdîstan, PKK. L’8 e il 9 settembre 2007
aerei israeliani attaccano la Siria e, in circostanze non chiarite, sulla via di ritorno violano
lo spazio aereo turco.
A seguito dell’operazione Piombo Fuso (dicembre 2008-gennaio 2009) Davos è sede
di un duro scambio tra Shimon Peres e il Primo Ministro Turco Erdoğan. Erdoğan
riconosce Hamas come organizzazione legittima, scelta democraticamente dai Palestinesi
che lotta per difendere la sua terra. Il leader di Hamas: Isma’il Haniyya, nutrendo profonda
stima per il leader dell’Akp come atto di riconoscenza per le posizioni su Gaza, chiama suo
nipote Recep Erdoğan.
135 Ciò che intimorisce particolarmente Israele è la distensione tra Ankara e il Paese che
più teme: l’Iran. Nel giugno 2010, pochi giorni dopo la vicenda della Freedom Flotilla,
Turchia e Brasile ( a seguito di un accordo firmato a Teheran di mediazione di uno
scambio di combustibile nucleare) si oppongono all’inasprimento di sanzioni Onu contro
l’Iran.
4. L’Islam nelle relazioni internazionali.
Il vettore religioso, congiunto ad i legami con i popoli panturanici e alla tradizione
ottomana collega la Turchia a zone strategiche del globo. Notiamo che le potenze che
hanno avuto un ruolo di egemonia regionale o globale si siano prodigate al fine di
costituire una potenza marittima. Ciò è lampante nell’Impero Romano, nella Repubblica
Veneziana, Paesi Bassi, Spagna, Regno Unito ed in ultimo gli Stati Uniti.
La Turchia attraverso i legami con i popoli musulmani riesce a inserirsi negli otto
stretti strategici controllati da Stati islamici: Dardanelli, Bosforo, Suez, Bab-el-Mandeb
(Tra Yemen e Gibuti), lo stretto di Hormuz (tra Iran e Oman e Emirati Arabi Uniti), gli
stretti indonesiani di Malacca (con la Malesia), Sonda e Lombok, e in ultimo lo stretto di
Gibilterra.
Negli anni ’50 il viaggio di Tito tra i Paesi non-Allineati porta il leader della
Federazione Jugoslavia a comprendere l’importanza della popolazione musulmana nel suo
territorio al fine di mostrarsi come Paese multiculturale. L’elemento musulmano aiuta la
diplomazia tra Belgrado e gli stati islamici, in primis Egitto ed Indonesia
Il fattore islam nello Stato turco ha aiutato questo Paese nelle relazioni con le
Repubbliche centro-asiatiche, all’interno delle quali è sempre stata rilevante la componente
islamica. Il modello turco fungeva da esempio positivo di controllo dell’Islam che relegato
alla sfera privata non manifestava elementi violenti.
Affascinato dalla figura di Mustafa Kemal Atatürk, Habib Bourguiba, si ispira al
modello moderno e secolare di Turchia per applicarlo alla Tunisia post coloniale.
Il modello dell’Islam di Turchia nella fase pre-Akp era quello di un Paese laico,
gestito dai kemalisti, capace di relegare l’Islam a un affare privato lontano dalla gestione
136 statale. L’ascesa del partito di Erdoğan ha portato gli islamici praticanti in politica. Essi,
benché fedeli al secolarismo riscoprono la religione come elemento di unione e comunanza
tra i fedeli in patria e oltre confine.
Il turco Ekmeleddin Ihsanoglu dal 2005 è Segretario Generale dell’Organizzazione
della Conferenza Islamica. L’OCI è la seconda organizzazione intergovernativa più grande
al mondo dopo le Nazioni Unite. L’Organizzazione della Conferenza Islamica è composta
da cinquantasette stati membri tra i quali Somalia e Palestina. Sono presenti cinque Stati
osservatori tra i quali Cipro Nord, Bosnia-Erzegovina e Russia la cui candidatura sino al
2005 (anno di adesione al ruolo di osservatore) è stata sostenuta fortemente dalla Turchia.
“The Organization is the collective voice of the Muslim world and ensuring to
safeguard and protect the interests of the Muslim world in the spirit of promoting
international peace and harmony among various people of the world”82.
L’Organizzazione vuole essere un mezzo di dar voce alla Ummah mondiale. La
Turchia nell’ultimo decennio ha un ruolo molto forte nell’organizzazione. Membro
dell’Organizzazione dalla fondazione della stessa, 1969, ospita due importanti organi
sussidiari: The Statistical, Economic and Social Research and Training Centre for Islamic
Countries, SESRIC (Ankara) e The Research Centre for Islamic History, Art and Culture,
IRCICA (Istanbul).
Ad Istanbul ha anche sede l’istituzione affiliata: Islamic Conference Youth Forum for
Dialogue and Cooperation,ICYF-DC.
L’elezione del Professore Ekmeleddin Ihsanoğlu avviene nella trentunesima
Conferenza dei Ministri degli Esteri ad Istanbul nel giugno 2004, nella prima elezione
liberamente condotta nella storia dell’OCI. Dalla Conferenza di Istanbul la Turchia assume
anche la Presidenza a rotazione sino al 2005 e sostiene attivamente l’operato del Segretario
Generale uniformandosi alle riforme promosse dall’Organizzazione.
Nel maggio 2007 ad Islamabad viene firmata la Risoluzione numero: 6/34-P circa la
situazione problematica dei musulmani, abitanti di Cipro Nord. Nella stessa occasione
82
www.oic-oci.org, about OIC. Visionato giugno 2011.
137 viene firmata la Risoluzione numero 3-34-MM sulla situazione delle minoranze
musulmane turche nella Tracia occidentale.
La Turchia è l’unico Paese musulmano insieme al Senegal ad aver scolpito la laicità
tra i diritti fondamentali della Costituzione. Dall’ascesa dell’Akp e dell’incremento del
ruolo turco in regione, Ankara riceve dagli Stati dell’Oci una maggiore considerazione e
fiducia. Ciò è visibile dalla nomina ed elezione di Isanoglu, dalla Presidenza di turno
accordata alla Turchia, le risoluzioni vicine a Cipro Nord e alle minoranze turcofone, ma
anche dalla crescente cooperazione con i Paesi dell’area, in primis con gli Stati membri del
Consiglio di Cooperazione tra gli Stati Arabi e del Golfo.
Al di là dei numerosi vantaggi economici e commerciali, dal punto di vista
diplomatico operarsi verso una politica di collaborazione e fiducia con l’Arabia Saudita è
totalmente coerente con la dottrina dello “zero problemi con i vicini” e ciò si evince
considerando l’attore iraniano.
L’ultimo decennio è caratterizzato da un’apertura di storica importanza tra Turchia ed
Iran. I due Paesi sono nemici dal 1979 ovvero dalla rivoluzione di Khomeini che ha portato
Teheran a posizioni anti-americane e di riflesso avverse ad Israele e Turchia. Nel nuovo
millennio Ankara e Teheran collaborano in diversi settori decuplicando dal 2000 al 2008
gli interscambi economici.
Ciò che dapprima avvicina i due Paesi è la lotta al PKK e al PJAK, i due movimenti
separatisti di ispirazione marxista-leninista, il primo turco, il secondo iraniano. L’Iran è
detentore delle seconde maggiori riserve mondiali di petrolio e gas naturale. Gli embarghi
e le sanzioni internazionali hanno paradossalmente immunizzato Teheran dalla crisi
internazionale del 2008. Il Paese tuttavia ha bisogno di esportare idrocarburi e aprire la sua
economica. Anche l’Iran è portatore di geni imperiali. Gli iraniani orgogliosi della propria
storia e cultura, vivono tuttavia un complesso di accerchiamento. Ciò è dato dal sentimento
di essere un’isola sciita in un mare sunnita, dalle pesanti ritorsioni americane e la paura di
un attacco del Paese. La sensazione di accerchiamento deriva da traumi storici, il più
lontano è l’invasione di Gengis Khan, il primo esempio in cui un nemico venuto da lontano
penetrava nel Paese con una forza distruttiva provocando rivolgimenti interni ed epocali.
138 Oltre l’invasione mongola, esempi recenti di distruzione causati da un nemico venuto oltre
confine sono la deposizione dello Scià di Persia in favore di un governo filo-americano,
seguito da disordini interni e bagni di sangue, e ancora più recentemente la guerra Iran-Iraq
dal 1980 al 1988. La Prima Guerra del Golfo vede l’aggressività di Saddam Hussein
Scatenarsi contro un’Iran già segnato dalla rivoluzione islamica. L’Iraq intende
approfittare della situazione di transizione e debolezza iraniana per prendere controllo di
posizioni strategiche mediorientali. Appoggiato da gran parte della comunità
internazionale timorosa nel propagarsi della rivoluzione (in primis gli Stati Uniti
d’America) Saddam Hussein porta avanti una guerra devastante. L’attuale classe dirigente
iraniana, in primis Ahmadinejad rimangono segnati da tale guerra. Tale generazione era
presente al fronte di tale guerra violentissima.
La Turchia guadagna la fiducia di Teheran nell’ultimo decennio. Da un punto di vista
delle relazioni internazionali si libera da un ruolo di subordinazione a Washington, si
allontana da Israele per distendere le relazioni con Hamas e con la Siria sciitia. Erdoğan e
Lula inoltre si oppongono alle sanzioni da parte del Consiglio di Sicurezza verso l’Iran
circa l’arricchimento dell’uranio.
L’Iran ha bisogno di partner commerciali e trova molto appetibile il progetto Nabucco
che trasporterebbe dal 2014 trentuno miliardi di metri cubi d gas naturale all’anno dalla
Turchia verso l’Europa occidentale attraverso Bulgaria, Romania, Ungheria e Austria.
La Turchia è sunnita, ma laica e fa dell’Islam uno strumento pacifico di politica estera
ma non fa proselitismo. Ankara tuttavia teme che l’avvicinamento all’Iran possa provocare
l’Arabia Saudita, la quale rivaleggia su diversi fronti (in primis economici) con il Paese
sciita. Ryad e Teheran competono sul Golfo Persico/Golfo Arabo. I Sauditi sono
interdipendenti agli Stati Uniti. Ryad vede l’Ayatollah come figura eretica.
La Turchia attraverso l’Organizzazione della Conferenza Islamica e le relazioni con il
Consiglio di Cooperazione del Golfo manifesta un intento pacifico con i Paesi del Golfo. I
sei Paesi del Golfo, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman, Kuwait, Bahrein e Qatar,
contano una popolazione inferiore ai quaranta milioni di abitanti per un reddito medio di
139 quarantamila dollari l’anno, tra i più elevati al mondo. Ricchi di petrolio e gas naturale, e
dunque di riserve finanziarie, questi Paesi ritrovano un partner interessante nella Turchia.
La crisi finanziaria del 2008 porta questi Paesi a cercare collaborazioni più
differenziate rispetto le economie occidentali meno in crescita. La Turchia assieme alle
potenze asiatiche rappresenta uno dei Paesi con i quali crescono maggiormente gli
interscambi.
Nel 2006 gli interscambi tra Turchia e Paesi del Golfo raggiungono i 6,1 miliardi di
dollari. Le esportazioni Turche riguardano maggiormente prodotti manifatturieri, ferro e
acciaio; prodotti tessili e alimentari. I Paesi del golfo esportano minerali, petrolio, gas
naturale, pelli animali e hydes.
Nel giugno 2007 in Turchia operavano centoquarantuno compagnie saudite e
quarantotto degli Emirati. Questi Paesi sono attivi nelle privatizzazioni turche, un esempio
è l’acquisizione della Turkish Telecom da parte dell’Oger Telecom degli Emirati Arabi
Uniti.
I rapporti con il Qatar nel 2006 raggiungono la cifra di mezzo miliardo di dollari di
interscambi. La Compagnia di Petrolio Turca collabora nell’esplorazione di gas naturale
nelle acque territoriali del Paese.
Il Commercio con gli Emirati Arabi Uniti è cresciuto moltissimo nel secondo lustro
del nuovo millennio. Se sino agli anni ’90 i livelli di cooperazione economica erano molto
modesti, nel 2007 le cifre oscillano oltre i due miliardi di dollari, facendo degli E.A.U.
l’ottavo mercato di esportazioni turco.
Nel 2006 l’interscambio con l’Arabia Saudita era pari a 3,5 miliardi di dollari. I
contratti commerciali aiutano le relazioni tra i due Paesi. L’Arabia Saudita nel 2007
diviene il ventunesimo mercato di esportazione per la Turchia, e il sedicesimo partner di
prodotti importati.
Le imprese di costruzioni turche, il settore finanziario e il turismo rappresentano delle
nuove opportunità economiche per espandere le relazioni tra Ankara e i Paesi del Golfo.
Tra i 2002 e il 2006 il 17% dei progetti esteri totali vinti da imprese turche sono impegnati
140 nei Paesi del Golfo. Il 27% di tutti i progetti di costruzioni di imprenditori esteri del Golfo
sono gestiti da imprese turche.
Tredici banche turche, alcune delle quali cooperanti con le attività di finanza islamica
rappresentano uno dei maggiori centri finanziari nel golfo. Le serie televisive turche,
diffuse in questi Paesi sono un mezzo di conoscenza della Turchia e incentivano l’interesse
del Paese da parte degli arami. Il turismo verso la Penisola Anatolica cresce rapidamente
negli ultimi anni. Il numero complessivo di visitatori sauditi pari a 55,636 nel 2008 cresce
a 66,938 nel 2009 per arrivare alla cifra di 84,934 nel 2010. Per incentivare il turismo la
Turchia facilita la politica delle visa di breve termine nei confronti dell’Arabia Saudita.
Nel 2010 circa cinquantacinquemila turisti degli Emirati Arabi Uniti hanno visitato la
Turchia. Anche dal Kuwait la Turchia sta emergendo come importante meta di
destinazione. Parte rilevante del turismo verso la Turchia è destinato al pellegrinaggio.
Anche i turchi visitano questi Paesi in maniera crescente. La ragione principale è
legata ai cittadini turchi che per motivi di lavoro abitano negli Stati del Golfo. Secondo il
Ministero del Lavoro e della Sicurezza Sociale di Turchia, nel 2011 in Arabia Saudita
vivevano centoquindicimila turchi, settantamila dei quali lavoravano nel Paese,
principalmente nel settore delle costruzioni. Negli EAU vivono cinquemilacinquecento
turchi, nel Kuwait quattromila, nel Qatar duemila, nel Bahrain settecento e nell’Oman
cinquecento.
I governi di entrambe le parti hanno accompagnato la crescita delle relazioni
commerciali con l’attivazione di forum regolari ad Alti livelli d’interazione. Il 2003 è
l’anno del Saudi-Turkish Business Council. L’Autorità degli investimenti del Qatar e
l’ISPAT (Investment Support and Promotion Authority of Turkey), nel 2008 siglano un
importante memorandum di cooperazione su diversi settori di investimento. Nello stesso
anno un altro memorandum viene firmato tra la Turchia e i Paesi del golfo al fine di creare
gruppi di lavoro per aree chiave in ogni settore strategico di partnership.
Diplomazia e interessi strategici accompagnano i miglioramenti economici. Ciò lascia
pensare che in tali relazioni la diplomazia non sia funzionale esclusivamente
all’economica. La diplomazia tra Turchia e Paesi islamici trova senso in se stessa. Il
141 miglioramento delle relazioni con questi Paesi rafforza ulteriormente il ruolo della Turchia
in regione e più in generale tra i Paesi islamici.
Il 19 agosto 2011, in pieno Ramadan, il Primo Ministro Recep Tayyip Erdoğan visita
la devastata Somalia.
La sua visita è preceduta da un Summit ad Istanbul tra i cinquantasette paesi
dell’Organizzazione della Conferenza Islamica circa la crisi somala. La Turchia si fa
promotrice di un’energica politica di cooperazione con il Paese del Corno d’Africa. Nella
conferenza dell’OCI, Erdoğan fa appello alla necessità dell’aiuto in Somalia criticando
“millionaires who drive luxury cars and the "Western world's" arrogance for ignoring the
plight of the poor.”
Condannando il disinteresse di molti Paesi ricchi e il modello di capitalismo
occidentale, Erdoğan sostiene che l’emergenza somala dev’essere fronteggiata dall’intera
popolazione mondiale, non solo dai musulmani.
"If you ride a luxury car you should be generous enough to people who are struggling
with hunger".
Per i musulmani il periodo di Ramadan è un’occasione dei più agiati di aiutare i
poveri attraverso la carità, il quale rappresenta uno dei cinque precetti dell’Islam.
Tra i Paesi islamici la Somalia tra guerra, instabilità e in ultimo la carestia di
quest’estate rappresenta il più povero tra i Paesi islamici.
Erdoğan e Davutoglu, accompagnati dalle loro famiglie visitano uno dei campi
profughi che ospita cinquecentomila persone.
Erdoğan è il primo leader non africano che a distanza di vent’anni visita la Somalia.
Attraverso l’apertura di ambasciate e consolati, nell’organizzazione di borse di studio
per studenti somali verso le università e scuole nella penisola anatolica, attraverso i soldi
della cooperazione volta alla costruzione di strade, dighe, ospedali, la Turchia si inserisce
tra le potenze emergenti con interessi nel Continente più ricco di materie prime, l’Africa.
La cooperazione civile turca è accompagnata dalla presenza militare. Il 25 gennaio
2012 il Parlamento turco rinnova la partecipazione della Marina turca all’operazione di
142 contrasto ai pirati somali. Quest’atto parlamentare rappresenta trentaquattresima
autorizzazione del governo all’invio delle Forze Armate all’estero dal 1950. La Marina
turca è presente nel Golfo di Aden dal febbraio 2009. Quattro forze internazionali operano
in regione: EUNAVFOR Atlanta (UE), NATO's Standing Naval Maritime Group One,
French-commanded Combined Task Force 150 e Combined Task Force (CTF) 151. La
Turchia è parte del Combined Task Force 151, e, alternandosi a Stati Uniti e Corea del
Sud, ha alle volte assunto il comando dell’operazione. L’interesse della Turchia alla
Somalia è finalizzata a inserirsi nella regione africana, ma non solo. L’attivismo di
Erdoğan in Somalia mostra una Turchia attenta ai bisogni dei musulmani.
La Turchia guidata dall’Akp è protagonista nell’OCI, coopera con Malesia, Paesi del
Golfo, Iran, Nord Africa, Kosovo, Albania e Bosnia-Erzegovina.
La Turchia si presenta come Paese centrale nella Cintura Planetaria dei Paesi a
maggioranza musulmana. Se il modello turco sino agli esordi del ventunesimo secolo
rappresentava una Turchia a maggioranza islamica e totalmente secolarizzata, oggi parlare
di modello turco equivale a parlare di una Turchia che salvaguardia laicità e modernità, ma
al cui interno gli islamici possono praticare le libertà di culto e accedere alle cariche più
alte della politica e diplomazia.
La Turchia guidata dall’Akp diviene un modello studiato, elogiato e citato da parte
delle formazioni risultate vincitrici dalle prime elezioni democratiche successive alla
Rivoluzione Araba in Tunisia ed Egitto.
La Turchia della diplomazia di Davutoglu ha osservato attentamente i rivolgimenti di
Tunisia, Egitto e Libia, assumendo un ruolo attivo nei momenti più intensi, mostrando una
vicinanza ai popoli in agitazione, in particolare quello egiziano, e una moderazione
nell’intervento militare in Libia, in aperta opposizione alla Francia.
L’attivismo turco in Nord-Africa, capace di reagire ad eventi inaspettati s’inserisce
nell’ultimo vettore di politica estera enunciato da Ahmet Davutoğlu in Profondità
strategica, il Neo-Ottomanesimo, ovvero la riscoperta delle tradizioni e del passato
imperiale che riportano la Turchia a contare in Medio Oriente, Nord-Africa e Balcani.
143 2.c Neo-Ottomanesimo
“Io non sono un neo-ottomano”. Nelle sue parole e intenzioni Ahmet Davutoğlu vuole
evitare malintesi con i giornalisti. La negazione del carattere neo-ottomano viene più volte
affermata dai primi mesi del suo mandato, in particolare a seguito della missione in Libia
nel novembre 2009 e ribadito ai giornalisti di Balkan Insight nell’aprile 201183.
1. Definizione
Il termine Neo-Ottomanesimo, coniato in Grecia in seguito all’occupazione delle
Forze Armate turche della parte settentrionale di Cipro nel 1974, nasce con una
connotazione dispregiativa. L’idea del ritorno del Sultano conquistatore e aggressivo il cui
intento è ristabilire il suo controllo all’interno dei confini imperiali. Il termine NeoOttomanesimo è utilizzato ogni volta che si intende mostrare una Turchia meno vicina agli
Stati Uniti e all’Occidente, più propensa ad una riscoperta dell’Islam e ad un
avvicinamento a Paesi quali Iran e Siria.
La connotazione negativa deriva altresì da un’interpretazione interna turca della
memoria storica della fase ottomana. Secondo i kemalisti, il periodo pre-repubblicano era
caratterizzato da arretratezza, debolezza e oscurantismo. E’ la gestione ottomana, in
particolare nell’ultima fase di Abdul-Hamid II che ha portato l’Impero sull’orlo del baratro
lasciando che la Turchia fosse invasa e frammentata da potenze straniere.
Il capo della diplomazia turca rigetta queste etichette dichiarando:
“The notion of neo-Ottomanism is not innocent; they have deliberately used this term
in an attempt to reduce our influence in the Balkans and to intimidate people.” 84
La volontà di Ankara è il protagonismo e l’attivismo nelle regioni mediterranea,
caucasica e mediorientale. La Turchia porta avanti una nuova politica estera, tenace, verso
i Paesi che un tempo erano compresi nell’Impero Ottomano. Tuttavia i termini del
83
“Davutoglu: ‘I’m Not a Neo-Ottoman”, http://www.balkaninsight.com/en/article/davutoglu-i-m-not-a-neoottoman, 26 aprile 2011
84
Etyen Mahçupyan, Neo-Ottomanism, 15 settembre 2011, Today’s Zaman
144 perseguimento di tale politica estera differiscono dalla connotazione aggressiva e
oscurantista attribuita alla parola Neo-Ottomanesimo. La priorità securitaria e il
militarismo della fase di gestione del potere kemalista vengono scalzati dal Soft-Power
della nuova diplomazia dell’AKP. La nuova politica estera pone le basi della dottrina dello
“zero problemi con i vicini”, una diplomazia più trasparente e idealistica, a tratti
wilsoniana che facilita i contratti commerciali tra privati, la cooperazione allo sviluppo
gestita dalla TIKA e i forum culturali e di amicizia. Inoltre l’interpretazione del periodo
ottomano da parte degli islamici praticanti differisce dalla visione dei laici kemalisti.
Ahmet Davutoğlu considera la gestione ottomana in termini positivi non solo nella regione
anatolica. A seguito dei suoi viaggi nei Balcani l’accusa di ritrovato imperialismo turco
viene lanciata da molti critici della Turchia.
In Bosnia-Erzegovina in particolare, la nuova politica estera di Ankara viene criticata
dai popoli costitutivi croato-cattolici e serbo-ortodossi e anche (sebbene con toni
decisamente più pacati) da una parte dei Musulmani-bosgnacchi. I non-musulmani temono
un rafforzamento della componente bosgnacca a loro discapito e un colonialismo turco. I
bosgnacchi più laici, quelli che per intenderci nel periodo jugoslavo si dichiaravano
appartenenti al popolo jugoslavo piuttosto di definirsi Musulmani o bosgnacchi, criticano
l’attivismo non disinteressato turco, visto sia come un tentativo di sfruttamento del Paese
sia soprattutto come azione che possa indebolirne la laicità. La presenza turca nel Paese è
molto evidente tuttavia non del tutto rappresentativa della società di Turchia. I Turchi che
visitano o abitano in Bosnia-Erzegovina sono spesso conservatori e musulmani devoti. Il
15% dei turisti che scoprono la Bosnia-Erzegovina sono turchi, spesso pellegrini,
rappresentanti di un Islam conservatore. Le studentesse e gli studenti turchi che abitano
Sarajevo provengono frequentemente da contesti famigliari conservatori. I ragazzi
iscrivendosi nelle facoltà bosniache, in particolare ingegneria, intendono evitare il servizio
militare. Le ragazze spesso frequentano la Facoltà di Studi Islamici di Sarajevo, Fakultet
Islamiskih Nauke, dove è possibile e auspicabile l’uso del velo a differenza delle università
turche. La storia del periodo ottomano da parte dei critici della presenza turca nei Balcani
viene presentata dunque in termini negativi, come l’origine delle divisioni dei popoli
balcanici.
145 Davutoğlu risponde a tali critiche:
“My perception of history in the Balkans is that we have to focus on the positive
aspects of our common past. We cannot create a better future by building on a negative
view of history”.
e ancora:
“Balkans had its golden age of peace during the Ottoman reign. This is a historical
fact. Those who blame the Ottoman period for the region’s economic backwardness and
internecine fights are under the influence of historical prejudices and stereotypes.
It will be enough to travel only a few hundred kilometres to identify the patrimony created
during the Ottoman rule. Therefore, we do not want to be part of this blame game. As I
told you before we have to focus on the good. To start with, we have to take a clear and
realistic picture of the history. Those who do not know history cannot make history”85.
Davutoğlu riprende i principi di tolleranza e pluralismo propri dell’Impero Ottomano.
In Profondità Strategica il Professore di Relazioni Internazionali scrive:
“E gli ottomani, che consideravano la varietà come una ricchezza e non come una
fastidiosa contraddizione, operando all’interno del paradigma islamico dominante nelle
regioni più complesse ed eterogenee della storia umana hanno dimostrato il dinamismo
necessario a fondare una nuova civiltà e un proprio ordine politico”86.
Il significante Neo-Ottomanesimo può assumere due significati. La connotazione
negativa è legata ad una visione di Turchia espansionista ed aggressiva, che vuole
riproporre l’Islam all’interno del suo spazio d’influenza a discapito della laicità. La
connotazione positiva denota una Turchia attiva in politica estera e pacifica e inoltre
responsabile e vicina nei confronti dei popoli con i quali profondi sono i legami storici.
85
Davutoglu: ‘I’m Not a Neo-Ottoman’, http://www.balkaninsight.com/en/article/davutoglu-i-m-not-a-neoottoman, 26 aprile 2011
86 Vox Populi, a cura di, “La profondità strategica turca nel pensiero di Ahmet Davutoglu”. Pergine Valsugana,
Trento, Maggio 2011 146 Secondo il giornalista e scrittore turco-armeno Etyen Mahçupyan, editorialista dello
Zaman: “Neo-Ottomanism is a fairly useful term in identifying the state of mind of Turkish
society as well as Turkish foreign policy because there is a large group of people who are
greatly confident, eager to make the land beyond Turkey’s geographical boundaries
important in their individual lives, ambitious to learn about history and ready to take a
conscious look at social issues”87.
Il Neo-Ottomanesimo in politica estera trae origine da un riequilibrio interno alla
società turca, in cui il principio etnico viene scalzato da un concetto di cittadinanza
multiculturale. I nuovi equilibri tra le componenti turche sono caratterizzati da maggiore
tolleranza e pluralismo, concetti ben presenti nella filosofia di John Rawls, che
caratterizzavano la fase ottomana, o almeno l’interpretazione più positiva della stessa.
Sempre secondo Etyen Mahçupyan, la sintesi sociologica dell’AKP che trova fondamento
nel suo elettorato d’imprenditori anatolici, fondazioni islamiche, associazioni dei diritti
umani e in generale le generazioni conservatrici, aspira al superamento delle restrizioni
legate al regime repubblicano88. I criteri di membership all’Unione Europea hanno
contagiato la Turchia. L’ideologia del regime repubblicano caratterizzata dal nazionalismo
e esclusivismo della classe kemalista al potere, non risponde più alle esigenze di una
società pluralista e intenta a guardare oltre i confini. La società turca muta e fa mutare i
principi dell’ordinamento i quali, a loro volta, condizionano la Weltanschauung e il suo
agire internazionale.
L’Islam, sempre presente nella società turca, ha chiaramente aspirazioni
internazionaliste. La religione islamica nella pratica dei suoi fedeli differisce dal
cristianesimo ad esempio per la tendenza minore di scindere tra sfera religiosa/privata e
sfera pubblica. Tra i fedeli musulmani è comune il sentimento di fratellanza
indipendentemente dalla nazionalità e dalla distanza culturale. Un esempio interessante fu
87
Neo-Ottomanism, http://www.todayszaman.com/columnist-256927-neo-ottomanism.html, 15 settembre
2011
88
Ibid.
147 il pellegrinaggio di Malcom X alla Mecca il 13 aprile 1964. Prima di giungervi nel suo
viaggio incontrandosi con altri fedeli dichiara: “[We] were hugging and embracing. They were of all complexions, the whole
atmosphere was of warmth and friendliness. The feeling hit me that there really wasn’t any
color problem here. The effect was as though I had just stepped out of a prison.” 89 Il 20 aprile 1964 dall’Arabia Saudita, una delle figure afro-americane più influenti
della storia degli Stati Uniti scrive: “America needs to understand Islam, because this is the
one religion that erases the race problem from its society”90.
Malcom X rimane piacevolmente sorpreso dal senso di fratellanza e condivisione da
parte dei fedeli che si riversano nella Mecca. Una solidarietà di persone provenienti da
ogni parte del globo, dall’America ai Paesi Arabi, dall’Europa all’Africa fino all’estremo
oriente. L’interpretazione pacifica dell’Islam comporta pluralismo, comprensione e pace.
Malcom X smetterà di trovare caratteristiche diaboliche nell’uomo bianco proprio in
seguito al suo pellegrinaggio.
Il Neo-Ottomanesimo è portato avanti in politica estera per perseguire un interesse
nazionale, e cioè quello di una Turchia che aspira al rango di leadership regionale come
ponte tra tre continenti. La riscoperta della grandeur porta la Turchia ad utilizzare il NeoOttomanesimo al fine di perseguire un obiettivo fondamentale: mediare. Il ruolo di
mediatore per Ankara è più importante del tema della mediazione. Un Paese che aspira al
ruolo di leadership mondiale o regionale deve essere il Paese mediatore che controlla i
conflitti e le dispute. Dopo la Pax Britannica e quella Americana, Davutoğlu sogna una
Pax Turca. La filosofia realista di tale diplomazia si colora di toni idealisti e kantiani del
Ministro degli Esteri e riceve impulsi notevoli da un popolo in fermento.
L’ideologia kemalista alla base della politica estera i cui obiettivi principali
rispondevano alla logica securitaria in una Turchia in cui il potere civile era subordinato a
89
Alex Haleys, The autobiography of Malcom X, Bloom’s Litarary Criticism, New York, 2008. pg 52
90
Ibidem pg. 62
148 quello militare, è scalzata da una nuova ideologia. L’evoluzione delle idee in senso più
pluralista e dell’azione internazionale riscoprono le origini ottomane.
Nei suoi rapporti con l’estero l’Impero Ottomano ha per secoli lasciato che le potenze
internazionali operassero in quasi assoluta libertà nel perseguimento dei loro interessi
economico-finanziari. Le numerose capitolazioni in quattro secoli di storia, contratti
bilaterali tra una potenza europea e l’Impero, garantivano agli europei grandissima
autonomia. Attraverso le capitolazioni gli europei oltre a curare i loro interessi
commerciali stringevano rapporti con i Millet cristiani indebolendo lentamente, ma
inesorabilmente l’autorità del Sultano. L’Impero Ottomano dalle prime fasi d’espansione
cerca di proiettarsi verso occidente e ad esso, soprattutto nell’ultimo secolo, altamente
subordinata in particolare dal punto di vista delle interazioni economico-commerciali.
Come già espresso nelle pagine precedenti l’incubo dell’instabilità e della disgregazione
dell’Impero, portava i sultani a perseguire politiche che accettassero le differenze dei
sudditi abbandonando il sogno delle conversioni. I sudditi che si convertivano avevano
certamente dei privilegi in termine di tassazione e avanzamenti nell’amministrazione o
nell’esercito, tuttavia le pratiche d’incentivi alla conversione appaiono ben distanti dai
mezzi più cruenti utilizzati dalla cattolica Repubblica Veneziana che dalle coste croate
penetrava verso l’interno dei Balcani per perseguitare gli eretici della Chiesa Bosniaca.
L’Ottomanesimo che si afferma nella fase del Tanzimat dunque, prevede pluralismo
all’interno e interrelazioni con gli europei. Le debolezze del Malato d’Europa non riescono
ad interrompere la furia centrifuga delle periferie imperiali. L’Impero Ottomano crolla
rovinosamente e i kemalisti devono rifondare un nuovo soggetto. Atatürk è cosciente che
l’Impero Ottomano prendeva grande ispirazione dall’Occidente, compresi i nobili intenti,
ma mancava di una caratteristica moderna e tipica degli Stati-Nazione dell’Ovest:
l’autonomia.
Come già riportato nella parte “Kemalisti”, Mustafa Kemal, dopo aver liberato
l’Anatolia e inviati i migliori generali alla conferenza di Losanna, vuole proporre al mondo
un nuovo soggetto e di esso vuole garantirne l’indipendenza.
149 La Repubblica di Turchia a Losanna nel 1923, forte del suo potere contrattuale, vista
la sua recente vittoria e l’interesse degli inglesi e dei francesi a non inimicarsi un possibile
alleato anti-sovietico, decide di onorare i debiti contratti dall’Impero ottomano, ma di
mettere fine alle capitolazioni e alla legislazione speciale che tutelava gli investitori
europei. Accettando di onorare i debiti Atatürk dimostra di voler intrattenere rapporti
pacifici con gli occidentali. Le dure e lunghe trattative circa gli annullamenti delle
capitolazioni lasciano intendere l’intento turco di fondare una Repubblica che sia
autonoma e indipendente. Nelle Costituzioni, Codice Penale e Civile, nelle Istituzioni, la
Turchia si ispira agli europei, e lo fa per decenni (processo del resto già avviato dalla fase
del Tanzimat nel periodo Ottomano). Tuttavia la prima caratteristica che intende imitare è
l’autonomia. I turchi hanno bisogno di difendere il loro orgoglio umiliato dalle sconfitte,
dallo sfruttamento del territorio, dall’arroganza occidentale. La chiusura è strumentale al
processo di turchizzazione e di rinascita della Repubblica di Turchia. Il kemalismo, nel suo
nazionalismo, è un’ideologia imposta, strumentale, ma efficace.
Negli anni ’60 in una fase di tendenza al Washington Consensus la Turchia inizia ad
aprirsi anche economicamente (precedenti erano state le adesioni ad organizzazioni
politiche internazionali quali ONU e NATO), lo fa in relazione alla Comunità Europea.
Quest’ultima organizzazione, più delle altre e forse anche in misura maggiore degli Stati
Uniti, contagia d’internazionalismo le menti turche. La Turchia dagli accordi di Ankara del
’63 apre la sua economia. I governi di Turgut Özal e di Recep Tayyip Erdoğan seguono
diligentemente le politiche di liberalizzazione esortate dal Fondo Monetario Internazionale
e le condizionalità della Banca Mondiale. La Repubblica turca si riapre all’economia
occidentale lasciando pensare a un parallelismo con il passato imperiale. Le aperture più
importanti avvengono nell’ultimo decennio, in seguito alla crisi economico-finanziaria
degli anni 2000-2001. La differenza principale di oggi rispetto al diciannovesimo secolo è
che il mondo non è più lo stesso. La Turchia della diplomazia efficace riesce a essere
partner importante di Paesi diversissimi tra loro come Federazione Russa, Iran, BosniaErzegovina, Egitto, Italia. La Turchia neo-ottomana recupera l’ottomanesimo nelle
relazioni con gli altri Stati, nei contratti commerciali, nella Soft Law, nella visione che
150 proietta Istanbul, Ankara e Konya, oltre i confini. La visione ambiziosa turca influenza e
viene influenzata da una società dinamica che cresce e che opta per una nuova ideologia.
Sintetizzando quanto già approfondito nelle pagine precedenti: il kemalismo era
strumentale alla turchizzazione e aveva come fine quello di plasmare l’uomo nuovo turco.
Nella sua ricerca d’indipendenza e autonomia Atatürk non ha mai tagliato tutti i fili e
legami con gli europei anzi, Mustafa Kemal sognava il ritorno di una Turchia forte in
Europa. Indipendentemente dall’adesione o meno all’UE, la Turchia è oggi orgogliosa e
forte nel vecchio continente. Il sogno di Atatürk sembra essere in corso di realizzazione e
l’evoluzione in tale direzione pretende un superamento dei principi fondativi della
Repubblica.
La dottrina dello “Zero Problemi con i Vicini” elaborata da Ahmet Davutoğlu,
assomiglia molto al motto di Mustafa Kemal “Pace in Patria, Pace nel Mondo”. I
parallelismi tra Erdoğan e De Gaulle ricordano le comparazioni effettuate dagli storici
circa Atatürk e Pietro il Grande. Ci si chiede se gli eredi del rivoluzionario Mustafa Kemal
siano oggi i conservatori kemalisti. Nella sua scelta di voler mantenere un legame con
l’Europa, Kemal poneva il seme del superamento dell’ideologia kemalista.
L’Impero Ottomano, esteso e duraturo, è capitolato non troppe generazioni or sono. E’
difficile ed improbabile cancellare le radici imperiali dai geni turchi. E’ possibile
sconfiggere ed umiliare un Impero, occuparlo, imporne e condizionarne alfabeto,
calendario, uso della religione, costumi. Gli imperi sopravvivono nell’orgoglio dei sudditi
e sono pronti a riemergere nel momento giusto. Il Neo-Ottomanesimo rappresenta il
ritrovato orgoglio turco amalgamato da ottime politiche economico-commerciali, da una
diplomazia di larghe vedute, da una classe dirigente ambiziosa, una società dinamica e
soprattutto la volontà di contare nel mondo. Il Neo-Ottomanesimo trova origini nel passato
imperiale, ma solo in quelle parti strumentalizzabili ai fini di posizionarsi in maniera forte
in alcune regioni del mondo. Nei Balcani ad esempio Davutoğlu non menziona le
sanguinose repressioni e violenze contro gli ortodossi e i cristiani in generale, bensì il
contributo che l’Impero avrebbe dato allo sviluppo di convivenza pacifica tra popolazioni
diverse.
151 2. Il Modello Turco nella Primavera Araba
“La Turchia fa sognare il mondo arabo e affascina ogni giorno di più i popoli entrati
in movimento dopo la rivoluzione tunisina, divenuta per loro motivo di speranza, o anche
un esempio da seguire”91.
E’ il successo economico di un Paese musulmano che nel 2011 è cresciuto a tratti più
della Cina, ma soprattutto il successo politico che ammalia i popoli in fermento
rivoluzionario.
Dagli ultimi studi di TESEV, la Fondazione Turca degli Studi Economici e Sociali, in
particolare “Turkish image in the Arab world” del maggio 2011 e “Perceptions about
Turkey in the Middle East”, del febbraio 2012, la Turchia appare essere il Paese più
popolare tra i residenti di sedici Paesi mediorientali, compreso Iran e gli Stati nordafricani.
Rispetto all’anno precedente la popolarità turca è in leggero declino solo in Siria ed Iran.
Gli intervistati dei sondaggi di Tesev credono nella Turchia come soggetto
internazionale per le mediazioni circa le crisi regionali. Secondo il 77% degli intervistati
nel sondaggio circa le percezioni sulla Turchia nel Medio Oriente, nonostante il
deteriorarsi delle relazioni con Israele, la diplomazia di Ankara contribuisce a un impatto
positivo nella pace regionale. Il 71% pensa che la Turchia dovrebbe avere un ruolo
maggiore nell’area. Non è un caso se nell’ottobre 2011 la formazione del Consiglio
Nazionale Siriano avviene proprio ad Istanbul, città che ospita la riunione tra tutte le
correnti dell’opposizione siriana, dai laici ai religiosi, destra e sinistra.
Ad incrementare il successo della Turchia agli occhi dei musulmani del Medio
Oriente è la solidità e crescita dell’economia, la difesa del popolo palestinese e soprattutto,
in particolare per egiziani e iraniani, l’identità musulmana.
“Islam e modernità” è il binomio vincente soprattutto per i popoli nordafricani in
transizione.
91
Bernard Guetta, “Perché la Turchia fa sognare il mondo Arabo”. La Repubblica. 7-10-2011
152 Governata per un decennio dall’AKP, la Turchia si è stabilizzata nella prosperità e ha
rotto con la lunga serie di colpi di stato militari, coniugando tradizioni religiose e
modernità, Islam e democrazia, islamismo e laicità, tanto che oggi la generazione araba
della rivoluzione, cerca di importare il suo modello.
Gli islamisti tunisini si richiamano ufficialmente all’AKP. Interi settori dei movimenti
islamisti in Egitto, Libia, Giordania e Marocco vogliono seguire l’esempio turco92.
La Comunità Internazionale considerando gli attori in transizione, non dovrebbero
temere la ricerca del modello turco operata soprattutto dalle frange giovanili della
rivoluzione. I tumulti, l’instabilità, la crisi economica hanno portato al rafforzamento di
frange estremiste e movimenti jihadisti nei Paesi protagonisti della cosiddetta Primavera
Araba. Le giovani generazioni, soprattutto le più formate, rifiutano i mezzi terroristici
considerando il jihadismo come deleterio ai fini della loro protesta, preferendo Ankara a
Islamabad, Ryad e Teheran. Membri dei partiti che si apprestano a trionfare nelle prime
elezioni post-dittatoriali tuttavia, sembrano non condividere le opinioni dei loro
concittadini più giovani e da questo punto di vista, moderati.
Il richiamo alla Turchia viene spesso enfatizzato per mostrare il carattere laico e
pacifico delle rivoluzioni. Tuttavia è innegabile la difficoltà dell’esportabilità del modello
turco. Con tale termine s’intende un sistema capace di conciliare la tradizione religiosa
musulmana, con un sistema democratico e moderno. La Turchia di oggi è il risultato di
decenni di controlli e bilanciamenti da parte di un esercito laico, forte e moderno. I
successi diplomatici della Turchia contemporanea nascono da un retroterra di maggiore
pace e stabilità interna e poderosa crescita economica. Le rivoluzioni arabe hanno
contagiato la Turchia di una febbre di iperattivismo diplomatico. I viaggi di Davutoğlu e
Erdoğan sono numerosissimi.
Gli interessi economici nel Maghreb come nel Mashrek tuttavia precedono la
Primavera Araba, le società turche negli ultimi tre anni hanno vinto appalti nel Nord
Africa, nel Medio Oriente e nella zona del Golfo per un valore di trentatré miliardi di
92
Ennahda takes Turkey as model for democracy,
http://www.hurriyetdailynews.com/default.aspx?pageid=438&n=ennahda-takes-turkey-as-model-fordemocracy-democracy-2011-10-27, 27 ottobre 2011
153 dollari. Nel 2010 l’esportazione in questa regione ha raggiunto la cifra di ventisei miliardi,
mentre il totale degli investimenti è stato di 9,5 miliardi di dollari. Nel sondaggio di Tesev
“Turkey’s Image in the Arab World”93 mostra che il maggioranza dei mediorientali
considera la Turchia come il modello da seguire in Regione. Il sostegno maggiore al
modello turco proviene da tre Paesi: Libia, Tunisia e Egitto
3. Due Turchie per un solo Egitto
“La primavera araba è anche turca”, questo il commento di Ahmet Davutoğlu sui
rivolgimenti nordafricani. Il Ministro degli Affari Esteri della Repubblica di Turchia,
considera la “Primavera Regionale” come un atto di normalizzazione della storia del
Medio Oriente.
Il Premier turco nel settembre 2011 compie un tour in Egitto, Tunisia e Libia per
esprimere il suo sostegno ai popoli usciti da dittature o “democrature”. Il Cairo è la prima
tappa. Erdoğan è accolto dalla folla egiziana. Prendendo parte al vertice della Lega Araba,
il leader di un Paese membro della Nato dal 1952 dichiara: “Riconoscere lo stato
palestinese non è un'opzione ma un obbligo”. Benché Hosni Mubarak intrattenesse con
Israele cordiali relazioni internazionali e diplomatiche, le statistiche94 dicono che nove
decimi della popolazione egiziana considera Israele come una potenza aggressiva e
minacciosa verso i diritti e le libertà degli arabi. Anche in Egitto, così com’è stato per la
Somalia qualche settimana prima, Erdoğan critica l’Occidente facendosi promotore di una
nuova concezione delle relazioni internazionali, meno realista e calcolatrice. “The world is changing to a system where the will of the people will rule. Why should
the Europeans and Americans be the only ones that live with dignity? Aren't Egyptians and
Somalians also entitled to a life of dignity”95.
Ankara è attore attento e attivo sin da subito nei confronti della vicina Repubblica
Araba d’Egitto. Turchia e Egitto sono i Paesi più popolosi del Mediterraneo e insieme
93
Paul Salem, “Turkey’s Image in the Arab World”, Tesev, Istanbul, maggio 2011
Ibid.
95
“Lybia, Egypt, Syria and Middle East unrest”, http://www.guardian.co.uk/world/middle-eastlive/2011/sep/13/libya-syria-egypt-middle-east-unrest-live-updates, 13 settembre 2011
94
154 all’Iran competono per il ruolo di leadership nella regione mediorientale. L’Egitto è il
Paese arabo più popolato i cui sviluppi politici hanno da sempre determinato gli andamenti
dell’intera regione.
La Turchia s’inserisce in un vuoto lasciato da Europa e Stati Uniti, attori prima
egemoni nello scacchiere arabo che ora sono alle prese con la più grave crisi economica
dal 1929. Inoltre l’America della recessione economica e del ritiro dall’Afghanistan,
sembra preferire un disengagement all’attivismo internazionale.
Le manifestazioni di piazza al-Tahrir, iniziate il 25 gennaio 2011 hanno posto le basi
per le dimissioni del “Faraone” Hosni Mubarak e Recep Tayyip Erdoğan è stato il primo
capo di governo a chiedere al leader egiziano di ascoltare le rivendicazioni dei giovani e di
lasciare il potere. Nel processo di transizione i militari egiziani, costituito l’Alto Consiglio
delle Forze Armate (de facto il governo), mantengono ben saldo il timone del Paese. Le
Forze Armate sono rappresentanti del vecchio regime e al tempo stesso gestori del
cambiamento. Wafik Ghitany, esponente del partito liberale egiziano, Wafd, si chiede con
sarcasmo se sia opportuno affidare “alla dittatura il compito di processare se stessa”96. Gli
egiziani conferiscono al concetto di “Modello turco” una duplice interpretazione quasi
fossero percepite due Turchie. La prima fedele all’ideologia kemalista, repubblica laica
custodita dalle Forze Armate, la seconda revisionista della dottrina kemalista che
rappresenta gli interessi dei musulmani praticanti i quali, per decenni esclusi dal potere
politico, si schierano oggi a favore della prevalenza del potere civile su quello militare.
In Egitto nella fase post-Mubarak si distinguono due forze organizzate: l’esercito e i
Fratelli Musulmani. Determinanti nella gestione del potere dall’abolizione della monarchia
nel 1952, i militari sono stati fautori della decisione di destituire il Governo Mubarak.
Apparirebbe strategica la loro scelta di investire nella transizione cercando di non perdere i
privilegi dell’istituzione militare, criticata da alcuni commentatori in quanto casta.
L’apparato militare-industriale egiziano vale un terzo del Pil nazionale. Protette, esentasse
(e inefficienti) le industrie della Difesa producono beni civili e militari, tra questi
Kalashnikov e munizioni, le cui esportazioni ammontano ad appena qualche milione di
96
Bernardo Valli, “La Primavera incompiuta”, La Repubblica, 2 agosto 2011.
155 dollari l’anno (le esportazioni militari israeliane ad alto valore tecnologico valgono cinque
miliardi l’anno). In servizio attivo sono presenti cinquecentomila soldati più altrettanti in
riserva. Vi sono inoltre gli ospedali per militari, le case popolari, i centri di vacanza, gli
spacci97.
I parallelismi a livello di gestione interna del potere, dimensioni e ruoli nella società,
non sono gli unici che accomunano le Forze militari turche a quelle egiziane. Gli Stati
Uniti da sempre sostenitori dell’esercito kemalista, dagli accordi di Camp David del 1979
supportano economicamente e tecnologicamente le Forze egiziane avendo elargito da
allora quaranta miliardi di dollari, nella misura di circa 1,3 miliardi ogni anno. Nei
confronti di Israele l’esercito turco ha instaurato una cooperazione militare. Gli egiziani
hanno operato al fine di mantenere un equilibrio pacifico con Israele. Per conservare il
rango di potenza regionale in Medio Oriente, l’esercito collabora con gli occidentali e
insieme a ai militari israeliani si oppone a Hamas e ai Fratelli Musulmani. Da ciò si evince
la volontà delle Forze Armate egiziane di conservare gli equilibri internazionali e garantire
la continuità di un assetto laico. Il modello turco al quale potrebbero ispirarsi è quello della
Repubblica kemalista dalla sua fondazione nel 1923 sino al 2002. Fase in cui il potere
militare era preminente su quello civile: le Forze Armate anatoliche, custodi della laicità e
unità della Repubblica, anche a costo di violare libertà civili e politiche in particolare della
minoranza kurda e delle forze islamiche, erano sostenute dall’Alleanza Atlantica,
costituendone il secondo esercito più grande dopo quello statunitense.
Oltre all’esercito la principale formazione organizzata presente nella fase transitoria
egiziana, è costituita dai Fratelli Musulmani. La Fratellanza è nata in un quadro di risveglio
religioso contro l’occidentalizzazione della società islamica. Fondata nel 1928 in Egitto da
Hassan al Banna, è presente oggi in tutto il mondo arabo. In Egitto, osteggiata da Mubarak,
la Fratellanza riesce a tessere una forte rete sociale tra le fasce più povere della
popolazione conquistandone la fiducia.
Nell’aprile 2011 i Fratelli Musulmani hanno
annunciato la creazione del partito della Libertà e della Giustizia. Nei mesi precedenti alle
elezioni del dicembre 2011 il dialogo con i militari era costante. Rimasti in disparte in
varie occasioni come negli scontri tra manifestanti ed esercito, la moderazione del
97
Ugo Tramballi,“La lunga marcia di donne al Cairo”, Il sole 24ore, 21 dicembre 2011
156 movimento islamico può essere interpretata come strategia dell’attendismo: ovvero
assistere alla degenerazione degli equilibri tra civili e militari, e all’incremento
dell’insoddisfazione nei riguardi del regime transitorio sino al momento di presentarsi alle
elezioni come forza salvatrice e alternativa. I Fratelli Musulmani inoltre, nella fase preelettorale non avevano interesse a provocare i militari opponendosi direttamente ad essi,
poiché temevano una ritorsione della forza egemone ed armata. Allo stesso tempo le Forze
Armate intraprendendo una repressione contro i Fratelli Musulmani avrebbero provocato
uno scontento della piazza e un’immediata reazione popolare98.
Si delinea così un equilibrio tra le due principali forze organizzate e rivali nel Paese.
La Fratellanza è un movimento composito di diverse fazioni spesso in competizione l’una
con l’altra. Il partito Libertà e Giustizia dalla sua fondazione opera per mostrarsi
responsabile e pragmatico. Guidato dalla frangia riformista, ha sin da subito allontanato i
giovani radicali e si è distanziato dai salafiti. Sin dalla fase della piena rivolta al regime di
Mubarak, uno dei leader della Fratellanza, Rashad Bayoumi, ha rievocato l’AKP di
Erdoğan come possibile esempio da seguire99. Pur rivendicando la storia e l’autonomia
dell’organizzazione dei Fratelli Musulmani, il richiamo all’AKP turco sembrerebbe essere
volto a rassicurare le frange laiche del Paese, nonché i partner internazionali sulle volontà
democratiche della forza islamica egiziana. Così come Erdoğan a suo tempo si è appellato
all’Unione Europea per cercare legittimazione interna ed internazionale ed evitare uno
scontro con i militari, per i medesimi motivi il partito nato dai Fratelli Musulmani appare
richiamarsi al modello AKP.
A un anno dall’inizio della rivoluzione che ha defenestrato Hosni Mubarak i risultati
dell’elezione dell’Assemblea per il Popolo (la camera bassa) hanno registrato la vittoria del
partito “Libertà e Giustizia” che ha ottenuto il 47% dei seggi. Il secondo partito è al-Nour,
legato al movimento salafita. Nonostante il loro successo, i Fratelli Musulmani rifiutano
un’alleanza con i salafiti e cerchino piuttosto accordi con i liberali del partito Wafd e una
linea di coesistenza pacifica con i militari. La priorità dell’establishment è far ripartire
l’economia del Paese; negli ultimi mesi il Partito Libertà e Giustizia ha dato prova di
98
Egypt’s
Muslim
Brotherhood
gear
up
to
challenge
http://www.alarabiya.net/articles/2012/01/31/191699.html, 31 gennaio 2012
99
Alberto Negri, “La Turchia modello per il mondo arabo”, Il sole 24ore, 19 aprile 2011
the
army,
157 moderazione e apertura agli Stati Uniti e al Fondo Monetario Internazionale, con cui è in
corso una trattativa di aiuti finanziari pari a 3,2 miliardi di dollari. La crisi economica in un
anno e mezzo ha dimezzato le riserve di valuta (da trentasei a diciotto miliardi di dollari) e
ridotto il turismo del 90%.
L’alleanza che si profila tra Libertà e Giustizia e il Partito dei Liberali, unito alla
ricerca dell’equilibrio con i militari (che vorrebbe dire non intaccare eccessivamente la
casta delle Forze Armate) lasciano intendere il carattere veritiero dei proclami degli
esponenti dei Fratelli Musulmani a voler prendere ispirazione dal partito turco del premier
Erdoğan. A fronte di ciò ci si potrebbe chiedere se l’influenza turca e il suo attivismo
possano in qualche modo agevolare i Paesi insorti, in particolare la Repubblica Araba
d’Egitto, a transitare verso un assetto democratico in cui libertà religiosa e d’espressione, il
rispetto delle minoranze e la laicità, possano essere garantite esclusivamente dalle forze
civili e politiche.
Nei tour nordafricani il Premier Erdoğan viene accompagnato da centinaia di
imprenditori turchi. La classe imprenditoriale turca cerca nuovi mercati. Egitto e Turchia
hanno un interscambio economico pari a tre miliardi di dollari l’anno e le aziende turche
impiegano circa cinquantamila lavoratori egiziani100.
Dal punto di vista geopolitico per anni l’Egitto di Mubarak è stato uno dei principali
competitor con la Turchia nell’aspirazione al ruolo di leadership nella regione. L’Egitto ha
una popolazione che supera gli ottanta milioni di abitanti, è il solo Paese più popoloso
della Turchia nell’area mediterranea e mediorientale. L’economia egiziana presenta punti
molti forti: gestione del Canale di Suez, turismo, agricoltura, materie prime.
A differenza della Turchia, l’Egitto è un Paese arabo. Come precedentemente
riportato, la Turchia sembra presa da una voglia febbrile di attivismo diplomatico, volendo
essere sempre presente nei negoziati tra i Paesi della regione mediorientale. L’obiettivo per
i turchi è mediare. A molti analisti pare che l’interesse di essere parte in una mediazione
sia maggiore dell’oggetto stesso della mediazione. I Paesi arabi non hanno mai sopportato i
100
Turkish-Egypt economic relations, http://www.mfa.gov.tr/turkey_s-commercial-and-economic-relationswith-egypt.en.mfa, al 29 febbraio 2012
158 tentativi di egemonia degli europei, americani, russi e in ultimo iraniani. La Turchia, grazie
alla crescita economica, l’orgoglio musulmano, la difesa dei palestinesi e il soft-power
(dalla penetrazione economica alle soap-opera), conquista i cuori degli egiziani.
Tuttavia si dubita circa il reale interesse della Turchia nel voler vedere completamente
stabilizzato il Paese egiziano. Un Egitto stabile, moderno e ambizioso potrebbe minare gli
interessi geopolitici turchi. Un Egitto più libero da Stati Uniti ed Israele potrebbe
posizionarsi come mediatore al posto della Turchia. L’economia di Ankara nella fase di
gestione del potere di Hosni Mubarak non era particolarmente presente in Egitto, notiamo
una spiccata crescita degli interscambi dal 2008. La Turchia si presenta all’Egitto liberato
come un partner economico potenzialmente interessantissimo.
Come già ampiamente trattato: i turchi enfatizzano la loro sbalorditiva crescita
economica. A questo punto della ricerca potremmo ragionare presentando due
considerazioni.
La prima è che la crescita economica turca è agevolata da un tasso d’inflazione che
supera il 10%. Il tessuto industriale turco, benché in crescita negli ultimi anni, rimane
piuttosto debole nei mercati internazionali. La crescita turca si basa soprattutto
sull’attrazione d’investimenti esteri mirati all’incremento dei consumi. Negli ultimi anni il
deficit di bilancio interno e quello delle partite correnti sembrano essere variabili
trascurabili ai fini del mantenimento della crescita galoppante. Il problema è che alto
deficit e partita corrente negativa sono stati causa della crisi greca e spagnola dopo anni di
crescita economica.
La seconda è che una grande impennata percentuale di un numero esiguo, rappresenta
in termini assoluti, una cifra esigua. Il 10% di crescita turca incrementa un Pil ben inferiore
a quello di molti Paesi al mondo tra i quali Italia e Spagna.
Nella conclusione dell’elaborato ragioneremo sulle nuove previsioni economiche
(tutt’altro che positive) per la Turchia.
Le tecniche diplomatiche turche e i successi in politica estera sono inconfutabili.
Tuttavia per quanto riguarda l’Egitto, si dubita circa la sincerità degli intenti di
159 stabilizzazione e sviluppo del Paese più popoloso d’Africa dopo la Nigeria. La storia, il
peso economico, demografico, militare d’Egitto lasciano intendere che tale Paese, una
volta riguadagnata la stabilità, indipendenza e orgoglio, sarà meno incline all’accettazione
di Ankara come leader regionale. I summit circa la situazione siriana che si organizzano
nei primi mesi del 2012 al Cairo, aiutano a prevedere uno scenario competitivo tra i due
Paesi.
4. La Tunisia dalla Rivoluzione dei Gelsomini
Il 10 dicembre 2010, nel centro tunisino di Sidi Bouzid, al venditore ambulante
Mohamed Bouazizi viene sequestrato il carretto di verdure dalla polizia per la mancanza di
licenza. Il giovane come atto di protesta si dà fuoco morendo il mese successivo. Nessuno
si aspettava che l’atto del ventiseienne portasse alla fine i ventitré anni di regime di Zine
El-Abidine Ben Ali. I tunisini insorgono contro disoccupazione, povertà, carovita e la
corruzione di una classe politica dispotica e intoccabile. Le pubblicazioni dei rapporti di
Wikileaks circa le critiche americane al regime fomentano la protesta giovanile.
L’ambasciatore americano dal 2006 al 2009, attualmente Principal Deputy Coordinator for
Counterterrorism in the Department of State, confidò a Washington:
"President Ben Ali's extended family is often cited as the nexus of Tunisian
corruption. Often referred to as a quasi-mafia, an oblique mention of "the Family" is
enough to indicate which family you mean. Seemingly half of the Tunisian business
community can claim a Ben Ali connection through marriage, and many of these relations
are reported to have made the most of their lineage. Ben Ali's wife, Leila Ben Ali, and her
extended family -- the Trabelsis -- provoke the greatest ire from Tunisians. Along with the
numerous allegations of Trabelsi corruption are often barbs about their lack of education,
low social status, and conspicuous consumption."101
Le repressioni e le promesse dei trecentomila posti di lavoro, non bastano a calmare
l’ira del popolo contro Zine El Abidine Ben Ali e la consorte, Leïla Ben Ali. Le cui due
101
“Tunisia's
and
Ben
Ali's
Corruptions:
The
Wikileaks
Revelations”,
http://middleeast.about.com/b/2011/01/14/tunisias-and-ben-alis-corruptions-the-wikileaks-revelations.htm 14
gennaio 2011.
160 famiglie controllavano l’economia del Paese in ogni settore, dall’immobiliare al turismo,
dalle telecomunicazioni al settore bancario.
La Tunisia è il primo Paese ad insorgere, liberarsi del leader, e il primo a recarsi alle
urne elettorali. Il 23 ottobre 2011 avvengono le prime elezioni democratiche di Tunisia che
eleggono i 217 membri dell’Assemblea costituente.
Il partito che riceve il maggior numero di consensi è Ennahda, il partito della
Rinascita. Il partito islamista nasce dal movimento vicino alle posizioni dei Fratelli
Musulmani d’Egitto. Ennahda viene messo al bando da Ben Ali nel 1991. Dopo vent’anni
di esilio a Londra il leader Ghannouchi torna a Tunisi e propone di guidare la transizione
verso un sistema pluralista, moderno e cercando un equilibrio tra Islam e modernità.
Ennahda riceve consensi nell’entroterra tunisino, più arretrato, povero e carente di lavoro e
servizi rispetto la costa. In questi luoghi l’Islam sociale e caritatevole è più attivo, tuttavia
il Movimento della Rinascita non possiede una struttura e un radicamento popolare
paragonabile ai Fratelli Musulmani egiziani.
Il Partito riceve molti consensi anche tra i tunisini residenti all’estero. Gli oltre
centomila tunisini che risiedono in Italia ad esempio canalizzano il 52% dei voti sul Partito
Islamista. In Italia vengono eletti tre rappresentanti dell’Assemblea costituente, due di essi
sono rappresentanti di Ennahda. Il sostegno dei migranti al movimento islamista è
motivato dalla condizione di disagio di molti e dalla reazione alla propaganda islamofoba o
razzista a cui spesso sono costretti nei loro luoghi di residenza.
161 5. La laicità tunisina
La Tunisia è probabilmente il Paese più laico del nord Africa e la guida di Ennahda
spaventa i laici e gli interlocutori internazionali. La Tunisia però non è ricca di petrolio di
ottima qualità come Libia e Algeria, né ha la garanzia di introiti per sedici miliardi di
dollari l’anno grazie al canale di Suez. La Tunisia sin dall’indipendenza del ’56 decide di
non operare una frattura netta con le forze occidentali, in primis Francia e Italia.
La scelta laica di Bourguiba è motivata dall’interesse di collegare la Tunisia al mondo
occidentale. Bourguiba studia il modello kemalista. Atatürk riesce a rendere moderno un
Paese abitato da decine di milioni di islamici, rendendolo partner ed interlocutore
dell’Ovest. Bourguiba sogna una Tunisia autonoma e moderna in cui la tradizione religiosa
rimanga nella sfera privata e in cui la sfera pubblica sia laica. Bourguiba si adopera ad
imitare il sistema turco. Attua delle politiche sociali a favore della laicità soprattutto per
l’emancipazione femminile e l’educazione laica. Nel 1987 le condizioni di salute di
Bourguiba sono molto gravi, Zine El-Abidine Ben Ali sale al potere grazie a un colpo di
stato la cui efficacia dipese dal sostegno dei servizi segreti italiani, nonché dal malcontento
popolare per le condizioni economiche (alta inflazione e debito estero). Ben Ali, in
continuità con il predecessore, pone in essere politiche secolari.
Trovatasi ai nostri giorni a guidare il governo, la Rinascita assume posizioni non
troppo distanti rispetto a “Libertà e Giustizia” d’Egitto. Ennahda cerca di apparire distante
dai salafiti e si apre ad un’alleanza con i due principali partiti liberali: CPR, Congresso per
la Repubblica (Partito del Presidente della Repubblica Moncef Marzouki) e Ettakatol,
Forum Democratico per il Lavoro e le Libertà.
Dubbi sugli intenti laici e conseguenti proteste arrivano dai militanti del Partito
Petition Populaire o del Partito Democratico progressista, guidato da Ahmed Nejib
Chebbi. La distanza tra laici e musulmani si radicalizza e l’Occidente non mostra piena
fiducia negli islamisti. Il Leader di Ennahda, Rachid Gannouchi ha interesse a
tranquillizzare l’occidente. E’ necessario che l’economia tunisina riparta al fine di
interrompere le contestazioni e stabilizzare il Paese. A seguito della vittoria il membro del
Partito, Abdelhamid Jlassi dichiara ai giornalisti a Tunisi:
162 “We would like to reassure our trade and economic partners, and all actors and
investors, we hope very soon to have stability and the right conditions for investment in
Tunisia"102 .
Oltre all’alleanza con le ali laiche risultanti dalle elezioni del 23 ottobre, Gannouchi
assicura l’intento di non voler ledere i diritti delle donne sostenendo che la sua è una lotta
per il pluralismo, per la libertà d’espressione di tutti, anche dei musulmani praticanti. Su
217 membri eletti alla costituente, solo 47 sono donne, di queste 42 provengono dalla
Rinascita. Alcune donne della Rinascita non indossano il velo, queste sono l’immagine che
il Gannouchi vuole mostrare al mondo. Il leader tunisino dichiara: “vogliamo una Tunisia
libera, indipendente, sviluppata e prospera”.Da Ennahda provengono sin dagli esordi della
rivoluzione proclami circa l’ispirazione al modello turco della guida dell’AKP.
Gannhouchi dichiara: "In Turkey and Tunisia there was the same movement of
reconciliation between Islam and modernity and we are the descendants of this movement"
103
.
Così come i Fratelli Musulmani egiziani, la Rinascita si dichiara ispirata dall’AKP al
fine di tranquillizzare le frange laiche interne e gli interlocutori internazionali. Inoltre la
Tunisia ha la necessità di aprire la sua economia al fine di farla ripartire e la Turchia è un
partner importante.
6. L’attivismo turco in Tunisia, una Partnership win-win
La seconda tappa del tour nordafricano del settembre 2011 di Recep Tayyip Erdoğan è
Tunisi. Il leader dell’AKP sin dalle prime settimane degli scontri, ha tessuto le lodi dei
giovani della Rivoluzione dei Gelsomini. Nei suoi viaggi accompagnati da imprenditori ed
industriali turchi, il Primo Ministro vuole dare un messaggio di sostegno e alleanza al
Paese, comprendendo lui, più di altri leader occidentali, cosa vuol dire essere musulmani e
ricercare la modernità.
102
“Tunisia’s
Islamists
will
steer
clear
of
radicalism:
analysts”,
http://www.alarabiya.net/articles/2011/10/25/173610.html, 25 October 2011.
103
“Profile: Tunisia's Ennahda Party”, http://www.bbc.co.uk/news/world-africa-15442859, 25 ottobre 2011.
163 “The most important thing of all and Tunisia will prove this; Islam and democracy can
exist side by side”104.
Erdoğan si dimostra comprensivo e vicino alle sensazione dei tunisini, presenta una
Turchia tutto sommato paragonabile alla Tunisia:
“Turkey, as a country which is 99 percent Muslim, does this comfortably, we do not
have any difficulty. There is no need to hinder this by putting forward different
approaches. In the broadest sense, consultation will put forward the will of the people”105.
Erdoğan viene accolto da una massa di sostenitori. La Turchia fa sognare i tunisini
usciti dalla dittatura. Il Paese non arabo è musulmano e laico, in crescita economica,
orgoglioso; è un Paese in cui l’Islam c’è, è al potere, ma non presenta un carattere violento.
Un ulteriore punto di contatto tra tunisini e Turchia è l’attivismo pro-palestinese portato
avanti dall’AKP. I tunisini come tutti i popoli arabi dimostrano una vicinanza alla
questione palestinese. Nel 1982 a seguito della guerra in Libano l’OLP trasferisce il
proprio quartiere generale ad Hammam al-Shatt, a quindici chilometri da Tunisi. Nel 1985
a seguito di un attentato dell’OLP ad uno yacht israeliano, l’aviazione Israeliana
bombarderà la sede dell’Organizzazione di Liberazione della Palestina. Le immagini
dell’opposizione a Piombo Fuso di Erdoğan a Davos e della condanna virulenta al blitz di
Mavi Marmara portano il leader non-arabo ad essere stimato dai tunisini.
I leader dell’AKP ricordano le tradizioni storiche che legano Tunisia e Turchia.
Secondo i turchi la presenza ottomana ha arricchito la cultura, l’architettura e la civiltà
tunisina. Obbedienza ricambiata con disciplina da parte dei tunisini ad esempio, nell’invio
di quattordicimila militari nelle file ottomane nella guerra di Crimea del 1854-56.
I legami tra i due Paesi sono rimasti aperti anche nel periodo della guerra fredda, un
esempio è stato il “Cultural Agreement”, accordo bilaterale firmato ad Ankara il 25
febbraio 1964.
104
“Turkey's
Erdogan
makes
case
for
Islam
and
democracy
in
Tunisia”,
http://www.france24.com/en/20110915-turkey-erdogan-visits-tunisia-second-leg-arab-spring-tour-israel, 15
settembre 2011.
105
Ibid.
164 Secondo Ahmet Davutoğlu, Ministro degli Affari Esteri turco:
“Today, there is a big interest in Tunisia towards the Turkish culture in general such
as Turkish language, art, music and recently Turkish TV series. Tunisian people show
great interest especially in artistic and cultural activities such as Turkish classical music,
traditional clothing, calligraphy, whirling dervish and Janissary band performances”.106
Il 4 ottobre del 2011 a Tunisi s’inaugura un partenariato economico turco-tunisino: la
Camera di Commercio e dell’Industria di Tunisi, in collaborazione con la Confederazione
degli Imprenditori turchi al fine di potenziare gli interscambi circa settori quali il tessile,
l’agricolo e l’elettronico. La presenza economica turca è sempre stata carente in Tunisia.
L’establishment turco ha assunto nei confronti della Tunisia un atteggiamento simile a
quello riservato all’Egitto: critica al dittatore e sostegno verbale alla popolazione rivoltosa.
Tuttavia le aperture economiche verso il Paese nordafricano precedono la fase di
transizione. Le aperture alla Tunisia sono contestuali all’inaugurazione della politica estera
di attivismo nel Mediterraneo portate avanti dall’AKP in seguito alle difficoltà circa
l’adesione all’Unione Europea. La gestione dispotica di Ben Ali non frenava gli intenti
della politica espansiva turca. Nel 2005 è firmato il Trattato di Cooperazione Industriale tra
Turchia e Tunisia e nel 2006 si sigla il Trattato di Libero Scambio. Nel periodo 2008-2009
i due Paesi firmano tre accordi di cooperazione nel campo dell’istruzione e formazione,
comunicazione e gestione degli archivi.
Ahmet Davutoğlu si reca nel territorio tunisino già nel febbraio 2011 a poche
settimane dalla cacciata di Ben Ali. In quell’occasione mostra grande rispetto per il popolo
tunisino, dichiarando con umiltà che la Turchia non ha istruzioni da dare alla Tunisia,
essendo i tunisini discendenti di Ibn Khaldun e dunque non bisognosi di seguire linee
guida provenienti oltre confine. La prima visita ufficiale del Ministro degli Affari Esteri
della Tunisia post-Ben Ali, Rafik Abdessalem avviene in Turchia. Il capo della diplomazia
tunisina, passati ventuno anni in esilio, dimostra nei dibattiti pubblici un forte attaccamento
al suo Paese e la credenza nel principio del pluralismo. Ben cosciente dell’importanza delle
106
“Relations between Turkey
tunisia.en.mfa, al 29 febbraio 2012
and
Tunisia”,
http://www.mfa.gov.tr/relations-between-turkey-and-
165 relazioni con la Turchia afferma: “since the 16th century Tunisia is deeply connected to
Turkey as well as Turkey is interconnected and intertwined with Tunisia and North Africa
as a whole”107.
La Turchia è un esempio di Paese democratico musulmano:
“It is common to say [...]that Muslims cannot be democrats and there is no ground of
reconciliation between Islam and democracy. And I think Turkey affirms, before Tunisia,
that Islam and democracy could survive together and there is a ground of reconciliation
and interconnection between Islam and democracy. And the Tunisian revolution will
confirm that Islam, Arabism, and democracy is possible. It is possible to be Arab, Muslim,
and democrat at the same time. And it is possible to be Turkish, Muslim, and democrat at
the same time”108.
In un dibattito ad Ankara tra Davutoğlu e Abdessalem l’autore di Profondità
Strategica alla domanda circa l’influenza della Turchia sul mondo arabo e viceversa,
risponde: “this is not just how Arab society is being influenced by Turkey, or Turkish
society being influenced by Arab societies, or by the region. I think it is difficult to
separate the destiny of us.”
E ancora:
“the 20th century was a parenthesis which was not natural. This parenthesis was
created by colonialism and by Cold War. Now colonialism and Cold War have ended. The
natural flow of history starts again. In this natural flow of history, we will not be asking
how Turkey influencing Middle East, or how Middle East is influencing Turkey. We will
be saying we have the same destiny—we will be influencing each other. The same is true
for the Balkans after the collapse of Soviet Union, or Central Asia. Now, whenever these
Cold War structures are fading, the natural forces of history will be coming up. Those who
are resisting against the Jasmine Revolution in Tunisia, or in Egypt, or now in Syria, in fact
107
Taha Ozhan, Ahmet Davutoğlu e Rafik Abdessalem, “Arab Spring, Tunisia and Turkey”, Seta Policy
Debate, Gennaio 2012. p 4
108
Ibidem p 5
166 they are trying to protect these Cold War structures which are putting distance between
societies. In an era of intellectual freedom, we will be influencing each other. In an era of
political dialogue, economic interdependency, we will be affecting each other”109.
Nel gennaio 2012 i Ministri degli Esteri di Tunisia e Turchia firmano ad Ankara un
Piano d’Azione Comune circa la cooperazione economica, soprattutto nel settore
industriale, immobiliare, commerciale e turistico. Nel piano si legge l’intento di proteggere
i diritti dei tunisini e turchi residenti in Europa, dalle ondate islamofobe e razziste.
La Tunisia ha bisogno di trovare il sostegno internazionale e di far ripartire
l’economia. La Turchia intende esportare i suoi prodotti in mercati differenti da un’Europa
in recessione e passare per la Tunisia per entrare nei mercati africani. Secondo la Jeune
Afrique la Turchia rappresenta “Le pays, dont la production industrielle surpasse celle de
l’ensemble des États arabes réunis”110. Il Maghreb è un mercato appetibile per Ankara. Il
giornalista del Today’s Zaman, Abdullah Bozkurt, esprimendo coerentemente il punto di
vista turco circa l’espansionismo in politica estera, molto efficacemente scrive:
“The new partnership offers a win-win case for both Turkey and Tunisia”.111
7. I rapporti tra Turchia e la Libia di Gheddafi
A causa della collocazione geopolitica della Turchia come bastione dell’Ovest in
Medio Oriente, le relazioni con la Libia lungo la Guerra fredda non brillano per cordialità
ed intensità.
Dal sito del Ministero degli Affari Esteri Turco si legge “There hasn’t been an official
visit at the level of head of states and governments from Libya to Turkey since the 1969
revolution.”112 Ovvero Gheddafi non si è mai recato in Turchia in visita ufficiale.
109
110
Ibid. pp 13-14
Le Modèle Turc, http://www.jeuneafrique.com/Articles/Dossier/ARTJAJA2595p024-030.xml0/algerie-
maroc-arabes-tunisiele-modele-turc.html ,13 ottobre 2010
111
“On common path: Turkey and Tunisia”, http://www.todayszaman.com/columnist-268718-on-common-
path-turkey-and-tunisia.html,16 gennaio 2012
167 C’è stato un momento in cui la Libia mostra interesse e sostegno per la Turchia. Ciò
accade nel 1974 a seguito delle sanzioni occidentali e alla sospensione degli aiuti dagli
Stati Uniti a causa dell’intervento a Cipro. La Libia sostiene la Turchia inviandole
carburante per aerei militari. I legami bilaterali tuttavia non seguono un graduale
miglioramento. A causa del riavvicinamento turco agli Stati Uniti e Israele, la Libia non
ripone fiducia in Ankara. A seguito del mancato pagamento dei progetti di costruzione di
imprese turche nel suolo libico lungo gli anni ‘80, la Turchia non confiderà nella serietà
della Libia di Gheddafi. Le relazioni diplomatiche si mantengono ai minimi livelli e
l’interscambio economico consiste essenzialmente nell’importazione da parte della Turchia
del petrolio libico.
Finita la Guerra fredda, Tansu Çiller, di ritorno dal Summit economico di Casablanca,
effettua una veloce visita a Tripoli tra il 30 ottobre e il 1° novembre 1994. Tuttavia sarà il
Primo Ministro successivo, Necmettin Erbakan, leader del Refah Partisi, che tra il 4 e il 6
ottobre 1996 riporrà grande fiducia nella visita al Colonnello Gheddafi. Nella sua breve permanenza Erbakan enfatizzerà la necessità di migliorare le relazioni
tra i Paesi della sponda sud del Mediterraneo in nome del legame religioso. Secondo Jeune
Afrique la visita di Erbakan è stata una vera e propria umiliazione per il Primo Ministro: “Le dernier voyage d’un Premier ministre turc à Tripoli – celui de Necmettin
Erbakan, en 1996 – avait tourné au désastre. Alors que le bouillant islamiste bravait la
colère des Américains et défiait son état-major en rendant visite à Kaddafi, l’imprévisible
colonel l’avait ridiculisé en blâmant, en sa présence, l’amitié de la Turquie avec les ÉtatsUnis et Israël. Affront suprême : il avait pris le parti de la guérilla des séparatistes kurdes
du PKK contre Ankara.”113 La proposta di Gheddafi della costituzione di uno Stato kurdo mostra la mancanza di
credibilità della Turchia pur se guidata dal Refah Partisi da parte del leader libico. 112
“Turkey´s Political Relations with Libya”, http://www.mfa.gov.tr/turkey_s-political-relations-withlibya.en.mfa, 15 febbraio 2012
113
“Turquie-Libye:
le
"Guide"
des
bonnes
affaires”,
http://www.jeuneafrique.com/Article/ARTJAJA2551p020.xml1/, 30/11/2009
168 I
miglioramenti
diplomatici
e
economico-commerciali
sono
contestuali
all’emancipazione della Turchia dagli schemi della Guerra fredda. Così come per la
Russia, l’Iran e la Siria, il mancato sostegno all’intervento statunitense in Iraq, il distacco
da Israele e l’orgoglio dimostrato nei confronti di Francia e Germania, modificano la
visione della Libia nei confronti di Ankara. Gheddafi apprezza particolarmente l’attivismo
di Erdoğan a difesa del popolo palestinese. Nel Summit del 2004 dell’Organizzazione della
Conferenza Islamica, i Ministri degli Affari Esteri di Libia e Turchia hanno modo di
incontrarsi ad Istanbul. Il ruolo importante nell’OCI facilita le relazioni tra Erdoğan e il
leader dell’Unione Africana. Il 2005 è l’anno dell’Africa, la Turchia intende proiettarsi nel
continente ricco di materie prime. Lo fa con l’enfasi dell’aiuto alla Somalia. Esponenti dell’AKP si recano in visita diplomatica in Libia e le relazioni commerciali
mutano lungo il decennio appena trascorso: Turkey-Libya Bilateral Trade Statistics ($ 000)
Years
Export
Import
Balance
Trade
of
2003
254.741
1.072.548
-588.930
1.327.289
2004
337.204
1.514.125
-817.807
1.851.329
2005
384.167
1.989.269
-1.176.921
2.373.436
2006
489.261
2.297.351
-1.605.102
2.786.612
2007
643.149
399.720
-306.824
1.042.869
2008
1.074.256
336.325
737.931
1.410.581
2009
1.799.236
402.568
1.396.668
2.201.804
2010
1.935.307
425.652
1.509.655
2.360.959
Volume
Dati: Turkey-Libya Economic and Trade Relations. Ministero Affari Esteri di Turchia
L’interscambio economico cresce quasi raddoppiandosi, tuttavia sono altri i dati
rimarchevoli. Il valore delle importazioni dalla Libia, petrolio e derivati, raddoppiano dal
2000 al 2006 (anche a causa dell’aumento del prezzo del prodotto). Dal 2007 però,
169 notiamo una flessione dell’importazione del petrolio libico in Turchia. La ragione è
principalmente la differenziazione di importazione dell’idrocarburo da altri Paesi, in primis
Iran e Russia. Il valore delle esportazioni dei prodotti turchi sono in costante aumento passando da
254,741 sino a 1.935,307 milioni di dollari. I principali prodotti esportati riguardano il
settore alimentare e soprattutto industriale: macchinari, trasporti, tessile, prodotti semilavorati, ferro e acciaio, prodotti chimici, beni di consumo. Nel territorio libico sono
presenti industrie turche che operano nelle costruzioni, nell’agricoltura, nel settore
estrattivo, manifatturiero e terziario. L’insieme degli investimenti delle imprese di
costruzione turche ha un valore di 20,5 miliardi di dollari. In termini di appalti all’estero la
Libia è il secondo mercato dopo quello russo. Il numero di compagnie turche operanti in
Libia a fine 2009 era pari a centoquindici. Le imprese erano responsabili di progetti circa
la costruzione di porti, strade, sistemi d’irrigazione, hotel, centri commerciali, costruzioni
residenziali. Gli accordi di cooperazione bilaterale s’inquadrano in due iniziative: il JEC, Joint
Economic Commission, e il Business Council. La ventunesima riunione del JEC ha luogo
ad Ankara tra il 20 e il 22 luglio 2009. Il primo meeting del Consiglio d’Affari tra Turchia
e Libia ha luogo ad Istanbul tra il 28 e il 30 luglio 2009. Il secondo a Tripoli il sei aprile
2010. Nel novembre 2009 Erdoğan vola in Libia. I due Paesi migliorano le politiche dei
visti e firmano otto trattati in diversi campi tra i quali gli investimenti, l’agricoltura e i
trasporti.
Nella stessa visita Recep Taiyyp Erdoğan vince il Premio per i Diritti Umani
Moammar Gheddafi. Il leader turco sarà l’ultimo vincitore del Premio prima della
destituzione dello stesso. La fine della nobile iniziativa segue la rivoluzione libica,
l’intervento armato internazionale e la morte del dittatore promotore dell’ambito Premio
per i Diritti Umani.
170 8. L’intervento NATO in Libia e la reazione turca
“What has NATO to do in Libya? NATO's intervention in Libya is out of the
question. We are against such a thing”114.
Con queste parole Erdoğan in viaggio in Germania si rivolge alla Camera di
Commercio e dell’Industria Turco-Tedesca il giorno 28 febbraio 2011.
A fronte delle violenze perpetuata dal Governo di Gheddafi nei confronti della
popolazione libica, la dura critica di Erdoğan dell’intervento internazionale, sembra
contraddire l’atteggiamento di aperto sostegno alle popolazioni arabe insorte contro i
propri regimi.
Il Primo Ministro turco critica il progetto di missione in Libia portata avanti
principalmente da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Secondo Erdoğan questi Paesi
hanno intenti neo-coloniali, il fine è la spartizione delle ricchezze del suolo libico da parte
delle potenze Occidentali.
Riferendosi alla Francia Erdoğan dichiara:
“I wish that those who only see oil, gold mines and underground treasures when they
look in [Libya's] direction, would see the region through glasses of conscience from now
on.”115
I turchi appaiono disturbati dal linguaggio oltraggioso del Ministro degli Interni
francese, Claude Guéant, già primo consigliere di Nikola Sarkozy, che parla di “una
crociata per fermare il massacro di Gheddafi”.
Gli interessi economici turchi in Libia sono ingenti. La Turchia è stato il primo Paese
ad evacuare i suoi cittadini residenti in Libia, circa venticinquemila lavoratori.
114
“PM rules out NATO intervention in Libya”, http://www.todayszaman.com/news-236953-pm-rules-outnato-intervention-in-libya.html , 28 febbraio 2011
115
“Turkey
and
France
clash
over
Libya
air
campaign”,
http://www.guardian.co.uk/world/2011/mar/24/turkey-france-clash-libya-campaign, 24 marzo 2011.
171 Gli investimenti in Libia hanno un valore totale di quindici miliardi di dollari, la
Turchia teme per i problemi di occupazione dei lavoratori che lasciano il Paese e per le
perdite ingenti delle imprese private turche, tra i due e i tre miliardi di dollari.
Tra febbraio e marzo 2011 ovvero il periodo in cui si discute sull’intervento armato
internazionale, la Turchia sembra optare per un non-interventismo ricordando il dramma
del conflitto iracheno. Tuttavia il netto rifiuto del 28 febbraio viene superato di lì a poco.
Nell’ultimo giorno di visita dell’Arabia Saudita, dalla città della Mecca, Erdoğan a seguito
dell’escalation delle violenze nel territorio libico e dell’arroccamento di Gheddafi dichiara:
“NATO should go in [Libya] with the recognition and acknowledgement that Libya
belongs to the Libyans, not for the distribution of its underground resources and wealth”116.
Il cambio di rotta della Turchia è successivo a consultazioni con i Paesi Arabi. Ankara
vuole essere sicura che l’interventismo in Libia non vada a ledere la popolarità e interessi
nell’area mediterranea e mediorientale. La scelta turca può essere letta come una
contromossa alla Francia nello scacchiere mediterraneo.
Nel marzo 2011 le principali potenze al mondo in particolare Stati Uniti e diversi Stati
europei, dibattono circa la doverosità dell’intervento in Libia. Sarkozy e il Ministro degli
Affari Esteri Alain Juppé propongono la Francia come guida della Missione internazionale.
Parigi è sede di numerose conferenze e incontri per risolvere la questione libica. Erdoğan è
spesso escluso da tali summit. In particolare il Primo Ministro turco non riceve l’invito per
la conferenza del 19 marzo 2011 in cui si ufficializzava de facto l’inizio dei raid aerei della
coalizione.
Erdoğan teme che il suo Paese possa rimanere isolato ed escluso dal conflitto in corso
così, velocemente, adatta la sua politica estera verso un attivismo militare.
La paura di Ankara è la guida di una missione del suo rivale nell’area mediterranea, la
Francia, in un Paese così strategico, la Libia. A seguito di un colloquio con Barack Obama
116
“Erdoğan:
NATO’s
Libya
move
must
not
be
for
its
wealth”,
http://www.todayszaman.com/newsDetail_getNewsById.action?newsId=238854, 22 marzo 2011.
172 e in accordo con la posizione d’Italia e Norvegia, Erdoğan sostiene l’intervento
internazionale purché portato avanti dalla Nato e non da un singolo Stato.
La Turchia non costituisce solo il secondo esercito più grande della Nato ma è anche
l’unico Paese musulmano dell’Organizzazione, ciò fa di tale Stato un attore influente
nell’Alleanza Atlantica.Nel marzo 2011 Ankara pone a servizio della missione Nato
cinque navi da guerra e un sottomarino per rafforzare la no-fly zone e prevenire il flusso di
armi per la Libia. La base aerea della NATO a Izmir, è designata come il centro di
comando dell’operazione al controllo della la no-fly zone.
9. L’attivismo di Ankara nella Libia libera da Gheddafi
Il 3 luglio 2011 Ahmet Davutoğlu vola a Bengazi dopo una visita al Cairo. Nella
Capitale dei ribelli libici, il capo della diplomazia turca riconosce il Consiglio di
Transizione Nazionale come il vero rappresentante del popolo libico. Davutoğlu assicura
un sostegno finanziario alle forze oppositrici di Gheddafi. Dopo la presa di Tripoli, la
prima missione estera del leader del Consiglio di Transizione Nazionale, Mustafa Abdul
Jalil, avviene proprio ad Ankara al fine di discutere circa la cooperazione bilaterale e la
ricostruzione della Libia.
Terminato il conflitto, dopo il riconoscimento dei vincitori come gli interlocutori
legittimi, la Turchia ha interesse nel confermare la sua presenza in regione. Nel gennaio
2012 viene assicurato l’addestramento delle forze di polizia libiche da parte dei turchi.
Nello stesso mese il Governo di Ankara estende a cinquecento milioni di dollari il prestito
concesso alla Libia. La visita del ministro turco dell’economia Zafer Çağlayan, precede
investimenti turchi nei settori infrastrutturali, industriali, turistici, agricoli e commerciali.
Sconfitto il Raìs, il 24 agosto 2011 Ahmet Davutoğlu è stato il primo dei ministri Nato a
recarsi a Bengasi. Davutoğlu in quell’occasione ribadisce quanto già affermato nel mese
precedente, ovvero che il futuro condiviso tra i due Paesi trova linfa nella storia condivisa.
10. Il Neo-Ottomanesimo tra idealismo e Realpolitik
La Primavera Araba rende lampante la tensione tra la dimensione idealista e quella
realista della politica estera turca. Il Primo Ministro Tayyip Erdoğan è stato il primo leader
occidentale a intimare le dimissioni di Hosni Mubarak nel discorso di al-Jazeera del
173 febbraio 2011. Il Presidente Abdullah Gül è stato il primo Capo di Stato ad incontrare il
Consiglio Supremo Egiziano. Nel caso egiziano e tunisino la Turchia ha sostenuto senza
riserva la democrazia.
Nei riguardi di Libia e Siria al contrario notiamo molta più prudenza e riflessione
circa il sostegno al popolo in rivolta. Per il caso libico abbiamo già approfondito le
relazioni economiche molto più importanti rispetto a Tunisia e Egitto (quest’ultimo primo
competitor regionale). Circa la Siria, la mancanza di condanna immediata alla tragedia
umanitaria compiuta dal governo di Assad è motivata da questioni securitarie. Turchia e
Siria condividono un confine di 877 chilometri. Per la Siria come per quanto è accaduto
nei conflitti iracheni, la prima preoccupazione di Ankara è la stabilità delle regioni abitate
dai kurdi. Le relazioni cordiali tra Ankara e Damasco sono motivate dall’interesse turco di
cooperare nella lotta al terrorismo kurdo.
I leader turchi in Egitto, Tunisia e Libia riscoprono i legami ottomani. Il NeoOttomanesimo depurato della sua connotazione imperialista ed oscurantista rappresenta
l’enfasi emotiva ad un attivismo diplomatico ed economico.
I discorsi a tratti Wilsoniani di Davutoğlu e Erdoğan circa una nuova diplomazia e una
politica estera che riscopra pluralismo e tolleranza propri della fase ottomana, che ascolti le
richieste dei popoli e sia attento al rispetto dei diritti umani, sembrano un riadattamento
alla fase storica della Primavera dei Popoli Arabi. Nel periodo precedente la Turchia non
aveva problemi a dialogare con Muammar Gheddafi o Zine El-Abidine Ben Ali; o a
ricevere il sudanese Al-Bashir accusato dalla Corte Penale Internazionale di genocidio,
crimini contro l’umanità e crimini di guerra in Darfur. La Turchia firmava trattati di
cooperazione militare con il siriano Assad e difendeva (e lo fa ancora) Ahmadinejad di
fronte alla Comunità Internazionale.
Un’analisi diacronica delle relazioni tra Turchia e Paesi nord-africani mostra che
l’intento di potenziare la propria presenza in questi Stati prescinde da logiche di protezione
dei diritti dei popoli, ma viene piuttosto motivato dall’interesse nazionale di diversificare i
propri alleati e partner economici e ascendere al ruolo di leadership regionale.
174 Il Neo-Ottomanesimo e in generale la nuova politica estera turca, si spinge in una
delle zone più care del periodo imperiale: i Balcani. Nelle prossime pagine cercheremo di
ragionare circa gli intenti turchi in regione tenendo conto della percezione degli attori
balcanici all’espansionismo di Ankara. In particolare ci chiediamo se l’attivismo turco
possa aiutare a superare le divisioni bosniache o se al contrario l’ingresso di questo nuovo
attore nel Paese non porti piuttosto a rimarcare le distanze tra i tre popoli costitutivi della
Bosnia-Erzegovina.
175 Capitolo 3
L’attore turco nei Balcani Occidentali
“La nostra storia è comune. Il nostro destino è comune. Il nostro futuro è comune”. Ahmet Davutoğlu spiega in tali termini i legami tra Bosnia-Erzegovina e Turchia il
giorno 16 ottobre 2009 nel convegno “Eredità ottomana e comunità musulmane nei
Balcani di oggi”117 nell’hotel Hollywood di Sarajevo. Nel 1912 si combatteva la prima guerra balcanica in cui un’alleanza militare composta
da Serbia, Montenegro, Grecia e Bulgaria provocava il ritiro dell’Impero Ottomano dalla
regione. A cent’anni dalla ritirata ottomana nei Balcani i turchi tornano in regione
trovando:
“una realtà geopolitica per molti versi simile a quella di cent’anni fa: dopo una
parentesi storica - la Jugoslavia tra la prima guerra mondiale e la fine della Guerra fredda nella regione sono rinati nuovi/vecchi piccoli Stati - in alcuni casi pseudo-Stati - con forti
elementi di protettorato. La Bosnia, che la Turchia fu costretta ad abbandonare al
protettorato di Vienna nel 1908, e il Kosovo, il suo vilayet perso nel 1912 in seguito alla
sconfitta nella prima guerra balcanica, sono oggi Stati sui generis. Per uno strano gioco
della storia, la Turchia si trova oggi in compagnia dei paesi dei Balcani occidentali nello
stesso “pacchetto” di aspiranti all’entrata nell’Unione europea”118.
Gli interessi di Ankara nel tornare ad essere attore nello scacchiere balcanico sono
differenti. Non è irrilevante la motivazione economica. I Paesi dell’Unione Europea,
sofferenti della recessione consumano meno e dunque importano meno. I turchi cercano
nuovi mercati dove esportare i propri prodotti. La Turchia soffre di un pesante deficit della
117 The Balkans Civilisation Centre, Center For Advanced Studies, a cura di, The Ottomman Legacy and The
Balkan Muslim Communities Today, conference Proceedings, (sarajevo, 16-18 October 2009), Arka Press d.o.o.
Sarajevo, 2011, p. 13
118
Miodrag Lekic, “L'offensiva diplomatica della Turchia nei Balcani”, Affari Internazionali, 3 febbraio
2010
176 bilancia delle partite correnti e nei Balcani riesce ad esportare più che importare.Tuttavia i
Balcani occidentali non sono molto popolosi e i salari medi sono piuttosto bassi, inoltre la
Turchia deve scontrarsi con la concorrenza tedesca, austriaca, italiana e di altri Paesi.
Nonostante sia innegabile l’importanza della motivazione economica, oggi evidente a
fronte dell’incremento delle esportazioni e degli investimenti turchi in regione soprattutto
attraverso le comunità musulmane, essa non è sufficiente a spiegare il recente attivismo
turco in regione.
Ragione rilevante è il legame storico, culturale ed umano. Mustafa Kemal e molti
esponenti influenti nella storia dell’Impero Ottomano e in seguito della Repubblica di
Turchia hanno origine balcaniche. Ad oggi il governo turco stima circa dieci milioni119 di
cittadini con origine balcaniche, in particolare, bosniache e albanesi.
La motivazione strategica e diplomatica assume particolare importanza in relazione ad
altre potenze legate ai Balcani. In questa regione la Turchia mostra all’Europa, alla Russia
e agli Stati Uniti le sue abilità di mediazione tra i vari attori in conflitto.
Cerchiamo di riportare un parallelismo per meglio interpretare gli interessi diplomatici
turchi in regione. Nel 2003 in occasione della guerra in Iraq molti attori tra i quali
Germania, Francia e Turchia si sono opposti fortemente all’intervento americano. Tuttavia
alla critica agli Stati Uniti, seguiva un aumento delle truppe nella fase post-conflittuale
afghana. La propaganda mediatica anti-americana veniva controbilanciata dal punto di
vista diplomatico con l’aiuto in Afghanistan prezioso per Washington. Similmente
potremmo interpretare i rapporti tra Turchia e Stati Uniti. Se nello scacchiere
mediorientale, in particolare nei rapporti con Iran e Israele, tra Ankara e Washington
sembrano trasparire risentimenti e diffidenze, nei Balcani i rapporti tra i due attori
appaiono più che cordiali.
119
Sylvie Gangloff, “The Impact of the Ottoman Legacy on Turkish Policy in the Balkans, 1991- 1999”,
CERI, Novembre 2005, pg.10.
177 “Up to today, Washington and Ankara are close allies in the Peace Implementation
Council for Bosnia-Herzegovina, often arguing in this body against the EU and Russia”120.
Le varie organizzazioni e istituzioni turche, benché libere e spesso critiche l’una nei
confronti dell’altra (si pensi alla voglia di autonomia della TIKA nei confronti del governo
centrale, o i contrasti tra le istituzioni religiose e gli istituti più laici)121 condividono un
programma comune di stabilizzazione dei Paesi in cui operano122. Vi è coordinamento e un
progetto affine. Gli Stati Uniti riconoscono un ottimo partner nella Turchia, sicuramente
l’attore musulmano più indicato con cui cooperare in regione. La Turchia non può non
coinvolgere nel suo operato la Serbia, con la quale ha interesse a migliorare le relazioni,
chiaramente per un mutuo interesse economico, la Serbia è il mercato più ampio e il Paese
più ricco della regione, ma anche dal punto di vista diplomatico, evitare problemi con la
Serbia si inscrive nella logica dello “zero problemi con i vicini” in particolare con la
Federazione russa. Mosca e Belgrado sono legate storicamente e la Russia rappresenta il
primo ed essenziale partner economico per la Turchia. L’attivismo turco nei Balcani,
come si approfondirà tra breve, più che nell’economia, è visibile nella diplomazia, nella
cultura, nelle istituzioni e nella politica. Se gli Stati Uniti continuano a caldeggiare
l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea e la Russia vede di buon occhio la
cooperazione con Ankara ciò dipende anche dagli sforzi dei turchi nei Balcani. La Turchia
nella cooperazione con gli europei ha interesse a mostrare la sua capacità economica e di
mediazione e i suoi buoni intenti ai fini della stabilizzazione, ricostruzione e pacificazione
del territorio. Ankara vuole esibire a Bruxelles il suo potere, ma anche le sue buone
intenzioni. Consapevole delle lentezze per l’adesione sua e dei Paesi balcanici all’UE, in
questa fase di difficoltà economica europea e fatigue all’allargamento, Ankara è
promotrice dell’entrata nella NATO dei Paesi dei Balcani occidentali soprattutto della
Bosnia-Erzegovina, che rappresenterebbe il terzo Paese a maggioranza musulmana (dopo
Turchia e Albania) a prendere parte all’Alleanza Atlantica. La prospettiva di adesione di
uno dei Paesi dei Balcani Occidentali alla NATO, (peraltro non improbabile, viste le
120
Žarko petrović, Dušan Reljic, “Turkish Interests and Involvement in the Western Balkans: A Score-Card”,
Insight Turkey Vol. 13 / No. 3 / 2011 pg. 163 121 Kerem Öktem, “New Islamic actors after the Wahhabi intermezzo: Turkey’s return to the Muslim
Balkans”, European Studies Centre, University of Oxford, dicembre 2010, pg 30 122 Ibid. pg 30 178 recenti adesioni di Croazia e Albania nel 2009) rappresenterebbe un successo diplomatico
per l’attore turco.
1. La Repubblica turca e i Balcani da Atatürk ad Erdoğan.
La Repubblica di Turchia, nella fase di costruzione della Nazione, al fine di tutelare la
sua sicurezza esterna tenta di mantenere relazioni cordiali con la vicina Jugoslavia. Il 9
febbraio 1934 viene firmata ad Atene l’Intesa Balcanica. Un accordo difensivo tra Turchia,
Jugoslavia, Grecia e Romania in un contesto di ascesa degli autoritarismi e militarismi in
Europa.
Negli anni ‘50 si susseguono una serie di accordi di mutuo beneficio tra Jugoslavia e
Turchia. Vista la lacuna di personale con conoscenze tecniche nella giovane Repubblica,
Adnan Menderes, Primo Ministro esponente di spicco del Partito Democratico turco, si
accorda con Tito circa l’agevolazione di flussi migratori di cittadini musulmani, in
particolare albanesi, bosgnacchi di Bosnia e del Sangiaccato verso la Turchia. A sua volta
Tito facilita l’apertura di dipartimenti di turcologia in numerose università in tutto il
territorio della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia e assicura la tutela di tutti i
cittadini di origine turca nel territorio jugoslavo. Il 28 febbraio 1953 Turchia, Jugoslavia e
Grecia firmano ad Ankara l’Accordo di Amicizia e Cooperazione. Il Trattato militare
promosso da Josip Broz Tito è motivato da una logica anti-sovietica. Attraverso l’entrata in
vigore del patto nel caso d’intervento sovietico in regione, la Jugoslavia, Paese non
appartenente all’Alleanza Atlantica a differenza di Grecia e Turchia, può contare
sull’appoggio dei due Stati. La morte di Stalin, la distensione tra Belgrado e Mosca e le
controversie tra Turchia e Grecia su Cipro rendono improbabili le condizioni di messa in
opera del Patto.
Nella fase di dissoluzione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia la
Turchia è stato il primo Paese a riconoscere la Bosnia-Erzegovina nel 1992. Il Presidente
Turgut Özal vede nella fine della guerra fredda un’opportunità per la Turchia di seguire
una sua politica estera indipendente, rinsaldando legami con i Balcani e con i popoli
179 turcofoni attraverso le tradizioni storiche e culturali123. Nonostante lo sconcerto
dell’opinione pubblica turca di fronte alla tragedia della prima guerra jugoslava, la Turchia
non interviene attivamente nel conflitto bosniaco, come invece fa nel 1999 sostenendo
militarmente l’operazione NATO contro Belgrado a favore della secessione del Kosovo.
Rappresentando l’Organizzazione della Conferenza Islamica, la Turchia è un membro
permanente dello Steering Board of the Peace Implementation Council (PIC), l’organo
internazionale adibito alla messa in opera dell’Accordo di Pace di Dayton. Nella fase postconflittuale la Turchia è il membro Nato che sostiene più tenacemente l’adesione della
Bosnia-Erzegovina all’Alleanza Atlantica e nei vari incontri internazionali non manca di
sostenere l’importanza della salvaguardia dell’integrità territoriale, indipendenza e
sovranità della Bosnia-Erzegovina rispettando la composizione multi-etnica.
2. La diplomazia dell’AKP nei Balcani
L’attivismo in politica estera del Partito guidato da Erdoğan è concentrato soprattutto
in Bosnia-Erzegovina. Qui la diplomazia turca applica la dottrina dello “zero problemi con
i vicini” attraverso il “Trilateral Mecanisms”. Ankara promuove summit trilaterali tra
Bosnia-Erzegovina, Serbia e Turchia e Bosnia-Erzegovina, Croazia e Turchia.
Il 10 ottobre 2009, in occasione dell’incontro dei Ministri degli Esteri dei Paesi del
South East European Cooperation Process ad Istanbul, in via informale si riuniscono i capi
delle diplomazie di Turchia, Serbia e Bosnia-Erzegovina. Nei mesi successivi i tre Paesi
effettuano diversi incontri a Sarajevo ed Istanbul, volti a discutere su varie tematiche
compresa le proposte di riforma della Costituzione di Dayton. Il 15 gennaio 2010 si
verifica il primo imbarazzo diplomatico: in occasione del quarto meeting dell’ Alliance of
Civilizations for Southeast Europe, l’ambasciatore di Bosnia-Erzegovina non si reca
all’evento. Il motivo è che al momento non vi era un ambasciatore bosniaco in Serbia. Il
primo marzo 2010 Borisa Arnaut viene nominato Ambasciatore di Bosnia-Erzegovina in
Serbia. Il primo summit ufficiale tra capi di Stato si svolge ad Istanbul il 24 aprile 2010 tra
Abdullah Gül, Presidente della Repubblica di Turchia, Boris Tadić, Presidente di Serbia e
123
“Turgut Ozal Period in Turkish Foreign Policy: Ozalism”,
http://www.turkishweekly.net/news/66515/turgut-ozal-period-in-turkish-foreign-policy-ozalism-.html, 10
marzo 2009
180 Haris Siljadzic, membro bosgnacco della Presidenza di Bosnia-Erzegovina. In vista di tale
occasione avviene un avvicinamento storico tra Sarajevo e Belgrado: il Parlamento Serbo
adotta una risoluzione di condanna e scuse per il massacro (non viene utilizzato il termine
genocidio) di Srebrenica avvenuto nel luglio 1995. La “Risoluzione Srebrenica” viene
votata in parlamento con 127 voti su 250 grazie al Partito Democratico di Serbia e alla
leadership di Boris Tadić. Le parole del 31 marzo 2010 di Boris Tadić sono:
“Penso che la dichiarazione mostri il più alto patriottismo, che mostri il nostro rispetto
nei confronti di un altro popolo e delle sue vittime e che sia anche la dimostrazione che il
nostro popolo e la nostra cultura sono parti inseparabili della cultura europea e della civiltà
europea”124
L’11 luglio 2010, in occasione del quindicesimo anniversario della strage di
Srebrenica, Boris Tadić si reca al memoriale del paese nella Republika Srpska per
commemorare le vittime musulmane e incontrare un’esponente dell’associazione Madri di
Srebrenica. L’avvicinamento a Sarajevo e i rapporti diplomatici con Ankara sono
importanti per la Serbia al fine del suo cammino verso l’Unione Europea. Il secondo
Summit a livello di capi di Stato avviene a Karadjordjevo una città serba, al confine con la
Croazia, il 26 aprile 2011. Per la prima volta il Presidente della Serbia incontra i tre
membri della Presidenza della Bosnia-Erzegovina. Boris Tadić ospita il Presidente della
Repubblica di Turchia, Abdullah Gül e Nebojša Radmanović, membro serbo del partito
Snsd, Partito dei Social Democratici Indipendenti, Bakir Izetbegović, esponente bosgnacco
dell’SDA, Partito d’Azione Democratica, figlio del primo Presidente di BosniaErzegovina, Alija Izetbegović, e Željko Komšić, l’esponente croato residente a Sarajevo,
eletto con l’SDP, il Partito Social-Democratico. In questa occasione Abdullah Gül
dichiara:
124
“Tadic: “La condanna di Srebrenica dimostra la nostra vocazione europea””,
http://it.euronews.com/2010/03/31/tadic-la-condanna-di-srebrenica-dimostra-la-nostra-vocazione-europea/,
31 marzo 2010.
181 “It is our desire to have the whole region united under a wider umbrella of the
European Union and NATO”125.
A dodici anni dai bombardamenti dell’Alleanza Atlantica su Belgrado, Tadić non si
esprime circa la NATO ma, riconoscendo il ruolo storico della Turchia nei Balcani,
conferma l’intento di adesione al progetto europeo:
“Turkey has its historic reasons and [...] legitimate interests for its presence in the
Balkans.” “We want the entire region to be integrated into the European Union as soon as
possible [...] this is our main political goal.”126
Prima di Abdullah Gül, il Ministro degli Affari Esteri di Turchia, Ahmet Davutoğlu
parla di responsabilità turca nella regione e d’intento di preservare l’unità e l’indipendenza
della Bosnia-Erzegovina. Davutoğlu visita Sarajevo in diverse occasioni. Il discorso più
rilevante e che desterà più polemiche da parte della componente serba e croata viene
enunciato a Sarajevo il 16 ottobre 2009. Secondo il capo della diplomazia turca i Balcani
sono una regione strategica a causa di diverse caratteristiche. In primis rappresentano una
regione cuscinetto, un punto di collegamento che allontana o avvicina l’Europa all’Asia e
viceversa, il Mediterraneo al Baltico, l’Africa al Nord e il Nord al Sud. Dai tempi della
civiltà greca i Balcani rappresentano una zona cruciale dal punto di vista geo-economico,
per il trasporto di beni dal mare al continente o per gli scambi tra Asia e Europa. I Balcani
sono inoltre caratterizzati da un’interazione geo-culturale per via delle ondate migratorie e
degli scambi di popolazione. Secondo Davutoğlu i Paesi che compongono i Balcani si
trovano attualmente di fronte a due opzioni: accettare il ruolo di essere una periferia
dell’Europa, ruolo riservato alla regione anche durante l’espansione di Alessandro il
Macedone e nel periodo romano, o tornare ad essere attore protagonista delle dinamiche
mondiali, come nella fase ottomana:
“During the Ottoman state, the Balkan region became the center of world politics in
16th century. This is the Golden Age of the Balkans. I’m not saying this because we
inherited Ottoman legacy, but this is an historical fact. Who run world politic in 16th
125
“Turkey says Bosnia and Serbia should join NATO, EU”, http://www.todayszaman.com/news-242154turkey-says-bosnia-and-serbia-should-join-nato-eu.html, 26 aprile 2011. 126
Ibid.
182 century? Your anchestors. They weren’t all Turks, some were Slavic origins, some were
Albanian origins, some were even converted Greek origins, but they run the world
politics”127.
Dal ritiro ottomano il contesto dei Balcani è caratterizzata da scontri, conflitti e
intolleranza:
“Now, it is time to reunite all these and rediscover the spirit of the Balkans. In order to
alleviate the geo-political buffer zone character of Balkans and save the region from
becoming a victim of violent conflicts, we have to create a new sense of unity in our
region. Balkan history is not only a history of conflicts, on the contrary between the 16th
and the 19th centuries, Balkan history was a success story. We can reinvent and reestablish
this success by creating a new political ownership, a new multicultural coexistence and a
new economic zone.”128.
Il Ministro esalta le possibilità e le responsabilità del suo Paese:
“As the Republic of Turkey, we would like to construct a new Balkan region based on
political dialogue, economic interdependence, cooperation and integration, as well as
cultural harmony and tolerance.
These were the Ottoman Balkans, and hopefully we will reestablish the spirit of these
Balkans. Critical writers call our approach “neo-Ottomanism”, therefore I do not want to
refer to the Ottoman state as a foreign policy issue. What I am underlying is the Ottoman
legacy; the Ottoman centuries in the Balkans were peace and success stories.”
e ancora:
“There are more Bosnians living in Turkey than in Bosnia! There are more Albanians
in Turkey than in Albania[...]Turkey is a safe haven, their homeland. You are welcome!
Anatolia belongs to you, our brothers and sisters! And we are confident that Sarajevo
127
The Balkans Civilisation Centre, Center For Advanced Studies, a cura di, The Ottomman Legacy and The
Balkan Muslim Communities Today, conference Proceedings, (sarajevo, 16-18 October 2009), Arka Press d.o.o.
Sarajevo, 2011, p. 13
128
ibid. p. 16
183 belongs to us! If you wish to come, come! But we want you to be secure here, as owners of
Sarajevo and Bosnia-Herzegovina. What is happening in Bosnia is our responsibility."
“We will reintegrate the Balkans, [...]on these principles of regional and world peace,
not just for us, but for all of humanity.”
Davutoğlu aveva già precedentemente esposto il suo pensiero circa l’importanza della
regione balcanica per la Turchia. Nel testo Profondità Strategica, il secondo capitolo è
intitolato “Il bacino terrestre di prossimità. Balcani – Medio Oriente – Caucaso”129.
“I Balcani ai primi del secolo assumevano un’importanza particolare per la
liquidazione dello Stato ottomano, che per le grandi potenze che governavano i rapporti
internazionali occupava il centro politico di una resistenza in progressivo indebolimento di
fronte al colonialismo occidentale. Con le guerre balcaniche si era realizzata
l’estromissione dello Stato ottomano dai territori europei”130.
Benché l’Impero Ottomano dal punto di vista del diritto internazionale sia un soggetto
non più esistente, la Turchia eredita una responsabilità in regione:
“Il fatto che sia la Turchia il paese al quale si sono rivolti in primo luogo bosniaci e
albanesi dopo gli eccidi a sfondo etnico perpetrati in Bosnia e in Kosovo non è diverso
dall’imporsi, come importante parametro di politica estera, di un obbligo e di una
responsabilità di carattere storico”.
La Turchia si inserisce nella regione cercando il dialogo e il contatto naturale con le
popolazioni musulmane:
“Fondamento dell’azione politica della Turchia nei Balcani sono le comunità
musulmane, eredità dell’epoca ottomana. [...] La Turchia in questo momento sembra
129
Il testo di Davutoglu, “Profondità Strategica”, scritto nel 2001 e pubblicato dalla Casa editrice Kure
Yayinlari, non è stato tradotto che in greco, albanese e arabo. Tuttavia grazie allo zelo di centri studi e
ricerca, come la Rivista Italiana di Geopolitica, Limes, possiamo oggi accedere direttamente al testo. Il
capitolo riferito ai Balcani è stato tradotto da Fabrizio Beltrami ed è riportato nella pubblicazione La
profondità strategica turca nel pensiero di Ahmet Davutoglu. Progetto realizzato dal Centro Studi “Vox
Populi” di Pergine Valsugana, Trento, nel Maggio 2011.
130
Ahmet Davutoglu, “Profondità Strategica”, traduzione di Fabrizio Beltrami in “La profondità strategica
turca nel pensiero di Ahmet Davutoglu”. Centro Studi “Vox Populi”, Pergine Valsugana, Trento, 2011, p.
26. 184 disporre nei Balcani di notevoli opportunità fornite dal background storico che fa
riferimento all’eredità ottomana. In particolare in due Paesi (Bosnia e Albania), nei quali i
musulmani, che hanno un ruolo di naturali alleati della Turchia, sono la maggioranza, c’è
la volontà di far evolvere in un’alleanza questo background storico comune. Le minoranze
turche e musulmane presenti in Bulgaria, Grecia, Macedonia, Sangiaccato, Kosovo e
Romania sono elementi importanti della politica balcanica della Turchia”.
Gli obiettivi della politica estera turca sono:
“il rafforzamento della Bosnia e dell’Albania nell’ambito di una struttura stabile, e la
costituzione di una base giuridica internazionale che metta al riparo, sotto un ombrello di
sicurezza, le minoranze etniche presenti in regione. Su questa base giuridica, la Turchia
deve perseguire senza soluzione di continuità l’obiettivo di ottenere la garanzia di avvalersi
del diritto d’intervento nelle questioni riguardanti le minoranze musulmane presenti nei
Balcani”.
“La Turchia può ottenere un diritto di questo tipo nei Balcani solo e soltanto se segue
una politica balcanica attiva che tenga sempre in considerazione i fattori culturali e
storici”.
Ahmet Davutoğlu dal 2009 visita diverse volte la Bosnia-Erzegovina, ma solo dal
2011, in particolare nel viaggio del 28 e 29 gennaio 2011 a Mostar e Banja Luka inizia un
confronto con autorità croate e serbe del Paese131. Come sarà riportato nella parte finale del
capitolo: “La percezione dell’attore turco da parte dei bosniaci”, la visita a Banja Luka da
parte del capo della diplomazia turca sarà ricordata dai serbi per l’incidente diplomatico
circa la mancanza di bandiere della Bosnia-Erzegovina e dello sdegno di Davutoğlu,
piuttosto che per l’inizio del dialogo e della distensione tra serbi di Bosnia e turchi.
3. Cooperazione Militare turca in Regione
La Turchia non ha preso parte nel conflitto bosniaco, ma non ha esitato nel sostenere
la coalizione NATO nella guerra contro la Serbia in favore della secessione del Kosovo,
131
“Relations between Turkey and Bosnia and Herzegovina (BiH)”, http://www.mfa.gov.tr/relationsbetween-turkey-and-bosnia-and-herzegovina.en.mfa, visionato il 2 febbraio 2012
185 dove attualmente è presente una delegazione militare turca coordinata all’interno di
EULEX132. Le truppe turche sono presenti nello spiegamento di forze dell’EUFOR Althea
in Bosnia-Erzegovina per la messa in opera militare degli accordi di Dayton. Le Forze
Armate turche presenti in Bosnia-Erzegovina hanno tra i vari compiti la formazione e
addestramento di militari e poliziotti bosniaci. Come già riportato la Turchia sostiene
tenacemente l’adesione della Bosnia-Erzegovina nell’Alleanza Atlantica.
La Marina militare turca è presente in Albania sin dall’operazione Alba del 1997, e in
Montenegro133. La Turchia è uno dei più tenaci sostenitori dell’adesione della Macedonia
nella Nato. Prende parte a tutte e tre le operazioni NATO in Macedonia: Essential Harvest
(2001), Amber Fox (2001-2003) e Allied Harmony (2002-2003). Quando le operazioni
NATO sono state sostituite dall’operazione di gestione della crisi Concordia, sotto
l’autorità dell’Unione Europea, la Turchia ha contribuito con l’addestramento delle forze
di polizia macedoni. Il 24 dicembre 2010 i ministri della difesa di Turchia e Macedonia
firmano un trattato di cooperazione militare. Il Ministro della difesa turco dichiara:
“Turkey is not only the first country that recognised Macedonia and sent an
ambassador, but it also recognised the country together with its millennium-long historical
past, not with some abbreviation”134.
Ad oggi tra i generali macedoni pare essere più diffusa la conoscenza della lingua
turca piuttosto dell’inglese135.
Dal 2008 la cooperazione militare tra Turchia e Serbia è caratterizzata da un
miglioramento delle relazioni. La Turchia collabora con la Serbia per la conversione
dell’aeroporto di Ladjevci (nei pressi di Kraljevo) da militare a civile, inoltre sono presenti
ufficiali turchi nella formazione dell’accademia militare di Belgrado.
Circa i rapporti militari con Podgorica:
132
“What is EULEX?” http://www.eulex-kosovo.eu/en/info/whatisEulex.php, visionato il 2 febbraio 2012.
Ibid.
134
“Macedonia and Turkey Ink Military Agreement”, http://macedoniaonline.eu/content/view/17181/43/, 24
dicembre 2010.
135
Žarko petrović, Dušan Reljic, “Turkish Interests and Involvement in the Western Balkans: A Score-Card”,
Insight Turkey Vol. 13 / No. 3 / 2011 p. 167 133
186 “The military cooperation between Turkey and Montenegro focuses on activities
involving NATO’s Membership Action Plan and the cooperation of their respective navies.
Negotiations are currently under way for concluding a defense cooperation agreement between the two states, which would regulate and enable cooperation and exchange in
training and other areas”136.
4. La Presenza economica turca in Bosnia-Erzegovina e nei Balcani
Le relazioni economiche e commerciali tra Turchia e i Paesi dei Balcani mostrano una
tendenza crescente dagli ultimi anni ’90. Gli accordi di libero scambio tra Turchia e, ad
oggi, tutti i Paesi dei Balcani Occidentali favoriscono le interazioni. Gli investimenti turchi
nelle telecomunicazioni, trasporti, banche, costruzioni, miniere e la promozione della
piccola e media impresa, sono agevolati e benvenuti dai Governi dei Paesi dei Balcani
occidentali. Nei Balcani la Turchia esporta principalmente prodotti chimici e petrolio,
vetro, attrezzatura militare, prodotti tessili, elettrodomestici, lavorati in carbone e acciaio,
cioccolata, pomodori e giocattoli. La Turchia importa rame, locomotive a motore elettrico,
attrezzatura militare, prodotti chimici e pelle bovina137. La bilancia delle partite correnti
dimostra un surplus dei prodotti turchi esportati di tre a uno nel 2010138.
E’ bene specificare che il commercio tra Turchia e Balcani occidentali, in termini
assoluti, rappresenta solo una frazione esigua rispetto alla presenza economica tedesca,
italiana, austriaca, ungherese o russa. Anche dal punto di vista turco i mercati dei Balcani
Occidentali non sono particolarmente attraenti per i salari mediamente bassi e la bassa
popolosità dei Paesi.
Tuttavia la Turchia s’inserisce in progetti strategici della regione come la
partecipazione alla costruzione dell’autostrada che collegherà Belgrado a Bar passando per
il Sangiaccato. Alla costruzione dei 445 chilometri parteciperanno tre imprese di
136
Ibid. p 168
“Relations between Turkey and Bosnia and Herzegovina (BiH)”
http://www.mfa.gov.tr/relations-between-turkey-and-bosnia-and-herzegovina.en.mfa, visionato il 2 febbraio
2012
138
Žarko petrović, Dušan Reljic, “Turkish Interests and Involvement in the Western Balkans: A Score-Card”,
Insight Turkey Vol. 13 / No. 3 / 2011 p. 164 137
187 costruzioni turche: Kolin, Makwol e Juksel139. Nel 2010 sono iniziate le negoziazione per
l’acquisizione di azioni della compagnia aerea serba, JAT Airways, altamente indebitata,
da parte della Turkish Airlines. Nel settembre 2010 è entrato in vigore l’accordo di libero
scambio tra Ankara e Belgrado. Per i cittadini serbi non è stato mai così facile viaggiare
verso la Turchia e viceversa.
La cooperazione con la Bosnia-Erzegovina è certamente quella più enfatizzata e
pubblicizzata. Gli accordi economici e commerciali principali tra Bosnia-Erzegovina e
Turchia sono i seguenti140:
Accordo
Data della Firma
Trade and Economic Cooperation Agreement
07 November 1995
Mutual Protection and Encourage of Investiment
21 January 1998
International Highway Transportation Agreement
22 January 1998
Free Trade Agreement
3 July 2002
Cooperation Protocol on Fields od Veterinary Sciences
13 December 2002
Social Security Convention and Management Agreement
27 May 2003
on its Application
Double Taxation Avoidance Agreement
16 February 2005
L’Accordo di Libero scambio elimina le barriere al commercio per i prodotti agricoli e
industriali. Dal 2007 i Paesi estendono l’abolizione di dazi, quote e tasse all’esportazione
su tutti i prodotti e bene scambiati.
La crisi economica del 2009 ha provocato una flessione dell’interscambio
commerciale tra Turchia e Bosnia-Erzegovina. Dal 2010 assistiamo al tentativo di
139
“Economics Override History for Belgrade and Ankara”,
http://www.balkaninsight.com/en/article/economics-override-history-for-belgrade-and-ankara, 6 dicembre
2010.
140
Fonte: Report: “Bosna Hersek Ülke Bülteni”, DEIK, Dis Ekonomik Iliskiler Kurolu, Foreign Economic
Relation Board, Agosto 2011. Per la traduzione dal turco all’inglese, consideriamo: Ozum Iseri, “Economic
Bilateral Relations between Turkey and Bosnia Herzegovina”, Centar Za Sigurnoste Studije BiH, novembre
2011 188 rilanciare l’economia turca in regione attraverso nuovi investimenti. L’interscambio con la
Bosnia-Erzegovina avviene maggiormente con la Federatia, tuttavia ci sono esempi recenti
di investimenti privati nell’entità serba: nel 2007 l’impresa farmaceutica turca Nobel, ha
investito dal 2007 sei milioni di euro, avviando un’impresa a Banja Luka, la capitale della
Republika Srpska141. Secondo la Turkish Statistical Institut, al settembre 2011 le
esportazioni nello stesso anno di prodotti turchi ammontano al valore di 203.839.000
milioni di dollari, nello stesso periodo la Bosnia esporta per 64.048.000 milioni di
dollari142.
Anni
Esportazioni
Importazioni
(milioni di euro)
Volume
Commerciale
2008
428
18
446
2009
170
28
198
2010
169
54
223
I rapporti economici con i Balcani Occidentali solo considerevoli, tuttavia molto
inferiori rispetto gli interscambi con i Paesi dell’Unione Europea. Proviamo adesso a
esporre una serie di grafici circa gli interscambi commerciali in valori relativi, ma
considerando oltre ai “Paesi del Blocco Ottomano”(Paesi dell’ex-Jugoslavia esclusa
Slovenia e aggiunta l’Albania) anche i dati della Slovenia, un Paese dell’Unione Europea,
meno abitato ma più ricco di molti Paesi dei Balcani Occidentali. 143
141 Report: “Bosna Hersek Ülke Bülteni”, DEIK, Dis Ekonomik Iliskiler Kurolu, Foreign Economic
Relation Board, Agosto 2011 142 “Export by year”,
http://www.turkstat.gov.tr/Gosterge.do;jsessionid=1SjTPJTLClvQJ9QK4NlDvJwrNyblQT6lFHpXDJqQ3B
DtnHGxGQkV!441150592?metod=IlgiliGosterge&id=3483, visionato il 3 febbraio 2012. 143
Fonte: Ozum Iseri, “Economic Bilateral Relations between Turkey and Bosnia Herzegovina”, Centar Za
Sigurnoste Studije BiH, novembre 2011 p. 9
189 190 144
Nell’articolo di The Economist “The good old days? Talk of an Ottoman revival in the
region seems exaggerated”, il giornale critica l’enfasi data alla presenza turca nella regione
balcanica:
“The western Balkans matter little economically. High-profile road and airport
projects give a false impression of huge Turkish investment. Except in Albania and
Kosovo, there has been more talk than cash.”145
144 Dati fino a settembre 2011, Fonte: Ozum Iseri, “Economic Bilateral Relations between Turkey and
Bosnia Herzegovina”, Centar Za Sigurnoste Studije BiH, novembre 2011 p. 9. 191 Secondo The Economist la Turchia non sarebbe nemmeno tra i primi venti investitori
in regione.
In Bosnia-Erzegovina tuttavia gli investimenti turchi sono ingenti rispetto a quelli
negli altri Paesi. Cinquanta imprese turche operano in Bosnia-Erzegovina, la cooperazione
economica riguarda l’industria tessile, la difesa, le costruzioni, i trasporti, l’industria
elettrica e quella alimentare. Al 2009 la Turchia rappresenta il primo Paese investitore in
Bosnia-Erzegovina, 94,9 milioni di euro; al 2010 il sesto (dopo Austria, Serbia, Croazia,
Arabia Saudita e Slovenia) investendo 15,624 milioni di euro146.
Le principali imprese turche nel territorio nazionale sono le seguenti147:
Azienda turca
Nome
dell’azienda
Natura
degli
in Investimenti
Importo Totale
degli investimenti
Bosnia-Erzegovina
Ziraat Bankası
Turkish Ziraat
Settore Bancario
Bank Bosnia d.d.
Kastamonu
Natron-Hayat
Fabbricazione e
lavorazione
ve
carta
A.Ş.
milioni
di
10
milioni
di
euro
Entegre Ağaç San. d.o.o
Tic.
25
della euro
(Hayat Holding)
Soda San A.Ş.
(Şişecam A.Ş.)
Şişecam Soda
Lukavac
Industria
chimica
Investimento
totale previsto 56,7
milioni di euro dei
quali:
26,7,
attuale
partecipazione
145
“The good old days? Talk of an Ottoman revival in the region seems exaggerated”. The Economist, 5
novembre 2011.
146
Report: “Bosna Hersek Ülke Bülteni”, DEIK, Dis Ekonomik Iliskiler Kurolu, Foreign Economic Relation
Board, Agosto 2011, p 10
147
Ibid. p 11, per questo grafico, non avendo trovato traduzioni ufficiali in inglese, ci siamo permessi di
tradurre dal turco all’italiano. Per maggiori approfondimenti rimandiamo al report riportato in nota. 192 azionaria e i restanti
30 negli investimenti
del
prossimo
quinquennio.
THY
Bosnia Air
Acquisizione del
49%
delle
5 milioni di euro
azioni
della Bosnia Airlines
da parte della Turkish
Airlines
La Turkish Ziraat Bank Bosnia e la Turkish Airlines sono le imprese turche più
conosciute e visibili nella Federatia. La Ziraat Bosnia inizia le sue operazioni nel 1997 e
ad oggi sono presenti 27 filiali, la sede principale è a Sarajevo. 148 La Ziraat offre prestiti di
breve e lungo termine finanziando principalmente impresa, esportazione e investimenti. Al
2010 il totale dei depositi ammonta a cinquantadue milioni di euro, cifra in crescita149.
La Turkish Airlines rappresenta una delle principali compagnie aeree del Paese
collegando quotidianamente Sarajevo a Istanbul. Nel dicembre 2008 la Turkish Airlines
firma un accordo con la BiH Airlines per l’acquisizione del 49% delle azioni della
compagnia. Attraverso la Turkish Airlines in Bosnia-Erzegovina arrivano i turisti dalla
Turchia. Secondo Luca Leone la maggior parte dei turisti che hanno visitato la Federatia
nel 2010 erano turchi, 14,4%150.
La presenza economica turca è in tendenziale crescita. Tuttavia il Paese soffre delle
difficoltà di poter competere efficacemente con Germania, Italia, Austria, Ungheria e
Russia nonché con il commercio interno tra i Paesi dei Balcani Occidentali. Come già
menzionato, la bassa popolosità e il livello esiguo dei salari medi nella regione
costituiscono un disincentivo per Ankara di puntare in questi mercati. Ma oltre
148
“About the Bank”, http://www.ziraatbosnia.com/eng/obanci.htm, visionato il 6 febbraio 2010
Ibid. 150 Luca Leone, “Bosnia Express”, Infinito Edizioni, Roma, 2010, p 137.
149
193 all’economia, sono soprattutto la cultura, la religione, la cooperazione allo sviluppo, gli
strumenti attraverso i quali la Turchia diviene attore protagonista nei Balcani Occidentali.
5. Cultura storia e religione, un legame secolare
Come affermato dalle autorità turche, i legami tra i Balcani e l’Anatolia derivano da
secoli di convivenza e commistione culturale. Attualmente la Turchia viene percepita come
interessata a dialogare e cooperare principalmente con la popolazione musulmana che abita
i Balcani. Tuttavia spesso s’incorre nell’errore di uniformare e banalizzare la popolazione
di fede musulmana in regione151. I musulmani che abitano la regione dei Balcani
occidentali parlano diverse lingue madri: albanese, turco, serbo-croato-bosniacomontenegrino, diversi dialetti delle popolazioni rom. Sono divisi in distinti gruppi etnici:
albanesi, slavi, turchi, pomacchi, torbesh e rom. Aderiscono a differenti tradizioni
teologiche: la maggioranza è sunnita, in Albania e in Macedonia vi sono delle confraternite
sufi Bektashi, in Bulgaria sono presenti comunità alevite e in Bosnia-Erzegovina, in
Macedonia e nel Sangiaccato sono presenti delle esigue comunità wahabite. La non
omogeneità delle comunità musulmane e la loro frammentazione porta le stesse ad avere
una diversa percezione della presenza turca in regione, non sempre positiva.
Il legame con l’Anatolia è tuttavia fuori discussione soprattutto dal punto di vista delle
connessioni umane. Dall’indebolimento dell’Impero Ottomano lungo il diciannovesimo
secolo e gli scontri con le popolazioni cristiane-ortodosse, assistiamo a migrazioni dei
musulmani verso l’Anatolia. I flussi migratori, sia volontari che forzosi, continuano
durante la guerra fredda. Dalla Bulgaria tra il 1950 e il 1951 vengono espulsi circa 150.000
bulgari della minoranza turca. I già citati patti tra Tito e Menderes favoriscono
un’emigrazione di 300.000 musulmani dalla Jugoslavia all’Anatolia tra il 1953 e il 1960152,
riducendo la popolazione musulmana soprattutto in Macedonia e nel Sangiaccato. Nel
1989 il leader comunista bulgaro Todor Jivkov porta all’emigrazione forzata di 370.000
bulgari della comunità turca, molti dei quali ritornati dopo la fine della dittatura, ma
151 Kerem Öktem, “New Islamic actors after the Wahhabi intermezzo: Turkey’s return to the Muslim
Balkans”, European Studies Centre, University of Oxford, dicembre 2010, p. 6 152
Ibid.
194 mantenendo con la Turchia legami economici e familiari153. L’ultimo fenomeno migratorio
di popolazioni musulmane verso la Turchia avviene nelle guerre degli anni ’90 da parte di
bosgnacchi e kosovari. Istanbul rappresentava la sede del califfato, tuttavia alcuni episodi
hanno portato all’allontanamento di diverse entità da tale autorità religiosa. La nascita
dello Stato albanese a seguito della prima guerra balcanica nel 1912 comporta la frattura
con Istanbul. L’Albania negli anni di fondazione della Nazione è governata dai nazionalisti
che per difendere il Paese da eventuali influenze turche favoriscono lo sviluppo di
un’autoctona comunità religiosa albanese, chiamata Diyanet attraverso il Congresso
Islamico del 1923. Nel 1967 inoltre l’Albania si dichiara il primo Stato ateo al mondo.
Negli altri Paesi vengono mantenute le relazioni con l’Impero Ottomano e in seguito con la
Turchia. Tuttavia, soprattutto nella comunità bosniaca, il consenso nei confronti dei turchi
appare messo in crisi dall’incapacità degli ottomani di difendere la Bosnia dall’invasione
austro-ungarica e in ultimo dalla passività della Turchia nella guerra di Bosnia dal 1992 al
1995.
Attualmente le autorità turche sostengono che circa dieci milioni di turchi abbiano
origini balcaniche154. Nei Balcani come nella maggior parte dei territori in cui l’Islam si è
diffuso attraverso le conquiste ottomane, la religione è interpretata dalla scuola hanafita.
Nei Balcani sono presenti da secoli scuole e culti mistici sufi.
L’ ”Islam Europeo” (in questi termini viene definita la tradizione religiosa nei
Balcani), è caratterizzato da secoli di convivenza con altre tradizioni religiose. Secondo
molti esperti ed intellettuali, uno tra questi Kerem Öktem dell’università di Oxford, la
caratteristica dell’Islam delle comunità balcaniche preserverà i suoi caratteri liberali e non
favorirà nel lungo termine l’incremento delle comunità Wahhabite e Salafite. Queste
ultime sono tradizioni estranee alla storia dei Balcani155.
Se durante il periodo jugoslavo la religione era relegata alla sfera essenzialmente
privata e la popolazione era caratterizzata da un atteggiamento fortemente laico, la guerra
di Bosnia ha creato le condizioni per l’emergere di un network di attori e intellettuali
153
Ibid. p 6 154
155
Ibid p 7
Ibid. p 9
195 islamici che continuano ad operare all’interno delle istituzioni democratiche. L’emergere
dei nazionalismi ai primi degli anni ’90 ha contribuito al rafforzamento delle Chiese nei
Balcani. Comunità precedentemente secolarizzate si ritrovano a compattarsi sotto l’insegna
della fede. In Bosnia-Erzegovina in particolare, Paese per secoli multi-religioso e multiculturale, la devastazione dell’apparato statale a seguito della guerra, ha contribuito
all’incremento dell’importanza degli istituti religiosi per i cittadini. Gli enti religiosi
destinatari degli aiuti internazionali si trovano a supplire alla carenza dello stato e ad essere
oggi attori imprescindibili per le dinamiche statali.
Alija Izetbegovic, il primo Presidente di Bosnia-Erzegovina, ha inaugurato una
cooperazione internazionale con i Paesi musulmani. Molti giovani usufruiscono di borse di
studio per studiare nelle migliori università turche. I bosniaci che tornano a seguito di una
formazione in Turchia al pari di coloro che studiano negli istituti turchi, costituiscono una
ricchezza per la Turchia in quanto spesso promotori di una politica di apertura e
cooperazione con Ankara156. Un esempio è Salmir Kaplan157, il giovane Ministro della
Federatia per la Cultura e lo Sport. Egli dopo aver studiato al dipartimento di turcologia
presso l’università di Sarajevo ha effettuato un periodo di studio ad Istanbul e ha sempre
manifestato simpatia e volontà di collaborazione con Ankara. Per questo motivo la Turchia
favorisce una politica di cooperazione e promozione culturale: lo Yunus Emre Institut, ad
esempio, ispirato al British Council e al Goethe Institut ha sedi importanti a Sarajevo,
Skopje e Tirana. L’istituto organizza corsi di lingua turca a prezzi modici e si promuove la
cultura turca attraverso cineforum, conferenze ed esposizioni artistiche e culturali158.
Nella formazione così come nella cultura popolare la Turchia influenza in maniera
crescente tutti gli Stati dei Balcani Occidentali. La maggior parte delle attività degli attori
statali e non-statali turchi si concentrano nelle regioni musulmane159, in Bosnia ad esempio
l’attività turca è molto più marcata nella Federatia e quasi del tutto carente nella Republika
156 “Western Balkans: is Turkey back?” http://csis.org/blog/western-balkans-turkey-back, 25 aprile 2011
157
Curriculum Vitae del Ministro federale della cultura e dello sport Salmir Kaplan.
http://www.fbihvlada.gov.ba, 7 febbraio 2012
158
“About us”, http://www.yunusemrevakfi.com.tr/bosnia/index.php?lang=en&page=1, visionato il 3 ottobre
2011
159
Žarko petrović, Dušan Reljic, “Turkish Interests and Involvement in the Western Balkans: A Score-Card”,
Insight Turkey Vol. 13 / No. 3 / 2011 p. 169
196 Srpska. I mass media turchi, i canali televisivi, le Soap-Opera ricevono un audience
entusiastico160. Attualmente i cittadini di nessuno dei Paesi dei Balcani necessitano di visti
per visitare la Turchia. L’interesse per la cultura, la facilità e i prezzi oggi più contenuti per
viaggiare grazie alla Turkish Airlines, hanno portato ad un aumento del turismo verso
l’Anatolia.
In collaborazione con gli istituti di cultura turca opera la TIKA. La Turkish
International Cooperation and Development Agency, Türkiye İşbirliği ve Kalkınma İdaresi
Başkanlığı, viene fondata sotto la presidenza di Turgut Özal come strumento di politica
estera nelle Repubbliche centro-asiatiche e nei Balcani. Può operare solo nei Paesi in via di
sviluppo, è presente infatti in tutti i Balcani occidentali ad eccezione di Grecia e Bulgaria
considerati paesi donatori e non beneficiari di aiuti allo sviluppo. Nei Balcani la TIKA
collabora con le organizzazioni islamiche operando nel restauro e ricostruzione di
moschee, ponti e edifici ottomani. Dal 2005 in base ad un accordo bilaterale tra Turchia e
Albania, la TIKA in collaborazione con il Ministero turco della Cultura e la Presidenza
turca degli Affari Religiosi ha iniziato il restauro di venti moschee ottomane.
Nella regione a maggioranza musulmana del Montenegro, la TIKA ha investito oltre
cinque milioni di euro.161 A Tuzi, nei pressi della capitale Podgorica, la cooperazione turca
ha finanziato la costruzione di una Madrassa, la prima scuola religiosa musulmana nel
Montenegro dal 1918. La Turkish International Cooperation and Development Agency,
concentra la sua attenzione sulla ricostruzione di monumenti storici ottomani in tutto il
territorio balcanico. In Bosnia-Erzegovina esempi evidenti possono trovarsi a Mostar o a
Konijc.
“The restoration of Ottoman mosques is important for the self-confidence of the
Muslim communities since these mosques were par- ticularly targeted by Serbian forces as
symbols of the Muslim enemy in the wars of the 1990s. Reconstruction also seems to be a
significant act of symbolical re-appropriation of Ottoman material heritage and an
160
161
Ibid.
“Skole na sjeveru u planovima ministarstva”, Dan, 2 maggio 2011. 197 affirmative statement of the role of Turkey as protector of the Muslim people of the
Balkans”162.
La Presidenza degli Affari Religiosi, il Diyanet İşleri Başkanlığı, fondata con
l’articolo 136 della Costituzione turca, stabilita nel 1924 a seguito dell’abolizione del
califfato, rappresenta la principale autorità islamica religiosa della Turchia. Dal 1984 il
Diyanet opera anche all’estero in ausilio della comunità turca in Germania e dagli ultimi
anni ’90 opera nelle Repubbliche centro-asiatiche e nei Balcani a favore delle comunità
musulmane. L’attività più evidente di Diyanet nei Balcani è la ricostruzione di edifici
ottomani e la costruzione di Moschee. Tuttavia organizza anche pellegrinaggi alla Mecca,
diffonde pubblicazioni di carattere religioso, gestisce letture e insegnamenti del Corano, si
occupa della formazione nelle scuola Imam-Hatip, di corsi universitari di teologia e
elargisce borse di studio
Borse di studio elargite da Diyanet nei Balcani nel 2009163:
Paese
Numero di
Numero di
Musulmani
beneficiari di
Comunità Turca
borse di studio
Kosovo
1.800.000
196
30.000
Albania
2.300.000
174
-
Bosnia-
2.200.000
135
-
Macedonia
700.000
59
70.000
Bulgaria
1.100.000
310
800.000
Serbia
500.000
23
-
Montenegro
110.000
-
-
Erzegovina
162
Kerem Öktem, “New Islamic actors after the Wahhabi intermezzo: Turkey’s return to the Muslim
Balkans”, European Studies Centre, University of Oxford, dicembre 2010, p. 30 163 Ibid. p. 34 198 Grecia
130.000
280
100.000
(Tracia
Occidentale)
Diyanet nella regione turca agisce con larga autonomia da Ankara collaborando
piuttosto con entità non governative musulmane turche e non turche.
Oltre alle organizzazioni governative TIKA e Diyanet nei Balcani hanno largo peso le
fondazioni e organizzazioni non governative. Il primo attore non governativo a essere
presente nei Balcani è il Milli Görüş, fondazione fondata da Necmettin Erbakan nel 1969,
che si occupa prevalentemente di assistere la comunità turca nel mondo164. Nei Balcani
rappresenta un’organizzazione non governativa a favore delle comunità più povere in
regione165. Anche nei Balcani è fortemente attivo il network di Fetullah Gülen, una delle
più importanti lobby dell’AKP. Tale organizzazione si attiva particolarmente nella gestione
di scuole e università. Opera in Kosovo, Albania, Bosnia-Erzegovina e Macedonia. In
Albania le scuole turche, la quasi totalità legate al network Gülen, godono di un’ottima
fama e grazie anche alle numerose borse di studio destinate agli studenti albanesi e
kosovari, raccolgono circa 3000 studenti ogni anno.166 In Bosnia-Erzegovina dal 1997
nascono a Sarajevo, Tuzla, Zenica e Bihac (tutte città nella Federatia) scuole primarie,
secondarie e università. A Sarajevo vi sono due università turche, la prestigiosa
International Burch University, nata nel 2008 legata al network di Fetullah Gülen.
6. La Turchia nei Balcani, intervista a Teoman Duman
Teoman Duman è Deputy Rector for International Relations dell’International Burch
University di Sarajevo. L’International Burch University è un’università privata nata nel
2008 all’interno del progetto Bosna Sema Educational Institutions, per lo sviluppo
d’istituzioni educative turche. L’Università si trova in un complesso che prevede anche
scuole primarie e secondarie. Gli insegnamenti sono in turco e in inglese. Le facoltà
dell’università sono tre: Economia, Ingegneria e Letteratura. Stando alle informazioni
164
Ali Çarkŏğlu, Barry Rubin, “Religion and politics in Turkey”, Routledge, London, 2006, p.63
“Aid to Balkans”, http://www.milligorus-forum.com.tr/335496-post2.html, 5 giugno 2011 166
Žarko petrović, Dušan Reljic, “Turkish Interests and Involvement in the Western Balkans: A Score-Card”,
Insight Turkey Vol. 13 / No. 3 / 2011 p 171
165
199 dateci dal Professor Duman, la metà degli studenti proviene dalla Bosnia-Erzegovina, il
40/45% dalla Turchia e il restante 5/10% proviene da Paesi di tutto il mondo, in
particolare Stati di fede musulmana.
La forza della diplomazia turca sta nel coordinamento tra istituzioni governative e
private. Fondamentale è l’impegno culturale turco nei Balcani. Per tali motivi abbiamo
scelto di intervistare un portavoce di tale università in quanto secondo noi interlocutore
appropriato per comprendere il punto di vista dell’attivismo turco secondo i turchi. Valore
aggiunto dell’intervista a Teoman Duman risiede anche nella sua professione, egli infatti
essendo un professore universitario di economia è abituato al dialogo e al confronto.
Essendo l’intervista molto lunga e articolata, ne riportiamo solo alcuni passaggi,
limitandoci a sbobinare quanto registrato senza modificarne la forma. Le nostre domande
sono riconoscibili dal carattere in corsivo.
Why there are so many Turkish cultural institutions in Bosnia and Herzegovina,
which are their goals and missions?
The reason why there are so many Turkish influences and consequently institutions in
Bosnia maybe can be attributed to the natural development. It is a natural development
and evolution of history. Ottoman Empire was here for such a long time and there was a
cultural melting-pot in this area. For a long time this land was part of Ottoman Empire,
they were all citizens of the same country. After so many years, today, again the people,
whenever they have a problem they go to Turkey, and people move, and they have
relatives, especially after the war this kind of buildings were built because there was the
need. During the war Turks wanted to help like they could: some sent money or things,
but also, what Turkish did was come themselves and started institutions. They chose that
they wanted to stay here.
Also to take part of the process of peace building and stabilization of the country?
Yes. The same cannot be said for Arabic countries. Arabic countries have their own
identity but Bosnia is for us like a brother or sister. It’s an identity issue: if you ask
Bosnians, they will consider themselves as part of Turkish identity culture, and if you ask
200 to Turkish people they would say that Bosnian identity culture is part of their own identity
culture.
So after the war a “football match” was organized and donations were collected for
the restoration of Bosnia, so all Turkish investors and businessmen took part of this match.
They donated a lot of money and investors came here and basically started their
organizations and built up first primary and high schools. Then other institutions came up
and we arrive to the present.
Do you think that the rise of AKP and the Turkish economical growth influences
relations and interests between the two countries?
Yes, AKP, Erdoğan and his political role and influence in Turkey, has a lot of
influence in Bosnia and in general in Balkans. Tayyip Erdoğan himself visited Bosnia
several times and whenever there is some events here, he sends some delegate. The reason
is again, Bosnian public is small. Bosnians always need support or connection with
powers. This is how we feel. That’s why Tayyip Erdoğan and his friends were showed
with a big interest in Balkans in the last ten years. They have a very big influence. In their
visits to Bosnia they bring businessmen. Politics, private sector, civil society coordinate.
Now Turkish families are sending their children to study here, it’s an evolution that I think
is going to growth. The land of Balkans during history has always been in the middle
between Europe and Ottoman Empire/Turkey. This is a continue. Part of Europe and in
the same time, part of Eastern culture. You cannot separate. Throughout the history a lot
of people from Balkans came to Turkey.
Can we say that there is a “win-win” strategy in the relations between BosniaHerzegovina and Turkey? Because we see how clear is the interest of Bosnia-Herzegovina
to be linked to the “big-Turkey”, but also for Turkey is essential to play a role in Balkan
region, especially Bosnia. First for economical reasons: the countries of the European
Union (the first Turkish market) are today in recession and Turkey needs to differentiate
his markets. Secondly for a diplomatic reason: if Turkey succeed to show his ability of
being a good mediator, a fundamental actor for the stability of the difficult Balkan region,
201 Europe could understand how important and able is Turkey for the peace and the
empowerment of democracy in Balkans.
Of course, I totally agree. We should look how Turkey has been developing in the
last twenty years. This is the easiest and best way to understand and explain it.
This is what Davutoğlu usually says: “we should analyze events as a process, not
like a picture”.
Yes! And the main reason is the population of Turkey. Turkey is a big country. As
Russia influences his neighborhoods, we influence the countries that are around us. Just
like Germany, England and other big powers. Turkey has always been in Balkans and we
will continue to influence the region. Turkey shares the same religion with a part of the
Bosnian population. Turkey feels that Bosnian population is so close.
Do you think that Turkey could be helpful for the unity and stability of BosniaHerzegovina, especially for the evolution of the institutions created in Dayton?
Politically I hope. I don’t know exactly because it’s not my area. But I can say that
Turkey is actually helping. Politically I don’t know what other populations from Serbia,
Croatia think about Turkey. Institutionally, Turkey is definitely helping BosniaHerzegovina all together. Our institution for example accepts all students from all the
cultures. We have Serbian professors, we have Croatian and Serbian students. This is the
way Turkey acts. We have connection with these people. My children go to our Turkish
primary school. In my doter’s class there are children from sixteen different countries,
they believe in different religions. This is peace. Together they understand each other. My
younger doter is ten years old and she tells me: “I have this friend from this country. This
other friend believe in this religion etc..”. They grow up together. Turkey has definitely an
influence on unity and peace in Bosnia. But how politicians see this? I don’t know, to be
honest: we don’t have anything to do with politics, we don’t even have the faculty of
Political Sciences. Political is not what we do. On the other hand, connection with
peoples, especially in term of education, we can see the influence tangibly. Look at this
investments: millions of dollars spent here only for education, nothing else.
202 When the Turkish politicians talk about principles such as tolerance and pluralism,
do they refer to the order during the Ottoman Empire?
Yes, this is a result of the Ottoman Empire. Ottoman Empire was a cause and this is
an effect. For explain what is happening today we have to refer to the Ottoman Empire, to
the history. Today there is definitely an influence on the peace and development to the
country, because Turkey is a big power in the region and when Turks came here, people
saw them like not enemy, like good people. The big majority of Turks that has come here
were good, the tried to understand the reality, share culture.
Also for Turkey, Balkans were important. Mustafa Kemal Ataturk, the fonder of the
Republic was from the region. And like him a lot of important personalities for Ottoman
history and then the Republic of Turkey were from Balkans. After the loss of the region
after the Balkans wars and the first World War I read about the deep trauma for Turks.
Of course, for Turkey Balkans have always been important, because we need to be
aware and somewhat to control what happens in Balkans because next Balkans there is
Turkey. It’s politic. Countries do that. Germany wants to know what happen in Austria,
Czech Republic, this is normal. I can say that Turks have a lot of relatives in Balkans.
If Turkey develops and the economic becomes stronger is better for the countries
around it. Economically and politically Turkey becomes stronger and we all need a
positive and strong power in region. When you look in what is happening in the Arabs
countries, Turkey is helping to balance there. A lot of people came from Syria, talk is
strong so it can support them. After, when the conflict will finish in Syria we will all look
at what Turkey will able to do. A lot of help and influence will go there.
Did Turgut Özal in the 90s anticipate the Turkish Foreign policy of today?
Turgut Özal wanted to open Turkey to the world. We had military compression, we
had three big coups in 60s, 70s and 80s. People couldn’t produce, work. Turkey was a
closed country and it needed to open up to outside to development. People call it
Panturkism or Neo-Ottomanism, I don’t even know what these terms mean. Tayyip
Erdoğan is the second Turgut Özal, he travels himself with businessmen. The main reason
203 is to develop the economic of the country. Look at the tourism sector, every year it
doubles. There are thirty million people that visit Turkey.
Today there is also a big increase of Serbian tourists. The two countries today work
for trade agreements and the development of economic relations.
What is the difference between Turkish people and Serbian people? There is no
difference, we are all human, we can live together, produce together, consume together.
All these wars were for politicians; there is no problem among people. Ideology were
invented by politicians.
Analyzing the politics and the speeches of Tayyip Erdoğan and Ahmet Davutoğlu, it
seems that today there is a new AKP approach. The principles of the Republic of Turkey
return to be more linked to pluralism and tolerance instead of Nationalism.
Of course, before the military’s influence supported the nationalistic movements, they
created problems. Today we can say that the civil power is stronger than the military
power. And this process influences our approach to the foreign policy.
International Burch University, Ilidza – Sarajevo, venerdì 24 febbraio, ore 12:00
204 7. La Percezione dei Bosniaci dell’attore turco
“Believe me, Sarajevo won today as much as Istanbul”.167
Con tali parole Recep Tayyip Erdoğan commenta la vittoria alle elezioni legislative
turche del 12 giugno 2011. Dai discorsi enunciati da Davutoğlu, Gül e Erdoğan e dalle
ricerche effettuate negli istituti turchi di Bosnia-Erzegovina, sembra trasparire una marcata
sicurezza da parte dell’attore turco circa il suo ruolo nei Balcani. I turchi esaltano i legami
storici e culturali e sostengono che il loro interventismo non può che essere benefico per
superare le divisioni in regione. La diplomazia turca appare attivissima nei Balcani, sembra
ormai pronta e decisa ad assumere il ruolo di mediatrice tra le dispute in regione. Gli
episodi più evidenti già precedentemente riportati riguardano i tentativi di favorire la
distensione tra Sarajevo e Belgrado, la volontà di inserirsi nel dialogo tra le comunità
musulmane nel Sangiaccato serbo e nel sostegno ai Paesi dei Balcani Occidentali, in primis
Macedonia e Bosnia-Erzegovina di adesione all’UE e soprattutto alla NATO.
A questo punto concludiamo il nostro lavoro provando ad interpretare le percezioni
dei bosniaci circa l’attivismo turco. Recenti statistiche168 mostrano una percezione più
positiva della Turchia da parte dei cittadini della Bosnia-Erzegovina rispetto agli abitanti di
Croazia, Serbia e Montenegro:
“Despite historical disagreements between Turkey and the people of the Western
Balkans, especially for the Muslim populations, Turks are viewed as a friendly nation.
According to the Gallup Balkan Monitor Survey 2010, 75.1 percent of the population of
Albania, 60.2 percent of Bosnia and Herzegovina, 93.2 percent of Kosovo, and 76.6
percent of Macedonia consider Turkey as a friendly country. However, the situation is not
the same for the non- Muslim population of the Western Balkans. For example, in Croatia
only 26.7 percent of the population considers Turkey to be a friendly country, in
Montenegro it is 33.5 percent, and in Serbia it is only 18.2 percent. Because of Turkey's
167 Turkey ruling party wins election with reduced majority, http://www.bbc.co.uk/news/world-europe13740147, 12 June 2011. 168
Erhan Türbedar, “Turkey's New Activism in the Western Balkans: Ambitions and Obstacles”, Insight
Turkey, luglio 2011
205 political support for Macedonia's territorial integrity and the dispute over its name with
Greece, Macedonians are the exception when it comes to the attitude of non-Muslim
people. It is worthwhile to notice that compared to 2006, in 2010 the number of people
who consider Turkey as a friendly country has increased 33 percent in Albania, 52 percent
in Kosovo and 76 percent in Bosnia and Herzegovina, while the perception of the nonMuslim population in the Western Balkans remained relatively the same, with minor
changes”169.
La Bosnia-Erzegovina, stando al linguaggio di Dayton, è composta da tre “popoli
costitutivi”: bosniacchi/musulmani, serbi/ortodossi, croati/cattolici. Secondo Žarko
Petrović e Dušan Reljic170 gli sforzi turchi in Bosnia-Erzegovina hanno provocato
considerevoli diffidenze. Secondo gli autori di Insight Turkey la maggior parte dei
bosgnacchi vede la presenza turca come garante dell’unità nazionale e dei propri interessi,
per i serbi bosniaci la presenza turca rappresenta un ostacolo alla salvaguardia del sistemaDayton e dunque dell’autonomia della RS (Republika Srpska) e i croati bosniaci vedono la
presenza turca come minacciosa per il progetto di costituzione di una terza entità nel Paese.
Questa visione generale descritta da tale breve sintesi delle percezioni bosniache della
Turchia è probabilmente la più diffusa e largamente accettata dalla letteratura. Tuttavia
dalle interviste che concludono il capitolo appare che tale percezione pecchi di
un’eccessiva semplificazione.
La complessità della realtà bosniaca comprende anche il rifiuto di accettare una
terminologia che secondo i trattati internazionali, come la pace di Dayton, dovrebbe
chiarire le differenze nazionali nel modo più politicamente corretto e invece viene
percepito come causa di ulteriori divisioni. La stessa terminologia di Dayton sembra
cristallizzare e complicare le differenze tra gli abitanti di Bosnia.
Nedim Hodzic è un giovane di Sarajevo, è della “generazione ‘92”, così vengono
chiamati i ragazzi di diciannove/vent’anni nati nell’anno di inizio del conflitto. E’ uno
studente eccellente d’ingegneria meccanica dell’Università di Sarajevo e ha la tessera del
169 Ibid. p 5 170
Žarko petrović, Dušan Reljic, “Turkish Interests and Involvement in the Western Balkans: A Score-Card”,
Insight Turkey Vol. 13 / No. 3 / 2011 p 161 206 Partito Social-Democratico. Avendo vissuto i primi dieci anni della sua vita in Italia, parla
un ottimo italiano. Hodzic rifiuta di definirsi bosgnacco, “sono bosniaco e lo ribadisco ogni
volta io debba compilare un questionario per uffici vari e soprattutto per l’università. Il mio
è un cognome musulmano e dunque mi è capitato più volte che modificassero la mia
preferenza da bosanac a bošnjak ,ovvero da bosniaco a bosgnacco”.
Il termine “bosgnacco” viene spesso criticato in quanto sentito come un’etichetta da
parte di molti bosniaci. A noi sembra che tale termine venga rifiutato soprattutto da
bosniaci soliti a vivere in un contesto misto come Sarajevo in cui è più comune oggi
(anche se indiscutibilmente meno rispetto al passato) un confronto quotidiano tra
musulmani/bosgnacchi, croati e serbi bosniaci. La nostra affermazione viene confermata
da Hodzic. Pensiero simile viene elaborato dal Professore della Facoltà Cattolica di
Teologia di Sarajevo Igor Žontar, la cui intervista è riportata nelle prossime pagine.
Nedim Hodzic circa la Turchia sostiene:
“Non ho nulla contro i turchi. Sono al contrario molto contento di incontrare sempre
più turisti provenienti dalla Turchia che visitano Sarajevo e il resto della Bosnia. Tuttavia
temo che la Turchia nel perseguire i propri interessi vada a frammentare ulteriormente il
mio Paese parteggiando solo per i musulmani più conservatori. I bosniaci come me
vogliono un Paese laico, come è sempre stato. Siamo tutti bosniaci, siamo tutti uguali, la
religione è un affare privato. Credo sia molto deleterio ai fini degli interessi della Bosnia,
rafforzare i partiti e le ale nazionaliste”171.
Alcuni attori musulmani bosniaci temono come minaccioso l’attivismo del Diyanet
turco in Regione. In particolare per il Reis ul-Ulema di Bosnia-Erzegovina, Mustafa Efendi
Ceric la politica del Diyanet non dev’essere accettata universalmente. Mirnes Kovac,
giornalista del giornale islamico Preporod, sostiene che “Turkey can sometimes behave
very arrogantly, as it has done with regards to the apology campaign of the Serbian
Parliament. It may have helped to nudge the Parliament, but it has no right to take away the
Genocide from us... And then, there is a fair amount of ignorance. When you look from the
171
Intervista a Nedim Hodzic, Sarajevo, 24 febbraio 2012.
207 Diyanet, from Ankara, how can you understand that the Islamska Zajednica is completely
independent from the state?”172.
Secondo molti autori173 la critica del Mufti Ceric al Dyianet e più in generale
all’attivismo turco, deve essere motivata dal sospetto di ambizioni turche nella regione del
Sangiaccato serbo. Il Sangiaccato è la regione serba a maggioranza musulmana, abitata
prevalentemente da bosgnacchi. Ankara sta investendo molto in regione soprattutto nella
costruzione dell’autostrada che collegherà Belgrado a Bar. Per diversi anni nel Sangiaccato
si sono susseguiti scontri tra le due principali fazioni politiche: il Partito di Azione
Democratica del Sangiaccato, guidato da Sulejman Ugljanin e il Partito SocialDemocratico guidato da Rasim Ljalic. Il Ministro degli Affari Esteri Ahmet Davutoğlu,
recandosi più volte in visita in Serbia ha favorito i negoziati tra le due fazioni favorendo,
dopo molti anni di violenze, un clima maggiormente pacifico e cooperativo174.
Se dal punto di vista politico i rapporti sembrano più distesi la partita è ancora aperta
circa la comunità musulmana:
“The Islamic community in Serbia is sharply divided. Muamer Zukorlic is the leader
of a party which regards Sarajevo, the capital of Bosnia and Herzegovina, as a centre of the
Bosniak Islam community of Serbia, while Adem Zilkic, leads an Islamic community that
encompasses all Muslims in Serbia – regardless of ethnicity or links to Turkey.”175
Il motivo principale di sospetto del Reis ul-Ulema Ceric nei confronti dei turchi
risiede dunque nel suo intento di voler mantenere influenza sulla comunità bosgnacca in
regione.
172
Kerem Öktem, “New Islamic actors after the Wahhabi intermezzo: Turkey’s return to the Muslim
Balkans”, European Studies Centre, University of Oxford, dicembre 2010, p 35
173
Ibid.
174
“Economics Override History for Belgrade and Ankara”,
http://www.balkaninsight.com/en/article/economics-override-history-for-belgrade-and-ankara, 6 dicembre
2010.
175
Ibid.
208 8. Una storia non condivisa, percezioni contrastanti
Il periodo Ottomano nella regione balcanica viene oggi diversamente interpretato
seconda della provenienza degli interlocutori. Secondo Milan Vukomanovic176, i testi di
storia serbi scritti soprattutto negli anni ’90, descrivono il periodo ottomano in toni molto
negativi esaltandone connotandolo come un regime autoritario e violento che ha imposto
con la forza la religione musulmana ed è stato causa dell’arretratezza economica della
regione. Al contrario, secondo lo studio dello stesso autore, i testi turchi descrivono la
presenza ottomana in regione come tollerante nei confronti delle diverse religioni, pacifica
e portatrice di sviluppo. Secondo Ahmet Alibasic in Bosnia-Erzegovina a seconda
dell’appartenenza degli storici, stessi avvenimenti vengono descritti in toni molto diversi.
Alibasic parte nella sua analisi dai testi delle scuole elementari e nota che eventi quali la
battaglia del Kosovo del 1389 vengono descritti in modo totalmente diverso: tre pagine con
toni enfatici nei testi serbi, un breve passaggio, cinque righe, nei testi musulmani177.
Secondo lo storico americano Noel Malcom, autore del best-seller “Bosnia, a short
history”, nel periodo di occupazione ottomana nella regione, attraverso il sistema dei
Millet convivevano pacificamente musulmani, cattolici, ortodossi ed ebrei e le conversioni
all’Islam erano sì convenienti, ma non imposte178. I più benevoli nei confronti della
memoria storica del periodo ottomano sono i bosgnacchi, tuttavia:
“In Bosnia, the Empire is often remembered as an ambiguous legacy: the empire is
revered by many for introducing Islam, but scolded for having abandoned the Bosniaks to
the Austrians in the 19th century”179.
Se per i musulmani il periodo ottomano viene studiato in termini anche positivi
soprattutto per l’introduzione dell’Islam, la memoria storica di serbi e croati appare essere
decisamente più critica. I secoli ottomani sono tramandati come violenti e causa
176 Christian Moe,a cura di, “Images of the Religious Other”, CEIR, in cooperation with the Kotor Network,
Novi Sad, Milan Vukomanovic, “Images of the Ottomans and Islam in Serbian History Textbooks”, p. 17 e
seguenti
177 Ibid. Saggio: Ahmet Alibašic, “Images of the Ottomans in History Textbooks in Bosnia and
Herzegovina”, p.39. 178
Noel Malcom, “Bosnia a Short History”, New York University Press, New York, 1994 179
Kerem Öktem, “New Islamic actors after the Wahhabi intermezzo: Turkey’s return to the Muslim
Balkans”, European Studies Centre, University of Oxford, dicembre 2010, p 13
209 dell’arretratezza e scontri successivi. Questa visione influenza la percezione negativa della
politica estera turca:
“Given the mosaic of peoples in the WB countries and their contradictory sentiments
towards the Ottoman period, not surprisingly neo-Ottomanism sounds provocative as soon
as it is pronounced. Namely, if neo-Ottomanism seeks inspiration in multiethnic character
of the Ottoman Empire and relative religious tolerance therein, for Christian Balkan
population this sounds absurd, since they are taught in schools how 500 years of Ottoman
age were repressive and resulted in moral and cultural regression of the population and
seclusion from Europe where their civilizations always belonged”180.
Come già enunciato nel corso del nostro elaborato, il testo di Ahmet Davutoğlu
Profondità Strategica, alla sua quarantatreesima edizione in Turchia non è stato tradotto
che in greco, albanese ed arabo. A meno di una conoscenza di una delle quattro lingue in
cui il libro è diffuso, per accedere a parti originali del testo è necessario fare affidamento a
traduzioni autorizzate dallo stesso autore e casa editrice.
Grazie alla tesi della dottoressa di Belgrado Sena Maric “Turkey’s Neo-Ottoman
policy on the Balkans: does it clash or match with the EU?”, conseguita per il Collegio
d’Europa di Bruges, accediamo a parti di Profondità Strategica circa gli interessi dei
Balcani da parte della Turchia. Con il consenso di Sena Maric riportiamo un estratto della
sua tesi che ci aiuta a comprendere la visione critica della componente serba circa
l’attivismo turco.
“After having read the section on the Balkans, the reader immediately notices two
points: first, that Davutoğlu pays special attention to BiH and Albania, by ardently
advocating the increase of Turkish influence in these countries, and second, that out of all
the Balkan countries, Davutoğlu has not elaborated any plan for engagement with Serbia
and Greece.
180
Sena Maric, Turkey’s Neo-Ottoman policy on the Balkans: does it clash or match with the EU?, College
Of Europe Bruges Campus Eu International Relations And Diplomacy Studies, Academic Year 2010-2011,
p. 14 210 Generally speaking about the Balkans, Davutoğlu argues that Turkey should establish
diplomatic and „real‟ tools that would enable it to intervene in the region. Furthermore,
Turkey should establish a certain cultural organization for the Balkans that would restore
and preserve Ottoman cultural legacy. What may sound striking is that he explicitly says
that the EU should be kept aside as much as possible from this region.
More specifically, as regards Albania the foreign minister says that Turkey should
strengthen its ties with this country as much as possible, in order to eradicate Italy’s
influence. Furthermore, he claims that any problem related to Albania immediately
mobilizes Serbia and Greece, so Turkey should be more cautious. With regards to
Macedonia, he says that Macedonia’s Albanian minority should be encouraged to use its
citizen rights, otherwise Macedonia risks falling into the hands of potential SerbianBulgarian-Greek block. Consequently, Turkey should improve its relations with Bulgaria.
When it comes to the question of BiH, Davutoğlu [...] sees the constitutional order
established by the Dayton Peace Agreement (DPA) as a threat to Bosniaks, since it gave
the status of republic for the Serbs [through Republic of Srpska entity] without
guaranteeing such status for the Muslims. Furthermore, he explicitly mentions the “exOttoman factors‟ which should always be ready to be used against the threats and should
reach military, strategic and diplomatic prevalence in order to reform the DPA.
Therefore, in order to protect Bosniaks, Davutoğlu elaborates a thorough geopolitical
analysis of the most important strategic toponyms in BiH. Probably the most intriguing
point is the importance he gives to Eastern Bosnia and the river Drina. Namely, he claims
that these territories are crucial for the ex-Ottoman peoples; that is why the Serbs were
focused so much on this point when they were doing ethnic cleansing. He continues by
saying that the complete control of this region by the Serbs is dangerous for all Balkans;
that is why it is important to preserve the control of the Goražde region[the most eastern
part of Bosnian-Croat federation]; if this line is broken, one part will be left to the Serbs,
the other to the Croats.
211 For this reason, Davutoğlu explicitly claims that the arc that stretches from Bihać [in
north-western Bosnia, part of Bosnian-Croat federation], through Middle and East Bosnia,
through Sandzak [region linking Serbia and Montenegro], Kosovo, Albania, Macedonia,
Kirjali [southern Bulgaria], until Eastern Thrace [European part of Turkey], represents
“Turkish Balkan geopolitical and geocultural lifeline” ”181.
La diplomazia turca sino al 2011 ha sempre mostrato un interesse privilegiato nei
confronti dell’entità a maggioranza musulmano-cattolica, la Federatia, a discapito della
Republika Srpska nei confronti della quale è quasi assente la presenza economica e la
cooperazione politica. Tuttavia dal 2011 la diplomazia turca, compresa l’importanza di
dover dialogare con i serbi inizia un timido approccio politico. I miglioramenti evidenti
con Belgrado non si verificano con Banja Luka. Anzi, i serbi di Bosnia non comprendono e
criticano le aperture della Serbia alla Turchia182. Gli incontri con il leader dell’entità serba,
Dodik, riguardano solo questioni tecniche183. I discorsi turchi di superamento delle
divisioni e riforme di Dayton, vergono percepiti dalla RS come minacciosi per l’autonomia
dell’entità. La Turchia tenta un approccio più costruttivo: nel gennaio 2011 Davutoglu
incontra Dodik. L’incontro è caratterizzato da toni cordiali e impegni d’intenti per
sviluppare una più solida cooperazione economica. Tuttavia nell’aprile dello stesso anno si
verifica uno spiacevole incidente diplomatico che non lascia ben sperare sulla volontà di
entrambe le parti di voler superare i forti contrasti:
“the cancelation of the meeting between Davutoglu and the Member of the Presidency
of BiH from the Republic of Srpska – at the time Chairman of the BiH Presidency put a
shadow on the previous seemingly successful meeting. Supposedly, the two did not meet
because Davutoglu team explicitly conditioned this meeting by the removal of the flag of
RS, the fact that Turkish minister was already late for the meeting with Dodik and due to
Davutoglu’s prolonged visit to the Ferhadija mosque. Yet, this can also be interpreted as a
181
Ibid. pp. 13-14-15.
p 27 183 Ibid. p 26 e seguenti 182 Ibid
212 deliberate incident by Turkish foreign minister aimed at satisfying the Bosniaks, i.e. to
demonstrate that Bosniaks are not in any way neglected by Turkey”184.
Terminiamo il nostro elaborato intervistando tre interlocutori bosniaci. Il primo è il
bosgnacco Ahmet Alibasic, il secondo il croato Igor Zontar, il terzo il serbo Nikola
Lazinica. Delle interviste effettuate di persona sono riportati degli estratti la cui forma non
è stata modificata nel processo di trascrizione. Le nostre domande si distingueranno per il
carattere corsivo.
Ahmet Alibasic è professore presso la Facoltà di Studi Islamici di Sarajevo.
Musulmano praticante, è esperto di politica, storia e relazioni internazionali. Nel 2009 è
stato tra gli organizzatori dell’evento che ha ospitato Ahmet Davutoglu a Sarajevo nel
quale è stato pronunciato il celebre discorso di cui abbiamo ampiamente trattato.
Talking about the conversion into Islam in the Ottoman Period in Balkans, some
historical say that it was a peaceful process, others that it was violent and imposed.
I wrote an article about the image of Ottomans in the history. I think that conversion
was not forced, that Muslims were not immigrants, most are them were local population
which converted. I think that it was mostly voluntary. However, if there is forced we can
talk about first conversion of the devşirme, the young boys who were taken to Anatolia. In
that case we can say that it was forced. According to history we have about two hundred
thousand of such boys, from the 15th to the 17th centuries, in 250 years, two 200.000
people. What did happen actually is that Muslim had certain privileges and we can talk
about these social economic incentives to conversion.
In the military, in the administration..
Exactly. However there are historians who claim that, yes, there were social-economic
incentives to convert but there were also disadvantages of being Muslims especially in the
last two centuries of Ottoman Empire, when if you were Muslim you had to go in fight and
most of the time Ottomas were loosing and loose too many soldiers. So being Muslim was
a disadvantage and we didn’t see the reversal of the process. Yes, the conversion slow
184 Ibid. p 28 213 down but we didn’t see the reversal of the conversion. If you were Muslim you had less
taxes and so on, but what was it in comparison with risking and loosing your life for a
Sultan that lived somewhere in Istanbul?
Today, after the war we assist of a return of Turkey into Balkans. There are
different interpretations about it. Somebody comment it like a very good occasion for
Bosnia-Herzegovina to improve his international economic and diplomatic relations.
Others see the Turkish activism like the return of the Sultan, and a new form of Ottoman
invasion.
This is a very complex and sensitive issue. I recommend you to read: “The Ottoman
Legacy and the Balkan Muslim Community Today”, I wrote two pages of introduction for
this very sensitive topic. Muslims here have ambivalent position about the Ottomans.
Some believe that, yes, we converted to Islam with the Ottomans, so is how we started. But
others say: Ottoman left us in different occasion. Finally they say: “where was Turkey in
the ‘90s? And what would happen next time when Turkey would have some internal or
external problems and we have troubles here, are they going to come to solve the
problems, or they will simply forget us?” So you have this: Balkan Muslim position,
people are very suspicious on all of this. Of course others are responding with much more
enthusiasm, because look at Bosnia: Croats have their patrons in Zagreb and it’s obviously
these days, especially the Prime Minister who is a leftist he was basically visiting all the
Croats, towns and institutions and giving support. Serbs have their Patrons in Belgrade and
it is very obvious. This is an unfair game, for Muslims. We have two parties with foreign
assistance so some people think we need an assistant as well. On the other side NonMuslims are very suspicious of the Turkish that goes to Balkans. The best example is
Darko Tanaskovic. You maybe read about him.
The former Serbian ambassador in Ankara, with a very critic and sometimes
extreme idea about Turkey and Islam.
He wrote about Neo-Ottomanism. Now we can find the second edition, but the first
edition was published by the governement of Republika Srpska. It’s almost a their official
position.
214 Do you think that we can find different approaches by Boris Tadic and the Serbian
Government and Dodik and Republika Srpska?
What I think of the Turkish policy in the Balkans is: America lost interest, Europe has
obviously no idea of what to do, or when it does, often does the wrong thing. But they both
will stay. We have no reason why not to try something else if a third party could give a
positive contribution. The problem, I think with Turkey is their ambitions. Outgrowth
means by far. About economic and diplomatic means, does Turkey really can be a
significant player in the Balkans? I see a gap there between the ambitious of Turkey that I
appreciate and the realities, on the ground: what can Turkey really do in terms of aid, in
terms of investments, in terms of diplomatic skills and soft power and.. I see a gap there,
but I really appreciate what especially Minister Davutoglu is trying to do.
Inside the Balkan Muslim community can we share the perception of Turkey in two
groups? Like one more secularized, maybe more linked to the SDP that sees Turkey with
suspicious, saying that for Turkey, Bosnia is just an instrument to increase his power. And
so Turkey with Bosnia has the same attitude of Russia, Europe.. On the other hand there
are others that say: we are alone, it is better for us to be linked to Turkey compared to
other actors less strong, less disposed to dialogue (such as Saudi Arabia)?
As I said I have the same perception of the Turkish role, but I also know a lot of SDP
people that are very enthusiastic about Turkey because yes, this religious aspect is very
important, there is a propensity on the part of religious Bosniaks, to be more in favour
towards Turkey. But I know a lot of religious Muslims who are very suspicious of Turkey
like some Mufti in the region, and I know a lot of leftists who are very pro-Turkish, from
the leader to the SDP below, NGO and so on. They are very enthusiastically embracing
Turkish foreign policy. Also in their web you can find discussion about this, and it is
obvious: they are very positive about this role.
I have the impression that it depends of how actors perceive Turkey. Somebody
describe Turks as Muslim conservatives, oppositely others describe Turkish model as very
secularized and positive for the Bosnian system.
215 Exactly. As I said in the beginning this is very complex because there are so many
things, and things are happening so fast and people are hardly catching up with the
development. I mean, Turkey was nowhere in the map till five years ago. Even when AKP
was there but Davutoglu was not, Turkey wasn’t so much present, with the coming of
Dovutoglu to the place of the Minister that things really started going much faster. And
people as you said have opposite vision of Turkey.
About the contrasts that are in Balkans today. Do you think that Turkey could be an
actor that could help to overcome division or not? Boris Tadic went to Srebrenica for the
first time, the resolution..
No! It wasn’t the second time. He was in Srebrenica also the year before, or two year
before. A lot of people forget it. But yes, the resolution yes.
Do you think Turkey could help for stabilizing Balkans? Especially because it
seems that Bosnia-Herzegovina is the most important country.
I think Turkey can do something but the question is how much can Turkey do? Look
at the resolution, as you know many Bosniaks thing that the resolution help Serbian more
than help Bosnia. Because what does the resolution say? Not even Dodik is denying that
something happen in Srebrenica, but it doesn’t want to say that it was a genocide. And we
know the difference between say: “Jews suffered” and “It was an Holocaust”. Many people
can say: “Jews suffered” but if they deny the Holocaust they will have problems for that so
Dodik and Tadic, and the Serbian Parliament who passed the resolution. Probably Dodik
would have passed the same because there is no “G. word” in it. So, what is the
achievement? The achievement of Turkey in this particular case some Bosniaks contend
was to actually squeeze the hand of Haris Silajdzic, and make it pretend that he got
something but practically he didn’t, because: we had that resolution even before you know.
The most vocal oppositor of this opposition was the Mufti of Novi Pazar that said: “what
did we get?”
Is Turkey trying to mediate between the two Muslim communities in Serbian
Sandzak?
216 Yes, you have two points of view. One is optimist and one not. The optimist point of
view is that hopefully Turkey will manage. But nothing is happening by the way. On the
contrary the pessimists see Turkey to be too much deferential, like they conceive too much
to Belgrade. And choosing between Belgrade and Sarajevo they give us emotions and
many words but they give Belgrade money and real concession. So many people feel now
that although probably Turkish side is very much convinced that the initial proposal was
ok, under the requests from Belgrade they are conceiving one by one and basically end on
the initial Belgrade position. You have two sides, you have this in the Islamic community,
you have it inside the Bosniaks.
Somebody say that Reis ul-Ulema Ceric is critic against Turkey because he wants
to preserve his influence in the Balkans to be the religious leader of the region.
Within the Bosniak community, not all Balkans, that’s right, and I think that it is a
problem because I think that Turkey wants to control Balkans.
Also through Diyanet..
Religious affairs, exactly. There is a real clash. Although as you know the Mufti was
very often criticised because a lot of people pro-Turkey said to him that Turkey was our
mother and we are linked. It’s a complex situation and too many factors, too much history,
too much emotions, too many problems, too little means to resolve. If Turkey really has
resources to overcome these problems is a huge question.
Facoltà degli Studi Islamici di Sarajevo, mercoledì 29 febbraio 2012, ore 21:00.
Igor Zontar nasce nel 1976 a Sarajevo, è croato. Laureato in filosofia e teologia, ha
una formazione e carriera internazionale: finita la guerra nel 1995 lascia Sarajevo per
completare i suoi studi prima Regno Unito, poi negli Stati Uniti. Lavorerà negli Stati Uniti,
in Germania e in Croazia. Attualmente è professore di filosofia nella Facoltà Cattolica di
Teologia di Sarajevo.
As a Catholic what is your perception of Ottoman period in Balkans?
217 There is not a common opinion about the period of Islamization and the presence of
Ottomans in Bosnia. If you talk to Muslims, Bosniaks, they don’t share the same point of
view of Catholics and Orthodox. Personally, my perception is that I don’t think that that
period for Bosnia was completely bad. Ottoman Empire brought something good to
Bosnia-Herzegovina, at this time, but looking from this prospective today, maybe it was
wrong.
According to Davutoglu, the Ottoman period was the golden age for Balkans
because the region was characterized by tolerance and pluralism and the Balkans were a
central region not a periphery like they are today for Europe.
I do not agree, politely with that statement, but I also think that being part of this huge
Empire was good.
“Good” in which way?
I think to the relations between Bosniaks, Orthodox and Catholics. They were better in
that time then today, really. I think today we don’t have good relationships between
different religions. International people that come here often think and say that we are in
good relations. I don’t think so. I think that today we need to change this.
During Yugoslavia, the relations between religion were better than today?
I was really young at that time, I was in the elementary school, I was in the high
school when Yugoslavia cracked down. My perception is that at that time it was much
better, because it was really difficult to know who were Serbian, who were Catholics, who
were Muslims.
According to some French thinkers during the Bosnian conflict, what was
happening was a result of a long and constant hate against people. That war was a natural
consequence. Some people critic this statements such as an excuse for the international
community to not intervene.
I don’t see any reason why people killed each other. Brothers killed each other. I don’t
know what happened, really. I understand that international policy was the main reason
218 why the war started here. I said that in the elementary school and high school I didn’t
know who was Orthodox, who was Muslim, because it was my set of mind at that time.
Today the first question when you meet someone is if he’s Catholic, or Muslim or
Orthodox. It is something primarily today in relationships and communication. Because of
that, when we talk about Ottoman Empire, there are different prospective. Muslims are
much more familiar with Turkey today and they glorify the Ottoman Empire, Catholics are
not of that side, Orthodox all.
But not all.
Not all, I agree. More common people, intellectuals think different.
Maybe the Muslim now want to find an ally in Turkey because during the war they
had the feeling of being let alone.
Because we had relations with Germany, Austria, Italy. Serbia was linked to Russia.
And Muslims...
There are intellectuals, such as Tanaskovic today, the former Serbian Ambassador
in Ankara and then in Vatican, that are very critic relatively the Ottoman presence in
Balkans. They say that Islam was one of the origin of the disputes and then war.
I really don’t like to put Islam in that way. We have to consider Islam as a religion,
and separate it from politic. I cannot see that way of thinking, my friends are Muslims. I
cannot apply those sentences to my friends. I know that there are a lot of intellectual from
Serbia, especially Belgrade, try to say that Islam is the most evil think in all the region. But
I don’t agree. We cannot put religion in that way. Also I can see that around the globe, they
would like to picture Islam as something terrible. It’s a simplification of religion.
So you don’t think that the origin of the conflict are connected to religions?
No, I think that political reasons, and policy and International community, some
people from the region are the main responsible.
Don’t you think that your point of view is influenced by the contest in which you
grew up? You are from Sarajevo and you grew up in a multicultural contest.
219 Yes, I think so. You have to be here and feel how the situation is different, because
there are a lot of international representatives that come here to Sarajevo and Bosnia and
they speak about the Islam. But they really don’t know anything about Islam and Bosnia.
Be here for a couple of years, talk to different people, study here. I really hate to talk with
some foreigners that say that Islam is the problem in the Region. Islam is not the problem.
I’ve been living here for thirty-six years but I don’t see it in that way. I know that people
say that Islam is the only problem in the world. Now, Islam is not the problem. Politicians
are the problem, maybe they were Muslims, but Islam is not the problem.
Talking about Turkey, there is this common belief that the Bosniaks are the group
that see in Ankara the best ally. Yesterday we interview Ahmet Alibasic of the Islamic
Faculty of Theology in Sarajevo..
I know Alibasic very well. We are friends. He teaches Islam in the faculty. He used to
study and work in the university of Malaysia, but with him like with a lot of other
Muslims, I can talk about politics and everything. We respect each other and each other’s
identities.
According to him when we analyse the perception of Muslims and Bosniaks toward
Turkey we should also consider that a lot of people see Ankara more interested in
improving his relations with Belgrade and Bruxelles. Bosnia seems to be just a tool for
other biggest goals.
I think it is not possible for Turkey to take part to resolve the situation in Bosnia,
because we need to work ourselves. But also a couple of days I read that International
Community said that Bosnia will never enter in the European Union, they think about
something else to find some resolution for Bosnian people. And to establish an internal
union without Serbia and Croatia.
The 28th of February Europe accepted Serbia as a candidate of the Union.
Yes, but what about Bosnia, what about Montenegro, what about all of us?
220 Everything changes but geography. We always read and talk about divisions,
contrasts, differences. But we’re still talking about countries so close that share history
and culture...
Yes, exactly. Really, I do not see differences between Croatia and Bosnia. Which are
the differences? Can you tell me the big differences?
Maybe languages?
Yes Of course! Languages are different we cannot understand each other! No
seriously, really, what is the difference? Why Croatia can enter into European Union and
the other not. Why the international community treat differently Croatia and Serbia?
Because there is not really a difference between Bosnia, Croatia, Serbia. Maybe the Islam
for International Community is a problem. Maybe, but really I don’t want to believe it.
Because it’s a personal thing.
In your opinion the solution will come from outside, European Union, Turkey, or
inside Bosnia?
I would like from inside, but it is impossible.
It seems that the system created in Dayton prevents every effort to reform.
The main problem is Dayton Constitution. The country separated in three sides, three
systems, three ways of thinking. In 1995 the most important thing was to stop the war. It
was very important it. But 15 years after, it’s a very stupid Idea. We have too many
problems from Dayton. Country is separated in three parts. Two actually: Republika
Srpska and Federatia, but in the last there are Bosniaks and Croats.
There are some proposal made by Croatian politician: create a new entity in
Federatia for the Catholics. Create like a Republika Hrvatska on the model of Republika
Srpska.
But what about Croats in Sarajevo? What about me? Do I need to go to Mostar? I
don’t see any support and interest from Croatia to Bosnia. I think the vote is the only thing
they search. And I think that Serbia acts the same.
221 My brother is a priest in Zagreb, he also grew up like me here, during the war and
then he left to Zagreb. His perception today is absolutely different, because he lives
outside.
What do you mean, the difference between you and your brother is that he left to
Zagreb and you stayed in Sarajevo, so the only solution for accept each other is to live
together?
To live together, yes. For centuries we lived together without any problems till the
war, right now we have big problems how to live together. I really think that it is the only
solution. Maybe the younger generation will change something.
Or maybe not.
Or maybe not. I sometimes am very scared when I talk with new generation. Looking
at today compared than two years ago. What has changed? Maybe there are more banks
and more shopping centres, but look at real life. It’s the same. The situation is the same.
The antagonism between the people is the same. There is no different prospective, different
view.
Conclusions?
Without conclusion. I just hope that it is going to be better.
Facoltà Cattolica di Teologia, Sarajevo, venerdì 2 marzo 2012, ore 10:30
Nikola Lazinica, nasce a Šibenik il 9 giugno 1985. Šibenik si trova in Dalmazia, tra
Spalato e Zara. Lui e la sua famiglia serbo-ortodossa vi vivono fino al 1991. In quell’anno
lasciano il Paese per trasferirsi prima a Belgrado, poi a Bar e infine a Banja Luka nel 1993.
Nikola Lazinica si laurea in economia a Banja Luka e per due anni lavora nel
Ministero degli Affari Economici della Republika Srpska. Lavora nel dipartimento
competente per gli Investimenti Diretti Esteri e Fondi europei in particolare IPA. Nel 2010
vince una Borsa di studio con la Farnesina e consegue un master nel Collegio d’Europa di
Parma.
222 Circa la percezione dell’Impero Ottomano, alcuni autori, uno su tutti il serbo Darko
Tanaskovic, ha una visione molto critica, estremizzando le sue parole sembra che per lui
l’origine del male risieda dalla conversione all’Islam, da quel momento sono partite tutte
le divisioni e contrasti. Un’altra letteratura attribuisce all’Impero Ottomano una fase di
tolleranza e pluralismo. Secondo Ahmet Davutoglu, il periodo più florido della storia dei
Balcani si ha nella fase Ottomana in cui la regione era centro e non periferia d’Europa.
Quello di Tanaskovic è anche il mio punto di vista. Si sa che Bisanzio fosse più
sviluppato rispetto ai territori in cui si trova oggi la Germania. Tutto ciò è stato interrotto
con gli Ottomani. Qui nei Balcani i bulgari avevano il loro Paese, i greci, i serbi. Dopo
l’invasione ottomana, per cinquecento anni non vi è sviluppo. Quando in Italia ho visitato
il centro storico di molte città italiane, tutte le cattedrali, c’era la Chiesa cattolica in Italia,
ma tutte le città si sono sviluppate, il Rinascimento in Italia, la Renaissance in Francia e
tutta questa epoca non è successa qui nei Balcani nel periodo dell’Impero Ottomano, anche
se i Balcani prima dell’arrivo dei turchi erano più sviluppati. E le nostre città per esempio
non hanno un centro storico come Banja Luka. Le uniche città ad avercelo sono quelle
sulla costa del Mare Adriatico che hanno fatto molto commercio o che erano sotto la
Repubblica Serenissima di Venezia.
Dal tuo punto di vista la civiltà si è fermata con l’invasione ottomana?
Secondo me sì. E quando hai menzionato la tolleranza, sì è vero che per esempio gli
ebrei sono stati espulsi dalla Spagna e sono venuti nell’Impero ottomano. C’era la
tolleranza, e secondo me la conversione non ha assunto le caratteristiche di quella cattolica
nell’America Latina. Solo che molte persone hanno scelto di convertirsi all’Islam solo
perché non dovevano pagare tante tasse, affinché i figli maschi non dovessero essere
portati a Istanbul per diventare Giannizzeri.
Quindi secondo te le conversione non erano forzate, ma comunque influenzate da
una forte convenienza nella scelta?
Sì, non era forzata nel senso che prendevano i non-musulmani e li obbligavano alla
conversione o alla morte, ma era molto difficile vivere come cristiano. Quando si parla di
Bosnia, prima tradizionalmente la maggior parte delle persone che abitavano nella città
223 erano musulmani e ciò ha portato i serbi ad abitare nelle campagne e soprattutto nelle
montagne. Non è un caso se tanti monasteri ortodossi siano sorti in posti impervi, in
montagna. Io considero il periodo dell’Impero Ottomano come scuro e negativo. Durante
l’Impero serbo c’era una delle prime leggi costituzionali scritte a livello europeo scritto nel
1349, il Dušanov zakonik, o il Codice di Dušan. Il mercantilismo era sviluppato, il Kosovo
era sviluppato c'erano molte miniere, il commercio era vivo, vi erano molte Chiese che
attraverso gli emanuensi e lo studio favorivano la diffusione della scolarizzazione e della
cultura. Con i turchi tutto questo doveva essere nascosto, i preti dovevano fuggire in
montagna. Se c'era tolleranza, non so cosa dirti: tanti serbi, dal 1600 sono partiti dal
Kosovo e Serbia per trasferisti in Ungheria o più in seguito nell'Impero Austro-Ungarico.
In realtà la provincia a nord della Serbia, la Vojvodina, era originariamente ungherese, ma
tanti serbi venuti ad abitarla nel periodo turco, sono emigrati lì per stare sotto l'Impero
Austro-Ungarico più tollerante nei confronti delle religioni con una minore tassazione.
Dunque, se ci fosse stata davvero tanta tolleranza, perché queste persone hanno lasciato
tutto per emigrare?
Circa il famoso discorso di Sarajevo di Davutoglu nel 2009, egli cerca di
sfruttare la tradizione storica con la Bosnia. Sulla Turchia cambiano molto i punti di vista,
c’è chi nel ritorno dell’attore turco vi vede qualcosa di positivo per l’economia e per la
politica soprattutto dei musulmani nel trovare un interlocutore internazionale chi invece lo
vede come un ritorno di un invasore, il famoso “Ritorno del Sultano” vedendo nella
Turchia un mero interesse egoistico.
In un certo modo oggi i Paesi dell’America Latina hanno mantenuto un legame con
Madrid. Anche qui quando si parla di quest’argomento i Bosgnacchi vedono Istanbul come
centro della regione. Ma per i serbi non è così, c’è un senso di repulsione verso i turchi.
Tutti questi investimenti, sì, ci sono tanti investimenti turchi a Sarajevo. Ma a Banja Luka
non si trovano le banche turche o altri enti. Tutto dipende da quale parte di Paese si parla. I
Paesi arabi così come la Turchia investono nelle zone di maggioranza bosgnacca. Qui
come hai avuto modo di vedere tu stesso, tutte le banche sono austriache. Per quanto
riguardo l’economia, tutti i soldi sono benvenuti e non si fa distinzione di nazionalità o
religione: ad esempio da due anni ad oggi sono in corso le trattative per l’acquisizione di
224 azioni della Jat Airways da parte di Turkish Airlines e non vi sono particolari
contestazioni. Ma dal punto di vista culturale, noi impariamo inglese, tedesco, francese,
italiano, però a Sarajevo oltre l’inglese è facile studiare arabo e turco. Qua nessuno ha
interesse nell’imparare turco.
Sul sito del Ministero degli Affari Esteri di Turchia sono riportate le visite di
Davutoglu e della diplomazia turca verso la Republika Srpska. Visite recentissime iniziate
solo dal 2011. Non credi che l’establishment turco abbia compreso l’importanza della
Republika Srpska per contare in Bosnia e nei Balcani?
Sì, ho presente questo incontro. Ed è ricordato da uno scandalo: uno scivolone
diplomatico. Davutoglu è rimasto allibito nel non trovare la bandiera della BosniaErzegovina, vi erano solo bandiere della Republika Srpska. Il Ministro turco chiedeva la
bandiera Bosnia Erzegovina.
Circa la convenienza della Conversione all'Islam, Ahmet Alibasic dice: sì c'era
convenienza, ma nell'ultima fase dell'Impero ottomano non assistiamo ad una controconversione, gli islamici non si sono convertiti al cristianesimo nonostante al tempo fosse
più conveniente. Rimanevano fedeli all'Islam nonostante ciò significasse partire in guerra
per difendere l'Impero e morire. Forse ormai l'Islam si era radicato?
Durante gli anni loro hanno pensato di essere un popolo diverso dai serbi e croati, in
realtà erano serbi e croati convertiti. C'è un caso: Emir Kusturica che si è reso conto della
sua provenienza e si è riconvertito. Alcuni considerano il livello di conversione in Bosnia
più elevato in Bosnia rispetto che altrove anche per la tradizione dei Bugomili [la Chiesa
Bosniaca].
La Turchia sta perseguendo una politica estera molto attiva soprattutto nella
Serbia di Boris Tadic. Investimenti economici, tantativi di mediazione tra i musulmani nel
Sangiaccato, pressioni per la Risoluzione parlamentare del massacro di Srebrenica. Come
vedi quest'avvicinamento tra La Serbia di Tadic e la Turchia?
Io penso che questo è stato un errore. Che c'entra la Turchia con il Sangiaccato? ciò
deve essere risolto dal Presidente di Serbia. Che vadano a Cipro e risolvano i loro
225 problemi. I problemi della Serbia devono essere risolti all'interno della Serbia. A me è
capitato di andare in Turchia ed è vero: se dici di provenire dalla Bosnia hai sempre il
tavolo libero in ristorante. Dai miei incontri ho ascoltato di una difficile integrazione in
Turchia degli slavi nei flussi migratori degli anni '50 e '60. I turchi esaltano la presenza
bosniaca in Anatolia, ma parliamoci chiaro: durante la guerra o soprattutto nelle
emigrazioni il grosso dei bosgnacchi ha cercato di emigrare in Svezia, Germania, Italia,
Austria. Esaltare un recente flusso migratorio bosniaco verso la Turchia mi sembra
veramente esagerato. Quando parliamo di corruzioni, evasione e problemi amministrativi,
secondo me parliamo di una mentalità sviluppata nella fase ottomana perché i cristiani non
lo riconoscevano come Stato legittimo e dunque c'era l'interesse di andarvi contro.
Secondo molti rappresentanti della RS in primis Dodik, che assume spesso dei toni
provocatori, l'attivismo turco viene criticato perché nei proclami di Davutoglu ed Erdogan
circa l'unità bosniaca e la volontà di superamento dei problemi del Paese, sembra si voglia
minare all'ordine di Dayton e dunque all'autonomia della Republika Srpska.
Io non ho paura dei turchi. La Republika Srpska è un fatto. Ci sono molte persone
pronte a fare la guerra per difenderla. Anche il fatto del Kosovo, i serbi sono arrabiatissimi
della situazione attuale. Non c'è il timore della Turchia, la maggiorparte delle persone di
qua. Per quanto riguarda gli investimenti, i Serbi hanno svenduto la NIS, Naftna Industrija
Srbije, alla Gazprom. Molte imprese serbe sono state svendute ai russi. Il legame è forte
con la Russia. Anche durante il regno di Serbia sempre vi sono state due correnti: uno
sempre orientato verso Russia e l’altro verso l’Europa dell’Austria-Ungheria.
Quelli che guardano alla Russia per ragioni religiose di legami dei Patriarcati, e
quelli che riguardano l’Europa per cosa? Cultura, prossimità geografica e culturale?
Sì, esatto. E penso che per quanto riguarda i Bosgnacchi c’è una parte che guarda la
Turchia come noi guardiamo la Russia e un’altra che invece guarda all’Europa.
Come vedi la soluzione di Dayton?
Io sono europeo ed europeista, ma bisogna abbandonare questa idea di Stato
multientico nei Balcani. Il passato ci dice che questa idea non ha avuto successo: la
226 Jugoslavia è stata distrutta. Tali problemi sono in Albania, Kosovo. Per risolvere i
problemi dei Balcani ci vuole una Conferenza internazionale per fare delle nuove frontiere.
Quali nuove frontiere? Per quanto riguarda il Kosovo ad esempio. Credi che il
caso kosovaro abbia creato un precedente?
Sì, ha creato un precedente. Se gli albanesi sono in maggioranza va bene, che ci sia
l’annessione delle zone albanesi all’Albania, che ai monasteri venga attribuito uno status
extraterritoriale affinché siano parte della Serbia. Questo patrimonio culturale dev’essere
considerato dall’Unesco come patrimonio culturale serbo. Perché i serbi hanno costruito
questi monasteri. Non possono essere considerati come patrimoni kosovari o di Albania. E
il nord, la regione abitata dai serbi di conseguenza deve essere annessa alla Serbia. Il
problema però è la Macedonia che non sarebbe d’accordo visto che un terzo del territorio è
abitato da albanesi. Attualmente ci sono anche degli scontri tra albanesi e macedoni in
Macedonia. La situazione è di stress costante.
Qual è la prospettiva migliore per la Republika Srpska?
Secondo me la prospettiva migliore è unirsi con Serbia perché c’è tanta corruzione e
problemi e penso che non sia una soluzione l’indipendenza dello Stato. Io la voglio vedere
unita con la Serbia e non come uno Stato indipendente.
Non credi nella possibilità di uno Stato multi-etnico? Sarajevo nell’ ’84 ha ospitato
il mondo attraverso le Olimpiadi.
La Jugoslavia ha ospitato il mondo.
Sì, nella provincia bosniaca, tra le più povere economicamente, ma eterogenea, era
la provincia delle quattro religioni, del mix culturale e storico. Ciò era visto come il “fiore
all’occhiello” di Tito.
Certo questo però era influenzato dal contesto internazionale del ruolo della
Jugoslavia nei Paesi non allineati fuori Unione Sovietica e NATO. La Jugoslavia contava
molto nel mondo bipolare, che con la caduta dell’URSS, la Jugoslavia come buffer zone tra
est e ovest non serviva più.
227 Su Sarajevo si aveva questa idea positiva della convivenza, la differenza era vista
come una ricchezza. Sotto una grande Jugoslavia, la differenza sembrava una forza. Oggi
se uno stato non è omogeneo etnicamente sembra che non possa superare le difficoltà,
quali quelle che ad esempio bloccano oggi la Bosnia.
Mostar oggi è divisa tra est e ovest tra musulmani e croati, anche se i serbi prima della
guerra erano il 20% della popolazione oggi non c’entrano nelle divisioni di Mostar.
Musulmani e croati non possono vivere insieme oggi. Sarajevo oggi non era l’unica città
multiculturale culturale. Mostar, Banja Luka.. tutta la Jugoslavia era mista, ma oggi non è
più così. Sono passati quasi vent’anni, se una famiglia si è spostata vent’anni fa, non è che
si sposta di nuovo. Questo processo di ritorno, non si riverificherà in futuro.
Circa l’Unione Europea, ipotizziamo l’entrata di Bosnia-Erzegovina e Serbia così
come la Croazia. Pensi che possa essere una soluzione per ritrovarsi di nuovo insieme,
sotto una nuova e diversa entità in cui le diversità sono una forza?
No, parlerò di nuovo di Mostar: quando si gioca Croazia contro Turchia, si sa quale
parte della città è tifosa di Turchia e quale parte della città è tifosa di Croazia. Anche qui,
anche se noi abitiamo in Bosnia, non ci saranno mai tifosi di Bosnia-Erzegovina e nel
match Serbia-Bosnia vedrai solo bandiere serbe. Tanti sportivi con talento scelgono di
gareggiare per la Serbia piuttosto che per la Bosnia.
Per voi è facile ottenere la cittadinanza serba?
Sì, tutti i croati di Bosnia, possono avere la cittadinanza croata e tutti i serbi di Bosnia
possono avere la cittadinanza serba.
Dopo due anni di contrattazioni, il 28 febbraio 2012 la Serbia viene accettata come
Paese candidato all’Unione Europea. Sei soddisfatto di questo risultato?
Sì, ma trovo che se hanno posticipato questa decisione a marzo piuttosto che a
dicembre è solo perché le elezioni in Serbia sono più vicine e gli europei preferiscono
aiutare il Partito Democratico di Tadic piuttosto dei nazionalisti o del Partito Radicale, più
filo-russo.
228 Hai una forte formazione europea, non pensi che l’adesione di Bosnia e Serbia
possano aiutare a superare i problemi di Bosnia?
No, l’Europa non ha aiutato a risolvere i problemi di Spagna con i baschi, o la
questione scozzese con la Gran Bretagna, c’è la possibilità non lontana della secessione di
Scozia. Irlanda e Regno Unito non sono forse parte dell’Unione Europea? io non credo che
il conflitto sia stato risolto. Il caso di Cipro inoltre. In Lettonia vi sono moltissimi abitanti
di madrelingua russa. Il russo non viene accettata come lingua ufficiale.
Conclusioni?
L’Unione Europea può aiutare a risolvere importanti problemi come la corruzione, ma
non le divisioni interne.
Chi le risolverà le divisioni interne?
Probabilmente nessuno finché la comunità internazionale continuerà a credere a
progetti di Stati multi-etnici e multi-culturali come i casi fallimentari di Bosnia, Kosovo,
Macedonia.
La Croazia propone la costituzione di una nuova entità sul modello della Republika
Srpska per i croati.
Sì, la Republika Herceg-Bosna. Sai, durante la Jugoslavia, c’era lo stesso numero di
serbi in Croazia come di croati in Bosnia. Loro oggi qui sono un popolo costituente, con la
loro lingua ufficiale e i serbi di Croazia sono stati quasi tutti espulsi e non esistono più. Io
personalmente sono contro la costituzione di una Republika Herceg-Bosna, loro hanno
scelto di essere in coalizione con musulmani/bosgnacchi nel 1994 quando si sono alleati
per fare una guerra contro i serbi. Se hanno fatto questa scelta, che rimangano con loro.
Personalmente il mio interesse è vedere la Republika Srpska annessa alla Serbia.
Banja Luka, sabato 3 marzo 2012, ore 18:00
229 Conclusioni
Nel nostro elaborato abbiamo tentato di spiegare la nuova politica estera turca in
particolare in relazione alla Bosnia-Erzegovina e ai Balcani Occidentali. Nella nostra tesi
abbiamo utilizzato una tecnica di ricerca bottom-up analizzando inizialmente gli equilibri
interni turchi e come conseguenza le evoluzioni in politica estera.
Gli equilibri interni alla Repubblica turca dall’ascesa del Partito della Giustizia e dello
Sviluppo, AKP, appaiono essere oggi caratterizzati da un approccio maggiormente
inclusivo rispetto al passato. In politica interna principi quali tolleranza e pluralismo
vengono oggi enunciati dalla classe politica turca in sostituzione del nazionalismo. Dal
2002 ad oggi la Turchia è guidata da un governo monocolore di un partito i cui leader e
parte dei sostenitori sono islamici praticanti. Presentando le caratteristiche di un catch all
party con una marcata frammentazione ed eterogeneità degli elettori185, si cadrebbe in
errore se si tentasse di spiegare l’elettorato AKP solo in chiave di pratica religiosa. Oltre
all’elettorato di islamici praticanti che ha sempre garantito un consenso a partiti islamisti
sin dalle prime formazioni turche del 1970186, il partito dell’AKP riceve consensi da frange
laiche del Paese, la nuova classe borghese, gli abitanti più disagiati delle periferie turche,
kurdi e persino ex socialisti187.
Il consenso e i successi elettorali del partito guidato da Recep Tayyip Erdoğan si basano su
diverse motivazioni, noi ne abbiamo analizzate tre, quelle che riteniamo più importanti. La
prima quella economica: dal 2001 ad oggi secondo i dati OCSE oltre ad una crescita
sostenuta dell’economia globale turca, il Pil pro-capite, fattore economico che condiziona
indiscutibilmente la qualità della vita delle persone, è aumentato dal 2001 a oggi andando a
beneficio anche di popolazioni, quali i kurdi, per decenni esclusi dai benefici
dell’industrializzazione e sviluppo del Paese188. Oltre alla crescita economica l’attivismo in
politica estera rende fieri i turchi che vedono il loro Paese oggi orgoglioso e libero dagli
185
Ergon Ozbudun, William Hale, “Islamism, Democracy and Liberalism in Turkey. The case of AKP”,
Routledge, New York, 2010, pg 33
186
Jacob Landau “The National Salvation Party in Turkey”, Asian and African Studies, Vol. 11, 1976, pg:
57.
187
Ergon Ozbudun, William Hale, “Islamism, Democracy and Liberalism in Turkey. The case of AKP”,
Routledge, New York, 2010, pg 33
188
Ibid. pg 102
230 Stati Uniti e dalle potenze europee, capace di difendere i Palestinesi e di contare nei
rivolgimenti dei Paesi nordafricani. L’attivismo internazionale turco riscatta il Paese dalle
sconfitte belliche dell’Impero Ottomano e dai decenni di vincoli internazionali legati al
contesto della Guerra fredda. La terza motivazione che secondo noi favorisce un largo
consenso al Partito di Erdoğan è la volontà da parte del popolo turco che il sistema in senso
più democratico, liberale e liberista. Sin dalla campagna elettorale per le elezioni
legislative del 2002, il partito di Erdoğan ha fatto dell’adesione all’Unione Europea il suo
slogan elettorale. L’armonizzazione alla legislazione europea e alle direttive del Fondo
Monetario Internazionale hanno favorito l’evoluzione dell’assetto turco in senso più
democratico e liberale: il potere civile prevale sul militare.
Il conflitto tra quelle che noi abbiamo definito le tre principali componenti della società
turca, islamici, kemalisti e kurdi, permangono ancora. Tuttavia se fino agli anni ’90, lo
scontro era caratterizzato da violenza e urto, assistiamo oggi a un diverso approccio. Negli
anni ’90 il movimento separatista kurdo, il PKK, poteva contare su un largo sostegno da
parte della popolazione del Sud-Est dell’Anatolia. Oggi il partito di Erdoğan riceve ampi
consensi elettorali da parte delle popolazioni kurde189. Le aperture operate dall’AKP nel
riconoscere l’esistenza di una questione kurda e nel garantire maggiori diritti e libertà,
portano i kurdi a confidare nel Partito190. I kurdi che mantengono un atteggiamento critico
nei confronti del partito di Governo portano avanti una lotta per i diritti e le libertà del
popolo kurdo caratterizzata oggi, più che in passato da mezzi pacifici e democratici191.
Circa i rapporti tra islamici praticanti e kemalisti, ad oggi sembra che dopo anni di governi
AKP, le frange laiche del Paese temano meno rispetto che in passato la minaccia di un
tentativo di colpo di stato islamico sul modello della rivoluzione iraniana di Khomeini del
1979. Lo scontro tra laici e praticanti permane, i laici non vogliono perdere quelle libertà
occidentali192 da sempre garantite dall’assetto repubblicano. L’AKP tuttavia distanziandosi
189
Kemal Kirisci; The Kurdish Question and Turkey: Future Challenges and Prospects for a Solution. ISPI
working paper, issue 24. December 2007, Milano. Pg 11.
190
Metin Heper, The State and Kurds in Turkey. Palgrave Macmillan. 2007, New York. pg 114
191
Nathalie Tocci and Alper Kaliber, “Conflict Society and the Transformation of Turkey’s Kurdish
Question”, SHUR Working Paper Series
192
Angel Rabasa, F. Stephen Larrabee. The Rise of Political Islam in Turkey. RAND, National Defense
Research Institute, 2008 Santa Monica (Ca). pgg 3-4
231 dai toni del Refah Partisi e enunciando a più riprese la volontà di non voler minare alla
laicità del Paese, ma all’estensione delle libertà di tutti i cittadini turchi193 tranquillizza
l’opposizione laica. Interessante è stato per noi analizzare il rapporto tra il Partito della
Giustizia e dello Sviluppo e le Forze Armate turche. Benché permangono duri contrasti
evidenti nelle questioni Ergenekon194 e Balyoz tra Governo e Forze Armate e laiche, vi
sono alcuni punti di incontro molto importanti. Nel 2003 quando la Grande Assemblea
Nazionale turca vota contro l’intervento alla guerra in Iraq, non notiamo un’opposizione
delle Forze Armate: la politica estera portata avanti dai kemalisti195 ha come priorità la
sicurezza nazionale. Un intervento in Iraq che avrebbe messo a rischio la stabilità del
confine sud orientale del Paese e che avrebbe potuto (come poi è accaduto) portare alla
creazione di un’entità autonoma kurda irachena, andava contro gli interessi securitari della
Turchia. L’interventismo internazionale del Partito di Erdoğan che porta le Forze Armate
turche a partecipare attivamente in numerosissime missioni di pace nel mondo
dall’Afghanistan al Libano, dal Kosovo alla Somalia, dalla Bosnia all’Albania,
inorgoglisce e rende omaggio al ruolo dei militari. Ultimo punto di incontro tra governo
del partito a ispirazione islamista e militari riguarda la lotta ai kurdi. Le politiche portate
avanti da parte dell’AKP di distensione e collaborazione con Siria e all’Iran sono coerenti
con gli interessi dell’esercito di contrastare il PKK. Il Governo turco e le Forze Armate
collaborano nella lotta al PKK. La lotta tenace al movimento separatista kurdo conviene
sia al Governo il quale si mostra protettivo di fronte a un popolo turco timoroso della
violenza terroristica, sia alle Forze Armate che attraverso la guerra al PKK rispondono ai
dubbi sulla legittimità di mantenimento di un esercito così numeroso a vent’anni dalla fine
della Guerra fredda e di un rischio di invasione esterna.
I nuovi equilibri che si vengono a formare all’interno della Repubblica turca, influenzano
la politica estera. Il migliore interprete del cambiamento che si vuole apportare alla
diplomazia turca si identifica nell’autore di Profondità Strategica: Ahmet Davutoğlu. Il
Ministro degli Affari Esteri non intende allontanare la Turchia dall’alleanza ad occidente,
ma in un contesto globale di emersione di nuovi poli geopolitici specialmente nel
193
AKP programma.
Turkey's civilian-military complex, Aljazeera, 17 febbraio 2012
195
Ömer Taspinar, “The Three Strategic Visions of Turkey”, Center on United States and Europe, 8 marzo
2011
194
232 continente asiatico, opera perché la Turchia si emancipi dal ruolo periferico attribuitole nel
contesto di Guerra fredda per proporsi piuttosto come potenza centrale e di collegamento
tra Europa e Asia.
La politica estera turca riscopre vettori già precedentemente utilizzati dai vertici turchi
quali panturchismo, Islam in politica estera, e neo-ottomanesimo, ma questa volta questi
tre vettori sono coordinati e rappresentano mezzi e strategie di un più ampio ed ambizioso
progetto di politica estera.
Per panturchismo s’intende il collegamento dell’Anatolia ai popoli turcofoni
dall’Azerbaijan alla Mongolia. Già negli anni ’90, con l’implosione dell’Unione Sovietica,
i governi turchi attraverso i legami storici e linguistici avevano tentato di sostituire Mosca
nell’influenza sulle Repubbliche centro-asiatiche. Tuttavia la Turchia non disponeva dei
mezzi e della legittimità per ereditare il ruolo di Mosca in tali Stati. La politica estera
dell’AKP ritorna a voler contare in questa regione, ma in primis riconoscendo il ruolo
primario ed essenziale della Federazione russa, in secundis associando ai discorsi circa i
legami e le simpatie per motivi etnico-linguistici, una politica di cooperazione allo
sviluppo, investimenti ingenti, una politica diplomatica attiva attraverso i Summit e le
Organizzazioni Internazionali. La Turchia è presente efficacemente nella missione di
pacificazione afghana. Abbiamo interpretato la Missione in Afghanistan alla luce
dell’interesse di Ankara nel voler contare in regione per poter dialogare con India, Cina e
Iran e soprattutto mantenere costante il dialogo con la Federazione russa. Se fino ai primi
anni ’90 Mosca rappresentava il primo nemico per la Repubblica di Turchia, oggi essa
rappresenta il primo partner commerciale. I rapporti tra i due Paesi sono incredibilmente
cordiali: le visite diplomatiche sono numerose e da entrambi le parti è assodato l’impegno
di non sostenere le forze separatiste del PKK e della Cecenia. Mosca caldeggia l’ingresso
della Turchia nell’Unione Europea ed Ankara ha favorito l’attribuzione alla Federazione
dello status di osservatore nell’Organizzazione della Conferenza Islamica.
Il tentativo di utilizzare l’Islam in politica estera è stato inizialmente portato avanti da
Erbakan, leader delle formazioni partitiche di ispirazioni islamista dagli anni ’70, in
particolare nel periodo in cui ricopriva ruoli di Governo tra il 1995 e il 1997. Il Refah
Partisi criticava fortemente Israele e gli Stati Uniti e proponeva un nuovo
233 riposizionamento internazionale della Turchia come leader dei Paesi musulmani. Il
progetto di Erbakan non viene portato avanti e subisce lo scontro interno al Paese che
porterà la chiusura della sua formazione partitica. L’AKP sembra riscoprire l’Islam come
strumento di politica estera. Ciò è evidente nel ruolo che il Paese ricopre
nell’Organizzazione per la Conferenza Islamica, il cui Segretario Generale è il turco
Ekmeleddin Isanoğlu. La Turchia di Erdoğan è attiva nella cooperazione con i Paesi del
Golfo e la Malesia. Critica le ondate islamofobe nei Paesi occidentali destinatari di
un’immigrazione di popolazioni musulmane. Nell’estate 2011, nel periodo di Ramadan i
leader turchi richiamano l’attenzione verso la crisi somala realizzando il consenso delle
comunità islamiche. L’attivismo turco nel Nord-Africa e nei confronti del popolo
palestinese si ricollega all’ultimo vettore di politica estera analizzato: il NeoOttomanesimo. Non vi è una definizione condivisa di Neo-Ottomanesimo. Abbiamo
riportato due visioni del terzo vettore di politica estera. L’interpretazione più negativa di
tale concetto si basa su due critiche al Neo-Ottomanesimo, la prima di politica estera,
accusando Ankara di voler espandersi nei vecchi territori dell’Impero Ottomano, la
seconda, di politica interna, temendo un ritorno ad un assetto islamico e anti-democratico.
La visione più ottimista di tale concetto consiste nel ritorno all’applicazione di concetti
quali tolleranza e pluralismo all’interno della Repubblica turca e soprattutto a un ritrovato
interesse nel voler operare una politica estera attiva nei territori facenti un tempo parte
dell’Impero Ottomano. In questa logica si spiega l’attivismo turco nella Primavera Araba,
in un momento d’instabilità e rivolgimenti del Nord-Africa, la Turchia attraverso il softpower, investimenti, attivismo economico e diplomatico, la popolarità risultante da una
propaganda pro-palestinese196 e una critica a Israele, diviene attore attivo in regione.
Nel capitolo finale abbiamo analizzato la presenza turca nei Balcani con maggiore
attenzione alla Bosnia-Erzegovina. Il discorso di Davutoğlu enunciato a Sarajevo il 16
ottobre 2009197 e le parti dedicate ai Balcani nello scritto Profondità Strategica presentano
un’indiscussa attenzione da parte del Ministro degli Affari Esteri per la Regione. Secondo
196
Paul Salem, ”Turkey’s Image in the Arab World”, Tesev, Istanbul, maggio 2011
197
The Balkans Civilisation Centre, Center For Advanced Studies, a cura di, The Ottomman Legacy and The
Balkan Muslim Communities Today, conference Proceedings, (sarajevo, 16-18 October 2009), Arka Press d.o.o.
Sarajevo, 2011, p.13
234 Davutoğlu è bene recuperare la tradizione ottomana, in quanto il periodo di dominazione
turca in regione era caratterizzato da pace, prosperità e tolleranza. Secondo Davutoğlu
sotto l’Impero Ottomano i Balcani avevano un ruolo internazionale centrale e non
periferico come l’hanno attualmente. La diplomazia turca da qualche anno è molto attiva in
regione. Ankara ha inaugurato dal 2009 un tipo di diplomazia triangolare in particolare con
Bosnia-Erzegovina e Serbia tentando di apportare ad una distensione dei rapporti tra i due
Paesi. La motivazione che spingono la Turchia all’attivismo nei Balcani sono di vario
genere. Gli interessi economici sono senza dubbio consistenti, quelli di politica interna
altrettanto; secondo quanto riportato, circa nove milioni di abitanti turchi hanno origini
balcaniche e con la regione mantengono attivo il legame. Tuttavia ci ha destato particolare
interesse la motivazione geopolitica: attraverso l’attivismo nei Balcani la Turchia collabora
cordialmente con gli Stati Uniti e attraverso le politiche di distensione con la Serbia
favorisce le buone relazioni con la Russia. Inoltre nei tentativi di mediare tra i conflitti in
una zona tanto problematica quanto vicina all’Europa, Ankara si dimostra partner
responsabile, efficace e indispensabile agli occhi di Bruxelles.
La presenza economica turca è molto evidente nei Balcani, cospicui sono gli investimenti
turchi in Regione in particolare nelle zone abitate dai musulmani. Aziende chimiche
turche, la Ziraat Bank e la Turkish Airlines sono imprese protagoniste oggi dell’economia
bosniaca. L’attivismo turco è riscontrabile anche attraverso gli enti governativi competenti
per la cooperazione allo sviluppo, Tika e la Presidenza degli Affari Religiosi, Diyanet.
Questi due enti sono molto attivi in regione e tra le attività principali si occupano della
ricostruzione di opere costruite nel periodo ottomano, in primis moschee, e nella
formazione degli studenti e nella promozione dell’Islam. La società civile turca e il settore
privato sono attivi in regione soprattutto nella formazione. Network internazionali quali
quello di Fetullah Gülen sono impegnati nei Balcani circa la costituzione di scuole e
università. Nella nostra intervista a Teoman Duman, Deputy Rector for International
Relations dell’International Burch University di Sarajevo, il professore ci ha tenuto a
ribadire il carattere fondamentale e pacifico della cooperazione turca nei Balcani che
attraverso investimenti legati alla cultura e alla formazione aiuta realmente lo sviluppo
della regione. Secondo il professore i legami tra i Balcani e Turchia sono la conseguenza
naturale di una storia secolare condivisa sotto l’Impero ottomano, e pacifica.
235 Nella parte finale del capitolo, e dunque nella conclusione dell’elaborato, abbiamo tentato
di analizzare la percezione dei bosniaci circa l’attivismo turco in regione. La BosniaErzegovina è un Paese eterogeneo che, stando al linguaggio di Dayton, è composto da tre
popoli costituenti: bosgnacchi/Musulmani, serbi/ortodossi e croati/cattolici. Nella nostra
ricerca abbiamo tentato di differenziare i punti di vista di questi tre diversi attori. Le
statistiche e la letteratura più diffusa sostengono l’esistenza di una forte simpatia da parte
dei bosgnacchi nei riguardi della Turchia. E’ solo con l’arrivo degli ottomani che nei
Balcani si è diffuso l’Islam e solo con la conversione all’Islam i musulmani slavi
acquisiscono un senso di appartenenza di gruppo distintivo, separato dai cattolici e dagli
ortodossi. I bosgnacchi attraverso l’attivismo diplomatico ed economico di Ankara vedono
nella Turchia un alleato. Tuttavia nella comunità bosgnacca sono diverse le critiche rivolte
alla politica estera turca nella Regione. Se una componente laica critica il carattere troppo
religioso dell’attivismo turco, non pochi musulmani praticanti, tra i quali il Reis ul-Ulema
Ceric, temono di perdere egemonia in particolare sulla comunità musulmana del
Sangiaccato serbo a causa delle ambizioni turche. I bosgnacchi non dimenticano il noninterventismo turco durante la guerra di Bosnia e tra le varie critiche riportate soprattutto
nella nostra intervista al Professor Ahmet Alibasic, vi è quella che la Turchia
strumentalizza la Bosnia solo per intrattenere migliori relazioni con la Serbia. Si dubita
delle reali possibilità e della sincerità della Turchia nel volere perseguire un miglioramento
dei rapporti dei popoli bosniaci.
I croati/cattolici non sembrano vedere di buon occhio l’attivismo turco. La componente
nazionalista che sogna di poter istituire nella regione dell’Erzegovina un’entità autonoma
sul modello della Republika Srpska, teme l’attivismo turco che proclama l’impegno per
l’unità del Paese. Il Professor Igor Zontar, croato di Sarajevo, il quale non condivide le
idee dei croati autonomisti, riconosce invece l’importanza per i bosgnacchi di far
riferimento ad Ankara, in quanto essi non godono del sostegno internazionale che hanno i
cattolici, legati a Germania, Italia e Austria, o Serbi, legati a Russia. Zontar è per
un’evoluzione di Dayton, tuttavia, non crede assolutamente che la Turchia possa
contribuire ad un miglioramento dei rapporti tra i popoli costituenti di Bosnia-Erzegovina.
236 L’attore serbo è certamente quello più critico nei confronti della Turchia. La percezione
della dominazione ottomana non viene riportata nei libri di storia come pacifica e
tollerante, bensì come violenta, autoritaria e principio delle divisioni. Gli abitanti della
Republika Srpska temono di poter perdere la loro autonomia e per questo non vedono di
buon occhio i proclami turchi circa il superamento del sistema di Dayton verso uno Stato
più unitario. I serbi-bosniaci della Republika Srpska non sono destinatari della
cooperazione economica turca, la quale si concentra solo nella Federatia. La visione dei
serbi nei confronti di Ankara è prevalentemente negativa.
1. Critica al “miracolo” economico turco: un’economia a serio rischio recessione
La crescita economica turca, costante dal 2002 al 2011 è certamente uno dei fondamenti
del successo elettorale dell’AKP. Le riforme liberiste quali le privatizzazioni,
l’informatizzazione delle imprese, gli incentivi agli investimenti diretti esteri, intrapresi dal
partito di Governo, hanno favorito la crescita della ricchezza nazionale. In politica estera,
le statistiche Tesev citate in particolare per quanto riguarda la popolarità del modello turco
nei popoli arabi, attribuiscono alla crescita e solidità economica turca uno dei fattori più
apprezzati del Paese. La crescita economica turca aiuta la diplomazia di Ankara a contare
oltre confine.
Tuttavia interpretando recenti studi circa la solidità economica della Turchia, riportiamo
sinteticamente le analisi di alcuni economisti che non condividono l’ottimismo su Ankara.
Secondo l’economista David Goldman, la crescita del Pil turco, è data spiegabile attraverso
l’accesso al credito che ha contribuito all’aumento dei consumi. Il Pil si misura sommando
consumi, investimenti, spesa pubblica ed esportazioni nette, secondo Goldman: “The
impetus behind the country’s recent economic growth has been a stunning rate of credit
expansion, which reached 30 percent for households and 40 percent for business in
2011”198.
Le banche più vicine all’AKP avrebbero concesso un’espansione del credito al consumo
pari al 53% rispetto il 36% delle banche commerciali199. Come sappiamo un aumento del
198
David P. Goldman, “Ankara’s “Economic Miracle” Collapses”, Middle East Quarterly, winter 2012. pg
25
199
ibid. pg 26
237 credito al consumo incentiva l’aumento dei consumi, ma non direttamente quello della
produzione interna. Ciò ha portato le famiglie turche a domandare negli anni sempre più
beni, tra i quali moltissimi beni importati. Questa è stata una delle cause che ha favorito la
formazione dell’altissimo deficit del bilancio delle partite correnti turche. Secondo il
Financial times: “Turkey’s trade deficit for May boubled from the year-earlier period,
adding to the current-account imbalance. Imports to Turkey expanded by 42,6%, almost
four times as fast as its exports at 11,7%”200.
Secondo Bloomberg:
“Turkey’s economy expanded 8,8% in the second quarter as a boom in consumer
borrowing forced the government to cap loan growth at 25 percent. The country’s 12 –
month current – account deficit widened to a record 74,6 billion [of dollars] in July, about
10 percent of gross domestic product”201.
L’espansione del credito dunque oltre ad aumentare lo squilibrio del deficit del saldo delle
partite correnti, provoca una crescita dell’indebitamento. Secondo il financial times:
“In the past two years the ratio of household debt to household disposable incomes has
risen rapidly, from 35 per cent to 45 per cent”202.
La crescita delle importazioni dal 2003 al 2011, periodo di aumento del reddito pro capite,
riguarda per il 60% beni durevoli per soddisfare l’aumento della domanda interna di beni
di consumo. Le importazioni di capitali e prodotti semilavorati industriali crollano dopo il
picco del 2008203. “Turkey, in short, is running a current account deficit equal to 11
percent of GDP to promote a consumer buying spree while cutting imports of capitals
goods that would contribute to future productivity”204.
200
“Turkish Economy Expands 11%, But Markets Point to Pitfalls”, Finantial Times, 30 giugno 2011
Turkey Current-Account Gap May Narrow on Slower Growth, S&P Says”,
http://www.bloomberg.com/news/2011-09-20/turkey-current-account-gap-may-narrow-on-slower-growth-sp-says.html, 20 settembre 2011
202
Turkey’s economic model faces tough test, Financial Times, 11 settembre 2011
203
David P. Goldman, “Ankara’s “Economic Miracle” Collapses”, Middle East Quarterly, winter 2012. pg
26
204
Ibid.
201
238 In questo grafico dal 2006 ai primi mesi del 2012 mostriamo la correlazione tra espansione
del credito e deficit delle partite correnti205:
La Turchia soffre della diminuzione della domanda dei beni esportati nel mercato europeo
a causa della crisi economica. La recessione economica dei paesi sviluppati può essere una
delle motivazioni dell’attivismo turco nelle aeree nordafricane e balcaniche alla ricerca di
nuovi mercati. Nonostante i miglioramenti evidenti e la crescita, il tessuto industriale non
si basa su prodotti altamente tecnologici. Le esportazioni sono costituite in prevalenza da
beni di basso valore aggiunto (prodotti tessili, alimentari e elettrodomestici) ciò
contribuisce allo squilibrio della bilancia delle partite correnti. Al fine di favorire le
esportazioni e gli investimenti, la Banca Centrale turca ha a lungo effettuato una politica di
ribasso dei tassi di interessi e svalutazione della moneta. Secondo Joe Parkinson del Wall
Street Journal negli ultimi mesi (l’articolo risale al 13 dicembre del 2011) la Lira turca è
caduta del 30% rispetto il dollaro.206 La svalutazione della lira turca è motivata
dall’interesse diminuire il deficit della bilancia delle partite correnti rendendo più
economiche le merci turche all’esportazione e diminuendo il potere d’acquisto dei turchi
circa i prodotti importati. Naturalmente tale processo provoca un’inflazione che viaggia
intorno al 10% ogni anno.
205
206
Ibid. pg 27
“Turkish Prices Rise on Rapid Growth”, Wall Street Journal, 13 dicembre 2011
239 L’aumento dell’inflazione, il deficit della bilancia delle partite correnti, la crescita
dell’indebitamento turco in particolare il debito estero, (che è relativamente basso, 40% del
Prodotto Interno Lordo è comparato a Grecia e Portogallo, ma tuttavia in veloce crescita),
spingono la Banca Centrale turca a optare per una politica meno espansiva. Vengono
attuate politiche monetarie restrittive quali l’aumento del tasso per il prestito inter-bancario
e l’aumento delle riserve minime bancarie. Le previsioni di crescita del 2012 per la Turchia
sono in netto ribasso rispetto gli anni precedenti, secondo il Financial Times:
“It [il governo turco] predicts 4 per cent growth for 2012. The International Monetary Fund
forecasts a rather more bearish 0.4 per cent”207.
L’economia turca per concludere, soffre di numerosi problemi strutturali. Innanzitutto la
produttività dei lavoratori è molto bassa208. Nonostante le università turche siano eccellenti
per la formazione di ingegneri e manager, la popolazione è nel suo complesso meno
scolarizzata rispetto economie in crescita paragonabili alla Turchia, solo il 26% degli
studenti consegue il diploma209. Nel 2009 solo il 22% delle donne era alla ricerca di una
professione. Il grado di occupazione femminile e giovanile in Turchia è molto basso210, il
lavoro sommerso alto211. In termine di produttività, il capitale umano turco non compete
con gli stati asiatici. Inoltre l’economia turca è fortemente interdipendente da altri paesi per
l’importazione ed esportazione di materie prime: di per sè non è ricca di materie prime al
pari di Paesi in crescita quali Brasile, Russia.
In caso di crisi economica tutte queste caratteristiche renderebbero più difficile la ripresa.
2. L’importanza della diplomazia turca
Un partito islamista alla guida della Turchia è un passaggio storico per il Paese. Per la
prima volta il potere civile prevale su quello militare e il Paese vive progressi democratici
consistenti. La principale motivazione dell’ampio consenso interno al partito della
Giustizia e dello Sviluppo è il successo economico. Anche in politica estera i sondaggi
207
208
“Turkish diplomacy: An attentive neighbour”, Financial Times, 26 febbraio 2012
David P. Goldman, “Ankara’s “Economic Miracle” Collapses”, Middle East Quarterly, winter 2012. pg
28
209
Ibid. pg 28.
Ibid.
211
Ibid.
210
240 TESEV mostrano quanto la crescita economica turca influenzi la popolarità del Paese negli
Stati arabi. Tuttavia abbiamo appena riportato delle analisi economiche che criticano la
solidità e sostenibilità della crescita turca in particolare perché a differenza di altre
economia in crescita, la Turchia non gode del capitale umano dei Paesi asiatici, né della
ricchezza di materie prime al pari di Russia e Brasile. Il primo mercato destinatario dei
prodotti turchi, i Paesi dell’Unione Europea, soffre di una crisi economica che colpisce la
domanda dei consumi e porta dunque ad una contrazione dei beni di importazioni. Al fine
di mantenere il consenso interno e l’influenza all’estero è bene che il Governo di Turchia si
sposti su nuovi mercati. L’attivismo in politica estera è pertanto motivato anche da ragioni
economiche oltre che dall’aspirazione di leadership regionale. Affinché l’attore turco sia
benvenuto nei Paesi mediterranei, balcanici e mediorientali, è necessario che modifichi
l’immagine negativa che per anni l’ha caratterizzato a causa del sospetto di ritorno di
ambizioni conquistatrici imperiali, e di essere uno Stato alle dipendenze di Paesi
occidentali strettamente legato ad Israele e insieme un Paese periferico e poco influente
nelle relazioni internazionali. La diplomazia dell’AKP e in particolare del Ministro degli
Affari Esteri Davutoğlu è attivissima e impegnata a promuovere un’immagine di una
Turchia forte, libera, interessata allo sviluppo dei popoli con i quali interagisce. Abbiamo
ampiamente riportato i caratteri idealistici e a tratti wilsoniani dei discorsi di Davutoğlu.
Analizzando la presenza turca nel Nord Africa abbiamo comunque espresso il dubbio che
la piena adesione ai principi democratici e alla difesa dei diritti umani non sia in realtà
dettata che da motivazioni di Realpolitik. Questo interrogativo ci viene suggerito dai
rapporti per anni cordiali con Muammar Gheddafi, Zine El-Abidine Ben Ali e Bashar
Hafiz al-Asad, oggi duramente criticati, ma anche dalle relazioni diplomatiche con
Mahmud Ahmadinejād e Omar Hasan Ahmad al-Bashīr. Inoltre analizzando la percezione
turca nei Balcani ci siamo resi conto di quanto i soggetti interessati principalmente alla
Politica Estera di Ankara siano spesso disillusi e critici nei confronti dei toni idealistici dei
suoi legati nonché dubitino delle reali possibilità del Paese di influenzare le relazioni
internazionali.
Le potenzialità turche appaiono essere spesso sopravvalutate rispetto alle possibilità reali.
Tuttavia nelle relazioni con gli Stati del Medio Oriente, Mediterraneo e Balcani, la
collaborazione con il Paese erede della Sublime Porta sembra essere imprescindibile. Ciò è
241 un risultato dell’attivismo in politica estera, dell’attenzione e i successi della mediazione e
del negoziato. La Turchia ci aiuta a comprendere le possibilità attuali, la forza e l’efficacia
dello strumento diplomatico.
242 Ringraziamenti
Ringrazio il Professore Relatore Miodrag Lekic, per il suo immenso aiuto, la sua
fiducia, rispetto nei miei confronti, disponibilità, cordialità e simpatia.
Sono grato di aver conosciuto la Professoressa Correlatrice Bruna Soravia Graziosi, la
cui precisione e impegno sono stati fondamentali ai fini della mia ricerca.
Ringrazio la Professoressa Dina Nadarevic e il Professor Ahmet Alibasic della Facoltà
di Studi Islamici di Sarajevo.
Ringrazio il Professor Teoman Duman, Deputy Rector for International Relations
della International Burch University di Sarajevo.
Ringrazio il Professor Igor Zontar della Facoltà Cattolica di Teologia di Sarajevo.
Ringrazio Nikola Lazinica di Banja Luka e Sena Maric di Belgrado.
Ringrazio mia madre che non ha mai smesso di sostenermi, incoraggiarmi e aiutarmi.
Ringrazio le mie sorelle Alessandra e Arianna.
Ringrazio mio padre e il suo prezioso aiuto e fiducia.
Ringrazio i miei amici di Sarajevo che mi hanno accompagnato in questa ricerca, in
particolare, in ordine sparso e confusionario: Nedim, Luka, Mak, Danilo, Giovanna,
Emanuela, Martino, Marco, Andrea, Fatima, Flavia, Lucia, Lucie, Jas, Marko, Emilio,
Armin, Ailin, Ado, Benjamin, Mohamed, Dina e tutti gli altri.
Ringrazio i miei amici con cui ho vissuto gli anni romani, in particolare Silvia,
Michele e Remigio.
Ringrazio i miei amici del teatro Luiss.
Ringrazio i miei amici di sempre, in particolare Jacopo, Giannicola, Sibilla, Luigi, Vittoria,
Patrizia, Martina e tutti gli altri.
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Nedim Hodzic, Studente secondo anno di ingegneria meccanica, Sarajevo, 24 febbraio
2012 ore 20:00
Teoman Duman, Deputy Rector for International Relations, International Burch
University, Sarajevo, venerdì 24 febbraio, ore 12:00
Igor Zontar, Professore presso la Facoltà Cattolica di Teologia dell’Università di Sarajevo.
Sarajevo, 2 marzo 2012, ore 10:30
Nikola Lazinica, specializzato presso il Collegio d’Europa di Parma, Banja Luka, 3 marzo
2012, ore 18:00
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