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Domenica La di DOMENICA 20 AGOSTO 2006 Repubblica la memoria L’ultima vendetta della ghigliottina FRANCO CORDERO e GABRIELE ROMAGNOLI il reportage A 260 all’ora dentro l’America di Bush VITTORIO ZUCCONI Mare Nostro Pesca senza freni né regole, turismo sempre più arrogante L’appello a salvare il Mediterraneo ILLUSTRAZIONE DI TULLIO PERICOLI Repubblica Nazionale 33 20/08/2006 di un celebre velista e di un grande scrittore GIOVANNI SOLDINI LUIS SEPÚLVEDA cultura idea di poter andare da un posto all’altro utilizzando solo l’energia della natura mi ha sempre appassionato. Con la barca a vela ho girato un bel pezzo di Mediterraneo nella mia infanzia. Mio padre era il capitano mentre l’equipaggio era composto dai miei due fratelli adolescenti e da mia madre. Ognuno partecipava come poteva alla navigazione. Ricordo con terrore certi atterraggi alle Baleari dopo tre giorni di navigazione stimata; le notti dove anch’io facevo il mio turno e mi sentivo parte integrante dell’equipaggio; le albe in mare, i sonnellini nella base della randa… le prime balene, i delfini, i primi colpi di vento, la barca che sbanda, gli ormeggi… Il Mediterraneo mi affascina perché è stato una delle rotte commerciali più trafficate nella storia e la culla di importanti scambi culturali. Oggi mantiene un’importanza vitale per milioni di persone che dipendono dalla pesca e dal turismo. È infatti la prima destinazione turistica mondiale e, nonostante rappresenti meno dell’un per cento degli oceani del mondo, gli scienziati ci dicono che accoglie quasi il nove per cento di tutta la vita marina, con più di diecimila specie finora identificate. Nella mia infanzia ho passato nel Mediterraneo delle splendide vacanze, che sono state anche un modo di viaggiare, conoscere posti e gente diversi, scoprire la vita marina. (segue nelle pagine successive) n un negozio di articoli sportivi, a Ibiza, fanno pubblicità alle moto d’acqua con uno slogan molto suggestivo: «Diventa il padrone del mare», e la frase è qualcosa di più di un trucco per vendere un gran numero di quegli arnesi velocissimi, che sono un segno di riconoscimento per gente tanto ricca quanto insensibile. In groppa alle sue scattanti moto acquatiche, quella gente è davvero padrona del tratto di mare in cui si muove, bruciando benzina e mettendo in pericolo i bagnanti o le piccole imbarcazioni che incrocia nelle sue evoluzioni a velocità vertiginosa. Da lussuosi porti turistici, da lussuose dimore costruite dalla longa manus della speculazione immobiliare, gli odierni padroni del mare guardano i tramonti senza vederli, troppo preoccupati dai metri di lunghezza del nuovo yacht di qualche conoscente o dalla potenza dei motori che li portano da un’isola all’altra nel giro di pochi minuti, e allora decidono di cambiare al più presto i loro navigli bianchi, grazie ai quali godono del discutibile status di capitani del fine settimana, o di sciocchi con il diritto di prendere in mano un timone. Qualche anno fa mi trovavo a Formentera e all’improvviso, sorpreso dalla quantità di imbarcazioni da diporto, tutte dotate di potenti motori, che uscivano dalla baia in mare aperto, chiesi cosa stesse succedendo. (segue nelle pagine successive) Il Feroce Saladino, eroe multimediale L’ I EDMONDO BERSELLI la lettura Duveen, l’arte di vendere l’arte STEFANO MALATESTA spettacoli Istanbul sound, ecco la musica turca GIUSEPPE VIDETTI l’incontro Il violino vivo di Anne-Sophie Mutter LEONETTA BENTIVOGLIO 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 AGOSTO 2006 la copertina Mare Nostro Pesca senza tregua né regole, inquinamento crescente, turismo aggressivo che occupa le sponde e spoglia i fondali: sono sempre di più le minacce che mettono a rischio la vita delle acque profonde attorno al nostro Paese. Un navigatore solitario e uno scrittore controcorrente si sono alleati per difenderle Salviamo il Grande Blu (segue dalla copertina) così, da adolescente, ho continuato a sognare di diventare un giorno un vero vagabondo dei mari, di quelli che non hanno problemi di tempo e di spazio, che se arrivano in un bel posto si possono fermare sei mesi e poi ripartire alla ricerca di altri orizzonti, altri luoghi, altre avventure. Certo non ho mai pensato di mettermi ad arpionare balene e l’orrenda pratica della caccia commerciale che oggi si effettua con arpioni a testata esplosiva mi è sempre sembrata crudele e anacronistica. Nel corso dell’ultimo secolo, la caccia a fini commerciali ha decimato gran parte delle popolazioni di balene del mondo. Tra il 1925, anno di introduzione della prima nave-fabbrica per l’uccisione e il trattamento delle balene, e il 1975 si stima che siano stati uccisi in totale più di un milione e mezzo di esemplari. I cacciatori hanno quasi sterminato numerose popolazioni di cetacei: decimata una popolazione si passava a un’altra. A seguito delle ripetute pressioni della comunità internazionale, e grazie anche all’intervento di Greenpeace, alla quale io sono molto vicino, nel 1986 la Commissione baleniera internazionale ha approvato una moratoria sulla caccia commerciale alle balene. Ma la caccia di giapponesi e norvegesi, con il pretesto della ricerca scientifica, è continuata al punto che questi animali rischiano ormai l’estinzione. Per la prima volta quest’anno il Giappone è riuscito a conquistare una maggioranza alla Commissione baleniera internazionale a favore della caccia alle balene. Chi avrebbe mai pensato che dopo tanti anni di campagne per la protezione dei grandi cetacei, ci saremmo trovati di fronte al tentativo di riaprire la caccia commerciale alle balene? Quello che è ancora più preoccupante è che qualcosa di molto simile stia accadendo sotto al nostro naso, proprio qui nel Mediterraneo. Quando leggiamo che «il tonno sta scomparen- Repubblica Nazionale 34 20/08/2006 E do», che le reti vengono tirate su completamente vuote, dovremmo ascoltare questo campanello d’allarme. Il mare è in crisi profonda. Ancora una volta i giapponesi, amanti del sushi, stanno esercitando una pressione sfrenata sul tonno rosso del Mediterraneo. L’ottanta per cento della popolazione di questo pesce è stata cancellata negli ultimi anni. Gli amici di Greenpeace, con la loro nave ammiraglia, “Rainbow Warrior”, stanno pattugliando il Mediterraneo e hanno incontrato sul loro cammino pescherecci italiani, francesi, spagnoli e turchi alla disperata ricerca dell’ultimo tonno. Le reti vengono tirate su sempre più vuote. E non parliamo di un pescetto da prendere all’amo: oltre due metri di lunghezza, settecento chili di peso, veloce e scattante come un cavallo, il tonno è uno dei re del mare. Come noi, è a sangue caldo e la capacità di regolare la temperatura del suo corpo gli permette di migrare attraverso gli oceani, nuotando migliaia di chilometri ogni anno e sopravvivendo in condizioni ambientali molto diverse. Il tonno, però, non riuscirà a sopravvivere alla pesca industrializzata che sta minacciando gravemente il suo regno. Ogni anno una flotta sempre più grande di pescherecci di dimensioni sempre maggiori va all’assalto dei tonni in una fase importante e vulnerabile della loro vita, quando vengono a riprodursi nel Mediterraneo. Queste imbarcazioni usano reti conosciute come tonnare volanti, grandi abbastanza da circondare un intero banco. Come se catturare i pesci nella loro zona di riproduzione non fosse già una pazzia, le flotte pescano più del consentito e aumentano così le quantità di pesci che vengono pescati troppo giovani. Il tonno rosso arriva alla maturità tra i cinque e gli otto anni, ma gran parte degli esemplari catturati non ha avuto alcuna possibilità di riprodursi. Il Mediterraneo è una delle due uniche zone di riproduzione del tonno rosso e i pescherecci non solo pescano nelle zone di riproduzione ma catturano altri tonni per metterli in vasche, allevarli e ingrassarli per l’esportazione. Questo “allevamento” causa un aumento della pesca dei tonni e richiede grandi quantità di piccoli pesci per farli ingrassare: per produrre un chilo di tonno, ci vogliono tra venti e venticinque chili di pesce azzurro da trasformare in mangime. Se questo non è sufficiente a farvi rimanere sconcertati penso che, come per le immagini delle balene arpionate in mare aperto per l’avidità di pochi, bisognerebbe avere la stessa reazione di fronte alle migliaia di delfini e tartarughe che finiscono ogni anno nelle reti da pesca illegali. Le cosiddette “spadare”, le avrete sentite nominare, sono state bandite dall’Unione europea e dall’Onu perché catturano qualsiasi cosa dalla sardina alla balena. Sono lunghe anche venti chilometri e alte quindici metri e vengono ancora calate nel nostro mare, in barba al bando, nelle notti in cui non c’è luna piena, per catturare i pe- scispada. Le chiamano anche «muri della morte»: tra Ponza e Ischia, Greenpeace ha tagliato un pezzo di una rete spadara illegale e vi ha trovato una tartaruga marina, che è stata subito liberata perché in buone condizioni, ma di solito non va a finire così. Infatti, chi va per mare, anch’io posso testimoniarlo, non incontra più tartarughe e balene come una volta. Dobbiamo rimboccarci le maniche adesso. Il nostro mare, il Mediterraneo, non è un’enorme piscina per le vacanze estive e poi pazienza se il tonno sta finendo o le balene non si vedono più. Bisogna rendersi conto che il mare ha bisogno di essere protetto e non sfruttato fino al collasso. Voglio unirmi, quindi, alla richiesta di Greenpeace, che chiede di porre fine a questo sfruttamento indiscriminato delle risorse del mare e di istituire invece una rete di aree marine protette in mare aperto. Le aree protette oggi sono meno dell’un per cento del Mediterraneo, molto meno del venticin- que/cinquanta per cento raccomandato dagli scienziati. Occorre una rete globale di riserve marine che comprenda il quaranta per cento degli oceani del mondo e il quaranta per cento del Mar Mediterraneo. Questa è l’unica soluzione possibile e va incontro sia alle necessità della conservazione che a quelle dei pescatori. Se non si dà modo agli stock ittici di rinnovarsi, proteggendo i luoghi dove i pesci si riproducono e si alimentano, non ci sarà più nulla da fare. Non sono solo le balene ad aver bisogno di protezione, c’è tutto un mare da salvare. Fatto di balene e di tartarughe, di calamari, di tonni e di persone che delle risorse del mare vivono. Il mare non è il nostro ambiente, forse per questo ci sembra sterminato e infinito ma in realtà rimane vulnerabile come il resto del pianeta. Se non saremo in grado di porre delle regole e dei limiti alla nostra folle corsa al dio denaro, in pochissimi anni distruggeremo la più grande risorsa che abbiamo. ILLUSTRAZIONE (PARTICOLARE) DI KATSUSHIKA HOKUSAI/CORBIS GIOVANNI SOLDINI DOMENICA 20 AGOSTO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 Il Mediterraneo non ha padroni 22 gli stati che si affacciano sul Mediterraneo 2.505.000 km² la superficie del bacino, pari allo 0,8% delle acque del globo 3860 km l’ampiezza massima da Est a Ovest 1800 km GREENPEACE DÀ BATTAGLIA Sia il velista Giovanni Soldini che lo scrittore Luis Sepúlveda, entrambi impegnati nella difesa dell’ambiente marino, stanno collaborando con Greenpeace La nave del movimento ecologista, il Rainbow Warrior, opera nel mare Mediterraneo contro la pesca illegale l’ampiezza massima da Nord a Sud 5017 m la massima profondità, al largo di capo Matapan, in Grecia 46.000 km la lunghezza totale della linea di costa 300 gli tsunami registrati nel Mediterraneo dal 1300 a. C. 580 le specie di pesci 21 i mammiferi marini 48 le specie di squali 36 le specie di razze 5 le specie di tartarughe 1.289 le specie vegetali marine 1.700 le specie di molluschi LE CURIOSITÀ Repubblica Nazionale 35 20/08/2006 1.Più di diecimila le specie che vivono nel Mediterraneo (nove per cento di tutta la biodiversità marina), una specie su quattro è esclusiva 2.Solo l’uno per cento della superficie del bacino del Mediterraneo fa parte di aree marine protette 3.Dai tremila ai quattromila metri la profondità media, che permette ad alcune specie di balene, al pesce spada, al tonno e al delfino di viverci 4.Sono circa cinquemila le isole, grandi e piccole, che punteggiano il bacino del Mediterraneo 5.Nei paesi rivieraschi si concentra il sei per cento delle specie vegetali presenti sulla Terra e il dodici per cento di quelle minacciate di estinzione 6.Su 62 specie di anfibi, 35 sono endemiche (56 per cento) Delle 179 specie di rettili sono endemiche 111 (62 per cento) 7.Due miliardi di uccelli appartenenti a 150 specie diverse fanno tappa durante le migrazioni nelle zone umide mediterranee 8.Circa mille il numero delle specie esotiche, molte delle quali dannose per l'ecosistema e per l'economia, immigrate nel Mediterraneo 9.Circa seicento le specie di spugne, il quarantacinque per cento delle quali esclusive del Mediterraneo 10.Il centro geometrico del Mediterraneo cade sulla punta della penisola italiana, precisamente nella città di Reggio Calabria LUIS SEPÚLVEDA (segue dalla copertina) no di quei marinai del fine settimana aveva visto dei «pesci strani» che saltavano sul pelo dell’acqua, e da bravo idiota facoltoso, invece di spegnere il motore, aveva deciso di seguirli mentre un altro (o un’altra) idiota abbronzato chiamava con il cellulare tutti i suoi conoscenti. In pochi minuti si radunarono una cinquantina di barche che, solcando le onde con le loro prue alte, fecero rotta sull’avventura gratuita offerta dal mare, quel vasto spazio blu di loro esclusiva proprietà. La flotta di banchieri, produttori cinematografici, avvocati televisivi, industriali inquinatori e chirurghi estetici avvistò i «pesci strani» e prese a girare attorno a quelli che in realtà erano due delfini disorientati e atterriti dal rumore delle imbarcazioni. Immaginiamo di camminare in campagna e di vederci piombare addosso all’improvviso cinquanta fuoristrada, dai motori rombanti, che ci circondano accecandoci con nuvole di polvere, e per di più rendono irrespirabile l’aria con i fumi dei loro tubi di scappamento. Si sentivano esattamente così quei delfini: non riuscivano più a captare i segnali del branco, se mai ne arrivavano, ed erano in preda al panico davanti alle barche sempre più vicine, perché i marinai del fine settimana dovevano a ogni costo fotografare o filmare quei «pesci strani». L’epilogo non si fece attendere: un’elica toccò il dorso di un delfino, il sangue tinse l’acqua, ma il sacrificio del primo cetaceo permise all’altro di rompere il cerchio e fuggire in mare aperto, perché le cinquanta imbarcazioni fermarono i motori e tutti si diedero a controllare l’elica assassina. Una barca da 250mila euro suscita grande solidarietà. Questa storia non è l’invenzione di uno scrittore, l’ho vista accadere a Formentera, così come ho visto l’inutilità della Guardia Civil che non interrogò nemmeno uno di quegli sventati, responsabili della morte di un animale protetto e in via di estinzione. Si trattava di gente facoltosa, dei padroni del mare, e a loro non si possono addossare responsabilità ecologiche. Una delle maggiori sciocchezze che si sentono dire ai politici dei paesi affacciati sul mare è che il turismo è una delle attività economiche più importanti, ma non precisano quale turismo, e non spiegano nemmeno se porti qualcosa di più di camerieri e rifiuti. I proprietari delle strutture che accolgono il turismo di massa sono un’altra variante dei padroni del mare — e questa non è affatto un’affermazione azzardata — perché hanno ottenuto che governi e amministrazioni locali accettino come una cosa U logica e naturale la separazione del mare dal suo contesto costiero, istituendo una sorta di confine di convenienza che nega il rapporto di interdipendenza biologica fra la terra e il mare, da cui fra le altre cose deriva quel microclima. Una semplice veduta aerea dei litorali mediterranei fa sì che qualunque persona mediamente informata si ponga alcune domande. Tutte le strutture del turismo di massa sono dotate di impianti di depurazione? O si è invece lasciato l’onere di depurare le acque reflue alle piccole città che fino a venticinque anni addietro non ospitavano questo tipo di strutture? La maggior parte delle bandiere blu conferite dall’Unione europea sono fraudolente; vengono infatti concesse sulla base di rapporti predisposti secondo gli interessi dell’industria turistica, grazie a mazzette, perché la corruzione è strettamente legata a questo tipo di sviluppo e in realtà milioni di turisti fanno il bagno in un misto di merda, prodotti chimici industriali, residui tossici dell’agricoltura e, con un po’ di fortuna, acqua. Chi controlla davvero il poco pesce che ancora si pesca nel Mediterraneo, di cui in estate si moltiplica mille volte la domanda? Nei ristoranti delle coste spagnole, francesi, italiane e greche vengono servite specie quasi estinte con la totale compiacenza delle autorità incaricate di proteggere il mare. Sarebbe lunga, ma anche facile da stendere, la lista di chi, per opera di leggi liberali legate al mercato, si considera padrone del mare. Al di là delle considerazioni biologiche, bioetiche, ecologiche e di semplice buon senso, è fondamentale rientrare in possesso del mare in nome dell’umanità, individuare gli spazi recuperabili e metterli in salvo dall’avidità immobiliare e turistica. Urge realizzare finalmente un censimento delle specie e concedere risorse per far rispettare i divieti di pesca. Urge adottare nuove misure a livello europeo — se davvero l’Unione europea serve a qualcosa —, misure che limitino l’inquinamento primario del mare, per esempio l’inquinamento acustico, chimico ed estetico provocato dalle centinaia di migliaia di imbarcazioni la cui unica giustificazione è l’ozio irrazionale dei ricchi. E naturalmente urge limitare la produzione di rifiuti non riciclabili che concludono il loro viaggio in mare. E se qualcuno ha dei dubbi al riguardo, che contempli gli scenari del meridione italiano, spagnolo e greco, dove le coste sono coperte di plastica, biodegradabile, nel migliore dei casi, dopo novant’anni. È molto lunga la lotta ai padroni del mare. (Traduzione di Ilide Carmignani) 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la memoria Controstoria DOMENICA 20 AGOSTO 2006 Venticinque anni fa, il 26 agosto 1981, in Francia fu abolita la pena di morte e dunque lo strumento che per due secoli l’aveva somministrata, mozzando decine di migliaia di teste Ma quest’arma implacabile ha finito per rivelarsi anche un boomerang, capace di colpire chi via via ne ha promosso l’uso: scienziati, carnefici, sovrani e perfino intere civiltà L’estrema vendetta di madama ghigliottina GABRIELE ROMAGNOLI ltimo venne un immigrato musulmano, decapitato dal boia appositamente stipendiato da una nazione cristiana d’Occidente. Erano le 4 e 40 della mattina del 10 settembre 1977. Il tunisino Hamida Djandoubi salì i gradini del patibolo nel cortile di un carcere senza pubblico. Lo fece a fatica perché gli mancava una gamba, amputata dopo un incidente sul lavoro nel porto di Marsiglia dove era stato scaricatore. Al processo la difesa aveva tentato invano di convincere la giuria che, con l’arto, Djandoubi aveva perduto anche il senno. Non sembrò sufficiente a giustificare l’omicidio dopo le torture inflitte alla sua ex amante, che aveva invano tentato di avviare alla prostituzione. Gli toccò l’ultima corsa della lama di una ghigliottina. Quattro anni più tardi, il 26 agosto 1881, presidente Mitterrand, il suo uso fu abolito. Fine di una storia che contò oltre duecento anni, decine di migliaia di teste mozzate e una singolare tendenza alla vendetta. Come se lo strumento di morte, implacabile nel suo percorso, conoscesse una segreta strada di ritorno. Come se fosse, anche, un boomerang, capace di colpire chi ne promuoveva l’impiego: fossero scienziati, carnefici, sovrani e perfino intere, se così per convenzione vogliamo chiamarle, civiltà. Questa dunque è una controstoria della ghigliottina, quella del suo viaggio inverso e altrettanto letale. Comincia con il suo promotore, a torto scambiato per l’inventore. Il dottor Joseph Ignace Guillotin un’intenzione di certo non l’aveva: quella di legare il suo nome allo strumento di morte. Invece non lo poté impedire, benché abbia cercato di riuscirci per tutta la vita. I suoi veri realizzatori, lo scienziato Antoine Louis e il falegname Tobias Schmidt, tanto ci avrebbero tenuto e non l’ottennero mai. Guillotin fu due volte tradito: la seconda nell’intento. Quel che voleva era un rito pulito, preciso e poco spettacolare. Basta con la scure che non uccide al primo colpo provocando una mattanza sul palco per la gioia del popol sadico. Quel che ottenne fu una cerimonia di massa, con esecuzioni a catena davanti a folle festanti e quell’ultimo gesto osceno: il sollevamento da parte del boia del capo reciso per i capelli o (in caso di calvizie) per le orecchie, in un tripudio malato. D’altronde, lo prescriveva un rigido protocollo. Perché le esecuzioni d’Occidente sono così: più inseguono l’asetticità e più diventano crudeli. L’iniezione letale ora in voga in America viene praticata davanti a due tribune protette da un vetro do- U ve possono sedere i parenti del condannato e quelli della vittima per condividere o assaporare il finale annunciato per anni, resocontato per giorni e minuti fino alla patetica elemosina dell’ultimo pasto. Così la “despettacolarizzata” ghigliottina prevedeva la sequenza: spoliazione del condannato (salvo pantaloni e camicia), taglio dei capelli, taglio del colletto, trasporto al patibolo in carretta, immobilizzazione, decapitazione, esibizione della testa al pubblico. A convincersi che questo metodo fosse ideale fu re Luigi XVI. Esperto bricoleur, volle apportare una modifica: invece della poco affidabile lama a mezzaluna adottata dal falegname tedesco, ne suggerì una obliqua. «Complimenti», gli dissero dopo averla provata. La prima vendetta della ghigliottina fu che si abbatté anche sul suo collo. La seconda fu che, dopo aver funzionato perfettamente per anni, nel suo caso combinò un pasticcio, non riuscendo a segarlo del tutto, lasciandolo a morire dissanguato tra urla atroci e un accresciuto giubilo popolare. Si dice che il boia di Parigi, il leggendario Henri Sanson, pur avendo già eseguito migliaia di tagli perfetti, davanti alla testa coronata si emozionò e fece del suo peggio. Anche per lui era pronta la vendetta dello strumento. Passò infatti il mestiere ai figli e non si perse una delle loro esecuzioni, annuendo orgoglioso a ognuna. Finché un giorno uno dei suoi eredi, mentre culminava la prestazione mostrando la testa mozzata alla folla, ebbro d’entusiasmo cadde dal palco e si sfracellò al suolo. Benché immediata e apparentemente indolore, la sua morte strappò le prime lacrime del boia per un simile evento. La beffa ulteriore fu che, mentre lui smetteva di soffrire, il condannato che aveva appena ucciso ne contemplava la morte. Così è, se vogliamo credere alla teoria per cui il cervello continua a funzionare ancora per alcuni minuti (da due a, addirittura, quindici), ancora irrorato di sangue. Di qui le espressioni di orrore delle vittime, i loro occhi roteanti e lo sguardo beffardo di quel particolare decapitato precipitato nell’anticamera dell’inferno con il suo giustiziere. Tra Nicholas Pellettier (prima vittima, il 25 aprile del 1792) e Hamida Djandoubi, la ghigliottina ha ucciso migliaia di volte. Dalla Francia fu esportata in Asia e Africa. I nazisti la impiegarono con gioia in oltre diecimila occasioni. La sua storia è stata tragica e, inevitabilmente, ridicola. Il vertice dell’assurdo è nel presunto dialogo tra il boia Henri Sanson e la sua regale vittima Maria Antonietta. Lei, emozionata, gli pesta un piede e, in un riflesso condizionato di nobiltà, gli dice: «Pardon!». A ruota seguono il genitore condannato per l’omicidio di un figlio (tal Moyse) che obietta al boia: «Come potete uccidere un padre di famiglia?»; e La credenza popolare sostiene che decapitare non assicura una fine immediata: il cervello continuerebbe a funzionare ancora per qualche minuto Di qui le espressioni d’orrore delle vittime quando il boia sollevava le teste davanti alla folla un presunto marchese che si oppone gridando: «Non potete uccidermi! Sono un siciliano!». Poi, dopo quell’alba del 1977 nel carcere di Aixen-Provence, la lama obliqua che tante soddisfazioni aveva dato a Luigi XVI smette di scendere. La Francia rinuncia a una sua creatura. L’Europa compie un altro piccolo passo verso la decenza. L’estrema vendetta è lì che aspetta di compiersi. Se l’ultimo giustiziato era musulmano, la decapitazione ritornerà come incubo, benché non tramite ghigliottina, ma più rude coltello, ad opera degli integralisti islamici che vogliono gli infedeli fuori dall’Iraq. In filmati capaci di far rabbrividire quello stesso Occidente che fino a poco più di vent’anni prima si baloccava con la testa nel canestro si compie un rituale non troppo dissimile. Un prigioniero spogliato e infilato in una tuta arancione viene condotto al videopatibolo, sgozzato e la sua testa tenuta per i capelli viene mostrata all’immensa folla del web. E si grida alla barbarie. Come se esistessero un modo civile di uccidere, una giustizia che lo consente, un qualunque livello di tollerabilità che permetta di tenere gli occhi aperti davanti a un’esecuzione. Eppure sentiamo la differenza. Nella confessione della giornalista americana del Washington Times rapita in Iraq che rivela di aver supplicato i suoi sequestratori: «Se dovete uccidermi fucilatemi, non decapitatemi». Nell’analoga richiesta (anche se chiede di evitare l’impiccagione, ma a maggior ragione non vorrebbe conoscere la lama) avanzata addirittura da Saddam Hussein al tribunale che lo sta giudicando. Resta da chiedersi perché la decapitazione spaventa e (quindi) attrae tanto? Probabilmente per il motivo sbagliato (se qualcosa mai può essere giusto parlando di un simile argomento). A generare il terrore è l’atto finale in sé, il momento della morte e il modo in cui avviene. Comunque vada, anche nel caso mal riuscito di re Luigi XVI, cosa di pochi secondi. Nulla in confronto agli orrori veri. Quello del prima: l’attesa interminabile dell’esecuzione, la certezza della sua venuta o peggio ancora la vana illusione di evitarla, i giorni, i mesi o gli anni passati senza poter fare altro che aspettare la fine. E poi l’orrore più grande: quello del dopo. Perché se una cosa ci può pacificare con la morte è il nulla che ne segue, la mancanza di ogni consapevolezza, il silenzio infinito della coscienza. Invece, a voler credere alle più diffuse teorie, il ghigliottinato resta per minuti che valgono eternità a contemplare la propria (non) fine, cristallizzato nel più inaccettabile degli assunti filosofici: l’anticartesismo assoluto «penso eppure non sono». DOMENICA 20 AGOSTO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 SIMBOLO FOTO CORBIS Accanto, un ritratto di Joseph Ignace Guillotin Sotto, una scena di un film del cineasta francese di inizio Novecento Georges Méliès Quando la “fulminea chirurgia” della lama veniva invocata come progresso Vecchia la macchina, nuova l’idea garantire l’“égalité” patibolare FRANCO CORDERO uneo, anni Trenta. Sul fianco dell’altopiano che scende alla sponda destra della Stura, c’era la stazione d’una tramvia a vapore dell’omonima valle: sito misterioso nel lessico dei vecchi, lo chiamano «‘l rondò di suspir»; rifugio d’innamorati bisbiglianti?; no, l’angolo della forca. Mio nonno raccontava d’un caso. Eventi d’almeno mezzo secolo prima, quando nasceva la gran piazza con i dieci palazzi in stile neoclassico dal Duomo verso gli Orti, intorno alla statua del ministro carloalbertino Giuseppe Barbaroux, diplomatico, guardasigilli, codificatore. Erano spettacoli radi: negli anni 1831-65, il boia en titre Pietro Pantoni lavora 127 volte sulla terraferma sabauda, una forca molto parsimoniosa se la paragoniamo ai 348 impiccati londinesi 1783-87 (nella capitale piemontese ne contiamo 15 dal 1831 al 1848, 51 nei 12 anni seguenti). L’atto ha un calendario: va in scena il sabato, ore 11; «‘l brod d’undes ure» è la scodella offerta al paziente. L’Avvocatura fiscale difende gli usi d’una giustizia «folgorante» ma le parole esalano malessere: nessuno scrive «forca», solo allusioni e metafore; «orrido istrumento», «tetro spettacolo», «triste bisogna» e simili. Spira cattiva coscienza. Se ne vergognano tutti, a parte l’infima plebe, borsaioli, cantastorie, affittacamere sulla via del corteo o, meglio ancora, dell’atto finale, e qualche sapiente paranoico. L’archetipo è Joseph de Maistre, magistrato savoiardo, massone nella loggia dei “Tre mortai”, fratello della Misericordia, visionario dagli occhi corruschi, straparlante, filosofo della storia ad usum delphini, papista, declamatore sulla mistica patibolare nelle Soirées de Saint-Pétersbourg, dove rappresenta i Savoia espulsi da Napoleone. In una supplica sgrammaticata, agosto 1852, se ne duole persino quel signor Pantoni, sebbene corrano buoni emolumenti (primo stipendio 1200 lire annue, come i professori universitari): non è fiero d’impersonare Sua Maestà vittorioso nell’ordalia col Male; gli dispiace buttare il paziente giù dalla scala, saltandogli sul «capo unto del S. Battesimo», mentre l’aiutante tira i piedi. Esistono metodi più puliti. Tale la «guillottina». Se ne afferma esperto: non è «scienza fisica» ma fantasia popolaresca che il decollato veda, oda, senta; se ripugna il sangue, basta raccoglierlo in recipienti fuori della vista pubblica; e invoca una riforma «con tutta l’energia de’ sensi» (cfr. U. Levra, L’altro volto di Torino risorgimentale, 1989, 205-41; a cura dello stesso, La scienza e la colpa, 1985, 141). Il nome viene da Joseph Ignace Guillotin, professore d’anatomia nella Facoltà medica parigina, deputato all’Assemblea costituente, autore d’una proposta il 10 ottobre 1789, approvata do- C RIVOLUZIONE Accanto, un’illustrazione che rappresenta Luigi XVI poco prima della morte durante la rivoluzione francese Nell’immagine grande l’esecuzione del re po sedici mesi, ma l’ordigno è antico: figura tale e quale nel frontespizio della Practica causarum criminalium d’Ippolito Marsili, capostipite dei cattedratici penalisti italiani a Bologna, Venetiis 1529 (iconografia riprodotta dalla sopracopertina della mia Procedura penale nelle nove edizioni sul vecchio codice): sabato 11 settembre 1599, davanti a Ponte Sant’Angelo, nel mortale scirocco pomeridiano, decapita Lucrezia e Beatrice Cenci; l’adoperano in Scozia sotto l’appellativo eufemistico «maiden» (ragazza). Particolare curioso: esistono ancora i fogli in cui l’ultimo re, futuro paziente, disegnava la macchina; era abile meccanico Luigi XVI. Appare nuova l’idea: chirurgia fulminea, soi-disanteindolore, la stessa rispetto a tutti, mentre l’ancien régime pratica una sontuosa varietà, secondo specie delittuosa e rango personale; il castigo va commisurato alla colpa, donde una contabilità del dolore; i nobili però hanno diritto al taglio della testa. In Place de Grève lunedì 20 marzo 1757, dura due ore lo squartamento a sei cavalli del mattoide innocuo Robert-François Damiens, lacchè disoccupato, previ attanagliamenti e ustioni: aveva punto Luigi XV; non che volesse ucciderlo, né l’arma era idonea, ma il corpo regale è santo. Casanova chiude gli occhi inorridito: guardava da una camera in affitto, presenti due dame in calore; spia, imbroglione, libertino, non condivide i loro gusti; molti bienséants covano istinti feroci. Tardivamente abolita la tortura istruttoria, 1780, restano i supplizi: nel 1785 tre ladri notturni finirebbero intrecciati alla ruota con le ossa rotte, se un Mémoire justificatif non sollevasse l’opinione pubblica; l’autore occulto è Jean-Baptiste Mercier Dupaty, magistrato dissidente dai confratelli (gli alti uffici sono patrimonio familiare). La ghigliottina inaugura una meccanica égalité patibolare. Non è differenza da poco. Forse era l’ultima quell’impiccagione nel rondò dei sospiri: forca (alias «vedova») e mannaia lavorano assidui nel mondo potente, ricco, istruito, industriale, dalla democrazia d’America agl’imperi europei; anno Domini 1889 l’Italia scalcagnata e ancora mezza analfabeta li precede quasi d’un secolo abolendo la pena capitale. Gesto glorioso d’una cultura senza fumi teologali. Quarantun anni dopo l’idea macabra riappare nel codice fascista. L’art. 27 Cost., c. 3, detta una norma d’esclusione. Ma l’anima collettiva contiene fango e muffe continuamente riprodotti. Ogni tanto voci rauche in guerra con l’alfabeto, negromanti, esteti misticoidi rimpiangono i vecchi riti, dal confortatorio al corteo e cerimonia culminante. Speriamo nell’anticorpo della scepsi, così malfamata tra i bisognosi d’una fede. 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 AGOSTO 2006 il reportage Sport e società I Nascar race, le corse per auto di serie “taroccate”, sono la moda del momento negli Stati Uniti: circuiti strapieni, milioni di spettatori tv, film-spazzatura che sbancano i botteghini Parteciparvi significa entrare in uno dei fenomeni politico-culturali più importanti ma trascurati da chi guarda gli Usa da lontano Così un inviato di “Repubblica” è sceso in pista per raccontarlo 342 km/h il record di velocità su un circuito Nascar 750 cavalli la potenza che un motore Nascar può raggiungere 945 litri 4,8 miliardi di $ la quantità minima di benzina per auto a gara il valore dei diritti televisivi nel periodo 2006-2014 A 260 all’ora dentro VITTORIO ZUCCONI «A DOVER (DELAWARE) Repubblica Nazionale 38 20/08/2006 re you nervous?», mi crepita nelle cuffie del casco la voce sarcastica del mio capo-meccanico. Nervoso io? Ma come ti permetti? Ma come osi pensare che un figlio della Bassa Modenese come me, con olio motore nelle arterie, cresciuto nei fossi di Maranello a spiare Enzo Ferrari far strage di galline, possa sentirsi nervoso al volante di questo catorcio per bovari americani, su una pista da autoscontro di provincia? Ok, gli faccio segno come ho visto fare nei film da Steve McQueen e da Paul Newman a Daytona, col pollice del guanto eretto e il sorriso strafottente alla James Dean. «Pronti?», s’informa la voce dello starter nelle cuffie, mentre il capo-meccanico mi stringe nelle cinture da pilota di jet sopra la tuta anti-incendio che mi allessa come un cotechino e l’estintore automatico. Pronto, pronto, vai, cammina. «Go!», grida la voce nel casco e la bandiera si abbassa. Vroaaaar, strepitano i quattrocentocinquanta cavalli sotto il fiberglass della carrozzeria, frizione, prima, stacca, le gomme slick mordono il cemento, il rettilineo finisce, la pista si impenna nella prima parabolica alta come il Muro di Berlino e il muretto verniciato di bianco e annerito dalle auto impastate contro mi corre addosso a duecento all’ora. E sono già cento metri dietro tutti gli altri. Visto? Non sono affatto nervoso, vile meccanico. Sono semplicemente una schiappa. Sorry, Enzo. Sono alla guida dell’America di Bush, dell’America dei buoni, dell’America ad alto contenuto di ottani patriottici. Per un compleanno, al traguardo di un’età nella quale si dovrebbe dar da mangiare ai piccioni ai giardinetti, mi È qui, in questi catini brulicanti di camper, bikers e famiglie attorno ai barbecue, che si cucinano e si fondono gli umori che diventano voti, bandiere, eserciti... BORN TO RUN Le foto di quattro piloti Nascar da sinistra Todd Bodine (Toyota), Kelly Sutton (Chevrolet), Jonnhy Benson (Toyota) e Rick Crawford (Ford) In basso, il circuito di Martinsville in Virginia avevano regalato una Nascar Experience, una giornata da pilota delle auto da corsa che hanno conquistato l’America di Dio, Patria e Cavalli. Nascar — l’acronimo di National Association for Stock Car Auto Racing, una formula verbosa che significa “corse fra automobili di serie” — perché così era cominciato tutto, settant’anni or sono. Un gruppo di matti, quasi tutti contrabbandieri di whiskey clandestino distillato nelle notti del sud, e infatti chiamato moonshine, chiaro di luna, avevano cominciato a gareggiare fra loro, e ad ammazzarsi, lungo le spiagge deserte della Florida, attorno a Daytona Beach. Portavano le loro Ford, Chevrolet, Cadillac, Studebaker, Oldsmobile, Pontiac di serie anabolizzate nei garage di famiglia per sfuggire agli inseguimenti degli esattori lungo le strade tortuose del Kentucky, del Tennessee, della Carolina. Era tutto deliziosamente illegale, stupendamente James Dean, e segretamente incoraggiato dalle case automobilistiche. «Chi vince alla domenica, vende al lunedì», spiegava la Ford, che infatti vedeva le proprie vendite schizzare dopo una vittoria del proprio marchio sulla spiaggia. Ma la bestia ringhiante che tento di controllare tra le mani sul chilometro e mezzo della superspeedway del Delaware, uno dei tre circuiti più veloci del Nord America grazie a quelle paraboliche ripidissime che ti risucchiano e ti sparano fuori come una fionda, ha perduto ogni parentela con le miti somare per famiglia vendute oggi a rate dai concessionari. A parte qualche vaga somiglianza nelle forme della carrozzeria di plastica, e i nomi fittizi dei modelli di se- rie, le macchine che partecipano al campionato sono auto da corsa vere, con motori fuori serie, niente altro che gabbie di ponteggi di acciaio avvitate a un volante, a una trasmissione e a un motore da settecentocinquanta cavalli. «Trust your car, trust your car», mi grida la voce del capo-meccanico dentro il casco, e io della macchina mi fiderei anche, ma temo che sia la macchina a non fidarsi di me. All’inizio del secondo rettilineo il branco dei nove avversari è già all’imbocco dell’altra curva parabolica. La mia bestia nera, con il numero 42 dipinto tra i nomi degli sponsor, freme e vibra innervosita dalla mia inettitudine e dalla mia incapacità di soddisfarla. In un sussulto di orgoglio, schizzando davanti ai famigliari che intravedo inquieti perché vado troppo adagio, e dunque ansiosi al pensiero che anche per questa volta non erediteranno un centesimo, schiaccio il pedale. La mia Chevrolet Lumina schizza verso il vertice della parabola e poi piomba giù verso la corda. Sto rimontando, sto rimontando, Enzo, guardami, il sangue Ferrari non è Lambrusco. I sederi dei miei avversari si avvicinano. Ma si avvicina anche the wall, il muretto, che sfioro all’apice della parabola. Sotto le mie gomme lisce e appiccicose come chewing gum, le tracce nere lasciate da altri idioti che hanno avuto troppa fiducia nella macchina puntano sparate verso il muro. Viaggio a duecentoventi all’ora, mi diranno poi i cronometristi ai box e intravedo appena uno dei commissari di corsa che dall’alto di una torre si sbraccia al mio passaggio, indicandomi con gesti imperiosi i box. Giro troppo alto sulla parabola e nella picchiata verso la corda DOMENICA 20 AGOSTO 2006 75 milioni i fan delle corse Nascar in tutto il mondo LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 25 milioni di $ la sponsorizzazione massima annuale di un team 260 mila 2 miliardi di $ i posti a sedere nel circuito più grande, a Indianapolis il valore annuale del merchandising l’America di Bush special forces con gli occhiali neri e certezze di essere il più grande e libero paese del mondo. Mentre l’Europa guarda Woody Allen, ascolta Chomsky, adora Oliver Stone e legge gli inutili e sussiegosi editoriali del New York Times o del Wall Street Journal, decine di milioni di americani vanno in questi giorni a vedere Talladega Nights, una farsaccia sulle gare Nascar che incassa centocinquanta milioni di dollari per week end; e i bambini impazziscono per l’ultimo film di animazione di Disney, Cars, automobili, protagonista di nuovo una macchina del Nascar chiamata naturalmente McQueen. Nessun altro sport genera altrettanta passione, scatena altrettanta fedeltà verso i protagonisti, che non si cambiano di maglietta e mutande come i saltimbanchi del football, del basket o del calcio, perché qui tutti corrono da soli, per la propria vittoria, per la propria pelle e gli sponsor lo sanno. Trasformano le loro auto in cartelloni pubblicitari per detersivi, dentifrici, carburanti, batterie auto, birra, gazzose, grandi magazzini, biancheria e soprattutto pillole per la virilità. Questo è uno sport per maschioni, anche se apparentemente afflitti da una certa difficoltà erettile, per americani da tre “B”, Bibbia, Bush e Birra. Le donne sono molte, ma sulle tribune, gli angeli dei pistoni, a curare i marmocchi o a indossare blue jeans attillati che sembrano dipinti sulle chiappe, per la gioia dei guerrieri. Questo è il regno dei Nascar daddies, i papà dei circuiti automobilistici che hanno ormai rimpiazzato le tremule, e troppo politically correct, Soccer moms, le mammine del calcio che votavano Clinton. All’America femminizzata che ha predi- Queste sono gare fatte su misura per un mondo macho Le donne stanno in tribuna, a badare ai figli o ad aspettare per il riposo dei “guerrieri” cato i buoni sentimenti e il maschio sensibile, risponde il ruggito degli stalloni del Nascar, del nuovo maschilismo a motore. Se dipingessero sui muretti un ritratto di Hillary Clinton, i piloti andrebbero volentieri a sbatterle contro. A me, alla mia “Chevy” nera che spingo fino a duecentosessanta chilometri all’ora nel rettilineo del traguardo senza guadagnare un millimetro sugli avversari lontani, è stata almeno risparmiata la sponsorizzazione di una pillola del tiramisù. Corro con i colori di una virile, ma dignitosa marca di lubrificanti, nel senso dei motori, la Valvoline. «Due giri, due giri», mi avverte la voce nelle cuffie, e sembra una liberazione. I pochi villici locali che si erano appollaiati sulle tribune nella sportiva, affettuosa speranza di vedere un imbranato come me inchiodarsi sul muro, se ne vanno delusi. In due giri, ormai al sicuro dalla vergogna del doppiaggio (almeno questo, Enzo) hanno capito che neppure io andrò a baciare il muro a duecento all’ora. Domani cominceranno le prove per una corsa vera e dobbiamo toglierci dai piedi. Le tribune si gonfieranno. Il grande spazio all’interno dell’ovale sarà gremito da camper, roulotte, bikers con le loro moto da Easy Rider, venuti per bere, per impasticcarsi, per arrostire bistecche e salsicce, per sentirsi «vicini alla nostre truppe in guerra» come dicono milioni di nastri gialli, perfettamente convinti che rosolare costate in mezzo al frastuono di migliaia di cavalli isterici sia difendere la patria, quanto quei poveri cristi in divisa che da tre anni saltano in aria a migliaia fra il Tigri e l’Eufrate. Tutti sono con i «nostri soldati», purché i soldati siano i figli degli altri. Cala la bandiera anche per me, misericordiosa. Arranco verso i box, dove il capo-meccanico ha almeno il buon gusto di non dirmi «bravo». Ha vinto una donna, l’unica pilotessa, che viene qui una volta al mese, paga i trecento dollari per la gara, e si vendica così dei maschi che deve sopportare negli altri ventinove giorni del mese. I meccanici che le mettono a punto la macchina sorteggiata per la guida la chiamano “the Blond Flash”, il lampo biondo. Penultimo, davanti a me, un dentista trippone di Philadelphia che il crew ha dovuto insaccare nella macchina come il ripieno di una salsiccia alla partenza, perché le Nascar non hanno portiere, e ora estraggono in quattro, tirandolo fuori cicciolo per cicciolo dal finestrino. Io riesco almeno a divincolarmi e a uscire da solo, con dignità, respingendo ogni aiuto. «Da dove ha detto che veniva?», mi chiede il pilota istruttore al quale restituisco il casco, i guanti, le scarpe, la tuta antincendio e i resti della mia boria ferrarista. Dalla Francia, gli rispondo, I was born in France, sono francese e non ho votato per Bush. Lui sorride e scuote il capo. Questi francesi, sinistra spazzatura d’Europa. FOTO GETTY IMAGES Repubblica Nazionale 39 20/08/2006 del rettilineo sento la bestia agitarsi. Le auto da corsa con le gomme slick sono leggerissime da pilotare e incollate al cemento, ma quando ti scappano non le riprendi più, se non sei Schumacher. Subirò l’ignominia della bandiera gialla, tutti rimessi in fila da muli alpini per colpa mia? Addirittura di quella nera, che significa espulsione? Il piede si alleggerisce sul gas. Scalo le marce. La bestia brontola ma il commissario si tranquillizza. Addio al gruppo. Sul cruscotto spoglio, senza tachimetro, soltanto con il contagiri, ci sono levette e pulsanti da vecchio Spitfire nella Battaglia d’Inghilterra, e qualcosa devono pur fare ma il capomeccanico mi aveva severamente intimato di non toccarli mai. La tentazione è forte (un compressore? un post-bruciatore come nei jet?) ma la paura di fare la fine di un James Bond con la pancetta ed essere schizzato fuori dal tetto o di scaricare raffiche di missili mi paralizza. Vivere la Nascar Experience non è soltanto fare una sauna di umiltà e scoprire quanto sia difficile giocare al pilota da corsa in questi circuiti identici, sempre ellittici, brevi e implacabili. Significa entrare in uno dei fenomeni sociali, commerciali, politici, dunque culturali, oggi più importanti e più trascurati da chi guarda l’America da lontano. È qui, in queste ciambellone di cemento dove le macchine ruotano sempre a sinistra, e sempre a branchi, sotto gli occhi di settantacinque milioni di persone davanti alle tv e dei centocinquantamila che brulicano sugli spalti, più che a San Siro, all’Olimpico e al Delle Alpi assieme, che si cucinano e si fondono gli umori che diventano voti, bandiere, marines, 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 AGOSTO 2006 i luoghi Merci leggendarie Bassi, radi e contorti spuntano dalla terra arida delle colline costiere del sultanato di Oman Bosco dell’ il Eppure questi alberi distillano una resina mitica che per millenni ha dato il suo profumo alla civiltà FOTO GREGOR SCHUSTER/ZEFA/CORBIS Incenso FABIO SCUTO U MUSCAT n soffio di brezza spira dall’Oceano Indiano portando l’aroma del mare sulla strada costiera che collega Mughsail a Salalah, l’antica capitale del sultanato dell’Oman; le alture che svettano a una ventina di chilometri dalla costa difendono dalla calura macchie di verde cresciute grazie ai monsoni; gli wadi hanno ancora qualche rivolo d’acqua che lentamente scorre verso il mare. L’infernale estate araba brucia tutto anche a ridosso della fascia costiera di Dhofar, ultima propaggine della penisola araba protesa verso Oriente, divisa dall’Asia da un braccio di mare che ancora oggi i dhow, le barche a vela latina che hanno scritto la storia dell’Oceano Indiano, attraversano portando i loro carichi verso i mercati indiani. Questa è l’unica parte della penisola toccata dal Khareef, il monsone stagionale che disseta con le sue piogge le montagne coprendole di vegetazione, rendendo fertili le pianure costiere. Poi la strada punta all’interno e attraversa alture verdeggianti dove la borghesia omanita viene a rinfrescarsi durante la stagione calda. Ma appena superata la zona dellecolline, attorno alla strada che da Salalah conduce verso Muscat, la vegetazione di colpo scompare e un sole impietoso sembra capace di ardere ogni cosa, la temperatura è già a quota 44 gradi. È un’area pre-desertica dominata dalle depressioni naturali degli wadi: il Rub Al Khali, il “Territorio Vuoto” dove solo i beduini riescono a sopravvivere muovendosi tra le oasi su piste millenarie che attraversano una terra estrema, ostile. È qui, alle porte del deserto di sabbia più vasto del mondo, che spuntano dal suolo alcuni alberi bassi, il legno torto come un arbusto mediterraneo e le foglie spesse e dure come il cuoio. Il boschetto è abbrancato su un lato del letto di un torrente in secca, siamo a 500-600 metri di altitudine ma l’aria è secca, bollente, respirare fa bruciare i polmoni: è come essere affacciati sull’orlo di un vulcano in attività. Il boschetto si vede bene dalla strada, gli alberi delle “lacrime degli dei” sono centinaia, copriranno sei-sette chilometri quadrati. Wadi-Doka è uno dei cento boschi dell’incenso del Dhofar. Il nome scientifico di questi alberi è “Boswellia sacra”, è fascinoso e pieno di mistero ma poco in linea col loro aspetto quasi sofferente. Difficile immaginare che da questo arbusto alto un paio di metri si estragga un Sull’orlo del deserto più grande del mondo i tronchi che sudano le “lacrime degli dei” si addensano attorno a un torrente in secca PROFUMO D’ORIENTE Sopra, bacchette di incenso da bruciare e un albero di incenso fiorito Nella foto grande, la raccolta della resina profumo mitico, quella resina più preziosa dell’oro che molti millenni fa cominciò a scorrere dall’Arabia Felix in fiumi di fragranza, imbevendo di sé intere civiltà, che crebbero, prosperarono e morirono lasciandosi alle spalle una scia di lingue, leggi e religioni diverse ma unite da un aroma: l’incenso. Solo in tre aree della Terra c’è un habitat adatto a questi alberi. La “Boswellia carteri” e la “Boswellia serrata”, crescono in Somalia (l’antica terra di Punt) e nell’India orientale, ma il migliore incenso del mondo è sempre stato quello prodotto dagli alberi che crescono in Oman (e Yemen) nella regione di Dhofar, gli unici a meritare il nome di “Boswellia sacra”. Dalle città costiere dell’Oman, animate da mercanti giunti da ogni parte del mondo, partivano navi ricolme di spezie rare e avorio africano, bastimenti carichi di schiavi vi facevano scalo. Ma il commercio più florido era garantito dai vascelli che salpavano con le stive colme di incenso. Il sultanato — che oggi deve la prosperità al milione di barili di petrolio estratto ogni giorno dai suoi pozzi — è stato potenza regionale per mare e per terra grazie alle ricchezze accumulate con la produzione e il commercio dell’incenso. Il suo dominio si estendeva dalla costa africana di Malindi e Zanzibar fino al Belucistan. Grazie alla sua posizione strategica era lo snodo essenziale dei commerci fra l’Africa orientale e l’India occidentale. Il commercio degli ambitissimi balsami era monopolio dei regni dell’Arabia meridionale, che ne ricavano ricchezza, fama e potere e dunque la coltura e la produzione di queste sostanze erano un segreto di stato accuratamente custodito. Questi regni fiorirono per secoli ed erano già antichi e potenti ai tempi degli storici greci Strabone (che coniò per questa regione il termine Arabia Felix), Teofrasto ed Erodoto, che descrissero i paesi di Mina, Qtaban, Hadhramawt e naturalmente il potentissimo reame di Saba, che comprendeva l’Oman dove la leggendaria regina aveva i suoi palazzi nel Dhofar. Il regno Sabeo per mille anni dominò la produzione e il commercio dell’incenso, i suoi porti videro il grande traffico sulle rotte della Via delle Spezie, le sue ricchezze divennero leggenda. Tutte le civiltà antiche, dall’Asia al Mediterraneo, facevano un enorme consumo di aromi e soprattutto di incenso per usi medicinali, funebri e cerimoniali con una richiesta crescente che aveva fatto raggiungere prezzi elevatissimi in tutti i mercati. Dal Secondo millennio avanti Cristo, quando le popolazioni arabiche addomesticarono il cammello, si aprì la Via dell’Incenso che partiva dai luoghi di produzione tra il Dhofar e l’Hadhramawt, attraversava lo Yemen e, di oasi in oasi, l’Arabia fino alla Giordania e alla Siria, dove poi le carovane venivano smistate verso i mercati dell’Egitto, della Mesopotamia e delle civiltà che si sono susseguite nel Mediterraneo fino a Roma imperiale. La Via dell’Incenso si snodava lungo una rotta di quasi tremila chilometri che tagliava in due la penisola arabica, le carovane superavano deserti e altipiani, antichi posti di guardia e città di cui ormai si sono persi il nome e la memoria, sfidando temperature insopportabili LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 Repubblica Nazionale 41 20/08/2006 FOTO GAMMA DOMENICA 20 AGOSTO 2006 e gli assalti dei predoni, per far arrivare “le lacrime degli dei” sulle coste del Mediterraneo dopo un viaggio di oltre due mesi. Dell’antica Via dell’Incenso oggi non c’è più una traccia evidente, la si indovina dalle gole di passaggio, dai valichi fra l’arenaria, dai pozzi d’acqua, dai mucchi di pietre tombe di viaggiatori ignoti. Ma come in altri luoghi del deserto è rimasto nell’aria un senso indefinibile di passaggi lontani nel tempo, di uomini che hanno lasciato come fragili tracce frecce di pietra, scalpelli, manici d’accetta che sulla pista il vento scopre e ricopre con la sabbia, come l’onda che va e viene sulla battigia. Per mare i bastimenti dei mercanti egiziani, che giudicavano più sicuro far viaggiare l’incenso in barca, costeggiavano lo Yemen per risalire il Mar Rosso verso i mercati di casa. L’altro percorso attraverso il mare risaliva l’Oman per l’antico porto di Dhofar, dove la preziosa essenza veniva imbarcata e proseguiva sulle rotte marittime della Via delle Spezie per l’Asia Orientale. Più a nord la carovaniera raggiungeva Muscat e i dhow, le veloci imbarcazioni arabe, attraversavano le acque del Golfo dirette verso i mercati persiani. E poi ancora oltre, verso l’India occidentale, la Cina. I tre Re magi che nella tradizione cristiana portarono a Betlemme oro, incenso e mirra in segno di omaggio per la nascita di Gesù venivano proprio dall’Arabia Felix. L’incenso ha accompagnato per secoli i riti della venerazione e della sepoltura, i culti magici e le cerimonie di stato di egizi, babilonesi, persiani, greci e romani. Nel Primo secolo dopo Cristo, all’apice del commercio, ogni anno tremila tonnellate di incenso lasciavano l’Arabia meridionale. Il centro del traffico era Sumhuram, che i Greci chiamavano Moscha e che oggi è conosciuta come Khor Rouri, dove è presente una importante missione archeologica italiana dell’università di Pisa. Nel corso dei millenni l’incenso è stato offerta, imposta, medicina, bottino di guerra, diritto di vassallaggio, espressione di adorazione per gli dei. Inizialmente le occasioni in cui venivano bruciate le resine profumate erano esclusivamente religiose o cerimoniali. Per primo Ramsete Terzo d’Egitto ne permise l’uso in circostanze profane, ma si trattava di un lusso che solo i più ricchi potevano permettersi. Quando fece visita a re Salomone, la leggendaria regina di Saba gli offrì sei tonnellate d’oro, d’incenso e di pietre preziose. L’incenso era anche la nuvola che accompagnava i morti nel loro estremo viaggio. Nerone bruciò, nei funerali di Agrippina, tutto quello che l’Arabia esportava in un anno, mandando in fumo milioni di sesterzi. Era talmente caro che Plinio il Vecchio scriveva che «qualsiasi vigilanza è insufficiente» per proteggere i magazzini di Alessandria, e descrive come, alla fine della loro giornata di lavoro, gli operai venissero denudati e ispezionati per essere sicuri che non si portassero via un solo grano di incenso. Ancora oggi dopo millenni, come in un rituale, la resina dell’incenso si raccoglie a partire da aprile praticando qualche incisione nella corteccia dell’albero. Apparentemente questi alberi non hanno L’antica via dei commerci col Mediterraneo Le carovane delle spezie sulle piste d’Arabia e grandi carovane che percorrevano la Via dell’Incenso si formavano in autunno. Migliaia di cammelli venivano caricati con le merci stoccate nei magazzini dei porti del sud dell’Arabia o nei villaggi fra i boschi d’incenso. Gli imballaggi erano contenitori di fibre di palma intrecciate o robuste ghirbe di cuoio. Cammello e dromedario avevano un’autonomia di quindici giorni senza acqua né cibo. Le femmine, nella buona stagione, erano in grado di dare una decina di litri di latte al giorno di grandi qualità nutritive. Il carico medio del cammello era di cento chili, bilanciati in due some da cinquanta. Altri cammelli erano adibiti al trasporto di riserve alimentari, carne secca, uva passa e datteri pressati. Il rifornimento idrico era assicurato dagli otri di pelle di capra e dai pozzi scaglionati lungo le piste. Le carovane delle spezie che partivano dal sud dell’Arabia impiegavano oltre due mesi a percorrere circa tremila km lungo piste nel deserto appena visibili fino a Petra, in Giordania, dove i carichi venivano venduti e trasferiti poi verso i mercati mediterranei. La carovana percorreva in media una quarantina di chilometri al giorno, ma i tempi potevano variare in base a condizioni della pista, incidenti, attacchi di bande di razziatori nomadi. Ma le carovane erano sempre scortate da compagnie di meharisti per la loro protezione. Il pedaggio nelle città carovaniere era salato, corrispondeva al 25 per cento del valore della merce trasportata e faceva lievitare in maniera abnorme i prezzi. Le carovane partivano a scaglioni, a distanza di qualche giorno l’una dall’altra, per permettere alle acque dei pozzi lungo le piste di ritornare a livello. L proprietari ma qui tutti sanno chi può raccogliere la resina da ognuno: sono diverse famiglie, i cui diritti vengono trasmessi di generazione in generazione. Dapprima dal tronco esce un liquido bianco che si secca subito. Una settimana più tardi nello stesso punto viene fatta un’altra incisione, e questa volta l’albero comincia a lacrimare resina, ma di qualità scadente. Solo dopo la terza incisione, la “Boswellia sacra” offre l’incenso più puro. In autunno si raccoglie il prodotto trasudato dalle incisioni praticate in estate: è l’incenso bianco, più puro e più pregiato. Un secondo raccolto si fa in primavera sulle incisioni fatte in inverno, ma l’incenso ha un colore rossastro e non vale quanto il precedente. L’incenso degli alberi più vecchi è più profumato. La Boswellia vive molto a lungo, e può raggiungere i tre metri di altezza, ma bisogna aspettare circa otto-dieci anni prima di poter cominciare a sfruttare una pianta, ognuna delle quali può produrre in un anno fino a dieci chili di resina. Prima di arrivare sui mercati l’incenso viene diviso per qualità nei tipi: Hujari, Najdi, Shasry e Sha’abi. L’incenso bianco e blu Hujari è il più prezioso e viene prodotto solo nel Dhofar, che ne commercializza ogni anno dalle seimila alle settemila tonnellate. Nelle botteghe del bazar dei profumi di Salalah, davanti alle magnifiche spiagge bianche dell’Oceano Indiano, i grani d’incenso oggi vengono venduti ai pochi turisti in bustine di plastica al prezzo di un rial (due euro) al sacchetto per la qualità più scarsa. Difficile per i moderni viaggiatori che li comprano come souvenir immaginare che un tempo queste “lacrime degli dei” avevano il potere di mobilitare eserciti, scatenare guerre e far crollare regni millenari. Ma sono proprio loro, i turisti, la scommessa dell’Oman. Il petrolio che si estrae dai pozzi omaniti, che finora ha garantito una rendita interessante ma non sfacciata e opulenta come quella di Dubai o di Abu Dhabi, non è eterno. E il sultano Qabus — l’uomo che fatto uscire in trent’anni l’Oman da un medioevo dove non esistevano le scuole ed erano vietati radio, tv e occhiali da sole — vuole aprire il Paese al turismo, farne la terza risorsa economica del Paese. Il petrolio e la pesca non sono in grado di offrire la piena occupazione ai tre milioni di omaniti, mentre il turismo — spiega la ministra Rajima Al Lawati nel suo studio affacciato sulla splendida baia di Muscat — «è in grado di dare lavoro ai giovani che escono dalle nostre università, crea altre attività collaterali che assorbono personale. Nel passato l’incenso ci ha reso ricchi, nel presente il petrolio ci rende benestanti. Ma il nostro futuro è nel turismo». La regina di Saba lo portò in dono al re Salomone E Nerone circondò i funerali d’Agrippina di nuvole aromatiche 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 AGOSTO 2006 Gli italiani degli anni Trenta impazzivano per l’introvabile figurina, ispirata a una fortunata serie radiofonica. Adesso la Cineteca di Milano ha riscoperto l’omonima pellicola del 1936 di Mario Bonnard, che fa del truce guerriero un antesignano dei Pokémon Feroce il Saladino Un eroe multimediale EDMONDO BERSELLI una figura favolosa, possiede un alone quasi mitologico: apparsa più di settant’anni fa, l’immagine leggendaria del Feroce Saladino si è fissata nel lessico collettivo. Oggi, in tempi di multiculturalismo, non è più politicamente corretta, ma appartiene comunque al novero delle citazioni quotidiane: fu addirittura recuperata, con un piccola variazione fonetica, il «Feroce Salatino», quando George Bush jr rischiò di strangolarsi davanti alla tivù con la sua dose di junk food rimastagli di traverso in gola: segno che in Italia permane l’eco immaginaria di quel nome. E si capisce: la mania del Feroce Saladino esplode in un’Italia che ha conosciuto la potenza pubblicitaria e mediatica del fascismo, con la figura di Benito Mussolini proiettata in ogni angolo dell’immaginario italiano, dalla retorica scolastica agli exploit testimoniati dai film Luce: ma in cui i generi spettacolari sono codificati piuttosto rigidamente, e separati da confini non facilmente valicabili. Il cinema è il cinema, il teatro di rivista è una specializzazione a sé. La letteratura si è dilatata a show in seguito al dannunzianesimo, concentrazione di arditismo militare e avventurismo estetizzante, fenomeno di gusto mimato poi in chiave popolare dalle dolicocefale bionde di Pitigrilli e dal decadentismo provinciale di Guido Da Verona. Ma nell’epoca fascista, pur fra le esaltazioni nazionalistiche e la retorica sugli antichi romani, la società era ancora un terreno vergine. Per innescare il cortocircuito fra i media e il pubblico ci voleva l’esplosione di un fenomeno di massa che coinvolgesse tutti i mezzi di informazione e nello stesso tempo i canali di consumo. Questo fenomeno fu per l’appunto il Feroce Saladino. Lo strumento casuale per fare entrare l’Italia nell’era dell’industria culturale di massa. Occorre immaginare un paese ancora arretrato, con le sue strade bianche, con un’economia fortemente strutturata dal lavoro agricolo; ma in cui cominciava ad agire la modernizzazione autoritaria del mussolinismo, con le grandi opere, le bonifiche, i primi istituti di welfare in risposta alle esigenze di un assetto sociale che sperimentava mutamenti profondi e tensioni inedite. In questa società, era la radio a rappresentare il principio di modernità, una connessione costante con il fluire del mondo, l’attualità, la cronaca, gli eventi politici. E la radio, cioè l’Eiar, poteva significare le cronache sportive del giovane Niccolò Carosio, anche se il fascismo fino alla vittoria nella Coppa Rimet del 1934 non aveva puntato molto sul “football”; la musica, con le canzoni sentimentali dell’epoca; e implicava anche la «nazionalizzazione» del paese, per usare il lessico dello storico George L. Mosse, attraverso la voce totalitaria del regime ma anche at- Repubblica Nazionale 42 20/08/2006 FOTO FONDAZIONE CINETECA ITALIANA È DALLA CARTA ALLA CELLULOIDE Un fotogramma del “Feroce Saladino” di Mario Bonnard Nel resto della pagina alcune figurine della celebre raccolta traverso la lingua degli annunciatori e degli “artisti”. Forse il Feroce Saladino rappresenta quello scarto rispetto alla norma, l’invenzione eccentrica che talvolta mette in accelerazione la storia. Tutto nasce con la trasmissione radiofonica Le avventure dei quattro moschettieri, una rivista umoristica, parodia di Dumas e del romanzo rosa, ideata da Angelo Nizza e Riccardo Morbelli. Nizza aveva 29 anni, Morbelli 27: erano cresciuti nella Torino colta di Norberto Bobbio e Cesare Pavese, di Leone Ginzburg e Giulio Argan, compagni di scuola e di ludi goliardici. Il programma prese il via il 18 ottobre 1934, sotto la guida di un regista di operette, Riccardo Massucci, e andò in onda dalla sede Eiar di Torino ogni giovedì fino al 4 luglio 1935. Ma il successo dilagante indusse ben presto a una ripresa, con il titolo I moschettieri, che durò per ventitré domeniche, dalla fine di ottobre 1936 alla fine di marzo 1937. È un programma di cui esistono poche tracce, se non mnemoniche, anche se sull’onda del successo popolare fu realizzata anche una serie di prodotti discografici: dalla labilità delle testimonianze orali e dai reperti collezionistici affiora il ricordo di Nunzio Filogamo, l’Aramis del programma, spadaccino dandy con la erre blesa, e prima studente alla Sorbona, laureato in giurisprudenza a Torino, un protagonista della radiofonia che sarebbe giunto a qualche presenza anche nell’età della televisione (successe anche, durante la prima serata di un non troppo lontano Festival di Sanremo, che Pippo Baudo lo desse per morto, suscitando l’immediata protesta, dalla quieta casa di riposo a Rodello d’Alba, dove si trovava da tempo, del vispissimo ultranovantenne). Personaggio laterale di quel teatro di rivista radiofonico, il Saladino non avrebbe avuto chance di assurgere all’empireo dei piccoli miti novecenteschi se l’impressionante successo delle Avventure dei quattro moschettieri non avesse dato luogo a una trovata da “ambient marketing” — o di marketing virale, primordiale e rudimentale fin che si vuole ma evidentemente efficace — della Perugina (a cui si integrò la Buitoni in coincidenza con la seconda serie del programma) che aveva deciso di «offrire al pubblico», cioè di sponsorizzare, il programma. L’azienda infatti lanciò un concorso a premi, basato sulla raccolta delle figurine della trasmissione, con apposito album. Il disegno delle illustrazioni fu affidato alla penna di Angelo Bioletto (un illustratore raffinato che qualche anno dopo sarebbe passato al fumetto, con una versione del Don Chisciotte per L’Audace, e al cinema di animazione, collaborando a La rosa di Bagdad). Ma in quegli anni Trenta gli aspetti artistici restavano sullo sfondo: anche il volume con i testi di Nizza e Morbelli e i disegni di Bioletto, pubblicato nel 1936, rappresentò più che altro un complemento alla Saladinomania. Invece, completare un album e spedirlo alla Buitoni-Perugina significava l’opportunità pratica di ricevere in regalo confezioni di pasta, stecche di cioccolata e di torrone. C’erano anche premi che si proiettavano oltre i sogni dell’italiano medio di allora, flagellato dalla perdita di potere d’acquisto degli stipendi: chi fosse riuscito a spedire centocinquanta album completi, avrebbe ricevuto in premio una “Fiat 500 Topolino”. Furono in duecento a riuscirci, sconfiggendo l’irreperibilità del Saladino. Perché va da sé che c’erano figurine e figurine. Quelle facili da trovare e quelle quasi impossibili. Il Feroce Saladino divenne l’emblema, l’araba fenice dei collezionisti, «che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa». In sostanza, il Feroce Saladino era DOMENICA 20 AGOSTO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 Il restauro prodigio di un film dimenticato ILLUSTRAZIONI MUSEO STORICO PERUGINA OLTRE che nella realtà, la figurina del Feroce Saladino fu ricercatissima anche nella finzione. Tanto ricercata che nel film girato da Mario Bonnard nel 1936, è l’elemento con cui un artista di varietà, ormai decaduto, riacciuffa il successo. Ridottosi a smerciare cioccolatini in un teatro, vende in un unico spettacolo numerosi dolcetti contenenti l’ambita figurina. La confusione che per questo si scatena in sala suggerisce all’impresario del teatro di mettere in scena una rivista musicale. Al vecchio artista viene così affidata la parte del Feroce Saladino. Se ad Alberto Sordi toccò quella del leone, un’esordiente Alida Valli interpretò invece la bella Sulamita. Passata la “saladino-mania”, il film è caduto nell’oblio fino a diventare una rarità: in Italia ne esiste un’unica copia. Grazie alla fondazione Cineteca italiana di Milano, alla Biennale di Venezia, alla Provincia di Milano, al Museo nazionale del cinema di Torino, al ministero per i Beni culturali e alla Jeager LeCoultre, quell’unica copia è stata restaurata. E sarà presentata il primo di settembre a Venezia nell’ambito della 63esima Mostra del cinema. passato dal sonoro al cartaceo, dall’etere alla fisicità: e subito dopo, a causa della sua rarità, si era proiettato nella sfera dei desideri, delle aspettative continuamente frustrate e quindi di nuovo ravvivate dalla speranza di possedere l’immagine del Turco, o della seconda figurina nella gerarchia dell’introvabilità, cioè la Bella Sulamita e il Cagnolino pechinese. Profumi di esotico, perfino effluvi leggeri di castissimo erotismo orientale si univano all’immagine casalinga dell’azienda sponsorizzatrice. Il film di Mario Bonnard, che adesso è stato riportato a nuova vita dalla Cineteca di Milano e dal Museo nazionale del cinema di Torino, è un documento d’epoca che permette di identificare il successo di massa dell’“operazione Saladino”, e l’articolarsi multimediale di una strategia industriale. Di certo oggi il Feroce Saladino può apparire, in modo plausibile, un precursore di tutte le mode che hanno invaso la cultura del nostro tempo sfruttando l’intera catena del sistema dei consumi: un antenato dei Pokémon, o del merchandising sui dinosauri di Jurassic Park. E come sempre un bene apparentemente immateriale, un’immagine disegnata, e anche una metafora del possesso, produsse una specie di economia materiale, un’area semi-formalizzata in cui la mania collettiva orientata al possesso delle figurine e al conseguimento di quella più preziosa diventava braudeliano gioco dello scambio. A Roma, in via dell’Umiltà, venne aperta una bottega chiamata “La borsa delle figurine”, dove si potevano acquistare le figurine quotate. Intervenne allora il regime, che mise fine a quel primo ibrido fra economia virtuale e reale, forse perché ogni governo illiberale nutre un oscuro timore per lo spontaneismo del mercato. L’Italietta dei gerarchi rifiutava infatti la contaminazione con l’industria culturale, con la modernità americana (“barbara” secondo la cultura di Strapaese), e dunque con i meccanismi della civiltà di massa, indifferente ai valori dell’eroismo fascista. Dietro i fasti dell’impero, persisteva un clima culturalmente regressivo, con la pubblicità, espressione del moderno per eccellenza, sottoposta ai dettami del purismo linguistico; il codice autarchico proiettava inibizioni e tabù sul consumismo, mentre l’ideologia fascista dell’uomo integro, sobrio, disposto al sacrificio, rendeva sfasata con il potere anche quella prima esperienza di identificazione fra merce e immagine, fra il prodotto e il suo riverbero nella mentalità collettiva. Frutto di un connubio poco casto tra radiofonia, arte, cultura, teatro, cinema, industria, il Saladino doveva morire. Il 17 ottobre del 1937, un decreto del ministero delle Finanze decretò la soppressione dei concorsi basati sulle figurine inserite nelle confezioni dei prodotti: la piccola modernità inaugurata dai Moschettieri di Nizza e Morbelli, dal talento di Bioletto, e dall’istinto commerciale di una grande società italiana, poteva aspettare. 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 AGOSTO 2006 la lettura Fu il più grande antiquario del Novecento Personaggi celebri Accumulò una fortuna smerciando quadri e statue ai magnati americani Una biografia oggi ripubblicata rivela strategie, trucchi e tecniche teatrali per far abboccare i suoi ricchissimi clienti Duveen, l’arte di vendere l’arte STEFANO MALATESTA i sono testi che senza troppo parere hanno creato un genere letterario, rivelatosi nello stesso tempo un’impareggiabile chiave di lettura del mondo reale. La biografia di Joseph Duveen, il più grande mercante d’arte del suo tempo, poi lord Duveen di Millbank, scritta da S. N. Behrman e pubblicata a puntate sul New Yorker tra il 1951 e il 1952 con le illustrazioni di un puro genio, Saul Steinberg, è uno di questi. Naturalmente anche all’epoca, cinquant’anni fa, tutti sapevano che i mercanti di quadri antichi, veri e falsi, tra l’Europa e gli Stati Uniti non facevano parte della Fatebenefratelli. E che molte opere d’arte valevano non solo per le bellezze formali e di composizione, o per una misteriosa emissione di fascinazione taumaturgica che faceva star bene chi li rimirava, ma per essere anche delle commodities, legate ad un sostanziale margine di profitto, che andava calcolato quando i quadri e il resto cambiavano mano e proprietà. Per il resto mancavano informazioni in modo così clamoroso, come una congiura del silenzio, per cui molti sapevano e nessuno parlava, come se il frusciare delle banconote, così gradito quando si trattava di incassare alla svelta, fosse considerato un rumore intollerabile per la morale di chi si occupava del sublime dell’arte. Chi ha interpretato questa impostura meglio di chiunque altro, raggiungendo livelli che si perdono nell’empireo, è stato Bernard Berenson, il sapiente dei Tatti, l’autore dei “Four Gospels”, dei quattro vangeli, come venivano chiamati i suoi libri fondamentali, con cui aveva stabilito una volta per tutte i canoni di autenticazione per la pittura italiana del Rinascimento. E consulente, diciamo così, di Duveen. Nello stesso tempo in cui realizzava il suo sogno estatico, circondato dai panorami più meravigliosi del mondo in un clima di febbrile ardore che lo esaltava e lo faceva sentire moralmente puro, sempre alla ricerca dell’arte per l’arte, la sera Berenson scendeva dal suo scranno sistemato poco sotto quello di Dio padre onnipotente per firmare più in basso tutte le expertise dei quadri, quasi tutti veri ma anche qualche falso, che Duveen, più datore di lavoro che socio in affari, stava vendendo ai magnati americani. L’aspetto straordinario di questa come di altre vicende consimili, è che di questi affari non è mai trapelato nulla per un tempo vergognosamente lungo. Nelle centinaia di articoli, memoriette, cronache che tutti gli innumerevoli visitatori dei Tatti, la residenza di B.B. sulle colline di Fiesole, hanno scritto di questa loro fondamentale esperienza, mai una volta qualcuno si è azzardato ad accennare di compensi, o percentuali, per non parlare della parola che stava ad indicare il senso di tutta la vicenda: quattrini. La biografia di Duveen ripubblicata in Italia qualche tempo fa da Enzo Sellerio (S. N. Behrman, Duveen. Il re degli antiquari, 239 pagine, 14 euro) è stata la prima, più vivace, e in certi momenti più esilarante ricostruzione di quel mondo che girava intorno al traffico delle quadrerie classiche. Naturalmente c’erano già state inchieste nei grandi giornali americani e inglesi in cui si raccontavano fatti e misfatti di un mercato molto particolare e riservato. Ma gli articoli rimanevano isolati come pezzi di un puzzle incompiuto e chi aveva tentato di forzare la porta d’ingresso posteriore per raggiungere i camerini veniva additato come un traditore. Tutto refluiva davanti alla facciata posticcia dove ai lettori venivano distribuite notizie che si bevevano come l’acqua fresca, non facevano male e non contenevano nulla che non fosse previsto. Le puntate di Behrman non erano in apparenza -DEUTS CH COLL ECTION /CORBIS FOTO H ULTON Repubblica Nazionale 44 20/08/2006 C ATTRICI E MILIONARI Dall’alto: Joseph Duveen nel 1910; Marion Davies, l’attrice che non subì il suo fascino e due esponenti della famiglia Rockefeller a inizio secolo minacciose, tutt’altro, e non promettevano rivelazioni sbalorditive. L’autore, noto commediografo, sapeva maneggiare come pochi l’arte del contrappunto e aveva improntato il libro a un tono leggiadro e spiritoso, facendo il verso alla sophisticated comedy degli anni Trenta. Al centro di ogni vicenda c’era sempre lui, Joseph Duveen, visto da giovane e da anziano, nell’intimità o in polpe nelle manifestazioni pubbliche. Era morto da oltre quindici anni e gli inglesi continuavano a trattarlo con la massima deferenza: non era forse stato nominato baronetto con titolo trasmissibile ai figli? E a suo nome non erano state intitolate una strada a lato della Tate Gallery e al British Museum forse la sala più famosa dell’immenso edificio, quella che ospitava i cavalieri greci scolpiti in bassorilievo da Fidia? Behrman ammetteva senza sforzi che Duveen era un uomo straordinariamente pieno di talenti, senza specificare quali. Poi iniziava a raccontare: una volta a New York, dove viveva in un appartamento attrezzato a galleria, una sua amica del gran mondo gli aveva telefonato convincendolo a ricevere un californiano avventuroso, la cui ricchezza spropositata era in stretto rapporto con la velocità con cui era stata ammassata. In quegli anni il mercante aveva perfettamente messo a punto la sua strategia generale, che consisteva nel dividere i clienti in pesci grossi e pesci piccoli — i secondi più rognosi dei primi — e allettare e poi ri- fiutare di vendere a tutt’e due le categorie, per un tempo anche lungo, qualsiasi cosa uno gli potesse chiedere. E più rifiutava, più veniva incalzato dagli old rogues, i vecchi furfanti come venivano affettuosamente chiamati Pierpont Morgan, Rockefeller, Kress o anche Mellon, autorevole membro del governo degli Stati Uniti e grande collezionista. Perché Duveen non vendeva solo quadri ma qualcosa di molto più interessante: l’immortalità, che costoro cercavano di acquistare proprio con le collezioni che egli andava proponendo. Quando si era messo in commercio, sulle orme del padre, i magnati americani come Morgan, che si faceva fotografare nel suo studio mentre maneggiava il coltello a due lame del West, avevano già comprato il comprabile, mentre le loro ricchezze salivano di mese in mese a livelli mai registrati nelle cronache del genere umano. Ora cercavano di rivaleggiare con le vecchie famiglie, quelle sbarcate con il Mayflower, nei ricevimenti, nell’architettura e nell’addobbo delle magioni, e soprattutto nelle collezioni d’arte. Qualcuno aveva detto loro che i veri signori si distinguevano dal fatto che avessero moltissime opere d’arte in casa ed era patetico vedere come questi vecchi leoni, temutissimi nel loro campo e con una impareggiabile esperienza di mondo, gente durissima che era riuscita a sopravvivere nella giungla darwiniana dell’industria e Divideva i potenziali compratori in pesci grossi e pesci piccoli. Poi rifiutava le offerte di entrambi i gruppi. E il prezzo saliva DOMENICA 20 AGOSTO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 “NEW YORKER” Un disegno di Saul Steinberg, il celebre artista che illustrò le puntate della biografia di Duveen scritta da S. N. Behrman quando uscirono sul “New Yorker” nel 1951-52 La biografia è pubblicata in edizione italiana da Sellerio Repubblica Nazionale 45 20/08/2006 della finanza Usa, si facessero infinocchiare con due battute da quel finto gentiluomo. Duveen attribuiva tutto il merito dei suoi successi alla simpatia, al fascino e ad un fortissimo intuito psicologico. E non c’era alcun dubbio che incantasse come il pifferaio di Hamelin. Ma un aiuto gigantesco lo riceveva dall’immenso schedario che aveva messo su, dove erano stivate tutte le informazioni riguardanti i suoi clienti, dalle abitudini sessuali al conto in banca, alle verruche che avevano sulla schiena. Per riprendere la storia del californiano, il pesce piccolo fu finalmente ammesso nel sancta santorum di Duveen, dove erano appesi decine e decine di quadri provenienti dall’Europa. E più marciavano per i corridoi, più il pesce piccolo sembrava impressionato, fino a quando, in un momento di sosta, alzò il braccio per indicare un Rembrandt che costava centomila dollari. Alla richiesta del quadro Duveen rispose inarcando a sua volta un sopracciglio, come faceva spesso quando le cose non marciavano bene, e chiese con tono brusco: «Quanti quadri possiede a casa sua?». Il californiano ammise che aveva numerosi dipinti, ma nessuno di grande importanza. «Allora non posso assolutamente venderle un Rembrandt, si sentirebbe troppo solo». Tuttavia fu concesso al poveretto di acquistare un pittore che costava molto meno. Negli anni il pesce piccolo continuò sempre ad andare da Duveen, fino a quando non accumulò così tante opere da sentirsi in grado di chiedere il Rembrandt per portarselo a casa. Ma a quel punto non aveva speso centomila dollari, ne aveva spesi un milione. La tattica usata per un altro pesce piccolo, completamente diversa dalla precedente, avrebbe meritato a Duveen la cittadinanza onoraria di una di quelle città del Levante, Alessandria d’Egitto o Salonicco, dove la fantasia creatrice dei mercanti assurgeva a capolavori d’invenzione. Prima di incontrare un certo Thomson, proprietario di una immensa catena di ristoranti, ricchissimo, si era informato così bene sulla ristorazione e sui suoi problemi che quando i due si misero a parlare sembrava che Duveen ne sapesse molto più del suo interlocutore. Per un’ora andò avanti così. «Guardi», lo interruppe Thomson, che non ne poteva proprio più, «io qui sono venuto per parlare di quadri e non di ristorazione». E Duveen: «Ah, me sciagurato, i quadri. Li ho quasi dimenticati». E per tutta la cena continuò a dimenticarli, fino a quando di colpo se ne uscì con questa secca frase: «A proposito dei quadri, non ritengo che siano nelle sue possibilità, tanto dal punto di vista estetico che da quello finanziario». Thomson lo interruppe: «Quanto contante vuole per questa roba?». E Duveen: «Un milione di dollari». «Li prendo», replicò l’altro. E si sentì nell’aria qualcuno che diceva: «Bingo». I magnati costituivano una grande famiglia di cui Duveen era il “consigliori” amato e temuto per le cose d’arte. Non tutti i ricchissimi potevano entrare in questo giro ristretto: Hearst, il famoso tycoon della stampa, non ne faceva parte, declassato da collezionista ad accumulatore, perché troppo dispersivo, eclettico e volgare nelle sue scelte — dal castello finto ai lama che pascolavano nel giardino di Saint Simeon — e veniva considerato un pesce piccolo. Con le loro arie da superuomini e da gente abituata allo scontro anche fisico i magnati, quelli che alla fine della loro vita avevano speso decine di milioni di dollari in capolavori, ma anche in opere molto discutibili, erano tosti solo in apparenza. La loro libido per dipinti e statue era pari alla loro intolleranza verso qualsiasi rivale. Una situazione che li rendeva clienti ideali per Duveen, il quale riusciva a portarli ai suoi prezzi, e mai che succedesse il contrario. Qualche problema si poneva per il genere di pittura da essi preferita: prediligevano sempre la carne fresca delle schiave, come soggetto su cui meditare, piuttosto che le madonne e i santi che Duveen continuava a proporre su consiglio di B.B. Ostacoli che, quando voleva, il lord inglese faceva dissolvere con un gesto ampio della mano, come un prestigiatore. Una delle poche persone che non subirono il fascino di Duveen fu una ragazza americana, diva del muto, sposatasi poi con Hearst: Marion Davis. Avendo lavorato a Hollywood, aveva una certa esperienza di maschere e di travestimenti e non c’era cascata, definendolo «un commesso viaggiatore in tight». C’erano altri della stessa opinione. Ma il mercante era così abile nei trucchi e mandava così tanti mazzi di rose alle donne dei clienti — figlie, madri, mogli — che i magnati preferivano andare da lui, perché era sempre il più bravo anche nel truffarli. E soprattutto, naturalmente, perché ogni opera era stata sottoscritta da Berenson. Lituano di nascita e ebreo, Berenson aveva capito subito — non ci voleva molto — che quell’accoppiata di provenienza non lo avrebbe portato molto lontano. La decisione di mantenersi agli studi non col magro stipendio da professore, ma entrando a pieno titolo nel mercato dell’arte non fu una scelta sofferta, né gli provocò mai ambasce morali. Come Duveen faceva il mercante senza alcuno scrupolo che non fosse il guadagno, B.B. non esitò un attimo a mettere a disposizione di interessi economici la sua conoscenza sterminata della cultura italiana del Rinascimento. Per cinquantamila sterline l’anno — questa grosso modo era la media dei suoi compensi — insieme a Duveen aveva creato un mercato che non esisteva, dando un nome a migliaia di dipinti che non avevano avuto, fino ad allora, né babbo né mamma. Un’operazione di dimensioni colossali, che venne favorita da fatti indipendenti, come la reinvenzione del Rinascimento ad opera di Burckhardt, i cui echi si facevano ancora sentire negli Stati Uniti, dove ogni magnate voleva rassomigliare ad un condottiero o almeno avere una sua immagine dipinta o scolpita da un maestro italiano. L’unico magnate a non rimanere vittima della tattica mongola messa in atto da Duveen — fuggire davanti al nemico per costringerlo ad inseguirti — fu Henry Ford, il re delle automobili, che si rivelò un finissimo umorista, degno dei fratelli Marx. Anche quel megalomane di Duveen si era reso conto che vendere una qualsiasi cosa ad Henry Ford sarebbe stata un’impresa difficilissima. Chiese perciò l’aiuto di altri quattro grandi mercanti. Così coalizzati, prepararono tre sontuosi volumi illustrati e rilegati in oro che mostravano «le cento opere più belle del mondo», naturalmente in loro possesso, e chiesero udienza a Ford. L’industriale, che abitava in una casa giudicata «primitiva» rispetto a quella di Duveen, li ricevette con entusiasmo e davanti ai libri si estasiò, affermando che non aveva mai visto nulla di simile. «Che meraviglia», disse, chiamando la moglie e la madre a dare il loro parere, «ma chissà quanto costano!». Duveen fece un passo avanti: «Questi non si vendono, sono un regalo per lei. Quelle che vendiamo sono le opere». A questo punto Ford dette una gran manata sulla coscia: «Ma perché dovrei comprare gli originali se questi qui sono così belli e per di più gratis?». La battuta fece il giro degli Stati Uniti e contribuì a far salire ancora di più la vasta popolarità di cui godeva Henry Ford. 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 AGOSTO 2006 Esce nelle sale il primo settembre il film “Crossing the bridge” di Fatih Akin, il regista della “Sposa turca”. Una immersione nel mondo dei cantanti e delle canzoni made in Turkey. Sullo schermo prendono forma l’immagine e i suoni di una tradizione viva, alimentata dalle molte etnie che popolano il paese e che si consuma nelle sale da concerto, nei bar, negli hamam, nei bordelli e in strada più che sui dischi e sui dvd AVANGUARDIA RADIO BOSFORO ROCK ANGLO-TURCO I Baba Zula mescolano rock e acid jazz con aggiunta di suoni orientali Più successo in Europa che in patria Impazzano su tutte le radio del Paese: gli Orient Expressions sono stati i primi dj made in Turkey Influenzati dalla musica hippy ed heavy metal, i Duman suonano nei locali e cantano in inglese Istanbul sound ON THE ROAD DISCO DERVISCIO JAZZ ZINGARO L’idea romantica del musicista da strada guida i Siyasiabend, una band a metà tra cantastorie e homeless Tra strumenti tradizionali e suoni di moderni computer Mercan Dede fonde la musica sufi con la disco Il gitano Selim Sesler è così bravo con il clarinetto che ha vinto la diffidenza dei turchi per le sue origini GIUSEPPE VIDETTI Repubblica Nazionale 46 20/08/2006 L’ ISTANBUL albergo è uno di quelli vicini all’aeroporto, un quattro stelle turistico. Né bello né brutto, anonimo. Il salone delle feste è addobbato per Capodanno, festoni agganciati ai lampadari finto Murano, stelle filanti e cappellini pronti sui tavoli per turisti (pochi) e turchi che hanno voglia di festeggiare all’occidentale. Ce ne sono moltissimi, perché l’occasione è speciale, una delle rare occasioni di vedere in carne e ossa colui che da mezzo secolo è il divo della musica turca, Zeki Müren, un idolo, un simbolo, talmente osannato dal popolo da passare indenne attraverso i regimi, da essere amato anche da chi segue alla lettera i comandamenti dell’Islam. Quando si accomoda davanti all’orchestra, ben dopo la mezzanotte, si scatena il putiferio. L’entusiasmo della folla sovrasta la musica, Zeki sotto i riflettori è una maschera: gli occidentali lo guardano con un misto di ammirazione e di disprezzo, i turchi gli lanciano petali di fiori, ne invocano il nome commossi, gli mandano baci. Solo quando quell’inquietante creatura — fatta con pezzi di Renato Zero, Malgioglio e Mina di Studio Uno — comincia a cantare, si svela il mistero di tanta devozione. Zeki li accarezza con una voce potente e dolcissima, virile e autorevole, nonostante il cerone, i tirabaci, i capelli cotonati alla Cocky Mazzetti anno 1963, le sopracciglia più sottili di quelle di Marlene. Artista transgender, senza età, come il suo pubblico, fatto di quindicenni, di genitori e di nonni. Müren piace ai rockettari e ai poppettari, agli appassionati dell’arabesque e a chi ama il jazz. Müren in Turchia piace a tutti, e guai a dire che è gay. Anzi, che era gay. Perché è morto, il 24 settembre del 1996, a 65 anni, nella casa-ritiro di Bodrum. Il funerale, nella nativa Bursa, era affollato come quello di Carlos Gardel a Buenos Aires, Oum Kalthoum al Cairo, Amalia Rodrigues a Lisbona, Edith Piaf a Parigi. Il ricordo del concerto nei saloni dell’hotel dell’aeroporto è legato ai tardi anni Ottanta, quando le apparizioni di Zeki erano già diventate sporadiche. Nel periodo di massima esplosione della world music, gli ultimi quindici anni, la musica turca è rimasta misteriosamente relegata ai confini dell’impero. Forse a causa della lingua, ostile al primo ascolto, forse a causa della struttura musicale stessa, difficile da addomesticare con i suoni occidentali, come il raï algerino ad esempio. Eppure i turisti rimangono conquistati da una tradizione viva, alimentata da dozzine di diverse etnie che popolano il paese, misteriosa, esotica, che si consuma più nelle sale da concerto, nei locali, nei bar, nei ristoranti, nei bordelli, negli hamam, in strada, che su disco, cd, dvd o cassetta. Fatih Akin, il regista trentaduenne della Sposa turca, ci ha costruito un film documentario — Crossing the bridge-The sound of Istanbul, dal primo settembre nelle sale — partendo da una frase di Confucio, più che mai vera se si parla di una città come Istanbul: «Quando arrivi in un posto e vuoi comprendere la cultura che prevale, profonda o superficiale che sia, ascolta la musica che lì si suona. Allora imparerai tutto di quel posto». Tutto visto attraverso gli occhi di un visitatore d’eccezione, Alexander Hacke, da vent’anni con il gruppo d’avanguardia tedesco Einstürzende Neubauten, già rapito da quei suoni nel periodo in cui lavorava alla colonna sonora della Sposa turca. Da un hotel de charme dove lascia zaini e strumenti, il Büyük Londra Oteli ai margini di Beyoglu, il quartiere che “suona” ventiquattro ore al giorno, Hacke si aggira per la metropoli come un cowboy alieno, abbandonandosi senza riserve al suono seducente della musica “arabesca”, ammirando l’abilità di rapper e break dancer locali, suonando con musicisti formidabili di ud (il liuto arabo), saz e mey, passando da un matrimonio rom a una band neopsichedelica. Senza riuscire a penetrare il mistero di quel groviglio di suoni che regolano meglio dei semafori il ritmo della metropoli, ma tornando a casa con la certezza che niente succede in quella città che non abbia profondi legami con la tradizione: i canti dei giannizzeri e i cori della corte ottomana, l’esplosione dell’arabesque dei primi anni Ottanta, lamenti curdi, musiche devozionali dei sufi che guidano il mistico ruotare dei dervisci, e l’aggressione pop- MUSICA E ARTE Anonimo, “Dama di corte che suona il tamburello”, inizio XIX secolo. Londra Victoria and Albert Museum (Immagine tratta da “Il sogno di Fmr”, Franco Maria Ricci, 2005) DOMENICA 20 AGOSTO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 TUTTI I PERSONAGGI DEL DOCUFILM Diretto da Fatih Akin, lo stesso regista della “Sposa turca”, “Crossing the bridge” è un docufilm sul mondo musicale di Istanbul. La storia è quella di Alexander Hacke, esponente dell’avanguardia tedesca che, venuto in contatto con la città per scrivere la colonna sonora della “Sposa turca”, rimane affascinato dalla sua vita musicale. Hacke inizia così un’esplorazione del variegato mondo musicale di Istanbul che lo porterà ad avvicinarne tutte le espressioni: dalla neo-psichedelia all’hip-hop, dalla canzone popolare turca alla breakbeat, al jazz in salsa gitana, fino alla tradizione curda e al riadattamento delle melodie sufi. Senza trascurare i suoni stradali della città. Il film, distribuito da Fandango, sarà nelle sale italiane dal primo settembre. La colonna sonora è distribuita da Radiofandango. TRADIZIONE NASCOSTA IL NONNO ROCK HIP-HOP ALLA TURCA Band sperimentale e sofisticata, nei Replikas la tradizione vive sotto la superficie musicale Ormai sulla scena da 40 anni, l’eroe della chitarra elettrica Erkin Koray è sempre in forma Dallo stile secco e inquietante, il rapper Ceza è la risposta turca ai Public Enemy ma senza eccessi Viaggio nella città-ponte tra Europa e Asia in cerca della musica turca UNA CANADESE A ISTANBUL GOSPEL CURDO LA VOCE DI ISTANBUL Brenna MacCrimmon è canadese, ma ha Istanbul nel sangue. Canta in turco ed è famosa in tutto il Paese La cantante Aynur usa le nuove aperture politiche imposte dalla Ue per raccontare la storia dei curdi Per Sezen Aksu la sua città è fonte di ispirazione. È venerata come una dea fin dagli anni Settanta Repubblica Nazionale 47 20/08/2006 COWBOY TEDESCO Alexander Hacke della band tedesca Einstürzende Neubauten è entrato in contatto con la città e la sua musica mentre produceva la colonna sonora del film “La sposa turca” rock a cui nessun paese al mondo è riuscito a sottrarsi. Tutto quel che si ascolta a Istanbul, che arrivi da un cantante che sculetta come Ricky Martin, da un chitarrista che imita Paco de Lucia o da una rapper più provocante di Lil’Kim, ha un sapore unico, che appartiene a quei mari, a vicoli e saliscendi, a quei minareti, ai tramonti sul Corno d’oro, a quel blob ribollente di Europa e Asia, al fasto di un impero che si era messo in mente di conquistare il mondo intero, al bellicoso nazionalismo che dopo Atatürk non si è mai spento. «I musicisti e i cantanti che abbiamo filmato potrebbero essere personaggi di un film», spiega Akin, turco di Germania nato ad Amburgo. «M’interessava mostrare la loro dignità a un’Europa che in questo momento ha gli occhi puntati sulla Turchia. I media guardano le cose da una certa prospettiva, io voglio mostrare altri risvolti della storia. Una volta la Turchia era un paese molto più liberale. Adesso sia la sinistra che la destra sono schierate contro globalizzazione e compromessi. Rimangono aperti la questione armena e il problema di Cipro… I turchi cambiano idea spesso, come i bambini. Sembra un controsenso, ma adesso gli islamici sembrano gli unici interessati a entrare in Europa». Crossing the bridge non giudica, non dà risposte, lascia parlare la musica, che ha già conquistato l’equilibrio (tra Oriente e Occidente, tra etnie che si disprezzano) che i politici stentano a trovare. La malinconica voce di Aynur, cantante curda, esprime l’orgoglio di un popolo oppresso meglio di qualsiasi protesta del sabato in piazza Taksim. È una diva dimenticata di 87 anni, Muzeyyen Senar, a raccontare la storia della canzone turca tra le due guerre. Gran temperamento, classe, e ancora una bella voce: è nata dall’altra parte del ponte, sulla riva asiatica. Da bambina era balbuziente, si rifiutava di parlare. Il canto riuscì a farle superare il problema, negli anni Trenta fu star della radio, negli anni Quaranta la Dietrich dei quartieri francesi, quando alla Rue de Pera (oggi Istiklal Caddesi) si entrava solo in giacca e cravatta. L’ha ripescata dall’oblio Sezen Aksu, cantante, compositrice, produttrice, arrangiatrice cinquantaduenne, oggi la massima autorità della canzone turca (il disco inciso con Bregoviç è uscito anche sul mercato internazionale). Che i giovani turchi, un po’ come i francesi e molto più degli italiani, siano intrigati dal pop internazionale ma molto legati alla tradizione lo dimostra non solo la devozione che ognuno conserva per Zeki Müren, di cui nel film forse si parla troppo poco, ma anche la passione con cui ancora seguono un veterano come l’ultrasessantenne Erkin Koray (che invece è ben presente in Crossing the bridge), Jimi Hendrix della porta d’oriente che già negli anni Sessanta suonava cover dei Beatles con strumenti tradizionali e ancora non è out. I ventenni lo chiamano affet- tuosamente “Erkin baba” e conoscono a memoria tutte le sue canzoni. Ahmet Ertegun, figlio di un diplomatico turco che negli anni Quaranta a New York fondò la Atlantic Records insieme a suo fratello Nesuhi, ci ha raccontato che gli artisti turchi sono pigri. Tentò di produrre un disco made in Usa di Ajda Pekkan, bionda diva pop che maschera bene i sessanta e passa con vistosi colpi di bisturi, ma la cantante non riuscì ad adeguarsi alla routine massacrante dello star system americano, piantò tutto e tornò in patria. Dove è ancora una star (l’ultimo disco, Cool kadin, è prodotto da Sezen Aksu). Forse l’erede di Zeki non è ancora arrivato, forse non ci sarà mai, come non c’è mai stata un’altra Piaf. Oggi l’artista di cui i giovani vanno fieri è Tarkan, 34 anni, nato in Germania da genitori turchi, grande successo in patria e un milione di copie vendute sul mercato internazionale grazie a Simarik(incisa dall’australiana Holly Valance con il titolo di Kiss kiss), una casa a New York e una a Parigi. Ha appena pubblicato il suo primo cd in inglese, Come closer, a metà strada tra George Michael e Shakira. Errore colossale: il pubblico è più che mai avido di esotismo in questi anni in cui il pop non fa che vomitarsi addosso. Ma i suoi concerti sono la cosa più vicina alla magia che si stabiliva tra Zeki e il pubblico. Alla serata dell’8 agosto all’Acikhava di Harbiye, nel cuore di Istanbul, c’erano ragazzine in lacrime (il registro drammatico, nella canzone turca, è quasi obbligato) e ragazzi in adorazione davanti a un idolo dall’ambigua sessualità che inevitabilmente fa pensare a Müren e, più indietro, ai köçek, efebi en travestiche danzavano, cantavano, amavano per il piacere dei sultani, e tanto stupore crearono in De Amicis e Pierre Loti nella Costantinopoli fin de siècle. Ma la cartolina più bella di Crossing the bridge si svela sul finale, quando Sezen Aksu, l’ultima diva del pop turco, fa la sua apparizione per cantare dal vivo, in una stanza nuda, con la supervisione di Hacke, le memorie della sua città, Istanbul hatirasi (da Söylüyor, album glorioso del 1989). Personalità, carisma, talento al servizio di un arabesque mai grossolano né grottesco, anzi raffinato, pieno di riferimenti, colto e popolare insieme, modernissimo, sublime. La incontriamo nella sua casa sopra il quartiere di Ortaköy, mentre il suo unico figlio, che ha studiato in un college inglese, assiste muto alla conversazione. Madre senza marito, Sezen è irrequieta, indipendente, volitiva, capricciosa. Dice che quando ama, ama totalmente. Dicono che quando smette di amare licenzia gli uomini come fossero commessi. Dicono che ha flirtato troppo con la cocaina, per questo la voce ora è così roca, malata. Diva fino al midollo, con il gatto che fa le fusa sulle ginocchia, racconta di notti insonni passate in compagnia dei pescatori del Bosforo, di albe rosate che portano sempre la nota giusta. La sera, sul palcoscenico, la macchina del vento fa ondeggiare le stoffe leggere e preziose degli abiti di Sezen, Nike alla guida di un popolo che col canto sa lenire il dolore. 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 AGOSTO 2006 i sapori È ricchissimo di vitamine e gode fama di essere un buon aperitivo agli incontri amorosi. Ora il peperoncino sarà festeggiato in un festival a Diamante, in Calabria. Ma anche il Nord Italia ama speziare i suoi “cibi poveri” con rafano e senape Allegria in tavola Cremona itinerari La friulana Delia Clapiz ha portato nella trattoria di Ravenna “Al Gallo” la zucca di Venzone (Udine) coniugata col peperoncino Gnocchi di zucca al peperoncino e purè di fave con erbette piccanti sono tra i piatti preferiti del supercliente Riccardo Muti Spilinga (Vv) Digione (Francia) Appoggiata nella bassa lombarda tra Adda e Po, comune fedele a Federico Barbarossa e Federico II, vanta bellezze artistiche medievali e rinascimentali. La città di Antonio Stradivari è culla gastronomica di cotechino e mostarda di frutta Sorta a partire dalle spelonche in cui si erano rifugiati gli abitanti di Condrochillone, paese distrutto da una frana, nel cuore geografico di Capo Vaticano, famosa per i tessuti a telaio e l’acqua oligominerale di Madonna delle Fonti, è la patria dell’’nduja Il Castrum Divionense dei Romani, capitale storica della Borgogna, deve ai Duchi di di Valois (XV secolo) l’invenzione della mostarda, nata per coprire i sapori sgradevoli della carne. Specialità locale quella “all'antica” con i semi interi o appena rotti DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE HOTEL CREMONA Viale Po 131 Tel. 0372.32220 Camera doppia da 75 euro CALA DI VOLPE Contrada Torre Marino Loc. Santa Domenica Tel. 0963.669699 Camera doppia da 98 euro, colazione inclusa DOVE MANGIARE HOTEL WILSON (con cucina) 1 Rue Longvic Tel. (0033) 03.80668250 Camera doppia da 74 euro, colazione inclusa DOVE MANGIARE HOSTERIA 700 Piazza Gallina 1 Tel. 0372.36175 Chiuso lunedì sera e martedì, menù da 25 euro DOVE MANGIARE OSTERIA DEL PESCATORE Via del Monte 7 Tel. 0963.603018 BISTROT DES HALLES 10 Rue Bannelier Tel. (0033) 03.80499415 Chiuso domenica e lunedì, menù da 28 euro DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE VINI & TAVOLA CREMONA Via Ghisleri 21 Tel. 0372.451771 FRATELLI PUGLIESE Località Sorda 3, Calimera Calabra Tel. 0963.366938 BOUTIQUE MAILLE 32 Rue de la Liberté Tel. (0033) 03.80304102 I piatti di Afrodite Piccante LICIA GRANELLO vitiamo fraintendimenti. Se nelle ricette della scrittrice Laura Esquivel l’aggettivo piccante equivale ad afrodisiaco (come da sottotitolo del suo celeberrimo Dolce come il cioccolato), non è così scontato che un piatto di spaghetti aglio, olio & peperoncino preluda a una straordinaria performance amorosa. Semplicemente, si mangia piccante perché piace. A volte, in modo perfino esagerato, come testimoniano i partecipanti alla finale del Campionato italiano mangiatori di peperoncini, in programma sabato 9 settembre a Diamante, Cosenza. L’occasione è l’annuale festival monodedicato (6-10 settembre, informazioni sul sito www. peperoncino. org): i partecipanti avranno mezz’ora di tempo per mangiare tanti peperoncini crudi da superare il mezzo chilo abbondante ingollato l’anno scorso dai campioni in carica. Una sfida infernale, che solo quantità industriali di latte o vino potranno in qualche modo tamponare. Il principio attivo del peperoncino — la capsaicina — infatti, è solubile nei grassi e nell’alcol, mentre l’acqua aumenta la superficie contaminata. Latte anche sulle mani (insieme a un mezzo pomodoro maturo) per evitare che un accidentale sfregamento degli occhi ci trasformi in altrettanti “Aigor” (l’irresistibile servo occhiuto di Frankenstein Junior). Dal punto di vista medico, invece, il piccante del peperoncino equivale a una sorta di benefico passe-partout: digestivo e anti-fermentativo, vanta la maggior concentrazione di vitamina C esistente in natura. Ha proprietà vasodilatatrici (da cui la fama di “Viagra dei poveri”) e anti-colesterolo, mentre la vitamina PP rende Contarli è impossibile. Le magie elastici i capillari e la E aumenta dell’impollinazione e gli incroci genetil’ossigenazione nel sangue. Il tutto, regalando gusto, vici realizzati dei botanici (niente a che vetamine e allegria a piatti tradere con gli Ogm) allargano a dismisura le dizionalmente poveri, molvarietà dei peperoncini coltivati nel mondo. to spesso carenti di proteiTutti, però, sono riconducibili a cinque famiglie ne. Sul diario di bordo della prima spedizione di Cridi Capsicum. Tra gli Annuum, la specie più imColombo, Bartoloportante e diffusa, spicca il pepe di Cayenna (dalla stoforo meo de Las Casas scriveva: città di Cayenne, nella Guyana francese). Bacca«La spezia che gli indigeni tum e Frutescens hanno come territorio d’elezione mangiano, e che chiamano agi, è abbondante e più rispettivamente Messico e India, mentre il Pubeimportante del pepe nescens viene coltivato sugli altipiani più inospitali ro...». Rimasero piuttosto delle Ande, perché la carnosità lo rende partidelusi, i Reali di Spagna, colarmente resistente al freddo. Ai Chinenquando si scoprì che rispetto alle costosissime spezie delle ses, originari dei Caraibi, invece, apparMolucche, il peperoncino attiene il terribile Habanero, consideratecchiva ovunque, azzerando i to il peperoncino più piccante costi di approvvigionamento. del mondo. Nella metà alta d’Italia, però, la cultura del peperoncino va considerata un’acquisizione recente, se è vero che dal Friuli al Piemonte il piccante si declina tradizionalmente grazie all’apporto di rafano e senape. L’uso della senape arriva dalla Francia (Digione), dove l’utilizzo di semi e foglie mischiato a zucchero, vino, birra, aceto, acqua e altre spezie è conosciuto da almeno mezzo millennio. Dagli hot dog al filetto alla Woronoff, si può scegliere in base alla piccantezza (dalla forte di Digione a quella dolce di Meaux) e alla finezza della textura (da quella impalpabile a quella à l’ancienne). Nella pianura Padana, invece, la senape ha trovato una strada tutta sua, ovvero la mostarda piccante, a base di frutta immersa in uno sciroppo piccante senapato. Una ricetta per ogni città: a Cremona sono protagonisti fichi, albicocche, ciliegie; a Mantova spicca la mela cotogna; mentre i parmigiani assemblano zucca, anguria bianca, pere e succo di limone. Obiettivo, dar vigore al tradizionalissimo piatto di bolliti misti, esattamente come il cren, salsa veneta a base di rafano, altra pianta delle crucifere dal gusto inequivocabilmente piccante. Se poi siete ammiratori della Esquivel, e il vostro debole per il piccante abbisogna di una giustificazione intellettuale, potete sempre citare Brillat Savarin: «Gli alimenti ritenuti afrodisiaci, il più delle volte non hanno nessun effetto positivo, ma in certe circostanze possono rendere le donne più tenere e comprensive e gli uomini più amabili». Provare per credere. Meglio con un bicchiere di latte a portata di mano. E Repubblica Nazionale 48 20/08/2006 Capsicum RAFANO E’ una pianta erbacea di cui si utilizza la radice grattugiata. In Italia se ne coltiva una varietà marrone Quello giapponese, verde brillante (wasabi) si serve col pesce crudo Il succo della varietà nera è un buon depurativo epatico SENAPE Pianta spontanea dell’Asia, è stata coltivata in India a partire da tremila anni prima di Cristo. La pianta produce baccelli con semi bianchi o scuri macinati insieme e fatti riposare in un liquido. Il gusto particolare è dovuto ai glucosidi sinalbina e sinagrina PAPRIKA Utilizzato in Ungheria come rimedio per la malaria durante la dominazione turca è una miscela di polpa e semi essiccati di diverse qualità di peperone. Nell’800 è diventato l’ingrediente base della “carne alla maniera del pastore” il Gulyas (gulash) DOMENICA 20 AGOSTO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49 La storia controversa del sapore “acutus” Quel gusto-fantasma che morde e riscalda PEPERONCINO Conosciuto da millenni e importato in Europa da Colombo, fu studiato dal medico ungherese Szent Gyorgy che vi scoprì e isolò la vitamina C. La ricerca gli fruttò il premio Nobel per la medicina nel 1937 Il suo principio attivo è la capsaicina MASSIMO MONTANARI l piccante è un sapore? Nei corsi di degustazione non se ne parla: le uniche categorie oggi ascritte alla nozione di sapore sono il dolce, il salato, l’acido e l’amaro, secondo il canone che fu elaborato nel 1864 dall’anatomista Fick, distinguendo nettamente fra sensazioni “chimiche” del gusto e sensazioni “fisiche” del tatto: il piccante, come il grasso, come l’astringente, furono allora ricondotti a una diversa categoria sensoriale, quella appunto del tatto (tecnicamente parlando, il piccante è una sorta di lacerazione delle mucose, che per reazione produce piacevoli endorfine). Eppure, fino a quel momento nessuno aveva messo in dubbio che quelle sensazioni (piccante, grasso, astringente…) facessero parte della categoria dei sapori. Aristotele, il grande filosofo e scienziato dell’antichità greca, aveva classificato otto sapori fondamentali: dolce, amaro, grasso, salato, agro, aspro, acerbo, acido. Il pensiero medico-scientifico dell’età medievale allargò o modificò l’elenco, portando il numero dei sapori a nove o a dieci, oppure lasciandolo a otto ma aggiustandoli in modo diverso: il piccante, in particolare, denominato acutus, entrò definitivamente a far parte del sistema. Ciò che in ogni caso risultava confermato era l’appartenenza del sapore alla fisica naturale: esso era inteso come espressione sensibile della qualità delle cose, a sua volta determinata dalla combinazione fra i quattro “umori” fondamentali: caldo e freddo, secco e umido. Questi non solo definivano la natura dei cibi, ma anche il loro sapore. Per esempio, spiegavano i medici della Scuola di Salerno, il piccante è di natura calda, «assottiglia, morde, riscalda, infiamma, scioglie le parti solide». Qualità dietetiche: «I sapori acuti sono più di ogni altro aperitivi (ossia facilitano l’assunzione dei cibi ndr), eccitano il calore del sangue, restituiscono la salute ai sofferenti di milza e più in generale ai temperamenti freddi».Questo sistema di pensiero, assegnando ai sapori un ruolo quasi di “spia” della natura dei cibi, finì per riservare al gusto una funzione fondamentale nel riconoscimento di ciò che è buono per noi: se un sapore è percepito come buono, ciò significa che “trasporta” un contenuto che al nostro organismo in quel momento fa bene. Al centro dell’atto nutrizionale vi è quindi una responsabilità soggettiva, legata alla capacità dell’individuo di ascoltare le reazioni e i messaggi del proprio corpo. Ma le scelte alimentari non sempre nascono dall’ascolto di sé. Esse dipendono anche (soprattutto?) da sollecitazioni esterne, dettate da convenzioni sociali, mode, ragioni di circostanza o di prestigio. Un esempio chiarissimo è quello delle spezie, che, nel Medioevo, furono impiegate a profusione nelle vivande destinate alle classi alte: il loro costo proibitivo bastava a farne un segno di prestigio, mentre l’origine esotica le arricchiva di un fascino e di una suggestione ineguagliabili. A ciò si aggiungeva l’opinione favorevole dei medici, che ritenevano le spezie, produttrici di calore corporeo, particolarmente adatte a favorire la digestione, ovvero la “cottura” dei cibi nello stomaco. Per tutti questi motivi, solo in parte riconducibili a scelte personali, il sapore piccante delle spezie orientali caratterizzava come pochi altri la cucina di élite, e non è certo un caso che proprio nel Medioevo il piccante sia entrato a far parte in modo organico del “sistema” dei sapori. Che si trattasse di una convenzione sociale lo si vide quando, in età moderna, dopo i viaggi transoceanici inaugurati da Colombo e proseguiti da un esercito di navigatori, il prezzo delle spezie diminuì drasticamente, rendendole accessibili a un più alto numero di consumatori. Nello stesso periodo, dall’America arrivò in Europa il peperoncino, che, acclimatato e coltivato in varie regioni, rese davvero “popolare” il sapore piccante. A iniziare da allora il piccante non fu più un segno di distinzione sociale — e infatti i ricchi lo abbandonarono. Ultime notizie. Gli scienziati tendono oggi a ripensare la nozione di “sapore” come insieme complesso di sensazioni diverse, che includono anche il tatto nella nozione di gusto. Dopo un esilio di un secolo e mezzo, il piccante è forse destinato a rientrare nel novero dei sapori. I ‘‘ Jorge Amado L’oro dell’olio di palma, la dolcezza della jaca, il piccante del peperoncino, la sensualità delle donne bahiane con il vestito di pizzo bianco sulla pelle color cannella Da LA CUCINA DI BAHIA Cren Mostarda ’Nduja Spaghetti aglio e olio La salsa di rafano – radice sbollentata e cotta con burro, farina e brodo – accompagna le carni più sostanziose, dal musetto ai tranci di prosciutto cotto caldo, dai bolliti agli affettati Nell’impiego a crudo, si grattugia e si mescola con aceto, sale, zucchero In Francia e Inghilterra, la mout ardent, definisce pianta, semi e salse derivate. Nel Nord Italia, la parola deriva dal mustum latino ed è una preparazione piccante con la frutta candita immersa in uno sciroppo a base di senape, mosto aceto, zucchero Malgrado il nome ricordi il salame di trippa francese (andouille), è un insaccato calabrese preparato con i tagli più poveri del maiale, macinati e mescolati col peperoncino rosso piccante in rapporto di quattro a uno. Deve stagionare un anno Sani, gustosi e semplici, sono la ricetta più popolare nelle cene estive (e nei dopo-discoteca) Gli spaghetti cotti ben al dente vengono spadellati nell’olio extravergine caldissimo, aromatizzato con lo spicchio d’aglio e il peperoncino sbriciolato 50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 AGOSTO 2006 le tendenze Posizione orizzontale Chaise longue sempre più anatomiche, pareti porta-cd che nascondono un letto, poltrone avvolgenti in stile nipponico conquistano per sempre la zona giorno della casa. Stare composti non serve più: gli ospiti si mettono comodi. E noi riscopriamo un vecchio piacere: non sentirsi in colpa per la nostra pigrizia L’irresistibile richiamo della forza di gravità CLASSICO, CON BRIO Sasha è una lunga chaise longue in pelle colorata con poggiatesta e base girevole. Un invito al relax di Natuzzi COME NATURA VUOLE AURELIO MAGISTÀ la definitiva sepoltura dell’Italia dei tinelli. L’estremo smantellamento ideologico dei sacrari, rigorosamente interdetti ai bambini e ai loro giochi, dove si metteva in scena il teatrino piccolo borghese del ricevere, gli striminziti palcoscenici di anodine conversazioni con l’ospite di riguardo, imbastite seduti in punta di sedia o di sofà, come si amava dire allora, piedi uniti, ginocchia strette, gomiti aderenti ai fianchi. Un portamento estinto come l’idea che sottintendeva. Oggi sdraiarsi è dominante. Dicono gli evoluzionisti che ci sono voluti milioni di anni per conquistare la stazione eretta. Oggi i comportamenti dell’abitare cancellano in un attimo quei milioni di anni e l’apprendistato con un movimento a 180 gradi: proni, dritti in piedi, infine supini. Infatti adesso nel living domina lo stile informale. Sfilacciata la conversazione, mentre si scambiano borborigmi e lacerti di frasi con gli amici, ci si mette comodi: sapientemente appoggiati, gambe ben distese o disordinatamente accavallate, sdraiati o semisdraiati, come se la forza di gravità fosse diventata improvvisamente irresistibile e spalmasse i corpi sulle superfici disponibili. Una volta poteva essere una forma di ribellione giovanile, oggi è un comportamento socialmente e anagraficamente trasversale, la risposta profonda, comportamentale, al grande bisogno di relax nel nostro tempo, stretto fra lo stress di ritmi sempre più accelerati e le grandi paure globali. Padri, figli e nipoti, ci si trova tutti d’accordo. Ma sdraiarsi ha ormai sconfinato dagli spazi domestici della socialità familiare e amicale per diffondersi nei luoghi pubblici, tra cui quelli che ne portano il segno anche nel nome: i lounge bar o caffè. Naturalmente, come quasi sempre, c’è puntuale corrispondenza tra contenuti e forme, comportamenti di un’epoca e connotati del suo design. Datano già a qualche anno fa le sedute di divani e poltrone sempre più profonde, gli schienali più bassi, le strutture sempre più declinate in un lessico di elementi limitati ma componibili, che offrono la possibilità di numerose varianti grazie a sapienti arti combinatorie. Ancora di più, tuttavia, il bisogno di sdraiarsi si manifesta in tutta la sua forza rompendo gli argini della convenzione divano-poltrona e dilagando in percorsi inconsueti, qualche volta sorprendenti. Percorsi che non temono di rivolgersi al passato, ad altri passati, con la rivisitazione di reperti dell’arredamento: canapé, dormeuse, chaise longue, o con il rilancio di un design intensamente ironico, per esempio il Pratone riproposto da Gufram: una gigantesca zolla d’erba tra i cui fili ci si può allungare fino a perdersi. Ma percorsi che sanno anche esplorare territori nuovi, con oggetti indefinibili, ricchi di fascino e di mistero (la chaise longue alcova di VG New trend), sorprendenti (la morbida parete porta-cd che, messa a terra, si improvvisa letto, di Campeggi), votati all’eclettismo (Reversi di Molteni, un divano componibile che diventa day bed, pouf o dormeuse), zoomorfi (Kaiman di Edra, Leaf di Dedon) o di frontiera (Aster, la morbida stella marina in tessuto iridescente di Edra). E, fra tante varianti, il trionfo della comodità diventa anche la piccola medicina quotidiana per le grandi ansie del nostro tempo. Lettino, singolo o doppio, con forma leggermente concava, accogliente come una foglia. È Leaf di Dedon realizzata in tessuto Hularo con cuscino incorporato (Prezzo: 2.150 euro) È VECCHIE ABITUDINI La riedizione della classica chaise longue di Le Corbusier rivista da Alivar Struttura in tubo di acciaio, poggiatesta in espanso, seduta in canapa (Prezzo: da 991 euro) DUE CUORI E... Ricorda un’alcova la chaise longue di VG New Trend in intreccio di pvc bianco o nero. Per esterni ma non solo RELAX IN GIARDINO Un lettino classico, con grandi ruote posteriori per facilitarne lo spostamento e struttura in legno di teak. Saint Tropez di Foppapedretti ha schienale regolabile in quattro posizioni e braccioli disponibili su richiesta (Prezzo: 940 euro) SEDUTE DAL SOL LEVANTE Forma monolitica con struttura in espanso per il sofà Saruyama di Moroso, disegnato da Toshiyuki Kita Composto da tre pezzi, non è sfoderabile COMPOSTO AD ARTE Disegnato da Ferruccio Laviani, Freestyle è un sistema di sedute composto da elementi geometrici. Prevede due tipi di bracciolo alto allineato allo schienale, oppure cuscino laterale a guanciale che diventa corpo unico con il sedile. Di Molteni DOMENICA 20 AGOSTO 2006 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51 L’ultima forma di resistenza passiva Elogio dell’ozio piccolo atto eroico MICHELE SERRA draiarsi, parlando di noi da vivi, sembrerebbe la posizione numero uno, quella basica, quella più facile e ovvia. L’alfa delle posizioni. Dalla quale il corpo poi parte per costruire tutte le sue altre stazioni, da quella ginocchioni a quella seduta a quella eretta, affrontando la legge di gravità e guardando il mondo dritto negli occhi. (Mentre lo sdraiato, si sa, vede solo il soffitto o le nuvole, o il cielo in una stanza o altre situazioni comunque molto divaganti rispetto a tutto il daffare che compete all’homo erecuts). Invece non è così. Sdraiarsi non è affatto facile. La posizione dello sdraiato è diventata, nel corso dei millenni, forse la più impervia. Anche volendo tralasciare la pur ricca e dolorosa tematica dei letti scomodi, lo status orizzontale implica sovente uno strisciante sentimento di colpa, o di renitenza agli impegni sociali e familiari. È chiaro che non stiamo parlando del sonno notturno: quello, sia pure nelle modiche quantità concesse dalle raffiche di impegni che ci fischiano sopra la testa, come pallottole, anche quando dormiamo, quello, dicevo, è consentito. Stiamo parlando dello sdraiato in stato di veglia, la persona che giace ad occhi aperti, o semichiusi, ed è vigile quel tanto che basta per godersi la raggiunta quiete fisica: cioè l’inerzia simultanea (direi quasi un’inerzia di tipo orchestrale) di tutti i muscoli e di tutte le ossa, cullati dalla sola forza di gravità che li preme dolcemente verso la Terra (maiuscolo) in una sublime carezza. Ebbene, contro questo abbandono panico, che ci fa sentire finalmente in armonia con l’orizzonte, e paralleli alla volta celeste, agisce un’infinità di disturbi. Di vario tipo. Il primo, e forse il più grave, è quello psico-sociale, che classifica il pigro e l’inerte come un traditore e un disertore, e squalifica l’ozioso dal rango del fortunato e del benestante a quello del fannullone. È questo il principale svantaggio (tra altri innegabili vantaggi) del passaggio alla civiltà borghese, che ha per postulato l’attivismo economico, e il febbrile ruolo di ciascuno in società. Il secondo disturbo, si può dire, è conseguenza del primo: nel senso che il nostro corpo ha talmente introiettato l’etica del lavoro, che sdraiarsi è diventato via via meno agevole, come se la nostra carcassa avesse ormai somatizzato i sensi di colpa derivati dall’ozio. Se volete fare un esperimento — ma certamente l’avete già fatto — provate a sdraiarvi su un prato, che è l’habitat perfetto. L’erba vi sembrerà o troppo secca, e dunque pungente, o troppo verde, e dunque umida. Il prato, per quanto piano, dopo pochi istanti vi si rivelerà gibboso, o declinante da una parte. La temperatura, che avevate percepito da eretti e da attivi, improvvisamente diventerà cocente, se siete sdraiati al sole, o freddina, se all’ombra. Gli abitanti del prato, specie le formiche e i grilli (rumorosissimi, questi ultimi), impercepibili fino a pochi istanti prima, si manifesteranno tutti insieme, circondandovi in moltitudine come i lillipuziani ostili fecero con Gulliver. Le nuvole che, da S VERSATILE Ambrogio di Tisettanta è un componibile versatile da usare a piacere con più funzioni: seduta, pouf, punto di appoggio LEGAMI DI LUNGA DATA Bolide è una chaise longue in paglia intrecciata. Creata da Tom Dixon per Cappellini nel 1991, rivive in edizione limitata a soli 99 pezzi OSPITE INATTESO Repubblica Nazionale 51 20/08/2006 SOCIALIZZANTE Sd rai ars i È una parete soffice porta-cd che, ruotata e poggiata a terra, si rivela un letto per l’ospite inatteso. Ercolino di Campeggi è bilanciato da un meccanismo interno Un divano composto da pochi elementi ma aperto a diverse combinazioni grazie alla sua forma asimmetrica; lo schienale è un parallelepipedo, il bracciolo un cubo e aggiungendo in modo diverso pouf e tavolino, Isola diventa anche chaise longue o letto matrimoniale. Un progetto Cerri&Associati per Poltrona Frau A PROVA DI INTEMPERIE Il lettino Oasis di Unopiù è progettato per resistere al clima grazie alla speciale fibra sintetica Waprolace che lo compone, il cui nome deriva da “water-proof” e “lace” (merletto) (Prezzo: 390 euro) bambino, ricordate di avere osservato per lunghi minuti mentre trascorrevano in cielo, vi parranno sinistramente informi, niente a che fare con la sagoma da coniglio o da coccodrillo che quasi ogni nube vi regalò al vostro remoto debutto di cloud-watcher. Al massimo, foriere di maltempo. E poi — e soprattutto — le articolazioni delle ossa, le fasce lombari, la nuca senza requie, intoneranno un coro di protesta, spingendovi a rialzarvi. Penserete, allora, che lo Sdraiato Antico, quello dell’Età dell’Oro (non pensate a ere mitologiche: è l’infanzia, in termini scientifici, la sola vera età dell’oro) non pativa alcuna di queste turbe. Le gobbe del terreno, gli spini, i ristagni d’umido erano sensazioni osmotiche rispetto al corpo, permeabile a tutte le nuove esperienze. La formiche e i grilli erano visitatori graditi, e il loro solletico un gioco. Le nuvole, tutte indistintamente, altrettante filastrocche di Gianni Rodari. Il corpo di gomma, di elastico, vergine da indolenzimenti, si adattava subito alla condizione inerte e poteva rialzarsi o riadagiarsi senza il minimo sforzo. Il problema è che sdraiarsi da svegli non è uno status da adulto. Anziché svuotarsi e perdersi nel nulla, come accade ai bambini sdraiati, la psiche si affolla di pensieri spesso tormentosi, come se l’orizzontalità colmasse un vaso. E poi rialzarsi, con l’aumentare degli anni, diventa sempre meno agevole, piccolo odioso memento dell’attimo in cui rialzarsi non sarà più consentito. In conclusione, e per risollevare il morale: non ci resta che considerare lo sdraiarsi un piccolo atto eroico, una resistenza passiva contro l’ostracismo sociale alla pigrizia, una sfida attiva al nostro corpo meno elastico e meno disponibile a lasciarsi pervadere dagli umori della Terra, e della terra. Accogliamo di buon grado le formiche, con benevolenza francescana. Accettiamo che le sagome delle nuvole sia meno fantastiche di un tempo, e piuttosto testimoni della varietà non sempre bonaria della realtà materiale. E proviamo a sdraiarci lo stesso, sdraiamoci a oltranza, abbandoniamoci al rompete le righe anche se magari minaccia di rompere la schiena. Un maglione ripiegato sotto la nuca ci aiuterà a dimenticare perfino la cervicale. Per rialzarsi c’è sempre tempo. È il tempo di sdraiarsi quello che rischiamo di perdere. Rimandare gli impegni. Sostare un attimo di più con lo sguardo al cielo. Ripassare De André: «Vanno, vengono, qualche volta ritornano». Le Nuvole. Almeno un vantaggio degli adulti sdraiati: avere già ascoltato molte canzoni, e contare sul tempo (ancora tanto tempo) per riascoltarle. 52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 AGOSTO 2006 l’incontro “Il violino è vivo, sensuale, un prolungamento del corpo Per questo suono indossando vestiti senza maniche e con le spalle nude: mi piace sentirlo sulla pelle” Tedesca di 43 anni, è uno dei più grandi musicisti al mondo, Primedonne Anne-Sophie Mutter sembra una top model e suona come un angelo, fervida e sorvegliata, esatta e folgorante “Mi è sempre piaciuta l’idea di creare il suono io stessa, con le mani. Posso modellarlo con un’arcata, come uno scultore” elle fotografie che la ritraggono sulle copertine dei suoi dischi sembra una top-model. Ma una top-model particolare, profonda ed enigmatica, prodiga di sguardi interrogativi e sfidanti. In un’immagine è fasciata da un vestito aureo: girata di schiena, ci guarda voltando il capo, mentre il tessuto stringe i fianchi sinuosi. In un’altra il viso è in primo piano, la bocca soffice, gli occhi ardenti, i lunghi capelli biondi stretti e raccolti all’indietro, da casta diva. Un’altra foto ce la mostra in jeans, sdraiata su un divano, e i piedi nudi da ninfa sono esibiti con grazia. Può una delle massime musiciste del nostro tempo avere quest’aspetto? La grande musica non richiede abnegazioni e supplizi? Può una signora tanto fascinosa suonare il violino come un angelo, fervida e sorvegliata, esatta, folgorante, ricca di tinte soffuse, tecnicamente formidabile nel centellinare i suoi incantesimi? La violinista tedesca Anne-Sophie Mutter dimostra che si può. E non c’è trucco, non c’è alcun inganno. Perché vista da vicino, sulla terrazza del lussuoso hotel di Monaco dove ha fissato il nostro incontro, stretta in un coloratissimo e scollato abito estivo, nell’afa di un mezzogiorno d’agosto, è anche più bella di come appare nelle foto. Non ha neppure il “callo” dei violinisti, che macchia il collo e denuncia le ore trascorse con lo strumento letteralmente addosso: «Non devi schiacciare il viso contro il legno, ma solo poggiarlo», spiega. «Il violino è vivo, sensuale. Un prolungamento del corpo. Per questo, da sempre, suono indossando vestiti senza maniche e con le spalle nude: mi piace sentirlo sulla pelle. Se non sei tesa, se ti abbandoni a lui, ti accompagnerà senza farti male». Suona sempre lo stesso Stradivari del 1710, e ne parla come fosse un i periodi gloriosi e disperati. Suonare tutti questi pezzi in modo ravvicinato dà una visione coerente dello sviluppo del genio mozartiano, dall’innocenza degli inizi a una raffinatezza sempre più accentuata. È una musica generosa ed essenziale, mai ridondante, limitata al numero necessario di note. Delicata e molto esposta. Per questo è tanto difficile da eseguire». Anne-Sophie Mutter eseguirà le stesse Sonate, con Lambert Orkis al pianoforte, al Festival di Lucerna, in tre recital a partire dal 23 agosto, data del trentennale del suo debutto al prestigioso festival svizzero, che avvenne nel ‘76, lo stesso anno delle sue prime esibizioni in pubblico: «Quando suonai a Lucerna non sapevo com’era importante quel concerto, la mia insegnante non me l’aveva detto, il che fu saggio da parte sua, perché così non avevo paura. La sede, per noi giovanissimi, era una villa priva- L’età è un dato privo di importanza - dice del marito Andrè Previn, ben più anziano di lei - ciò che conta è il carisma che equivale alla bellezza FOTO TINA TAHIR / SHOTWIEV PHOTOGRAPHERS / DG Repubblica Nazionale 52 20/08/2006 N MONACO DI BAVIERA essere vivente: «Ha una personalità fortissima. Non smette di sorprendermi, ha infiniti segreti da svelare». In questo periodo lo porta in giro per il mondo per suonare Mozart, «che mi allarga il cuore e mi fa sentire un’eletta. Difficile spiegare quanto mi emozionino la purezza e la linearità del suo linguaggio. Ha una levità fantastica, con addensamenti improvvisi e zone d’ombra: la notte e il giorno, l’intimamente umano e il senso del divino, ambivalenze che appartengono a noi tutti. Ho appena fatto un tour in Estremo Oriente e mi ha colpito il modo passionale in cui la gente lo accoglie. Non mi aspettavo che gli abitanti della parti più remote della Cina reagissero con tanto entusiasmo a una musica aliena, estranea alla civiltà che li ha formati. Eppure in Corea, come in Giappone o a Taiwan, potevo sentire e vedere che Mozart coinvolgeva adulti e bambini». Nata a Rheinfelden, in Germania, nel 1963, e cresciuta in campagna, in una casa nella Foresta Nera, con due fratelli più grandi («per questo ero un maschiaccio, mi arrampicavo sugli alberi, correvo, pescavo, e solo da grande mi sono convertita in qualcosa di più femminile»), Anne-Sophie Mutter scelse di essere violinista da piccola per vocazione inesorabile: «Ricevetti delle lezioni di violino come regalo per il mio quinto compleanno. A sei vinsi il primo concorso e mi fu chiesto: che farai da grande? Risposi subito: la solista. Mi è sempre piaciuta l’idea di creare il suono io stessa, con le mani. Posso modellarlo con un’arcata, come uno scultore. E poi il violino è uno strumento che ha la magia della voce, il suo colore. Anche il tocco è ammaliante. Con la mano sinistra, nell’uso del vibrato, ho la sensazione di muovere davvero il suono». Lanciata a tredici anni da Karajan, con un concerto a Salisburgo che fece storia, e da allora incoronata protagonista di una carriera strepitosa, che ne avrebbe fatto la violinista più acclamata del nostro tempo, una dea del business musicale e l’unica interprete che detta sempre le sue condizioni, la Mutter ha appena completato un’immane impresa discografica per la Deutsche Grammophon, un omaggio a Mozart nell’anno delle celebrazioni per i 250 anni dalla nascita: «Nessun compositore ha scritto così tanti pezzi per violino ed è stato altrettanto capace di emancipare lo strumento dal ruolo di “braccio destro” del pianoforte, conducendolo a una vera indipendenza. Nei mesi scorsi ho registrato i Concerti, la Sinfonia Concertante e i Trii con pianoforte, e a settembre escono quattro cd con sedici Sonate per violino e pianoforte. È un progetto che mi ha permesso di ripercorrere un’ampia fetta della vita di Mozart, seguendo le sue emozioni di ragazzo e il suo dolore per la morte della madre, i viaggi in Italia e i successi a Vienna, i conflitti col padre e gli innamoramenti, ta, con arazzi alle pareti, vasti saloni e un gran caldo. C’erano molti tappeti, ricordo di essere scivolata. Quel concerto mi cambiò la vita. Il clamore fu tale che Karajan mi chiamò per un’audizione». Fu un incontro decisivo, di quelli che coronano un destino. «Libertà e massimo coinvolgimento: questo mi ha insegnato Karajan. Avere un punto di vista molto personale è l’essenza del fare musica, e lui me l’ha trasmessa. Ancora oggi mi capita di sentire un brano alla radio e di emozionarmi tanto da piangere. E scopro che è Karajan a dirigere. Nelle sue esecuzioni non c’è un momento in cui la musica è “semplicemente” suonata bene, senza intensità né significato. Era un uomo meraviglioso, ma anche di tremenda fermezza. Aveva il culto della disciplina, che viveva in lui come conseguenza del suo amore per la musica. Quel suo magnetico sguardo blu poteva fulminare gli orchestrali. Eppure così riusciva a tirare fuori il meglio». Il modo in cui Karajan si separò dall’orchestra dei Berliner Philharmoniker, racconta ancora la Mutter, le è tornato in mente per associazione quando è avvenuto il divorzio tra Riccardo Muti e la Scala: «Uno degli ultimi ricordi che ho dell’Italia (dove lavoro poco, perché mi programmo con anni di anticipo, e i vostri inviti arrivano sempre all’ultimo momento) risale al 2004, quando suonai in concerto con Muti a Milano, e in quell’occasione trovai altissimo il livello dell’orchestra. Sei mesi dopo esplose lo scandalo che portò alle dimissioni del maestro dopo quasi vent’anni. Mi ha inorridito il modo in cui lo hanno trattato gli orchestrali. Mi ha riportato al brutto clima che si respirava quando finì la relazione tra i Berliner e Karajan, dopo trentasei anni di collaborazione. A volte accade di scalpitare quando si lavora a lungo in determinate circostanze: un grande direttore può dare un senso di protezione contro la realtà, ed è allora che gli strumentisti cominciano ad opporsi». Tutto il percorso della Mutter è stato segnato da figure paterne: non solo Karajan, ma anche il mecenate Paul Sacher e il mitico violoncellista Rostropovich, con cui stabilì un forte legame emotivo. Molto più anziano di lei era anche il primo marito, l’avvocato di Karajan, Detlef Wunderlich, con cui la Mutter ha avuto due figli, una femmina e un maschio, che oggi hanno quattordici e dodici anni. Wunderlich morì nel ‘95, e di questa perdita la star, ossessionata dal culto della privacy (sono rarissime le sue interviste), si è sempre rifiutata di parlare. Nel 2002 si è risposata, stavolta con un celebre musicista, l’americano André Previn (già coniuge di Mia Farrow e padre adottivo di Soon Yi, attuale moglie di Woody Allen). Nato nel ‘29, anche Previn è ben più vecchio di Anne-Sophie, «ma per me l’età è un dato privo di importanza, come l’aspetto fisico», confessa fiera e ridente la giovane signora. «Ciò che conta è il carisma, che equivale alla bellezza». Insieme a Previn vive tra New York e la casa di Monaco di Baviera, «dove i miei figli vanno a scuola. Devo seguirli molto, sono in piena adolescenza. È la ragione per cui ho ridotto il numero di concerti, ora ne faccio una sessantina all’anno. Anch’io ho bisogno di stare con loro, li amo profondamente e li rispetto. Per questo non voglio darli in pasto ai giornali, detesto vedere pubblicati i loro nomi». Il suo secondo matrimonio sembra renderla felice: «Con André ho appena registrato gli ultimi Trii per piano e violino di Mozart e l’anno prossimo faremo insieme Beethoven. Ma uno dei nostri progetti principali è la prima del Doppio Concerto che lui ha scritto per me e per un contrabbassista, allievo della mia fondazione, che offre borse di studio a giovani strumentisti particolarmente dotati. Lo eseguiremo a Boston l’anno prossimo. Viaggiamo tanto, facciamo numerose tournée, suoniamo spesso insieme. È un modo meraviglioso di condividere la vita. André ha già scritto brani molto belli per me, come il Concerto per Violino e Tango Song and Dance, pieno di appeal. È il musicista più eclettico che io abbia conosciuto. Compone, dirige, è un ottimo pianista e un dotatissimo musicista jazz, il che dà un’inesauribile freschezza al suo modo di suonare. Ora sta scrivendo una nuova opera lirica, una coproduzione tra Houston e Washington, che debutterà l’anno prossimo. Ciò che trovo straordinario nella sua musica, specie nei pezzi scritti per la voce, per esempio nell’opera Un tram chiamato desiderio, è la comprensione della linea melodica e del fraseggio. Che si riflette in tutto ciò che scrive per gli archi. È uno dei rari compositori contemporanei che non temono le belle melodie. In anni recenti il pubblico è stato allontanato dalla musica da pezzi pesanti e noiosi. Oggi, finalmente, si è capito che la musica è fatta per la gente, per imprimere e far vivere emozioni». ‘‘ LEONETTA BENTIVOGLIO
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