2 novembre 2014 - La Repubblica.it

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2 novembre 2014 - La Repubblica.it
la domenica
DI REPUBBLICA
DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014 NUMERO 504
Cult
BERLINO, ALEXANDERUFER: CIÒ CHE RESTA DEL MURO
La copertina. Quando il cibo è affare da voyeur
Straparlando. Clara Gallini: “Noi moderni e i miracoli”
La poesia. L’angoscia nascosta di Rilke
Mikhail Gorbaciov
e Hans-Dietrich Genscher
raccontano a “Repubblica”
il loro 9 novembre 1989
FIAMMETTA CUCURNIA
ANDREA TARQUINI
MOSCA
V
ENTICINQUE ANNI DOPO, dei gran-
BERLINO
«Q
UELLASERA a Varsavia,
di protagonisti che piegarono
la Storia del Ventesimo secolo
è rimasto lui. Non c’è più Reagan che un giorno gridò «Gorbaciov, abbatti quel Muro!». Non ci sono più
la Thatcher né Mitterrand, che amavano
talmente la Germania da preferire, dissero, «di averne due». E lo stesso Helmut Kohl,
il cancelliere tedesco che appose la sua firma sotto la riunificazione, non parla più in
pubblico da molto tempo. Così oggi spetta
a Mikhail Gorbaciov ricordare quei giorni
che archiviarono Seconda guerra mondiale e Guerra fredda, e giudicarne gli esiti.
con Mazowiecki e gli
altri nuovi governanti di Solidarnosc, eravamo al ricevimento
ufficiale quando arrivò la notizia. Il banchetto si trasformò in un rapido buffet». A ottantasette anni Hans-Dietrich Genscher rievoca con piacere quei giorni in cui fu lui, ministro degli esteri della Repubblica federale,
l’uomo chiave della svolta, il Cavour tedesco.
“Se due aerei Vip della Luftwaffe s’incrociano in direzioni opposte sull’Atlantico, a bordo di entrambi c’è Genscher”, era la battuta
che circolava tra i Grandi d’allora.
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
I ragazzi
delMuro
L’attualità. Roberto Saviano, intervista al soldato che si trasformò in arma L’inedito. Nel centenario di Toti Scialoja
una favola scritta e disegnata per bambini senza età Spettacoli. John Lurie a sorpresa: “Non ero andato da nessuna parte”
Repubblica Nazionale 2014-11-02
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014
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La copertina. 1989-2014
L’ultimo leader dell’Ursse l’allora ministro degli esteri tedesco raccontano il 9 novembre di 25 anni fa
Il giorno
che cambiò
il secolo
BERLINO EST ORE 9.00
BERLINO EST ORE 10.00
BERLINO EST ORE 13.30
IL 9 NOVEMBRE DEL 1989,
COME DA GIORNI, CORTEI PER LA
DEMOCRAZIA IN TUTTA LA DDR.
VERTICE DELLA STASI: DARE O NO
LA POSSIBILITÀ DI VIAGGIARE?
SI RIUNISCE IL POLITBURO
DELLA SED, IL PARTITO
COMUNISTA AL POTERE
NELLA REPUBBLICA
DEMOCRATICA TEDESCA
KRENZ, DELFINO DI HONECKER,
NON VUOLE DARE SPAZI
AGLI OPPOSITORI NEI MEDIA.
IL PREMIER MODROW LO CRITICA:
“INUTILE TEMPOREGGIARE”
VARSAVIA ORE 20.30
WASHINGTON ORE 21.30
BERLINO EST ORE 22
BERLINO EST ORE 22.42
KOHL E GENSCHER LASCIANO
LA POLONIA E DOPO UNO SCALO
NELLA REPUBBLICA FEDERALE
RAGGIUNGONO BERLINO OVEST
CON UN JET DELLA RAF
BUSH TIENE UNA CONFERENZA
STAMPA E INVITA ALLA CALMA
E AL DIALOGO. CONTATTI
IMMEDIATI CON GORBACIOV
SULLA LINEA ROSSA
LA GENTE COMINCIA
A RADUNARSI E A PREMERE
LUNGO IL MURO SUI PUNTI
DI PASSAGGIO. I SOLDATI
DECIDONO DI NON INTERVENIRE
I SOLDATI DELLA DDR APRONO
DUE VARCHI (BORNHOLMER STR.
E BERNAUER STR.). I TEDESCHI
DELL’EST PASSANO ALL’OVEST
ACCOLTI DALLA FOLLA IN FESTA
<SEGUE DALLA COPERTINA
FIAMMETTA CUCURNIA
A
OTTANTATRÉ ANNI, l’ultimo presidente
dell’Urss è seduto su una poltrona di
pelle nel suo ufficio, e le emozioni attraversano i suoi occhi ancora così vivi,
mentre getta lo sguardo sul viale Leningradskij in questa assolata giornata
già quasi invernale. «Fu molto difficile
arrivare a quel risultato» racconta,
«ma era una tappa obbligata del processo di pacificazione e di disarmo. Prima o poi il Muro di Berlino doveva cadere. Certo, senza la perestrojka e i
cambiamenti che avvennero in Urss non sarebbe stato possibile. L’Europa sarebbe rimasta incastrata per molto tempo ancora. Invece, tutto accadde. Senza sangue. E il merito è di quella generazione di leader
che scoprì l’ingrediente per risolvere i problemi, la fiducia. Quello che
bisogna ritrovare».
Mikhail Sergheevic, nel 2009 lei concesse al nostro giornale un’intervista da cui traspariva tutto l’orgoglio per essere stato l’artefice
di una nuova pace mondiale, e una grande speranza per il futuro.
«In quell’occasione raccontai per la prima volta cose che in passato
mi erano sembrate premature. Il fatto è che la caduta del Muro fu un
momento di arrivo, che ci colse tutti di sorpresa per la rapidità con cui
avvenne. Quando morì Cernienko, nel 1985, i rapporti tra Est e Ovest
erano al minimo storico. Da sei anni non c’erano incontri al vertice tra
Usa e Urss. Il mondo era sull’orlo del baratro e correva ad armarsi sempre di più. Ma quella tremenda minaccia fu la spinta per cambiare. Credete sia stato facile? Per niente! Fu difficilissimo. La prima volta che incontrai Reagan, in Svizzera, sembrava impossibile. Poi ci furono altri
incontri e fu chiaro che perfino lui, un falco, capiva che non potevamo
permettere uno scontro nucleare. Dovevamo fermarci».
Sul Muro, però, Reagan la sfidò fino all’ultimo giorno.
«Era il suo modo di fare, era un attore e gli piacevano le frasi a effetto. Nessuno ci fece troppo caso. Il primo vero segnale fu durante la conferenza stampa che seguì la trattativa con Kohl nell’estate del 1989,
quando qualcuno mi chiese che cosa pensavo del Muro. Risposi che su
questa terra niente è eterno. Né io né Kohl potevamo immaginare che
solo pochi mesi dopo la Germania si sarebbe riunificata».
Lei come ricorda quel giorno?
«Il Muro cominciò a cadere la sera del 9 novembre 1989. A Mosca era
già tardi, e io ero andato a dormire».
La svegliarono per darle la notizia?
«No, nessuno mi svegliò, i dettagli mi vennero comunicati al mattino. Ricordo il senso di sorpresa, ma allo stesso tempo fu come se un muro crollasse anche dentro di me. Non ce lo aspettavamo, così presto; eppure lo sapevamo. Quando in Urss hanno cominciato a marciare i cambiamenti, si tennero le prime elezioni democratiche, e nei Paesi dell’Est scoppiarono le prime rivoluzioni, e quando anche il processo di disarmo tra Usa e Urss si consolidò, una triste realtà si mostrò netta ai
nostri occhi: la Germania, e solo la Germania, restava sul ciglio della
grande strada della Storia. Loro, i tedeschi, se ne sentivano offesi, amareggiati. E io li capivo. Così quel giorno fui felice per loro. Solidale. D’altra parte, in un certo senso la decisione era stata già presa».
Secondo lei quale è la vera data di nascita della Germania unita?
«Stiamo parlando del 1988. A Mosca ci arrivava notizia di tedeschi
dell’Est che cercavano di andare nella Repubblica federale attraverso
la frontiera ungherese. Poi lo stesso accadde in Polonia e in Cecoslovacchia, dove si poteva arrivare più agevolmente e dove ora i tedeschi
dell’Est chiedevano di essere aiutati a passare a Ovest. Richieste sempre più massicce e incalzanti, che divennero un fiume in piena nell’estate del 1989. Ma erano cominciate molto prima che la stampa ne venisse a conoscenza, molto prima che Hans-Dietrich Genscher potesse
annunciare a Praga l’apertura della frontiera. Io quell’anno andai in
Germania ben due volte. A giugno ero a Bonn. Poi il 16 ottobre arrivai
a Berlino per il Quarantesimo della Ddr. C’era anche la Fackelzug, la
marcia delle fiaccole, a cui partecipavano i delegati di ventotto regioni. Mi trovai di fronte una massa di giovani e non solo, pieni di entusiasmo, che gridavano «Gorbaciov, resta qui! Gorby, libertà!». Il primo
ministro polacco, Mazowiecki, venne da me e mi disse: “Mikhail Sergheevic, capisce il tedesco?”. “Forse per un trattato avrei difficoltà, ma
quello che stanno gridando lo capisco”. E lui: “Allora capirà che questa
è la fine”».
Quale fu il problema più difficile da risolvere?
«L’inadeguatezza di Honecker, allora a capo della Germania est, che
non voleva capire. E, a parte gli Stati Uniti, anche l’atteggiamento dei
leader europei. Dissi proprio a voi per la prima volta in un’intervista
che la Francia di Mitterrand e l’Inghilterra della Thatcher non erano
affatto d’accordo. Avrebbero preferito aspettare. Avrebbero preferito che l’Urss e il suo esercito bloccassero il corso degli eventi. I carri armati di Gorby. Il monito della guerra antinazista era ancora vivo. Ma il
26 gennaio del 1989, mentre a Berlino infuriavano le proteste, io avevo convocato una riunione allargata del Politbjurò. Tutti si dissero convinti che i tedeschi non si sarebbero arresi. Non ci furono obiezioni. Non
avremmo mandato i soldati. Devo dire però che alla fine i leader europei si rivelarono estremamente responsabili».
Che cosa è cambiato in questi cinque anni?
«Abbiamo la guerra alle porte. Perfino ai confini dell’Europa, in
Ucraina. Sempre più spesso, la politica cede il passo alle armi».
I leader di oggi non hanno la saggezza di quelli di ieri?
«Non voglio fare confronti. Dico che noi credemmo in un nuovo ordine mondiale, ma gli Usa hanno cambiato comportamento molto rapidamente. Hanno elaborato una nuova politica: la guida del mondo
da Washington. Sono troppo abituati a essere i padroni. E dunque hanno voltato le spalle agli accordi e ai principi di allora».
Lei ha creduto in Obama?
«Sì, certo, ci avevo creduto. E penso che lui capisca come stanno le
cose e forse avrebbe potuto cambiarle. Ma evidentemente la macchina del complesso militare industriale in America è troppo potente, e
quel che Obama aveva annunciato è sfumato come un sogno nella nebbia del mattino. Siamo ancora in tempo. Ma lo dissi in quei giorni e lo
ripeto: la Storia punisce chi arriva tardi. Suggerisco di aprire gli occhi».
I tedeschi almeno hanno fatto tesoro degli insegnamenti del Muro?
«Il popolo sì, certamente. E io stimo molto Angela Merkel. Ma la Germania oggi non è libera. I leader europei non sono liberi. E non a causa
di Bruxelles, a causa degli Stati Uniti».
Dunque quella casa comune europea in nome della quale si rinunciò al Muro oggi sembra un’occasione mancata?
«Noi pensavamo a tutta l’Europa unita, Russia inclusa. Anche se in
quel momento l’Unione europea non era pronta per un passo così. Poi
via via, il concetto di Europa è stato riformulato, e non a Mosca: ora
quando si parla d’Europa si intende solo l’Europa occidentale».
Recentemente, parlando dei fatti ucraini lei ha detto che gli Stati
Uniti sono un virus peggiore dell’Ebola. Sembra di sentire Putin.
«Sapete bene quante volte ho criticato Putin sulle libertà democratiche. Ma non posso criticarlo per la questione ucraina. Il nodo della Crimea non poteva essere eluso a lungo. La Crimea è abitata in stragrande maggioranza dai russi, non russofoni come dite voi, ma proprio russi. E c’è una bella differenza. L’errore fu fatto al momento della dissoluzione dell’Urss: bisognava stabilire per filo e per segno la sorte della
Crimea. Le cose sono andate diversamente e la Storia non si può rifare. Oggi bisogna ripartire dal referendum in Crimea, i cui risultati non
lasciano dubbi, e chiunque abbia assistito a quel voto, inclusi gli osservatori internazionali, lo può confermare. Per quanto difficile, non
resta che prendere atto della realtà e accogliere la Crimea nella comunità internazionale come parte della Russia».
Pensa che le sanzioni non risolveranno il problema?
«Come si fa a pensare di punire con sanzioni un Paese con cui poi si
è costretti a negoziare, alla pari? Pensate davvero che demonizzare la
Russia possa servire alla causa comune? La pace è di tutti e possiamo
salvarla soltanto tutti insieme».
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Gorbaciov
Poteva
andare meglio
Repubblica Nazionale 2014-11-02
la Repubblica
DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014
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E riflettono su come avrebbe dovuto essere, e su cosa è diventato, il mondo nato dopo il Muro
VARSAVIA ORE 14.30
BERLINO EST ORE 18.57
VARSAVIA ORE 19.15
BONN ORE 20.00
PRIMO VERTICE
DEL CANCELLIERE HELMUT
KOHL E DI GENSCHER
CON IL NUOVO GOVERNO
DEMOCRATICO POLACCO
GUENTER SCHABOWSKI,
PORTAVOCE DELLA SED,
ANNUNCIA CHE LE FRONTIERE
SARANNO APERTE “DA SUBITO”.
LA NOTIZIA FA IL GIRO DEL MONDO
KOHL E GENSCHER VENGONO
INFORMATI MENTRE È IN CORSO
LA CENA UFFICIALE
CON I MEMBRI DEL NUOVO
GOVERNO POLACCO
SESSIONE STRAORDINARIA
DEL BUNDESTAG. I DEPUTATI
SI ALZANO IN PIEDI E CANTANO
L’INNO NAZIONALE. CONTATTI
FRENETICI CON GENSCHER
BERLINO EST ORE 24
BERLINO EST ORE 1.00
HELMSTEDT ORE 3.00
BERLINO ORE 3.30
AMBASCIATA SOVIETICA,
UNTER DEN LINDEN.
L’AMBASCIATORE, IGOR
MAKSIMITSHEV, DECIDE
DI NON INFORMARE GORBACIOV
I MIGLIORI REPARTI TEDESCOORIENTALI SONO POSTI IN STATO
DI MASSIMA ALLERTA, MA ARMI
E MUNIZIONI SONO SOTTO
CHIAVE IN MANO AI SOVIETICI
LE GUARDIE DI CONFINE
DELLA DDR COMINCIANO
AD APRIRE VARCHI
TRA LE DUE GERMANIE:
HELMSTEDT È IL PRIMO
GUARDIE DI CONFINE DELLA DDR
E POLIZIOTTI DI BERLINO OVEST
LAVORANO PER LA PRIMA VOLTA
INSIEME APRENDO
TUTTI I VARCHI LUNGO IL MURO
<SEGUE DALLA COPERTINA
ANDREA TARQUINI
IGNOR GENSCHER, quali emozioni prova-
S
ste alla notizia del crollo del Muro?
«Fu una sorpresa assoluta. Del resto
lei dovrebbe ricordaselo, era lì a seguire gli eventi no? Mazowiecki propose
un brindisi, ci fece gli auguri nel suo tedesco perfetto. Adesso consultatevi
tra voi, disse con un sorriso. Ci consultammo di corsa. Il tempo stringeva, le
emozioni dovevano far spazio alla razionalità politica. Decidemmo di interrompere la visita, e di volare subito a Berlino».
E come faceste? La Ddr esisteva ancora, e il vostro Boeing
della Luftwaffe, come ogni aereo federale, non poteva sorvolarla né atterrarci…
«Mazowiecki ci offrì un aereo polacco, ma volle anche essere
così cortese da ricordarci che si trattava di un vecchio Tupolev
russo, non esattamente conforme agli standard di sicurezza
del governo tedesco. Alla fine volammo col Boeing della
Luftwaffe fino nella Repubblica federale, da lì un jet della Royal
Air Force ci portò a Berlino: gli inglesi potevano sorvolare l’Est
coi loro aerei, noi no. L’indomani l’emozione prevalse sulla stanchezza, quando Kohl, Willy Brandt, il borgomastro di Berlino
Ovest, Momper, e io, parlammo alla grande folla dal balcone del
municipio di Schoeneberg. Sa, quello stesso da cui Kennedy
disse la famosa “Ich bin ein Berliner” poco dopo la costruzione
del Muro. Beh, il giorno in cui toccò a noi parlare quel Muro era
crollato».
Davvero non si aspettava la fine della divisione della Germania e dell’Europa?
«Pensai che eravamo al culmine di un lungo, difficile processo. Pensai ai trattati tra le due Germanie, alla conferenza di Helsinki, ma anche a quanto aveva aperto la strada alla situazione
di quella sera: pensai alle rivolte popolari, nella Ddr nel 1953,
nel 1956 in Ungheria, e sempre, in un dissenso di massa permanente, in Polonia, e ai coraggiosi di Charta 77 in Cecoslovacchia. La società civile dietro i Muri non si era arresa. E poi
pensai a come il 1989 era cominciato: la svolta polacca, l’apertura della frontiera ungherese, il 30 settembre la fuga in massa di migliaia di esuli dalla Ddr nella nostra ambasciata a Praga. Eppure, allo stesso tempo, mi resi conto che non avrei mai
immaginato che il Muro sarebbe caduto».
Ebbe timore di un esito violento, come poi fu in Romania, o
nel 1991 in Lituania?
«Pochi giorni prima, a fine settembre, nel mezzo della crisi
della nostra ambasciata a Praga affollata da migliaia di fuggiaschi, avevo incontrato i protagonisti all’assemblea generale
dell’Onu: Shevardnadze, il ministro degli esteri della Ddr,
Oskar Fischer, il collega americano, quello britannico e il francese. Avevo avuto l’impressione che Fischer guardasse alla
realtà con realismo, e in generale ebbi sensazioni positive, favorevoli».
L’impero sovietico che crolla, la Germania che torna unita.
Non temette per la pace nel mondo?
«No, questa paura non l’ebbi mai. Al contrario: in quelle ore,
le emozioni e la ragione mi dicevano che stava finendo la Guerra fredda, che si avvicinava il sogno per cui rischiarono e pagarono in tanti, tanti miei coetanei e tanti giovani, spesso anche
con la vita, a Berlino Est nel ‘53, a Budapest nel ‘56, a Praga nel
‘68, e sempre, più volte, in Polonia”.
Quale fu il momento più bello per lei?
«Uno dei momenti più felici lo avevo già alle spalle la sera in
cui il Muro crollò. Poco prima, il 30 settembre, sempre di sera,
mi ero affacciato dal balcone della nostra ambasciata a Praga e
a quei quattromilacinquecento concittadini dell’Est ammassati nel giardino annunciai che sarebbero potuti partire per la
Repubblica federale».
E quello più difficile?
«Sempre quel 30 settembre 1989 a Praga. Perché a quella folla esultante dovetti anche annunciare che, in base all’accordo,
avrebbero dovuto raggiungere la Repubblica federale viaggiando in treno attraverso la Ddr, e dovetti rassicurarli tenendomi dentro l’inquietudine. Sentivo la loro angoscia: diffidavano del regime, glielo leggevi negli occhi. Solo dando loro la
mia parola che non avrebbero rischiato nulla riuscii a rassicurarli. Quanto a me, contavo sul fatto che il governo della Ddr
avrebbe mantenuto la promessa. Ma solo quando, poche ore dopo, in piena notte, fui informato che il primo di quei treni passando dalla Ddr era arrivato senza problemi alla stazioncina bavarese di Hof, sentii come se mi fossi tolto un macigno da sopra
il cuore».
E come furono per lei i negoziati, dopo quella sera?
«Una corsa contro il tempo, dovemmo trattare al ritmo più
serrato con le quattro potenze occupanti. Quella sera del 9 novembre 1989 fu appena l’inizio insperato, ma solo il ‘Trattato
2 più 4” ci restituì la sovranità».
E come fu, anche sul piano personale, negoziare coi Grandi?
Con chi più facile, con chi più problematico?
«Quello che segnò l’animo di Kohl e il mio, e che ci resta ancora dentro, fu il rapporto di fiducia personale con Gorbaciov e
Shevardnadze. Fu anche quel clima di fiducia umana a rendere possibile la maturazione del processo di riunificazione. Anche gli americani, fin dall’inizio, sia Bush che James Baker, il
suo segretario di Stato, ci appoggiarono con forza. Il loro sì alla
riunificazione li rese i protagonisti più importanti».
E con gli alleati europei?
«Con la Francia fu più difficile: Parigi si sentiva e si presentava come l’avvocato della Polonia. Eppure per noi, con i buoni
rapporti con Mazowiecki, e con il ruolo assunto dalla Polonia
nell’89 e non solo, era chiaro che il Trattato sul confine sulla linea Oder-Neisse sarebbe stato ratificato dalla Germania unita
senza obiezioni. E certo non rivelo alcun segreto dicendole chi
si batté nel modo più acceso e con più veemenza contro la nostra riunificazione: Margaret Thatcher».
Riunificazione: a molti sembra un’opera ancora incompiuta.
Che ne pensava allora, e che ne pensa oggi?
«Per me, allora, la riunificazione era semplicemente una cosa splendida. Finalmente, come disse Willy Brandt, cresce insieme chi deve stare insieme. Dopo quarant’anni di divisione
e a ventotto dalla costruzione del Muro, mi sentivo grato alla
realtà per la vittoria della rivoluzione pacifica dell’Est. Certo,
le condizioni di vita reali nei due Stati non avrebbero potuto
essere più diverse: da noi l’aggancio all’Occidente, l’economia sociale di mercato, all’Est l’economia di piano e i limiti
brutali alla libertà politica e personale. È stato un processo difficile mettere insieme questi due mondi. Ma oggi, se mi guardo indietro, vedo e sento attorno a me una comune identità tedesca e l’idea di un futuro comune. Le differenze non sono solo tra tedeschi dell’est e dell’ovest: anche bavaresi e tedeschi
del nord sono molto diversi tra loro. Ma sono diversità che, credo, rafforzano il valore costitutivo comune, il desiderio di vivere in pace e libertà».
Venticinque anni dopo, nuove tensioni dividono l’Occidente dalla Russia: davvero non è neppure questa una delusione per lei?
«Guardi, quando penso alle difficoltà di oggi mi consolo ricordandomi il lungo cammino che abbiamo percorso in questi
venticinque anni. E rammentando l’auspicio che Mikhail Sergheevic Gorbaciov espresse allora: quello di vivere tutti in una
“casa comune europea”».
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Genscher
Ma anche
molto peggio
Repubblica Nazionale 2014-11-02
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LA DOMENICA
DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014
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L’attualità. Corpi speciali
Entrato a far parte di una squadra per “missioni impossibili”
David Tell è stato addestrato per ammazzare senza pensare
ROBERTO SAVIANO
S
ONO ORMAI ANNI che ho come un vizio d’osservazione. Quando incontro una persona nuova tendo a evitare di categorizzarla secondo le valutazioni solite: ambizioso, furbo, ignorante, colto,
gentile. Tendo invece a inserirla in una categoria tutta mia. Per
esempio cerco di cogliere il grado di sofferenza che ha patito.
Parto da lì. Quanto ha sofferto, quanto dolore ha provato. Quando ho incontrato David Tell ho visto un volto con addosso tutte
queste tracce. Sembrava un Charlie Brown ma pieno di casini e
di rovelli, persino emozionato nell’incontrarmi e totalmente disabituato alle interviste. È la prima della sua vita. Ho voluto incontrarlo dopo aver letto il suo libro, Io sono un’arma, che racconta come un uomo che entra nei marines (corpi speciali FastCo) si tramuta poi lentamente in un’arma.
David non è il suo vero nome: «Ho deciso di firmarmi con uno pseudonimo perché la mia
filosofia è sempre stata questa: non emergere. Non voglio che i miei figli si debbano mai
preoccupare per me. Durante le mie ultime missioni era stata messa una taglia su di me, sia
dai narcos che dai vecchi alleati di Saddam. Non voglio fargli il favore di dirgli dove sto e
quanto sono facile da raggiungere. Quanto al corpo dei marines è possibile che qualcuno
non apprezzi il mio libro, e che quindi voglia screditarmi, boicottarmi, persino accedere ai
miei file e decidere così di gettarmi in pasto ai leoni svelando la mia identità. Ma potrebbe
anche accadere il contrario: più feroci e spietati vengono descritti, più i marines si sentono
forti. Sono quasi certo che dopo aver letto questo libro diversi ragazzi andranno persino ad
arruolarsi…». Le prime pagine ricordano in ogni dettaglio Full Metal Jacket, il film di Kubrick. «È il film che più di tutti racconta il disumano addestramento nei marines, ma è an-
sione ipotetica di quello che sta succedendo
ma i soldati che sono lì sparano tra rumori assordanti, panico, urla. «Non so di nessuno
che sia mai andato a controllare se quello a
cui hai sparato fosse davvero morto. Spari e
basta. Io ricordo i primi due, poi è come se
sfumasse tutto in una sorta di brodo. Non li
ho mai contati. Sicuramente avrò ammazzato più di trenta persone, non credo di superare le settanta».
Il libro scritto da David è un manuale su
come l’uomo possa essere modellato a non
temere, non soffrire, non provare empatia
né pietà, a obbedire immediatamente, a
tendere tutto se stesso alla realizzazione di
un obiettivo, a saper sopravvivere in condizioni estreme, a svuotare la testa da ricordi
tristi, o felici. Essere solo biologia militare.
Hai mai provato schifo per questa mattanza? O davvero l’addestramento ti ha anestetizzato? «Tutto è cambiato quando il cervello di un mio amico si è spiaccicato contro
la mia maschera antigas. Da allora non riesco più a mangiare cibi che abbiano una consistenza liquida». E perché ci si arruola sapendo che di te vorranno fare un’arma? «Io
sono entrato nei marines senza nessuna
motivazione particolare. Quando hai diciott’anni hai una visione deformata della
guerra e una visione ingenua delle cose. Non
sono partito pensando di voler diventare un
killer. Ti lasci influenzare dagli amici. Poi,
sai, basta anche un piccolo episodio...». Tipo? «Tipo trovarsi con una pistola puntata
in faccia in un parcheggio, fottersi dalla paura e pensare: va bene, vediamo se diventando un marine una pistola in faccia mi farà ancora paura». D’accordo, ma durante l’adde-
FOTO TERU KUWAYAMA
Come sono
diventato
un killer
che il film che i marines considerano quasi
uno spot. “In quanti lo hanno visto?” urlano
gli istruttori alle reclute appena arrivate. E
davanti alle tante mani alzate proseguono:
“Beh, non è così che verrete trattati, sarà
molto peggio che nel film”».
David ha partecipato a operazioni considerate “terminali”, ossia da cui è difficile tornare. È stato in missione senza mai tornare
a casa per un anno intero: «Sono missioni
che può fare solo chi non ha famiglia, chi non
la vuole, chi non vuole nessuno che gli voglia
bene e chi effettivamente non ha nessuno
che gli voglia bene». David ha ucciso, e molto, e anche da lì non si torna mai indietro. Come si fa a diventare un killer? Gli chiedo se
ha ancora dinanzi i volti di chi ha ammazzato, se si ricorda attimo per attimo le volte in
cui ha ucciso. «La prima volta senti una scossa elettrica nel corpo e nel cervello. I primi
due non li dimentichi. Poi, in genere, te ne ricordi un altro paio, ma per altri motivi… che
ne so magari uno ti stava ammazzando e tu
ti sei salvato per un pelo, o a spararti era una
donna. Ognuno di noi ha dei morti che ricorda, il numero ha una rilevanza relativa». Insisto, almeno ci provo — «Ma quindi tu quanti…» — ma non riesco a finire la frase. «Io non
lo so quanti ne ho uccisi, e poi devi tenere
conto del fatto che dove c’è fuoco incrociato
tu vedi quello che cade ma non sai se la raffica è stata la tua o quella di un tuo compagno, oppure fuoco amico». Il cinema rende
la guerra ordinata e razionale per esigenze
di copione, altrimenti lo spettatore non
comprenderebbe nulla. Ma è proprio quello
che succede sul campo di battaglia. Non si
capisce nulla. Il comandante forse ha una vi-
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la Repubblica
DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014
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Un giorno ha capito di essersi trasformato in un’arma
e ha detto basta.Confessando i suoi omicidi in un libro
stramento — violentissimo, disumano —
nulla ti suggerisce di mollare? «Lì è una prova con te stesso. Ti chiedi: quanto riuscirò a
resistere? Mollare è da merde, da falliti. Io
mi sentivo un patriota, volevo ripagare il
mio paese per ciò che il mio paese mi aveva
dato». Poi, un giorno, David molla, lascia i
marines, proprio lui, uno dei più fidati, sopravvissuto a missioni impossibili, diventato per la sua compagnia quasi una leggenda.
«No, ero diventato una bestia, ed ero stanco
di uccidere. Ha un senso quando sai perché
lo stai facendo. Ma io non sapevo nemmeno
chi uccidevo. Chi è sbarcato in Normandia
sapeva chi ammazzava e perché, io non più.
Durante una missione contro trafficanti di
droga in una zona aeroportuale dovevamo
prendere pilota e corriere. Ce la prendemmo invece con chi non c’entrava nulla.
Un’altra volta ci avevano tolto piastrine
identificative e documenti, tutto ciò che
avrebbe potuto identificarci come americani. Anche le munizioni non erano dell’esercito ma di quelle che puoi recuperare sul
mercato nero. Lì mi sono detto: ma questi cosa cazzo stanno facendo, mi stanno abbandonando sul ciglio della strada come un cane? Il fatto è che per il corpo dei marines tu
sei solo una parte. Il fatto che il corpo dei marines ti usi per uccidere gli innocenti non frega a nessuno. Io non ho mai pensato di essere un killer, piuttosto un’arma a disposizione del corpo dei marines. Un’arma come ce
ne sono tante nei loro magazzini. Così come
non ho mai pensato che il mio fucile avesse
del risentimento o delle emozioni, credo che
i marines non abbiano preso in considerazione che ne avessi io. Solo un mezzo, uno
L SERGENTE del mio plotone è a bordo dell’elicottero e non so nemmeno il suo
nome. A volte dimentico di quale plotone faccio parte, chi è chi, o
addirittura dove siamo. Suppongo che in fin dei conti non abbia
importanza. Nessuno di loro si augura che mi capiti qualcosa di brutto, ma
al tempo stesso a nessuno importa davvero se le mie cervella finiscono
sparse a terra.
Non è nulla di personale: è così e basta. Per uno strano gioco del destino la
persona che conosco meglio non è nemmeno un marine, ma è un “calamaro”, uno
della Marina, un portaferiti con cui sono stato in missione insieme e con cui ho
scambiato non più di cento parole in tutto. Il suo viso è quello che mi è più
familiare. Magari sa come mi chiamo, magari no. Non saprei. È armato di pistola e
ha gettato via il simbolo della Croce Rossa che lo identifica come non
combattente. Nel posto in cui stiamo andando se ne fregano di quel simbolo o di
ciò che rappresenta. Credo che da un punto di vista meramente professionale al
portaferiti importi se le mie cervella finiscono per terra. Ciò lo rende il mio miglior
amico a bordo dell’elicottero.
Sappiamo tutti che probabilmente dopo questa missione verrò trasferito a un
altro plotone. Sempre ammesso che sopravviva. Abbiamo circa venti minuti
prima che, come si suol dire, la merda finisca nel ventilatore e la gente cominci a
crepare. Sono considerato un killer.
©Longanesi & C.
strumento di loro proprietà».
E dopo? «Quando esci da un corpo speciale come FastCo ti serve tempo per riprendere contatto con la realtà, scrollarti di
dosso la paranoia. Sei così abituato a sospettare di tutto e di tutti che è dura tornare a vivere. Ho passato anni a nascondermi
e a scappare, soprattutto da me stesso. Oggi per me è molto difficile trovare cose in comune con la maggior parte delle persone
che mi circondano». Si crede che vivere il
dolore renda migliori. Ma questo può crederlo solo chi non ha davvero vissuto una
grande ingiustizia. Non credo sia facile, dopo un trauma e dopo un grande dolore, tornare a una vita serena, persino riuscire a vivere con dignità. Il dolore ti spezza per sempre. Ma questa è solo la mia opinione, David
non la pensa così. Si è costruito una famiglia. «Sì, sono passato attraverso la pazzia
e ora mi sento meglio. Mi sono sposato, ho
dei figli e cerco di fare di tutto per avere un
codice morale». Cerca di stare lontano dai
casini, me lo immagino come lo scienziato
Robert Bruce Banner che quando si innervosisce si trasforma in Hulk. Cerca di stare
lontano dalle risse e dai guai perché altrimenti rischia «di buttare giù i muri». Chiunque viva un dramma e un trauma riversa il
dolore poi soprattutto sulle persone a cui
vuol bene. E la mia ultima domanda è: come
regge sua moglie tutto questo? «Vivere con
me so che può essere molto difficile. Di notte mi sveglio piangendo e urlando, ma la
persona che mi abbraccia e consola è mia
moglie, e non c’è ragione perché io debba
essere violento con lei».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Solo al portaferiti interessa
se il mio cervello cade a terra
DAVID TELL
I
IL LIBRO
“IO SONO UN’ARMA.
MEMORIE
DI UN MARINE”
DI DAVID TELL
(TRADUZIONE
DI ALESSIO LAZZATI,
LONGANESI,
624 PAGINE,
19,90 EURO)
È ORA IN LIBRERIA
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la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014
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L’inedito. Scioglilingua
Filastrocca
per tre topi
e tre nipoti
SEBASTIANO TRIULZI
N
ATO DAL DIVERTIMENTO, dal
gioco, dal piacere grafico e
calligrafico di comporre un
quaderno pieno di disegni
e scherzi linguistici da
destinare alle due nipotine Barbara e
Alice, Tre per un topo è il prototipo di
tutti i libri per bambini pubblicati da Toti
Scialoja. Per oltre quarant’anni è rimasto
in un cassetto e ora viene pubblicato, in
copia anastatica da Quodlibet, per il
centenario della nascita dell’autore. Vi
ritroviamo la stessa cura di Amato topino
caro, La zanzara senza zeta o Ghiro ghiro
tonto, l’offrire cioè un dono che abbia il
pregio della follia e della insensatezza
della parola, disegnando un mondo
abitato da animali che hanno tutta la
balordaggine e la sventatezza degli
uomini migliori. Nel frontespizio,
l’autore ricorda come queste
sessantasette poesie con animali, le
abbia cominciate a comporre nel ‘61 per
James Demby, il primo nipote; col tempo
sono state arricchite e raccolte a uso delle
nipoti, ancora piccole il 25 agosto 1969
quando questo libro viene loro
consegnato. Tre per un topo fu pensato
subito come un testo da pubblicare e
confluì, con variazioni, in Amato topino
caro (Bompiani, 1971). Toti Scialoja era
solito leggere queste filastrocche agli
amici che andavano a trovarlo, e sotto la
sua guida —era stato anche scenografo e
librettista — le nipoti le recitavano nel
suo salotto. Qui c’è tutto il futuro Scialoja:
incontriamo già la zanzara di Zanzibar
che va a zonzo ed entra in un bar, la luna
piena a Siena che illumina una iena,
l’allodola che si loda, il t’amo pio bue anzi
ne amo due; ma in più c’è il divertimento
calligrafico in scritture elegantissime in
corsivo o stampatello, e il gioco
tipografico di distribuzione delle parole e
dei versi lungo i bordi delle pagine o in
diagonale o in cerchio. L’osservazione
permette di ricondurre il segno che
Scialoja utilizzerà a quello di Andy
Warhol illustratore, pre-pop, quando è
ancora un designer pubblicitario.
Insieme, c’è una maggiore presenza di
elementi caricaturali, comici o
grotteschi, che in parte si perderanno
per una maggiore uniformità stilistica.
L’indugiare nel piacere della libertà
inventiva è evidente pure sul piano
linguistico: sapendo che i testi erano letti
dalla consorte Gabriella, si rivolgevano al
nipotino ma anche alla lettrice,
sollecitandone richiami, rinvii colti,
allusioni erotiche deformate nello
scherzo. Tanto che capiamo la doppia
radice dei suoi libri, adeguati
all’immaginazione di un bambino e
anche all’esigenza di un adulto.
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Quando dipingeva
spesso gridava
e quando era poeta
inventava nonsense
per un pubblico
senza età
Nel suo centenario
da un cassetto
ora spunta
un quadernetto
pieno di animali
e giochi di parole
PAOLO MAURI
T
OTI SCIALOJA era un uomo capace di dolcezze infinite, ma anche di ire funeste come
sa bene chi lo ha a lungo frequentato. D’altra parte (ma quella non era ira) spesso
gridava dipingendo, come a voler trasferire la forza che gli ribolliva dentro direttamente sulla tela o sulla carta. Di questa urgenza sua moglie Gabriella Drudi, che era
un’eccellente critica d’arte oltre che scrittrice, è stata infinite volte testimone diretta. Così come ha condiviso i dubbi e i rovelli che un artista colto e profondo come
Toti nutriva talvolta sul suo lavoro.
Un lavoro, quello pittorico, che ha una lunga storia, partendo dal figurativo per sbocciare poi nelle superfici animate solo dal gesto, in un susseguirsi di tecniche diverse,
quando il pennello cede allo straccio, fino alla creazione delle Impronte pensate e realizzate a Procida sul finire degli anni Cinquanta. Ha scritto con felice sintesi Fabrizio D’Amico che si tratta di “un miracoloso punto di sutura fra gesto e pensiero, fra parola e sentimento, fra consapevolezza e cecità della mano che appoggia colore sulla tela”.
Il primo a usare il termine impronte, a proposito di certe prose di Scialoja, era stato Eugenio Montale nel ’52. Il ligure Montale attento alla moneta che, raccontava Toti, gli chiedeva i tubetti di colore non del tutto spremuti per i
suoi piccoli quadri. E come Montale si faceva pittore, così Toti sarebbe diventato poeta, sia pure di un genere assai
diverso: il “nonsense” creato prima per i bambini di famiglia e poi riusato in poesie per un pubblico senza età. Calvino si innamorò della poesia di Scialoja perché sua figlia Giovanna aveva imparato a memoria le storie della vespa
e della zanzara e amava recitarle. Scialoja aveva in mente gli ottonari del Corriere dei Piccoli letti da bambino, ma
poi si era accostato a Lear, a Carroll, a Ragazzoni: ora c’è un bel libro di Alessandro Giammei, Nell’officina del nonsense di Toti Scialoja, pubblicato dalle edizioni del Verri
che indaga i nonsense con cui l’altra metà di Toti si era dreperla richiamava un mattutino di Scialoia” (scritto
creato un pubblico diverso da quello che aveva come pit- così, con la i normale). Il Pasticciaccio è del ’57: Scialoja
tore. Eppure il pittore vantava non poche credenziali, ha poco più di quarant’anni e una cospicua attività alle
l’attenzione di Pasolini (il Pasolini allievo di Longhi) e spalle. Tra l’altro è stato anche critico o cronista d’arte
persino quella di Gadda che lo cita (unico pittore ricor- per la rivista di Alba de Cespedes, Mercurio, a Roma nel
dato in quel romanzo) in una pagina del Pasticciaccio, dopoguerra. Negli stessi anni si apre la stagione ameriquando il brigadiere guarda dall’alto Roma “distesa co- cana: Toti a New York conosce e si confronta con i granme in una mappa o in un plastico dove una cupola di ma- di dell’Action Painting. Ne ricaverà una lezione di libertà
formale, da lui elaborata in modo molto personale, e i De
Kooning, Rothko, Motherwell, Kline, Twombly entreranno nel pantheon dei suoi amici. Un pantheon affollato, perché Toti ha sempre in qualche modo vissuto in
pubblico: come insegnante all’Accademia di Belle Arti
dove ha avuto allievi come Pino Pascali, Kounellis, Giosetta Fioroni, Nunzio, Gianni Dessì, Adrian Tranquilli e
tanti altri ancora; come uomo di cultura che frequentava i pittori (Achille Perilli) ma anche i letterati, sicché a
casa sua trovavi Raboni, Arbasino, Balestrini, Manganelli, Malerba, Giuliani, Pagliarani, Antonio Debenedetti… Non mancò il Convegno di Orvieto dell’aprile
1976 organizzato da Malerba con gli amici della neoa-
La favola
di Toti Scialoja
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la Repubblica
DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014
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IL LIBRO
“TRE PER UN TOPO” DI TOTI SCIALOJA
SARÀ NELLE LIBRERIE PER QUODLIBET
(128 PAGINE, 18 EURO)
DA MERCOLEDÌ 5 NOVEMBRE
CON DIVERSE ILLUSTRAZIONI A COLORI
TRA CUI QUELLE QUI PUBBLICATE
vanguardia. Proprio lì Antonio Porta, cui toccava presiedere una riunione del mattino, annunciò che la sera
prima Scialoja gli aveva detto un suo breve nonsense:
“Il sogno segreto/dei corvi di Orvieto/è mettere a morte/i corvi di Orte”. L’anno dopo eravamo tutti a casa
Scialoja in piazza Mattei 10 per festeggiare l’uscita del
libro La stanza la stizza l’astuzia pubblicato dalla Cooperativa Scrittori.
Nella storia del pittore Scialoja bisogna almeno ricordare le tappe parigine e il viaggio a Madrid, negli anni
Ottanta, che fruttò l’innamoramento per Goya, il Goya
nero. Bisognerebbe dire anche delle moltissime mostre
e della presenza alla Biennale e della lunga teoria dei critici che della sua opera si sono occupati, a cominciare da
Brandi, Briganti e Dorfles. E nella storia del poeta Scialoja sarà almeno da segnalare, dopo la lunga stagione dei
nonsense, l’approdo a una ricerca metrica più classica
(Rapide e lente amnesie). E poi Scialoja sapeva stare in
scena. Tra l’altro aveva lungamente lavorato anche per
il teatro e insegnato scenografia. Faceva talvolta splendide imitazioni gestuali di grandi pittori suoi amici: un
vero cinema muto e recitava i suoi nonsense e lo si sarebbe ascoltato all’infinito. “Pipistrello ti par bello far
pipì dentro l’ombrello?”.
Toti Scialoja compiva gli anni il sedici dicembre: era
del 1914 sicché adesso sarebbe vicino ai cento e sarebbe furibondo. La Fondazione che porta il suo nome, voluta da lui e da Gabriella Drudi, è stata silurata soprattutto per volontà e poco eleganti interventi di una nipote che ha già rivendicato per sé il patrimonio della
Fondazione stessa. Il consiglio d’amministrazione formato da critici d’arte, artisti allievi di Toti e critici letterari di cui anche chi scrive qui faceva parte, operante
in regime di assoluta gratuità, è stato sciolto e sostituito da un funzionario ministeriale. La mostra programmata per il centenario al Palazzo delle Esposizioni di Roma molto probabilmente non si farà più, così come rimangono sospese altre iniziative già in cantiere. Auguri Toti, i cent’anni ti minacciano e la burocrazia minaccia l’arte. Auguri, ne hai bisogno.
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LA DOMENICA
DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014
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Spettacoli. Fuori onda
Da anni non si fa né vedere né sentire
ma per noi ha fatto un’eccezione
Qui ci parla di New York e di “New Yorker”
E poi di Benigni, Basquiat, quadri e musicisti
ANGELO AQUARO
L DIPINTO È BELLO E AGGHIACCIANTE, fantasma bianco su campo verde, e il titolo col-
I
pisce anche di più: Ho bisogno di sapere se dopo la morte c’è vita e ho bisogno di
saperlo piuttosto in fretta.
Ha ricevuto qualche risposta?
«Sì».
Sarebbe?
«No, guardi, non glielo posso proprio spiegare. Cioè, potrei anche: ma non ho nessuna intenzione di farlo qui».
Ecco, se pensate di essere finiti nel bel mezzo di un dialogo surreale di un film di
Jim Jarmush con John Lurie, beh, vi sbagliate: ma solo a metà. Perché quello che
parla è proprio John Lurie, l’uomo che visse più volte — il musicista dei Lounge Lizards, l’attore di Jarmush, il pittore che oggi vale decine di migliaia di dollari — e
ormai da più di quindici anni lotta contro quel violentissimo virus di Lyme che l’ha costretto a mollare il sassofono e scomparire dalle scene. Ma questo non è un film: è un’intervista.
Rara come tutte le perle di Lurie e concessa rigorosamente via email: «Mi scusi ma dopo quell’articolo del New Yorker mi sono ripromesso di farle soltanto così: non posso continuare a
essere distrutto da citazioni sbagliate». Già, quell’articolo che fin da allora — quattro anni
fa — si domandava: che fine ha fatto John Lurie? E poi si rispondeva: “John Lurie è malato,
John Lurie si nasconde da uno stalker”. Ok, il settimanale celebre per il Reparto Verifica dei
Fatti è stato sconfessato, fatto per fatto, dallo stesso Lurie, con tanto di petizione di solidarietà online, primo firmatario l’amico Steve Buscemi. Ma il mistero si è solo infittito: come
sta davvero Lurie? «La mia salute oggi è piuttosto buona», ha confessato al Los Angeles Times, «poi di punto in bianco mi butta giù: per un’ora o un giorno o tre settimane. E comunque va molto meglio di prima». E comunque se gli chiedi di parlarne, ora, comprensibilmente
si ritrae. Fino a cassare cortesemente una domanda sui tempi d’oro con Tom Waits & Co.:
«No, guardi, non sono proprio nello spirito per parlare di droghe».
Cominciamo allora da lì? Che fine aveva
fatto John Lurie?
me i musicisti. E allo stesso tempo tiragli fuo«Oggi vivo per la maggior parte del tempo ri l’anima. Con i Lizards era così: c’era il moin una piccola isola dei Caraibi. A New York mento in cui dovevano suonare con abbantorno di tanto in tanto».
dono — e due battute dopo essere precisissiLou Reed diceva, prima di morire, di non mi. In una piccola band puoi anche affidarti
riconoscerla più.
a loro. Ma in un’orchestra più grande devi es«New York ha certamente perso qualco- sere un dittatore. Provate ad ascoltare Jasa. Per esempio: non è più pericolosa come mes Brown o Duke Ellington… Devi essere
una volta. Male».
un mostro per riuscire a far suonare i musiMale?
cisti così. O quantomeno: io un altro modo
«Prima dovevi essere un duro: ci voleva ca- non l’ho mai trovato. Essì che mi piacerebbe
rattere per viverci. Adesso sembra un gran- essere più amato: ma la musica per me è molde shopping mall per gente che si fa pagare to più importante della gente».
l’affitto da papà e mamma. Oppure chissà
A proposito: “Jim Jarmush, David Byrne,
che lurido lavoro fa per campare».
Keith Haring: solo i peggio sono andati
Questa città l’ha celebrata il mese scorso
avanti. Quelli davvero grandi hanno quel
con una storica reunion dei Lounge Lisenso di follia che non li tiene insieme: e ci
zards diretta da suo fratello Evan. “Che
hanno lasciati. Degli artisti di allora solo
triste suonare la sua musica senza John”
io sono quello ancora vivo: e col mio fegaha detto lì sul palco. E poi ridendo: “Però è
to ancora intero”. Lo dice lei, in quel fapiù facile..”. Lei era un boss così esigente?
moso articolo del New Yorker.
«E come faccio a commentare qualcosa
«Ero in un ristorante e suonavano un live
di Tito Puente. La band così affiatata: che che non ho mai detto? Si tratta di frasi — riemozione. Cambi di tempo perfetti. Mi giro portate intenzionalmente male — tratte da
verso la persona che era con me e dico: “Tito diverse conversazioni e messe insieme al solo scopo di imbastirci sopra un orribile casiPuente doveva essere un vero stronzo”».
no: quell’articolo del New Yorker era grotteScusi?
«Questo è l’unico modo per tenere insie- sco. Vuole forse riformulare la domanda?».
John Lurie
Non
ho fatto
nessuna
fine
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FOTO DI RAY HENDERS
DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014
I QUADRI
JOHN LURIE A SINISTRA NEGLI ANNI ’80 E QUI IN ALTO OGGI A 62 ANN DAVANTI
A UN SUO QUADRO (“LO SCHELETRO DEL MIO ARMADIO È USCITO IN GIARDINO”,
2008). SOPRA, UN ALTRO SUO DIPINTO DEL 2007 DAL TITOLO “HO BISOGNO
DI SAPERE SE DOPO LA MORTE C’È VITA E HO BISOGNO DI SAPERLO PIUTTOSTO
IN FRETTA”. LE SUE OPERE SONO VISIBILI E ACQUISTABILI SUL SITO
WWW.JOHNLURIEART.COM. SOTTO, UNA SCENA DI “DAUNBAILÒ”
DI JIM JARMUSCH (1986): LURIE È TRA TOM WAITS E ROBERTO BENIGNI
È rimasto in contatto con Jarmush e Byrne? Crede davvero — come sempre quell’articolo riportava — che Jarmush non le
riconoscesse abbastanza credito?
«Guardi, io potrei rispondere, per esempio, che con David Byrne e Jim Jarmush ci sono stati dei problemi. Ma quando cerchi di essere onesto con un certo tipo di giornalisti,
beh, quelli ignorano le cose buone che dici e
si attaccano alla peggiore: per poi distorcerla esagerandola. Ok?».
Lei non è andato al college ma fa musica
coltissima: jazz e classica, Charlie Mingus
& Fela Kuti. Come s’è formato?
«Potrei elencarle qualche migliaio di cose».
Facciamo un paio di nomi tra romanzieri
e registi…
«...J. D. Salinger, Harper Lee, Cassavetes,
Beckett, Paul Bowles, Elmore Leonard, Scorsese, Fassbinder, i fratelli Coen, Camus, Richard Wright, Nabokov, Jack Kerouac,
Mikhail Bulgakov, Henry Miller, Sergio Leone, James Joyce, Fellini, Ken Kesey, Orson
Welles, Heinrich Boll, Hitchcock, John Huston, Kubrick, Joyce Carol Oates,
Baldwin…È solo una breve lista».
Che meraviglia per noi italiani vedere nella stessa lista Salinger e Sergio Leone.
«Salinger e Leone dovrebbero essere nella lista di tutti».
Ha esposto dall’Armory di New York alla
Fiera di Basilea. Dipinti molto più brillanti, nei colori, della sua musica: blu, gialli,
rossi. La sua musica è sempre sembrata
più cupa.
«In qualche modo è vero. C’è sempre stata molta cupezza, ci sono molte dissonanze
nella mia musica: ma sempre funzionali al distendersi in un momento di bellezza».
Dice Joni Mitchell: “Sono una pittrice diventa musicista per caso: canto la mia pena e dipingo la mia gioia”.
«Dipingere è un po’ come metterti a suonare da solo. Solo che quando suoni, e ti viene un’idea, senti il bisogno di aggiungere,
metti, una linea di basso: e quando scrivi una
frase per un altro strumento, beh, subito ti
allontana da quell’aura speciale appena
creata. Nella pittura, invece, puoi raggiungere quell’attimo e subito dopo aggiungerne un altro, sopra quello... Poi, certo, alla fine
può sempre uscirne un pasticcio orribile».
Basquiat era un suo grande amico.
«Io e Jean-Michel dipingevamo spesso insieme e poi, magari, io mi esercitavo al sax e
lui tornava a dipingere. C’era una meravigliosa, quasi bambinesca libertà nel modo in
33
cui lavoravamo. A volte passava qualcuno e
si metteva a camminare sulla tela su cui stava lavorando: a Jean-Michel non poteva fregarne di meno. È quello che mi piaceva di lui
— anche se io non sono mai riuscito a raggiungere quel suo livello di abbandono. Se
qualcuno mi cammina sulla tela, dico...».
Oggi quali artisti la ispirano di più?
«Pesco dovunque. Ogni dipinto può avere
qualcosa che ho preso da Bruegel o da Pollock. Ma non lo chiamerei ispirarsi».
Nella sua musica ha riconosciuto l’influenza di compositori di cinema italiani:
Ennio Morricone, Nino Rota.
«Due giganti».
Poi c’è Roberto Benigni: avete recitato in
Daunbailò. Mai pensato che un giorno
avrebbe potuto vincere l’Oscar?
«Se devo dire di avere mai incontrato un
genio, quello è Roberto. E incredibilmente
coraggioso. E se qualcuno sembrava capace
o meritevole di un Oscar, beh, quello era lui.
Andrebbe piuttosto detto che raramente
l’Oscar va alla persona giusta».
Tornerà a suonare? L’ultimo cd, The Invention of Animals, uscito proprio quest’anno come John Lurie National Orchestra, è un live che era rimasto inedito. Ma
per l’ultima produzione bisogna risalire a
Marvin Pontiac, quindici anni fa, in cui si
fingeva un bluesman pazzoide... È tornato a sorpresa sul palco, solo voce e armonica, per un blitz nella reunion dei Lounge Lizards: tornerete a incidere insieme?
«Ho in testa un altro disco di Marvin Pontiac, ho diverse idee di canzoni. Ma oggi sono completamente preso dalla pittura. La cosa vergognosa è che in ogni attività creativa
ormai conta così tanto il business. E nella musica e nel cinema c’è così tanta disonestà e
schifo che in ogni nuovo progetto spendi cinque volte di più del tuo tempo a discutere di
business».
Musicista, attore, pittore. Anni fa ha confessato di aver cominciato a buttar giù le
sue memorie. Di John Lurie dobbiamo
aspettarci anche un libro?
«Ragazzi… Spero proprio di sì».
L’antidivo bello e ribelle oggi ha 62 anni:
si sente anziano?
«No».
Ma che idea ha del futuro? Perdoni la domanda invadente: non è che la sua malattia...
«Ribadisco la prima risposta che le ho dato. Semplice, una sillaba sola: è no. Le posso
chiedere di tenere quella?».
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LA MUSICA
FOTO DI HANNA HEDREN
UNA LOCANDINA DEI CONCERTI
TENUTI DAI LOUNGE LIZARDS
DI LURIE ALLO SQUAT THEATRE
DI NEW YORK NEL 1981
CI VOLEVA
CARATTERE
PER VIVERE
NELLA GRANDE MELA
AI MIEI TEMPI,
ERA ROBA DA DURI
ADESSO SEMBRA
UNO SHOPPING MALL
PER FIGLI DI PAPÀ
O GENTE CHE FA
LAVORI LURIDI
DEVO TANTO
A FELLINI, LEONE,
MORRICONE
E ROTA MA SE DEVO DIRE
DI AVER MAI INCONTRATO
UN GENIO,
QUELLO È ROBERTO.
RARAMENTE UN OSCAR
È ANDATO
ALLA PERSONA
PIÙ GIUSTA
L’UNICO MODO
PER TIRARE
FUORI L’ANIMA
DI UNA BAND
È ESSERE UN DITTATORE,
UN MOSTRO. AVREI VOLUTO
ESSERE PIÙ AMATO
ANCH’IO MA ALLA FINE
LA MUSICA È MOLTO
PIÙ IMPORTANTE
DEI MUSICISTI
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la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 2 NOVEMBRE 2014
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Next. Ci siamo capiti?
I traduttori automatici prendono ancora troppi fischi per fiaschi
Ma per abbattere la Torre di Babele una soluzione ci sarebbe
Quale? Per esempio, quella di mettere dietro al computer
un essere umano anziché un algoritmo
RICCARDO LUNA
OPERAZIONE “Billion Dollar Company” è scattata qualche giorno fa.
Martedì 28 ottobre Marco Trombetti, un giovane imprenditore romano, si è presentato al congresso mondiale dei traduttori, in corso
a Vancouver, e — in pratica — ha detto: fatti da parte Google e voi
smettetela di usare Translate con le sue traduzioni perlomeno maccheroniche, adesso ci penso io. Io, che ho trovato il modo di risolvere
davvero la dannazione che come umanità ci perseguita dai tempi biblici della Torre di Babele quando volevamo raggiungere il cielo e per
punizione siamo stati condannati a non capirci più. Io perché ho inventato quello che finora si è visto solo nei film di fantascienza: vi ricordate il traduttore automatico universale di Star Trek? Ecco, adesso esiste. Si chiama MateCat ed è gratis.
Vi sembra che l’abbia sparata grossa? Beh, intanto va detto che
Marco Trombetti nella sua presentazione è stato molto più sobrio di così. Ma il vero motivo per il
quale nella sala conferenze di Vancouver pare l’abbiano preso sul serio è un altro. Questa è una
storia che parte da lontano: quindici anni almeno. E quello appena aggiunto è solo
l’ultimo tassello di una torre costruita con molto successo da tanti protagonisti. Non solo Google, ma anche Microsoft, Yahoo!, Altavista: insomma i giganti del web si sono cimentati con il miraggio
di un software che potesse tradurre tutte le lingue del
mondo.
In principio, possiamo dire per restare nella
metafora biblica, fu Babelfish, un nome che
era una citazione della famosa Guida Intergalattica per Autostoppisti di Douglas
L’
GOOGLE TRANSLATE
BING TRANSLATOR
LANCIATO NELL’OTTOBRE 2007,
È IL SISTEMA PIÙ POPOLARE.
GRATUITO, FUNZIONA CON MOLTISSIME
LINGUE ANCHE MINORI MA SPESSO
È POCO ACCURATO PERCHÉ
TRA DUE IDIOMI PASSA PER LA VERSIONE
INGLESE. HA LA PRONUNCIA IN AUDIO
E UN LIMITE MASSIMO DI PAROLE
GIÀ LIVE SEARCH TRANSLATOR,
DAL GIUGNO 2009 È LO STRUMENTO
DI MICROSOFT CHE TRADUCE INTERE
PAGINE WEB AVENDO I DUE TESTI
AFFIANCATI. PER MOLTE LINGUE ESISTE
LA VERSIONE AUDIO. CON UN WIDGET
SUL PROPRIO BLOG FORNISCE
LA TRADUZIONE ISTANTANEA
voto
8 (per il successo)
7,5 (per le funzionalità)
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100 LINGUE E 55 FORMATI. OFFRE
A PAGAMENTO UNA COMMUNITY
DI OLTRE CENTOMILA TRADUTTORI
PER SERVIZI AGGIUNTI. APPENA LANCIATA
POTREBBE ESSERE RIVOLUZIONARIA
PROGETTO FINANZIATO CON FONDI
EUROPEI E GUIDATO DA ROBERTO
NAVIGLI, PROFESSORE DELLA SAPIENZA
DI ROMA, PER CREARE UN DIZIONARIO
ENCICLOPEDICO MULTILINGUE:
50 LINGUE E 9 MILIONI DI VOCI
COLLEGATE TRA LORO SECONDO
UNA LOGICA SEMANTICA
voto
9 (sulla fiducia)
7
voto (per la tenacia)
Lost
intranslation
37mld
DI DOLLARI È IL VALORE STIMATO
DELL’INDUSTRIA DELLE TRADUZIONI.
È IN CRESCITA: +6,2% NEL 2014
50 mln
È IL NUMERO DI RICERCHE
DI PAROLE DA TRADURRE
OGNI MESE SUL WEB
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la Repubblica
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IN METROPOLITANA
“Prepare your ticket”
L’avviso vorrebbe invitare
a tener pronto il biglietto
ma to prepare in inglese
significa cucinare
DALL’ITALIANO
ALL’INGLESE
Tre esempi di errori commessi
dai traduttori automatici
Adams. Negli anni Novanta era l’unico strumento per tradurre via web. E qui la storia diventa bella perché nel 1999 da Roma, che certo non era sulle mappe dell’innovazione, qualcuno registra il dominio translated.net. Quel
qualcuno era Marco Trombetti. Allora aveva
ventitré anni. Era uno studente di fisica con la
passione per le stelle (ma non prenderà mai la
laurea). Aveva al suo attivo un progettino che
oggi potremmo definire un antenato dei social
network: Web Chat World, subito ceduto al colosso della pubblicità online DoubleClick. Con i
soldi incassati, Trombetti decide di farsi un
Erasmus in Francia, qui conosce la sua futura
moglie, francese, e gli viene l’illuminazione: le
traduzioni online si possono fare molto meglio.
Nel 2002 lancia Translated che oggi è un bel
gioiellino che funziona così: otto milioni di fatturato, presente in ottanta paesi con una community di circa centomila traduttori professionisti che vengono attivati da un algoritmo, il TRank, a seconda del tipo di traduzione richiesto. Bello. Un altro si sarebbe accontentato.
Ma nel frattempo era arrivato Google, anzi
Google Translate. Progetto guidato da un giovane informatico tedesco, Franz Josef Och, usato ogni giorno nel mondo da circa duecento mi-
SUL PODIO
“Exhibitionist Award”
A essere premiati
qui sono gli esibizionisti
invece degli espositori
(exhibitors)
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IN CUCINA
Ricetta per la Bolognese:
“tomato souce, mice,
onion and basil”. Peccato
che mice voglia dire topi
lioni di persone per tradurre anche lingue minori e dialetti. Dunque, di che parliamo? Google ha stravinto. E così ha stravinto Microsoft
con Bing Translator che funziona piuttosto bene. Ma la storia non finisce qui, sarebbe banale. Perché, per esempio, nel 2007 in gran segreto una delegazione di Google sbarca a Roma
per comprarsi proprio Translated. Motivo? Sulle traduzioni generiche il prodotto di Google
andava benone, ma la startup romana generava traduzioni di qualità fatte da traduttori professionisti collegati via web. Insomma, per certi clienti era un altro livello. Trombetti ricorda:
«Come è finita? Non ci mettemmo d’accordo
sul prezzo e non se ne fece nulla».
In realtà qualcosa si fece. Google subito dopo
ha lanciato il suo strumento per traduttori professionisti, un Toolkit che non ha mai preso piede (al punto che oggi i sottotitoli su YouTube,
che come noto è un’azienda di Google, e i testi
sullo store Google Play, usano i traduttori di
Translated). E anche Trombetti ha rilanciato:
grazie a un finanziamento europeo di 2,7 milioni di euro, ha creato MyMemory, il più grande database del mondo di parole tradotte professionalmente. Finché tre anni fa è scattata
l’operazione Billion Dollar, per diventare un’a-
zienda da un miliardo di dollari. Spiega Trombetti: «Il mercato mondiale delle traduzioni vale 37 miliardi di dollari. Quelle fatte da traduttori automatici alla Google sono poco più dell’1
per cento. Io punto al resto. Alle trentamila
agenzie che in media fatturano mezzo milione
e non riescono a crescere». Per questo ha
creato MateCat: è un software che aiuta
i traduttori a non ritradurre quello che
è già stato tradotto. Ed è gratis. Dove
sta il miliardo di dollari? «Tutte le volte che una traduzione manca nel nostro archivio oppure quando alla agenzia manca il traduttore nella lingua richiesta, arriviamo noi con i nostri centomila
traduttori. A pagamemento. E se una agenzia
su tre mi gira solo il dieci per cento dei lavori,
ecco che arrivo al miliardo». Ce la farà? Vedremo, ma questa non è solo una questione di soldi, in ballo c’è una questione millenaria: «Se riesco a fare tutte le traduzioni previste, ogni anno aggiungo al database più parole di quante
Google e Microsoft hanno raccolto in dieci anni». Forse la condanna della
Torre di Babele sta finendo.
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MYMEMORY
IL PIÙ GRANDE DATABASE DI TRADUZIONI
PROFESSIONALI. LANCIATO NEL 2007
DA TRANSLATED, HA ESTRATTO
E CATALOGATO 6 MILIARDI DI PAROLE
DAI TESTI DELLE NAZIONI UNITE, DELLA
UE E DALLA RETE. OGGI HA 6 MILIONI
DI VISITATORI AL MESE, SOPRATTUTTO
PROFESSIONISTI DELLE TRADUZIONI
voto
8 (per l’utilità)
BABELFISH
IL PIÙ ANTICO TRADUTTORE ONLINE.
NASCE ALL’INTERNO DI YAHOO!
NEGLI ANNI ’90 ISPIRANDOSI
AL TRADUTTORE AUTOMATICO
DELLA FAMOSA “GUIDA INTERGALATTICA
PER AUTOSTOPPISTI”. OGGI È UN PO’
IN DECLINO MA ANCORA SUPPORTA
75 LINGUE E TRADUCE ANCHE PDF
voto
6,5 (per la storia)
500mila
FATTURATO IN EURO DI UN’AZIENDA
MEDIA CON 3-5 DIPENDENTI
E UNA VENTINA DI FREELANCE
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la Repubblica
LA DOMENICA
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Sapori. Ieri e oggi
Barney Greengrass
LA PUBLIC LIBRARY
STA CATALOGANDO
E DIGITALIZZANDO
LE LISTE DEI LOCALI
PIÙ CELEBRI
DELLA GRANDE
MELA, DALL’ASTOR
HOUSE A KAT’Z
NE VIENE FUORI
UN QUADRO
NON SOLO
GASTRONOMICO
MA ANCHE SOCIALE
DELLA METROPOLI
E, PERCHÉ NO,
UNA BUSSOLA
PER TURISTI
PARTICOLARMENTE
CURIOSI. E GOLOSI
Tre generazioni e un secolo di vita: il ristorante dell’Upper West Side
dove gustare ancora oggi i piatti più golosi della tradizione yiddish,
dai pesci affumicati alle migliori uova strapazzate di Manhattan
541 Amsterdam Avenue
Tel. (+1) 212-7244707
I menù di
LICIA GRANELLO
Peter Luger
L’omaggio
Tra i piatti dell’Eleven Madison
Park (tre stelle Michelin,
quinto nella classifica mondiale
dei “50 Best”), un omaggio
a “Barney Greengrass,
New York’s sturgeon king”:
caviale servito con croccante
di segale, cream cheese
e briciole di bagels
Aperto a Brooklyn
nel 1887,
la più famosa
steak house
d’America
ha vissuto
la sua prima
e unica
rivoluzione
nel 1950,
con l’introduzione
del menù scritto,
a sostituire l’elenco
a voce dei tagli
di carne da arrostire
178 Broadway
Tel. (+1) 718-3877400
Waldorf Astoria
La pizzeria
Emigrato da Napoli
a fine Ottocento, il panettiere
Gennaro Lombardi aprì nel 1905
la prima pizzeria d’America
nel cuore di Little Italy,
battezzandola col suo nome.
Cent’anni dopo, la pizza
di “Lombardi’s” è ancora
tra le più gettonate di New York
Oltre un secolo
di cene lussuose,
nel ristorante
d’albergo diretto
dal maître
svizzero Oscar
Tschirky,
che negli anni Trenta
codificò le ricette
di Lobster Newburg,
Egg Benedict
e Waldorf Salad,
evergreen
della cucina
americana
301 Park Avenue
Tel. (+1) 212-3553000
L’
NEW YORK
mangiando,
dicono. E anche leggendo,
se si sfoglia uno dei quarantacinquemila menù
che la New York Public Library colleziona da più di
un secolo e che, forte di
migliaia di volontari, sta digitalizzando
a partire dai primissimi documenti,
datati metà Ottocento. Una mole di
lavoro impressionante ma indispensabile per la realizzazione di
un data-base gastronomico senza uguali al mondo. A inizio autunno, i responsabili del progetto hanno sciorinato i primi
dati sul lavoro fin qui svolto:
oltre diecimila menù interamente trascritti sul web —
piatto dopo piatto, prezzi e
bevande inclusi — e aggiornamenti in continuo divenire, se è vero che la prima carta risale al 1840 e l’ultima non
esiste semplicemente perché
i contributi di appassionati, intellettuali e gastronomi di ogni
parte del mondo non si fermano
mai. La ricerca va bene oltre la generica curiosità. Si scopre, per
esempio, che il 25 agosto 1843 il
menù dell’Astor House — lussuoso hotel affacciato sul parco di fronte alla City
Hall, fra i suoi ospiti anche il presidente Lincoln — prevedeva tra gli altri piatti, zuppa di
vongole, puré di patate, merluzzo in salsa d’ostriche, cotolette d’agnellone alla menta, senza
dimenticare la torta di mirtilli e le mele meringate. Il tutto, servito a partire dalle 5.30 di mattina, secondo un concetto di breakfast ben più
complesso del nostro e ancora valido — magari con il prosciutto al posto del montone e il salmone affumicato invece del
APPETITO VIEN
La tradizione
Ha fatto la storia
della ristorazione newyorchese,
il locale dei fratelli Delmonico,
nato nel 1827 come rivendita
di liquori, sigari e cioccolato
a un passo da Wall Street,
che continua a offrire i piatti
chic e sostanziosi di un tempo,
come l’aragosta Newburg
Centocinquant’anni di storia
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Io,ostaggio
dellacucina
yiddish
Carnegie Delicatessen
Nato nel 1937 per sfamare artisti e spettatori della vicina Carnegie Hall,
offre dall’alba a notte fonda il menù di sempre: sandwich, carni
conservate, sottaceti e cheese cake servita in porzioni da quasi mezzo kg
854 7th Avenue
Tel. (+1) 212-7572245
FEDERICO RAMPINI
NEW YORK
ON È VERO che tutto il
N
New York
merluzzo — un secolo e mezzo più tardi. In quegli anni, la collezione era poco più di un vezzo
nelle mani di un’intrepida signora newyorchese, Frank E. Buttolph, pronta a chiedere copia
del menù in qualsiasi evento culinario fosse
coinvolta, capace di scrivere ai ristoranti più disparati, attivare amici, intraprendere veri e
propri viaggi — non facilissimo, al tempo, per
una donna sola — pur di accaparrarsi il prezioso elenco di piatti da schedare. Una passione tradotta in migliaia di esemplari, regalati a pochi mesi dall’alba del Novecento alla New York Public Library,
e perpetrata nei saloni della biblioteca fino a pochi mesi dalla
morte, nel 1924.
I suoi giovani collaboratori
hanno fatto sì che la collezione
continuasse a crescere e a ispirare generazioni di cuochi, sociologi, storici. Così, è diventato facile capire come il consumo di molluschi e crostacei si sia diffuso dal Pacifico
all’Atlantico, quanto in America il rapporto con le cotture
sul fuoco sia imprescindibile,
o in che modo l’immigrazione
ebraica a New York abbia fatto assumere come propri cibi fino ad allora sconosciuti. Un radicamento che lega come un fil
rouge i menù degli ultimi centocinquant’anni di storia americana.
In caso di dubbi sulla storicità di
questa o quella ricetta made in Usa, regalatevi una visita virtuale sul sito dedicato per un primo assaggio, proseguendo la ricerca direttamente alla New York Public Library, Rare Books Division, stanza 328, dove potrete confrontarvi con oltre mezzo milione
di piatti catalogati. Poi andate a verificare se le uova strapazzate con storione di
Barney Greengrass sono sempre quelle
di un tempo. Woody Allen giura di sì.
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The Russian
Tea Room
Selezioni
pregiate di vodka
e caviale
firmano
il raffinato locale
di Midtown
fin dalla sua
apertura,
avvenuta
nel 1927
grazie all’iniziativa
degli artisti
del Balletto Imperiale
di Russia
150 West 57th Street
Tel. (+1) 212 -5817100
Katz’s
È lo storico tempio
del pastrami,
la carne marinata,
speziata,
cotta al vapore,
tagliata sottile
e servita
su pane di segale,
la cui ricetta,
importata
dalla Romania
alla fine dell’Ottocento,
è immutata
dall’inaugurazione
(1888) a oggi
205 East Houston Street
Tel. (+1) 212 - 2542246
raccontati dai grandi ristoranti
mondo è ormai piatto,
che la globalizzazione
ha cancellato le
differenze, che i
sapori sono fusi in una
contaminazione indistinta.
Laboratorio multietnico per
eccellenza, luogo di tutti gli
incroci, New York riesce tuttavia a
coltivare anche dei riti antichi, dei
mondi isolati e immutabili.
Da Katz’s Delicatessen, per non
avere rispettato queste tradizioni,
io ho rischiato di subire un
sequestro di persona. Accadde
anni fa in una delle mie prime
visite a questo tempio della cucina
yiddish, quando dopo una lunga
fila d’attesa mi venne infilato in
mano, quasi distrattamente, un
minuscolo ticket numerato che
assomiglia ai biglietti d’ingresso
nei nostri cinematografi di una
volta. Un pezzetto di carta unto e
bisunto, del quale sottovalutai la
funzione con gravi conseguenze.
Quel ticket conteneva un numero,
poi registrato dal brusco
cameriere che prendeva le mie
ordinazioni (corned beef,
pastrami, più maxicetrioloni
sottaceto, da insaporire con tanta
senape). Solo all’uscita lo sguardo
cadde sul vetusto e ingiallito
avviso: chi non conserva quel
biglietto numerato — dal quale la
cassiera deduce il conto finale —
deve pagare una somma
vertiginosa, l’equivalente
dell’aver consumato tre volte
tutto il menu. È un po’ come se
perdi il biglietto d’ingresso
sull’Autosole, presumo ti facciano
pagare la massima tratta, forse
Napoli-Milano. Alle mie proteste
intervennero due robusti uscieributtafuori afroamericani (la
proprietà di Katz’s è
rigorosamente Jewish ma il
personale è multietnico) che
m’impedivano l’uscita. Per
fortuna ero con una coppia di
amici ebrei newyorchesi, lui
l’economista Steve Cohen
conosciuto a Berkeley. Ci volle una
lunga trattativa diplomatica,
condotta a regola d’arte, per
ottenere la liberazione
dell’ostaggio italiano che aveva
buttato il ticket (ormai
introvabile) in un cestino. Usanze,
riti e tradizioni, fanno di Katz’s un
luogo dove le ricette della cucina
yiddish, pur semplici e perfino
grossolane, ti riportano in luoghi
antichi: l’Europa centrale fra le
due guerre, il “mondo di ieri”
raccontato con struggente
malinconia da Stefan Zweig, poi
l’esodo verso il Nuovo Mondo, le
atmosfere di Saul Bellow, Philip
Roth e Isaac Bashevi Singer.
Non tutto, non dappertutto,
sopravvive all’implacabile rullo
compressore della storia. Che ne
sarà, ad esempio, del Waldorf
Astoria, acquisito da una
compagnia assicurativa cinese il
cui top manager è nipote di Deng
Xiaoping? Un covo di spie, l’hotel
dei presidenti americani? Ma
soprattutto: che succederà in
cucina?
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L’incontro. Scapigliati
DICONO CHE L’ARTE
E L’IMMAGINAZIONE
NON SALVERANNO
IL MONDO,
MA INTANTO
HANNO SALVATO
LA MIA VITA
SENTO DIRE SPESSO
“LA STRADA
È STATA
LA MIA SCUOLA”,
E IO RISPONDO
“NO, LA SCUOLA
È LA TUA STRADA”
Vent’anni fa debuttò a Sanremo rasato a zero e facendosi chiamare
Mikimix. Uscì dal tunnel con una massa di capelli in testa e il tormentone che gli diede successo e ansia: “Ero diventato di moda, che
panico”. Ora porta l’ultimo album a Londra e negli States. “La cosa
stupisce anche me: non ho la voce dell’italiano che piace all’estero,
anzi non ho proprio la voce. Sopperisco con le idee”. Eccone una: “Sono contro il pensiero unico della
gendario Whisky a Go Go di Los Angeles e l’8 alla North Beach Bandshell di Mia«Mi stupisce questo interessamento. Non ho la voce dell’italiano che piace
all’estero, anzi non ho la voce. Ho sempre ammirato gli artisti che all’ugola d’oRete. Se tutto va in una direzio- mi.
ro sopperiscono con le idee, ma per molti anni mi sono sentito inadeguato». Sa
già quel che lo aspetta in America, una manciata di curiosi — che come i londiresteranno conquistati dalla sua verve — e un manipolo di italiani incazzane, cerco qualcosa che vada in nesi
ti e poco inclini alla nostalgia. Non gli dirà di tornare, racconterà le molte verità
che hanno raso a zero la generazione di quelli nati come lui nel ‘73, diventati bamnon per comodità ma per necessità. Gli ricorderà, magari giocando sul
senso opposto. Facciamo che so- boccioni
palco con i découpage di quadri famosi (come il toro di Guernica), con quanta
criminale indifferenza lasciamo che il nostro patrimonio artistico vada in malogiorno fa è crollato il solaio di un museo in Sicilia, il degrado di Pomno il comunista di turno: ho un ra.pei«Qualche
è sui tiggì di tutto il mondo. L’Italia è sempre in fondo a tutte le classifiche di
civiltà. Ci sentiamo fighi perché stiamo seduti al tavolo dei G8, c’illudiamo di apai grandi, poi quando si parla di cose importantissime come l’istrubranco di bolscevichi sotto que- partenere
zione siamo allo sfascio: la Finlandia in testa, noi al ventesimo posto. Mi pare siamo al 140esimo su 144 per efficienza politica. Però c’è una classifica in cui siamo
primi, quella del patrimonio Unesco. Allora c’è qualcosa che non torna: come mai
sti ricci”
non riusciamo a valorizzare le nostre bellezze? Dicono: non sarà l’arte a salvare
Caparezza
GIUSEPPE VIDETTI
LONDRA
S
RTV-LA EFFE
LUNEDÌ SU RNEWS
(ORE 13.45 E 19.45,
CANALE 50 DEL DT
E 139 DI SKY)
IL VIDEOSERVIZIO
SU CAPAREZZA
ONO IN MILLEDUECENTO al Koko di Camden Town, prezioso club londi-
nese dove si esibisce la crema del rock britannico. Tutti paganti, non
tutti italiani. Michele Salvemini da Molfetta, in arte Caparezza, artista dalla parola facile e dalla rima al vetriolo, non è salito fin quassù per ammansirli con le trite storielle sul paese d’o sole, della pizza
e del bel canto. Sa che lì sotto, a pogare divertiti e arrabbiati, ci sono un venti per
cento di inglesi, un trenta di varie nazionalità e un cinquanta di italiani in fuga
dallo stivale solatio. «Siamo tornati a essere un paese di emigranti», sbuffa scuotendo la generosa capigliatura che gli ciondola sul viso (capa rezza in pugliese
vuol dire testa riccia). «In questo tour europeo ho scoperto che ci sono ovunque
un sacco di italiani. In Belgio siamo la prima comunità, a Londra senti parlare la
nostra lingua in ogni angolo. L’emigrazione è di nuovo un fenomeno, anche se
ancora sottovalutato. Oggi è facile, prendi un aereo e via, non devi fare come mio
nonno che per fuggire in Australia dovette farsi un mese di nave. E non è bello
sentir dire: con tutto il bene che voglio all’Italia io non ci torno, sto bene qua».
Caparezza è allegro, irrequieto, curioso. Ciondola per i corridoi cavernosi del backstage alla ricerca di segni tangibili del passaggio, tra quelle
mura (una volta si chiamava Camden Theatre, fu edificato nel 1900),
di personaggi come Charlie Chaplin (qui furono proiettati i suoi primi film muti) e, molto più tardi, quando il punk prese Londra d’assedio, Boomtown Rats e Clash; e, perché no?, di una targa che ricordi Bon Scott degli AC/DC, che al Camden Palace, come era stato ribattezzato, si prese la ciucca che il 19 febbraio del 1980 gli causò l’intossicazione fatale. «Sono nato con l’hip hop ma cresciuto con il rock,
metal soprattutto, e un certo tipo di elettronica», esplode con l’aria
sorniona e beffarda che tanto lo fa somigliare a Frank Zappa. Con
Museica, l’album disco di platino pubblicato quest’anno, Caparezza si è confermato presenza irrinunciabile nella top ten del-
MI PIACE LA DEMOCRAZIA DI INTERNET CONTRO LA TV
MA RESTO UN ANALOGICO: HO VISSUTO A LUNGO
SENZA UN CELLULARE E NON ASCOLTANDO MUSICA
ONLINE. IL WEB È UN MEZZO FORMIDABILE,
MA NON È DIO NÉ UN OCEANO DI SCIENZA INFALLIBILE
l’Italian pop, o rap, o rock che dir si voglia (il concerto è tutto
questo, e anche di più).
Il tour mondiale è il coronamento di vent’anni di carriera
iniziata con uno scivolone («Esordii come Mikimix, avevo i capelli a zero, un Will Smith all’italiana, feci anche
Sanremo; emigrante a Milano, molto incosciente e
con una passione. Sarei finito sulla china di Gangnam style se avessi continuato») e consolidata da
scelte responsabili e intelligentissime. Ora lo
aspettano due date negli Usa, il 6 novembre nel leg-
il mondo né l’immaginazione. Allora divento egoista e rispondo: sì, però hanno
salvato la mia vita. Sento dire sempre più spesso “la strada è stata la mia scuola”; risponderò sempre più spesso la scuola è la tua strada».
Arrabbiato com’è riesce a malapena a controllare «quel branco di bolscevichi»
che alberga nella sua testa. «Negli anni passati i cantanti erano tutti comunisti;
bastava criticare un certo modo di fare del politico di turno per essere automaticamente di sinistra; oggi col tramonto del berlusconismo chi fa musica si sta
smarcando dall’ideologia. Io invece voglio recuperarla giocandoci: facciamo che
sono il comunista di turno, anche se non ho mai avuto in tasca la tessera di un
partito. Nell’epoca degli sms è più facile parlare in maniera diretta. Mi piace la
complessità per questo mi bollano sempre come uno schierato». Troppo deluso
dalla politica per scrivere l’inno del Pd o del M5S. «Seguo solo le mie idee, non ho
più un partito che mi rappresenti, perché al contrario di loro sono uno che cambia idea. Scrivere un inno vuol dire sposare una causa; in passato l’ho fatto piuttosto spesso e apertamente, ma oggi non lo rifarei, perché ogni volta che ho appoggiato un politico poi mi sono dovuto ricredere».
Anche musicalmente non ha sponsor. Se il talent è il lasciapassare per la contemporaneità, lui resta aggrappato alla old school, tanto per i musicisti non ci
sono certezze, né per Caparezza né per i campioni di X-Factor. Sa che la canzonetta è traditrice: l’incubo di Mikimix si riaffacciò, questa volta per eccesso,
quando Fuori dal tunnel diventò il tormentone del 2003. «Mi regalò un successo che non avevo, ma mi costrinse a fare i conti con quella che Pasolini chiamava la dannazione, il lato oscuro della celebrità», racconta. «Panico, per un timido e introverso come. Mi resi conto che ero diventato… di moda. Habemus Capa,
il successivo, è a tutt’oggi quello che ha venduto meno, perché era un album senza hit, molto indie, volutamente oscuro. Risultato: persi un sacco di fan, quelli
che mi seguivano per moda, ovvio. L’importante è che chi è restato e chi si è accodato sappia chi sono e come la penso».
ANDANDO IN TOUR MI STO ACCORGENDO
CHE SENTI PARLARE ITALIANO OVUNQUE.
OGGI È PIÙ FACILE: PRENDI UN AEREO
E VIA. MIO NONNO SI FECE UN MESE
DI NAVE PER RAGGIUNGERE L’AUSTRALIA
L’ha detto chiaro e tondo, non ha paura di restare indietro, ha
bisogno di una prospettiva, come negli anni Sessanta. «Tremo quando sento dire che la più grande rivoluzione dei
nostri tempi è quella operata dalla Rete. Il pensiero unico è il mio incubo. Una volta ci si ammazzava per l’ideologia, ora ci si spara non si sa per cosa: fanghiglia, gossip,
mancanza di approfondimento. I giornali sono diventati
pagine web di cui si leggono solo titoli e didascalie. È tutto così rapido che inevitabilmente faremo dei passi indietro. Il rischio del pensiero unico? Che da un momento all’altro arrivi uno che si propone come salvatore della patria e
in pochi anni diventa un super leader: ne abbiamo esempi lampanti. Non vedo spiragli in politica, viviamo in un paese ammorbato dalla religione. Per anni ho avuto paura del buio, l’educazione cattolica di provincia mi ha riempito di ansie che
solo Odifreddi è riuscito a togliermi di dosso. Se tutto va in
una direzione devo leggere qualcosa che va in senso contrario, non per spirito di contraddizione ma per avere un
ventaglio di possibilità. Mi piace la democrazia della Rete
che contrasta l’oligarchia televisiva, ma resto un
analogico. Il cd? Un emulazione del vinile. Ho vissuto gran parte della mia vita senza un cellulare
e ascoltando musica fuori da internet. Se sei Mozart da qualche parte vai, anche senza promozione. Internet è un mezzo formidabile, ma non
può essere l’unico, non può essere dio. Dicono “il web
ha detto questo, il web ha detto quello”, come se fosse un
oceano di scienza, infallibile, un medium manovrato da extraterrestri. Il popolo è uno solo, non esiste il popolo del web.
Basta con questa idea messianica della Rete. Detesto chi nei
blog s-gur-eggia». Prego? «Detesto chi fa il guru».
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