47°ANNO SOCIALE - Circolo del Cinema Charlie Chaplin
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47°ANNO SOCIALE - Circolo del Cinema Charlie Chaplin
47°ANNO SOCIALE CIRCOLO DEL CINEMA C H A R L I E C H A P L I N Calendario delle proiezioni FILM D’APERTURA - Martedì 14 ottobre 2014 Jimi - All Is By My Side di John Ridley TALENTI E DESTINI 21/10/2014 - L’uomo in più - Regia di P. Sorrentino 28/10/2014 - Frances Ha - Regia di N. Baumbach 04/11/2014 - Frank - Regia di L. Abrahamson 11/11/2014 - Spaghetti story - Regia di C. De Caro SLIDING DOORS 18/11/2014 - Un insolito naufrago nell’inquieto mare d’Oriente Regia di S. Estibal 25/11/2014 - Lunchbox - Regia di R. Batra 02/12/2014 - Father and Son - Regia di H. Koreeda SENTIMENTI IN CAMMINO 09/12/2014 - Le weekend - Regia di R. Michell 16/12/2014 - Pazza idea - Regia di P.H. Koutras 13/01/2015 - La gabbia dorata - Regia di D. Quemada-Diez MAKE UP 20/01/2015 - Solo gli amanti sopravvivono - Regia di J. Jarmusch 27/01/2015 - L’arte della felicità - Regia di A. Rak 03/02/2015 - Blancanieves - Regia di P. Berger 10/02/2015 - Snowpiercer - Regia di B. Joon-ho NEL NOME DEL PADRE 17/02/2015 - Padre vostro - Regia di V. Bresan 24/02/2015 - Stop the pounding heart - Regia di R. Minervini 03/03/2015 - Station of the cross - Regia di D. Brüggemann INTERNI DI FAMIGLIA 10/03/2015 - Gebo e l’ombra - Regia di M. de Oliveira 17/03/2015 - Ida - Regia di P. Pawlikowski 24/03/2015 - Il passato - Regia di A. Farhadi 31/03/2015 - I segreti di Osage County - Regia di J. Wells COMING SOON 07/04/2015 - film anteprima 14/04/2015 - film anteprima 21/04/2015 - film anteprima 47anno Cari soci.. Eccoci, siamo pronti a ripartire per un nuovo viaggio attraverso il racconto delle immagini. L’anno scorso avevamo sottolineato con “riprese italiane” il felice momento della nostra cinematografia; oggi, considerato quanto offerto dai vari festival internazionali e nazionali, ci pare sia il caso di soffermarci su quanto si produce in ambito UE. Comunità - ricordiamolo - a cui si aderisce solamente per scelta politica; che vanta profonde radici comuni ma anche tradizioni e costumi peculiari fortemente sentiti dalle singole realtà locali. Insomma, un patrimonio culturale, antropologico, ricco, variegato e forse contraddittorio che in parte ci lega e in parte ci divide. Una comunità che oggi – questo ci preme evidenziare – discute e dibatte dei problemi dello stare insieme qui e ora. E’ proprio dello “stare insieme”, delle nuove aspettative e delle diversificate ansie che la migliore produzione cinematografica dei paesi UE si fa specchio, capace di restituire immagini, denotate da una grande varietà di forme e di stili degni di grande attenzione e, forse, riconoscibili come “made in UE”. Il racconto di questo tempo europeo – attuale e contemporaneo – avviene, appunto, su diverse strade e diversi cammini ma ci pare - con una marcata capacità di distinguersi. In tutti i cicli del programma è dunque sottesa una domanda: è possibile rinvenire un “fare cinema” europeo? La risposta la darà ogni socio. Veniamo ora ai racconti del programma 2014/2015. Come consuetudine le opere proposte vengono organizzate all’interno di cicli tematici, cioè di contenitori creati al solo fine di segnalare affinità, comunanze di stili e/o di toni, condivisione di scelte di natura narratologica e/o di genere, in una parola, legami culturali. Talenti e destini racconta il mondo dello spettacolo Circolo del Cinema Charlie Chaplin 4 e dei diversi percorsi per arrivare al successo. Se Clint Eastwood ci regala un altro gioiellino da “cinema classico” rileggendo la storia dei Jersey Boys, Noah Baumbach, con un appropriato bianco e nero ed una sinuosa camera a mano, confeziona una pellicola disincantata e schietta che presenta più di un valido motivo per essere “gustata”, con gli occhi e con il cuore, da ogni spettatore, per la capacità di mettere in scena l’umana imperfezione. In Frank l’esperienza autobiografica di Jon Ronson - sceneggiatore di Frank ed ex-tastierista di Frank Sidebottom, sconosciuto performer e alter ego del comico Christopher Sievey - è solo la base per dare corpo ad un’ idea bizzarra ma memorabile e destabilizzante. Il film di Lenny Abrahamson è infatti la riflessione su molte cose, certamente penetrante, sul dono e la maledizione di nascere musicista ma, ancor di più, uno sguardo approfondito sulle sensazioni di una persona che non riesce a guardare negli occhi chi ha di fronte ma, contemporaneamente, ricerca il successo del grande pubblico. Talenti e destini si scontrano anche nel disincantato ma italianissimo Spaghetti Story dell’esordiente Ciro De Caro. Sliding doors ovvero cosa può succedere se le certezze della vita quotidiana - anche quelle piccole - si modificano, se la quotidianità della vita subisce una piccola ma significativa variazione. Inizieremo questa esplorazione con l’ironia di Un insolito naufrago nell’inquieto mare d’Oriente per addentrarci nelle più complesse situazioni di Lunchbox e Father and son. Sentimenti in cammino rientra nel macro-genere del ‘viaggio’. Lega queste opere la capacità di mettere nitidamente in scena i diversi i sentimenti che animano e guidano i protagonisti. Ne La gabbia dorata, di Diego Quemada Diaz, il tema è quello della frontiera intesa come limite e separazione: linea che separa i ricchi dai poveri, l’arretratezza dallo sviluppo; un confine da aggirare e superare grazie alla condivisione ed alla solidarietà. In Le Weekend, e in Pazza Idea ci si mette in viaggio alla ricerca di qualcosa che si è persa o non ancora trovata; un viaggio per ricucire una ferita, la fine di una scissione, per ritrovare la pienezza e l’equilibrio al proprio essere. www.circolochaplin.it 5 Make Up riunisce le opere in cui l’autore sceglie la trasfigurazione del reale quale condizione necessaria per poter esprimere il proprio punto di vista, la propria visione dello stato delle cose. In Solo gli amanti sopravvivono Jarmusch fa dei suoi vampiri due antiquari languidi come lui innamorati dei lampi elettrici di Tesla e dei White Stripes, della lentezza analogica e del vinile - eroi di un romanticismo perduto, stilizzati come bellissime figurine. Parodia elegante, divertissement ironico che restituisce ai vampiri la nobiltà perduta, con un canto funebre sorridente: freddo eppure spensierato come un ghiacciolo al sangue. Ne L’arte della felicità, lungometraggio di animazione, Alessandro Rak, trasforma un taxi in un microcosmo in cui il protagonista si rinchiude per sfuggire al suo mondo. Mentre fuori imperversa la tempesta, l’auto si affolla di passeggeri: sono anime, fantasmi, memorie, ricordi, speranze, rimpianti e nuove occasioni. Blancanieves, vincitore di ben dieci premi Goya, gli Oscar spagnoli, è una rivisitazione in chiave macabra e grottesca della celebre favola dei fratelli Grimm. Film muto e in bianco e nero, ambientato nell’Andalusia degli anni ‘20, Blancanieves è innanzitutto un grande omaggio al cinema muto, ricco di citazioni e riferimenti a registi come Friedrich Wilhelm Murnau, Eric von Stroheim e Tod Browning. Coinvolgente ed emozionante dal primo all’ultimo minuto, ha tra i suoi punti di forza un incantevole apparato visivo e una toccante colonna sonora, realizzata dal compositore Alfonso de Vilallonga. Con Snowpiercer, il più costoso film mai prodotto in Corea, Bong porta sullo schermo un classico della fantascienza. Non è solo un’efficace opera di genere, ma anche la ricercata occasione per condurre una riflessione filosofica sulla natura dell’uomo e le sorti dell’umanità: metafora cupa e inquietante, disperata e appropriatamente raggelante, ma al contempo ironica e aperta ad un finale di speranza. Nel nome del Padre propone un’ attualissima riflessione sui pericoli della religione intollerante e integralista: si va dalla imprevedibile indole balcanica di Padre Vostro e attraversando i territori della provincia americana narrati da Roberto Minervini di Stop the Circolo del Cinema Charlie Chaplin 6 pounding heart, si giunge all’inaspettato fondamentalismo religioso di Station of the cross “ come ogni sistema che non accetta altra verità che la propria… è la negazione stessa della vita”. (Anna Brüggemann, sorella e cosceneggiatrice del regista Dietrich). Interni di famiglia racconta le storie dei diversi sentimenti che il micro-cosmo sociale è in grado di evocare. A dare corpo ai fantasmi e ai sentimenti che popolano le mura domestiche, sono tre grandi autori di cinema, Manoel de Oliveira, Pawel Pawlikowskie e Asghar Farhadi oltre alla gradita riconferma di John Wells (Killer Joe). Infine Coming soon ci consentirà, come è ormai nostra consuetudine, di recuperare le “pellicole” che la distribuzione commerciale ci nega. Non possiamo chiudere la nostra presentazione senza ricordare la scomparsa di Domenico (Mimmo) Borrello, amico e dirigente, per lunghissimi anni, del Circolo ed a noi tutti molto caro. Lo ricordiamo qui con grande affetto, sicuri che sarà sempre con noi. A presto in sala con tutti P.S. L’anno scorso avevamo sollecitato ed auspicato una comunanza di intenti ed un maggior coordinamento nel mondo dell’associazionismo cittadino. Nel nostro piccolo abbiamo cercato, coerentemente, di farlo, aiutando anche gli amici del Museo dello Strumento Musicale. Altri, invece, in nome di “ansie di spazio” metteranno il pubblico dei cineclub nella condizione di seguire con molti affanni e grandi difficoltà proposte cinematografiche che si sovrappongono temporalmente. Sulla libertà di ognuno non si discute; parimenti sulla libertà di giudizio. Non resta che una mera constatazione: lo spirito “Rriggitaneddu”, mirabilmente descritto nelle poesie di Nicola Giunta, alberga sempre in questa comunità. www.circolochaplin.it 7 47° Anno sociale 2014 - 2015 21 ottobre 2014 Talenti e destini L’uomo in più Regia: Paolo Sorrentino; Sceneggiatura: Paolo Sorrentino; Fotografia: Pasquale Mari; Montaggio: Giogiò Franchini; Scenografia: Lino Fiorito; Musiche: Pasquale Catalano; Interpreti: Toni Servillo, Andrea Renzi, Nello Mascia, Ninni Bruschetta, Angela Goodwin, Roberto De Francesco, Enrica Rosso. Italia 2001. Durata: 100’ Napoli, anni ‘80. Tony è un cantante all’apice del successo. Sprezzante e apparentemente sicuro di sé, ma cocainomane incallito e con la morte del fratello sulla coscienza. Antonio Pisapia è uno stopper integro che non si presta ai trucchi del calcio scommesse. I due cercano di risalire la china, ma se Tony sembra disilluso, Antonio è convinto di potere essere un valido allenatore. Film interessante ed ispirato a due personaggi reali: il cantautore Califano e il calciatore Di Bartolomei. Si svolge in una Napoli diversa, spietata e cinica senza mai essere folkloristica. Il primo lungometraggio del regista napoletano, presentato nella sezione Cinema del Presente alla Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia del 2001, vince il Nastro d’Argento per il miglior film esordiente e ottiene tre candidature al David di Donatello. Oltre che regista, Paolo Sorrentino è autore del soggetto e della sceneggiatura, nonché si diletta, insieme all’amico Nino Bruno e a Peppe Servillo (fratello di Toni e leader degli “Avion Travel”) nella stesura dei testi de “La notte” e di “Lunghe notti da bar”. Le canzoni di Tony Pisapia sono interpretate dallo stesso Toni Servillo. Lo schema a quattro punte con “l’uomo in più” è ispirato allo schema tattico applicato da Ezio Glerean con il Cittadella, Sorrentino però ce lo serve come intuizione, ipotesi di Circolo del Cinema Charlie Chaplin 10 rinascita dal caos giovanile nella maturità. E sebbene non più giovanissimi i protagonisti è questo che tentano, fallendo compiutamente. I titoli di testa del film mostrano un’analogia con la scena finale del film “Le conseguenze dell’amore”. In entrambi i casi infatti l’attenzione si sposta su un personaggio (il fratello in un caso, un amico di infanzia nell’altro) totalmente estraneo ai fatti narrati nel film ma la cui assenza è importante nella caratterizzazione psicologica del protagonista. Superlativa interpretazione di Toni Servillo, memorabile il lungo monologo-riepilogo della sua vita, dinanzi all’attonito conduttore televisivo. Meno poliedrica ma ugualmente all’altezza, l’interpretazione di Renzi (sua l’idea di caratterizzare il personaggio con un lieve accento umbro) che oltre alla fisicità, assume il portamento e le precise movenze dei calciatori dell’epoca, robusti e impettiti ma non certo muscolosi come quelli attuali (come si vede nel suo ingresso sul terreno del San Paolo, scena peraltro girata “velocemente”, prima di una partita casalinga del Napoli). Sorprendente e di notevole impatto, nella scena che segue i titoli di apertura, lo sproloquio con cui il “Molosso” (Nello Mascia) si scaglia contro i suoi giocatori (tributo al “Petisso” Bruno Pesaola, celebre e focoso allenatore del Napoli, liberamente ispirato al sergente Hartman di “Full Metal Jacket”). Facendo già sfoggio di uno stile che poi affinerà nelle opere successive, Sorrentino affonda oltre l’apparenza delle persone e ne traccia le multiformi personalità, stavolta in una fase della vita comune ad ogni essere umano: il declino. Ne dipinge le ombre, che già si insinuano nel momento del successo, della massima soddisfazione personale che spietatamente precede la decadenza. Atmosfere cupe, sordide, un senso di solitudine quasi costante, si alternano al ritmo leggero e volubile degli anni ‘80. Una scelta di opposti certo non casuale. Come casuale non è l’oggetto d’indagine di Sorrentino, ovvero il lato oscuro di due colonne portanti del nostro paese: il calcio e la musica leggera. www.circolochaplin.it 11 28 ottobre 2014 Talenti e destini Frances HA Regia: Noah Baumbach; Sceneggiatura: Noah Baumbach, Greta Gerwig; Produttore: Noah Baumbach, Scott Rudin, Rodrigo Texeira, Lila Yacoub; Fotografia: Sam Levy; Montaggio: Jennifer Lame; Scenografia: Sam Lisenco; Interpreti: Greta Gerwig, Mickey Sumner, Adam Driver, Michael Zegen, Patrick Heusinger; USA 2012; Durata: 86’ Frances vive a New York, ma non ha un vero e proprio appartamento. è un’aspirante ballerina, ma non fa veramente parte della compagnia con cui danza. La sua migliore amica Sophie è per lei un’altra se stessa con capelli differenti. Ma quando Sophie conosce Patch e si trasferisce da lui, Frances deve imparare a badare a se stessa. Frances si butta a capofitto nei suoi sogni, anche se le loro possibilità di realizzarsi diminuiscono. Frances vuole molto di più di quello che ha, ma vive la sua vita con un’incalcolabile gioia e leggerezza. Frances Ha è una favola in chiave comico moderna dove Noah Baumbach esplora New York, l’amicizia, la classe, l’ambizione, il fallimento e la redenzione. Il filtro dello sguardo è tanto curioso quanto affettuoso e non si sa se sia più la Gerwig ad offrire l’anima a Francis, la protagonista del film, o la sceneggiatura del film, scritta dal regista, ad offrire all’attrice quanto di meglio potesse chiedere. Il film è girato in bianco e nero e per questo aspetto vuole richiamare direttamente molte pellicole di Woody Allen (vedi “Manhattan”) dove protagonista diventa anche, se non solo, la città di New York stessa. Gaffes, goffaggini e disavventure connotano questa ragazza giovane ma non giovanissima (27 anni viene detto più volte) con la sindrome di “Peter Pan” che sembra non voler proprio imparare né a vivere né ad avere rapporti sociali semplici. Circolo del Cinema Charlie Chaplin 12 I maggiori problemi sembrano nascere quando Frances deve imparare a badare a se stessa perché la sua migliore amica nonché roomate Sophie, si innamora di Patch e va a vivere con lui. Sophie rappresenta una sorta di alter ego, tanto precisa, pulita e ordinata quanto Frances disordinata e trasandata. “L’essere e l’apparire” è il suo dramma quotidiano che in tal mondo perde affetti, lavoro e piaceri: ad esempio il suo week-end a Parigi è uno dei week-end più disastrati visti sullo schermo. Il bianco e nero aggiunge inoltre una prospettiva romantica e atemporale che si adatta alla perfezione a questo ritratto di una ragazza di oggi, in viaggio da un appartamento da dividere all’altro, che deve fare i conti con aspirazioni smisurate e soldi contati, ma è allo stesso tempo e prima di tutto una donna, che potrebbe appartenere a qualsiasi epoca. Ciò che rende Francis un personaggio, o “carattere”, è il possesso di un punto di vista sul mondo assolutamente personale. Non siamo di fronte ad una bambinona cresciuta o, se è anche questo, lo è nel suo aspetto meno comodo e patologico: Francis sa quello che vuole, semplicemente, suo malgrado, non ce l’ha. Non ha il talento per danzare nella compagnia di ballo né il potere di impedire alla sua migliore amica di innamorarsi e andarsene. Eppure guarda al mondo (e cioè vive) con innata gioia, senza pigrizia, supplendo da sola alle sue stesse continue goffaggini. La sceneggiatura è scritta dal regista Noah Baumbach e dalla stessa attrice Greta Gerwig che sembra cucirsi addosso il personaggio. Baumbach, che per primo diede alla Gerwig visibilità internazionale in Greenberg, torna a lavorare con lei, nel frattempo divenuta la musa del cinema indipendente e cosiddetto mumblecore e realizza questo piccolo gioiello, leggero, pudico e pieno di vita, anche quando fotografa il fallimento. Ottima la colonna sonora e il riferimento alla danza di Pina Bausch. Come i film di Allen di una volta, il ritmo è serrato e molto verboso quindi in alcuni punti si fatica anche un po’ a starle dietro. Forse dieci minuti in meno avrebbero giovato al suo successo. www.circolochaplin.it 13 4 novembre 2014 Talenti e destini Frank Regia: Lenny Abrahamson; Sceneggiatura: Jon Ronson, Peter Straughan; Produttore: Film4, Element Pictures, Runaway Fridge Productions, Indieproduction; Fotografia: James Mather; Montaggio: Nathan Nugent; Musiche: Stephen Rennicks; Interpreti Michael Fassbender, Domhnall Gleeson, Maggie Gyllenhaal, Scoot McNairy, Tess Harper; UK, IRLANDA 2014; Durata: 95’ Jon è un giovane aspirante musicista che fatica a sfondare e a trovare una sua voce. Ma le cose cambiano quando si unisce ai Soronprfbs, una band d’avanguardia dal nome impronunciabile e dai modi alquanto inusuali. Il leader del gruppo, il misterioso Frank, è un artista di grande talento, un vero genio della musica. Ha solo un vezzo, che lo rende ancora più indecifrabile: indossa costantemente una gigantesca maschera di cartapesta. Tragicommedia esistenziale, Frank è stato presentato al Sundance Film Festival 2014 e successivamente distribuito nelle sale cinematografiche britanniche il 9 maggio. Pur non riprendendo nella trama fatti reali, il film è liberamente ispirato al personaggio di Frank Sidebottom, alter ego del musicista e comico britannico Chris Sievey e ai cantautori Daniel Johnston e Captain Beefheart. Il film è diretto dal regista irlandese Lenny Abrahamson: “Non volevo seguire il classico cliché da film sulla rock band che dopo una faticosa avventura raggiunge la gloria con un live finale”, spiega Abrahamson presente al Biografilm Festival di Bologna, “Frank è un film su chi non esiste nel mainstream, su degli outsider”. Così superata la sorpresa per la star che recita ma non mostra il viso, l’impianto drammaturgico di Frank viene orientato sull’intera comitiva di folli musicisti, necessariamente con ricoveri psichiatrici o un’infanzia difficile alle spalle: il Circolo del Cinema Charlie Chaplin 14 manager impazzito, la taciturna batterista, il bassista francese, la cinica collaboratrice musicale Maggie Gyllenhaal al suo meglio nei ruoli ruvidi e comicamente torbidi. “Volevo celebrare la creatività in modo trasversale, oltre ogni limite – continua Abrahamson – ho cercato quindi di avvicinarmi a esperienze reali di musicisti come Daniel Jonhston, Captain Beefheart, The Residents”. Nulla di strano però, perché Frank non è un film demenziale o grottesco, bensì una sorta di opera esistenziale sulla caducità della creazione artistica e del talento musicale. Felpine e t-shirt dal look un pò hypster, sonorità che spizzicano arie da theremin e sfregamenti di carta stagnola, Frank e i suoi The Soronprfbs si ritirano in una casetta dei boschi irlandesi per registrare il nuovo album, ma prima fanno entrare nel gruppo Jon (quel Domnhall Gleeson in questi giorni al lavoro sul set di Star Wars), tastierista ragazzotto pel di carota: dapprima titubante, Jon lascerà poi il lavoro e affronterà i suoi imbarazzanti limiti compositivi, fino a diventare l’effimero manager della band nel disastroso concerto che compiranno al South by Southwest in Texas. Ultimo tassello narrativo/musicale l’ispirazione alla carriera di Frank Sidebottom, all’anagrafe il comico inglese Chris Sievey che recitava sketch con la stessa maschera del film in testa e del suo gruppo musicale il cui tastierista Jon Ronson è diventato sceneggiatore del film, in coppia con Peter Straughan (La Talpa). “La grande sfida per me è il compositore dei brani della band nel film”, conclude il regista irlandese, “è stata non scadere nel ridicolo. Un po’ di pezzi sono grigi e semplici pezzi melodici, altri più sperimentali e al limite”. In questa ‘credibilità’ del bordone sonoro, cioè fin dove lo spettatore coglie l’aspetto ‘artistico’, anche in base alle proprie competenze e gusto musicale, che “Frank” sta a galla. Ma c’è sempre l’attesa per la ‘scopertura’ di Fassbender: semi lobotomizzato, intontito e catatonico come Jack Nicholson negli ultimi minuti di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, ritrova la sua band e canta un pezzo struggente e strappalacrime, o patetico e da sbellicarsi. Al pubblico l’ardua sentenza. www.circolochaplin.it 15 11 novembre 2014 Talenti e destini Spaghetti Story Regia: Ciro De Caro; Sceneggiatura: Ciro De Caro; Produttore: PFA Films, Enjoy Movies; Fotografia: Davide Manca; Montaggio: Alessandro Cerquetti; Musiche: Francesco D’andrea; Interpreti: Valerio Di Benedetto, Cristian Di Sante, Sara Tosti; Italia 2013; Distribuzione: Distribuzione indipendente. Durata: 82’ Valerio è un aspirante attore ventinovenne che non riesce a sbarcare il lunario, e si arrangia con impieghi part-time, nell’attesa di poter vivere del proprio lavoro. L’amico d’infanzia Christian è un pusher (ma lui precisa: “rivenditore al dettaglio”) che fa affari con la mala cinese e vive ancora con la nonna. Valerio vive con Serena che persegue un dottorato grazie ad una borsa di studio e vorrebbe costruire una famiglia. Giovanna, sorella di Valerio, lavora come massoterapista, ma sogna di diventare chef di cucina cinese. Quattro giovani adulti dei nostri giorni, che sembrano avere le idee chiare su chi sono e cosa vogliono ma di fatto restano ingabbiati nei propri schemi mentali. Ognuno giudica l’altro ed è cieco di fronte alle proprie esigenze e potenzialità. Quando la giovane prostituta cinese Mei entra a far parte delle loro vite, tutto è costretto a cambiare rapidamente. Spaghetti story è un film realizzato all’insegna dell’economia, girato con un budget di 15000 euro, in soli 11 giorni, con una macchina digitale corredata di un’unica ottica (50 mm), un microfono, due luci d’ambiente e poco piu’. E’ stato l’unico film italiano presente al Moscow International Film Festival, ed è stato coraggiosamente proposto in poche copie da una distribuzione indipendente. De Caro, regista romano proveniente dalla pubblicità, esordisce in maniera interessante riuscendo a mettere a fuoco il ritratto complesso e sincero di una generazione allo Circolo del Cinema Charlie Chaplin 16 sbando, in bilico tra le difficoltà di una quotidianità ostile e le (dis)illusioni di un futuro assai poco accattivante. La sua pellicola, scrivono i giornali, “dà voce a una generazione che voce non ha” e lo stesso De Caro racconta «Quando mi sono seduto a scrivere avevo in mente di rappresentare la mia generazione così com’è, senza quel velo patinato delle produzioni a grande budget, dove i precari hanno la Mini e i disoccupati vivono nei loft”. I suoi adulti bambini, insicuri e mai del tutto risolti che si affannano invano per sconfiggere una precarietà (emotiva ed economica) quasi inappellabile, raccontano molto della nostra società: sono lo specchio di una generazione data per spacciata in troppi telegiornali e statistiche percentuali. Comunque “Spaghetti Story” sorprende lo spettatore per la sua ironia sferzante e una garbata leggerezza, mai sinonimo di superficialità. Merito soprattutto di dialoghi scoppiettanti e di sfacciata onestà, messi in bocca a un affiatato gruppo di attori debuttanti o semi-sconosciuti, “pasoliniani proprio” direbbe Scheggia. Il vero motore della pellicola sono le loro performance, ora toccanti, ora esilaranti, servite con pratica compostezza da una regia essenziale e piana, che privilegia la camera a mano e i lunghi piani fissi ravvivati da un montaggio dinamico e giocoso. Anche questi attori debuttanti, come i personaggi che interpretano, fanno altro nella vita per riuscire a sbarcare il lunario: Cristian Di Sante, durante la lavorazione del film, era un dipendente dell’Ama; Valerio Di Benedetto, invece, fino allo scorso settembre serviva ai tavoli in un locale alla Garbatella: «Poi ho smesso per un lavoro come attore, ma da gennaio chissà…”. De Caro descrive con precisione anatomica il mix di umiliazione e apatia che la crisi economica genera nella sua generazione, il suo ritratto, in forma di commedia, di certa realtà generazionale sospesa tra aspettative e disillusione, cinismo e (finta) sicurezza nei propri mezzi, funziona e colpisce nel segno. Tra battute di dialogo fulminanti e scene da commedia del nostro primo neorealismo, si morde l’amaro di una condizione che non sembra offrire nessuna facile via di riscatto. La sceneggiatura, opera del regista e della compagna (presente anche nel cast nel ruolo di Giovanna) Rossella D’Andrea, è ben scritta, si rileva solida e brillante. www.circolochaplin.it 17 18 novembre 2014 Sliding doors Un insolito naufrago nell’inquieto mare d’Oriente Regia di Sylvain Estibal. Con Sasson Gabay, Baya Belal, Myriam Tekaïa, Gassan Abbas, Khalifa Natour. Titolo originale - Le cochon de Gaza. Commedia, Francia, Germania, Belgio 2011. Durata: 98’ Jafaar è un pescatore palestinese che pesca sardine e vive con la moglie lungo il muro della Striscia di Gaza. Dimenticato da Allah, incalzato dai creditori e avvilito da una vita sorvegliata da Israele e dai suoi militari che ‘bazzicano’ nella sua casa e controllano ogni suo respiro, Jafaar butta la rete in mare e una mattina pesca l’impensabile: un grosso maiale vietnamita. Considerato animale impuro dalla sua religione, decide subito di sbarazzarsene. Il desiderio di qualcosa di meglio per lui e la sua consorte tuttavia lo fa desistere e il maiale diventa una fonte inaspettata di guadagno. Dopo numerosi tentativi falliti al di là e al di qua del muro, Jafaar trova in una giovane colona russa e nella capacità riproduttiva del suo maiale il business e la risposta alle sue preghiere. Quando tutto sembra andare finalmente per il verso giusto, un gruppo di terroristi integralisti lo recluta suo malgrado, mandando letteralmente in aria il suo commercio e la sua vita. Opera prima di Sylvain Estibal, giornalista, scrittore e realizzatore francese di origine uruguaiana, il film è una commedia che azzarda in un territorio delicato e suscettibile come la Striscia di Gaza. Estibal si prende il rischio e (lo) fa bene, lasciando che il suo protagonista agisca maldestramente dentro gli spazi ridotti, della vita e della pesca, da Israele. Motore della Circolo del Cinema Charlie Chaplin 18 storia è un grande e grosso maiale vietnamita, il cui consumo è tabù tanto per i palestinesi quanto per gli ebrei. Di nuovo sono le ‘restrizioni’, questa volta religiose, a costringere Jaafar, accrescendone la creatività e provocando la comicità. Nel suo svolgersi rocambolesco il film incrementa il nonsense, indotto dalla paranoia delle due parti, giocando sulle corrispondenze tra israeliani e palestinesi e senza fermarsi davanti alle differenze. Che sia imposta militarmente dall’esercito israeliano o congiurata dagli estremisti islamici, la violenza non è mai nascosta, piuttosto è scoperta, visibile e moderata dal tono farsesco che sfoga le ipocrisie, come i calzini calzati dal maiale di Jafaar sul territorio israeliano o l’allevamento di maiali dei coloni ebrei tollerato per la capacità che hanno questi mammiferi di fiutare gli esplosivi. Piccola commedia umanista e ‘fraterna’, premiata nel 2012 con un César al miglior debutto, Il film trova il giusto equilibrio tra farsa e fiaba, giudaismo e islamismo, tra Haram e Taref (il cibo proibito secondo le prescrizioni alimentari di ebrei e musulmani), rinnovando il discorso su un conflitto infinito e attivo da più di sessant’anni. Adottando un punto di vista originale e poetico che ‘approda’ nella visione onirica, Sylvain Estibal realizza un ritratto sensibile dove niente è eluso e dove le due fazioni sono calate, con la propria umanità e la reciproca indulgenza, dentro la loro realtà complessa e davanti agli immutabili (e immutati) affanni quotidiani. Le cochon de Gaza (per altro stupidamente rititolato per l’Italia “Un insolito naufrago nell’inquieto mare d’oriente” scimmiottando banalmente - e anche inutilmente la Wertmuller, visto come poi sono andate le cose e le risibili presenze che è riuscito a racimolare) è l’interessante debutto in veste di regista di Sylvain Estibal (autore anche della scoppiettante sceneggiatura): è all’apparenza un sapido e intelligente “divertissement” tutt’altro che fine a se stesso però, poiché riesce a sfruttare magistralmente il gustoso paradosso dell’indovinatissima trovata di partenza per costruirci sopra una commedia che pone molti quesiti, lancia importanti messaggi e suggerisce qualche seria riflessione che prende forma all’interno di situazioni sempre molto divertenti utilizzando i classici stilemi tutti ben rodati e sperimentati, degli inganni, dei sotterfugi, delle deliberate finzioni (equivoci compresi), dei camuffamenti e delle allegorie, il tutto condito con moltissima satira sociale che si spinge fino all’estremismo religioso. www.circolochaplin.it 19 25 novembre 2014 Sliding doors Lunchbox Regia: Ritesh Batra; Sceneggiatura: Ritesh Batra, Rutvik Oza; Produttore: Anurag Kashyap, Guneet Monga, Karan Johar, Siddharth Roy Kapur, Arun Rangachari; Fotografia: Michael Simmonds; Scenografia: Shruti Gupte; Interpreti: Irrfan Khan, Nimrat Kaur, Nawazuddin Siddiqui, Denzil Smith, Bharati Achrekar; Nakul Vaid; Lillete Dubey; Nazionalità: India Francia, Germania, USA 2013; Durata: 101’ Ogni mattina a Mumbai 5 mila fattorini consegnano i cestini del pranzo che le mogli preparano per i mariti al lavoro. Spesso analfabeti, i fattorini sono efficienti e riescono a muoversi nei labirinti della città grazie a un complesso sistema di codifica fatto di colori e simboli. Così, Ila Singh, giovane moglie che cerca di salvare il proprio matrimonio in crisi, prepara tutti i giorni il pranzo al marito, lo impacchetta in una lunchbox e lo consegna al fattorino. Un giorno le sue squisite pietanze finiscono per sbaglio col nutrire un sopito desiderio di vita, quello di Saajan, un uomo solitario nel crepuscolo della sua vita che vive a Bandra, vecchio quartiere cristiano minacciato dai grattacieli di moderna costruzione. Entrambe persone sole (egli è vedovo, lei una madre con figlia piccola e marito di fatto assente), attraverso il cibo, riescono a instaurare una comunicazione emotiva, in quel misterioso ambito del pensiero che si situa tra allusione e illusione, attraverso la quale Ila scopre di più su un uomo che ha da tempo smesso di cercare qualcosa nella vita, e di converso scoprendo che forse è il momento anche per lei di cambiare qualcosa. LUNCHBOX, il cui titolo in origine è “Dabba” è un’opera prima di Ritesh Batra, il quale ne ha scritto anche la sceneggiatura oltre che curarne la regia. Prodotto dal TorinoFilmLab, è stato selezionato alla Settimana Internazionale della Critica Circolo del Cinema Charlie Chaplin 20 al Festival di Cannes 2013, vincendo il Critics Week Viewers Choice Award ed è stato presentato al Toronto International Film Festival. È uscito nelle sale indiane il 20 Settembre 2013 e in Italia il 28 Novembre 2013. Si caratterizza per essere una delicata poesia, grazie soprattutto alla bravura dei protagonisti e ad una sceneggiatura ricca di momenti felici, resa in immagini ben fotografate, in riprese da vicino, spesso in interni malinconici e solitari, contrapposte a quelle della folla colorata degli esterni. Schiacciando tutto e tutti su sfondi densi e colmi di persone (gli uffici, come le strade, come i mezzi pubblici o i ristoranti) Lunchbox stupisce anche per la sua capacità di avere una dimensione visiva potente e ragionata per cui l’esordiente Ritesh Batra sembra dire molto più con le immagini di quanto non faccia con le parole. Lontano dal sentimentalismo zuccheroso dei film alla Bollywood, ci troviamo di fronte ad una commedia sentimentale che si caratterizza per il tono leggero e le risate, quasi sempre scatenate con recitazione e messa in scena e raramente attraverso battute o gag fisiche, nei due personaggi protagonisti e nel loro atteggiamento nei confronti dell’occasione che il caso offre loro. Esiste un’austerità penetrante che non viene mai abbandonata neanche dopo la fine del film, un peso silenzioso che è quello di un’entità invisibile ma sempre presente, come la società. Il famoso attore Irrfan Khan (attore molto noto al pubblico occidentale per le apparizioni in film come Spider-man, Il treno per il Darjeeling, The milionaire e Vita di Pi) impreziosisce il film con un’interpretazione tanto intensa quanto composta, eppure ricca di sfumature, dove è degnamente affiancato da una deliziosa e naturale Nimrat Kaur. Sicuramente la disillusione di Saajan, rimasto senza l’amore della sua vita, è una caratterizzazione che si è vista molte volte eppure Irrfan Khan gli da vita con una misura ed un’economia d’espressioni che sfondano in pochi gesti il muro dell’incredulità e si accoppiano perfettamente al colore grigio dei luoghi che abita. Il finale arriva prevedibile e definito oppure aperto, a seconda di come lo si voglia interpretare. Che si tratti di una storia possibile e realizzabile o di una storia che naviga in un magico sogno, giusto per quel momento, essa riesce, comunque, a donare un senso di poesia e di speranza che rafforza intimamente le anime avvilite dei due protagonisti e le rincuora a vivere e a valorizzarsi. www.circolochaplin.it 21 2 dicembre 2014 Sliding doors Father and son Regia di Hirokazu Koreeda. Con Masaharu Fukuyama, Yôko Maki, Jun Kunimura, Machiko Ono, Kirin Kiki; Nazionalità: Giappone 2013. Titolo originale Soshite Chichi Ni Naru. Durata: 120’ Nonomiya Ryota è un professionista di successo, un uomo che ha fatto della qualità e crescita della sua professione il suo primo scopo con la conseguenza di un benessere vissuto con orgoglio e compiacimento. Un giorno, lui e la moglie Midori, ricevono una chiamata dall’ospedale di provincia dove sei anni prima è nato loro figlio, Keita, e con stupore apprendono di essere stati vittima di uno scambio di neonati. Il piccolo Keita non è loro figlio naturale ma è, in realtà, il figlio biologico di un’altra coppia, che sta crescendo il loro vero figlio, insieme a due fratellini, in condizioni sociali più disagiate e con uno stile di vita molto differente. Ryota si trova di fronte alla necessità di una decisione terribile, che potrebbe cambiare per sempre la sua esistenza: scegliere tra il figlio che ha cresciuto come tale e quello che invece gli appartiene per natura. Inizierà così a rimettere in discussione anche se stesso e il tipo di padre che è stato. Il giapponese Kore-Eda conferma le qualità artistiche di cui ha sempre dato prova con questa esplorazione splendidamente misurata di un dilemma, che mira dritto al cuore dell’uomo con la sobrietà e il logico distacco, volti ad approfondire i meandri della memoria e dei sentimenti profondi e come tali contrastanti, tra cui l’elaborazione del lutto e, nel caso di quest’opera di una storia rappresentata in chiave di commedia, con lievi sfumature drammatiche, sulle conseguenze a distanza di Circolo del Cinema Charlie Chaplin 22 6 anni della rivelazione di uno scambio in culla di due neonati, cresciuti in due famiglie opposte per stile di vita e approccio ai problemi e ai sentimenti. Con la leggerezza della grande scrittura, l’abilità di costruire un’architettura perfetta nel bilanciare il peso di azioni e reazioni tra i due nuclei familiari coinvolti (il regista ha affermato di essere partito con questo film per un viaggio dentro se stesso, riconoscendosi nelle questioni personali di Ryota), e con un cast in grado di conferire all’opera un valore aggiunto altissimo, Kore-Eda mantiene un registro contenuto ma attento ai particolari e ai piccoli incidenti del vivere, nel quale le belle idee sono silenziosamente numerose e nulla è mai di troppo. In particolare, nonostante il film racconti la maturazione di Ryota rispetto al suo essere padre, sorprende la verità con la quale il regista coglie le reazioni dei due bambini, bloccati tra la fiducia che ripongono nei genitori, la volontà di ottenere la loro ammirazione e il disagio dell’incomprensione. Non sono poche le barriere culturali che ci impediscono di non trovare mostruoso il comportamento del protagonista o colpevolmente remissivo quello della moglie, ma è il film stesso, probabilmente, ad accrescerli leggermente nella prima parte. Un film senza tempo sul destino e il dolore ma anche la gioia dei bambini e di chi li cresce, li educa e li ama. La straordinaria colonna sonora è tutta in pianoforte, ad accompagnare i diversi moti dell’anima di ognuno. Straordinari i bambini per naturalezza e indimenticabile interprete di Ryota per sottrazione e intensità del bell’attore Masaharu Fukujama, ben fiancheggiato da Machiko Ono e dagli interpreti dell’altra coppia. Quello di Koreeda è cinema di realismo limpido, profondamente umanista: se si piange, se si ride, lo si fa frequentando i personaggi, guardandoli con comprensione. Alla superficie placida delle sue inquadrature non interessano gli eventi notevoli, ma le increspature della realtà, le piccole onde che trasportano i tumulti interiori. www.circolochaplin.it 23 9 dicembre 2014 Sentimenti in cammino Le weekend Regia: Roger Michell; Sceneggiatura: Hanif Kureishi; Produttore: Film4, Free Range Films, Le Bureau; Fotografia: Nathalie Durand; Montaggio: Kristina Hetherington; Musiche: Jeremy Sams; Interpreti: Lindsay Duncan, Jim Broadbent, Sophie-Charlotte Husson, Jeff Goldblum, Olly Alexander, Judith Davis; Francia Gran Bretagna 2013; Distribuzione: Lucky Red. Durata: 93’ Nick e Meg sono una coppia inglese di ultracinquantenni: lui professore universitario, lei insegnante di liceo. Decidono di festeggiare il loro trentesimo anniversario di matrimonio tornando per un weekend a Parigi, dove avevano trascorso la loro luna di miele. La Parigi bella e volubile (come il loro altalenante stato d’animo) che attraverseranno diverrà testimone di quella loro unione, attraversata tanto da rabbia e frustrazione quanto da un legame assai profondo e forse impossibile da recidere. Sarà poi l’incontro con Morgan (vecchio compagno di università di Nick) e la serata da questi organizzata per festeggiare la pubblicazione del suo ultimo libro, a ufficializzare lo stato di quella catarsi umana e relazionale che nel viaggio a Parigi troverà il suo climax ideale. Il week-end del titolo è quello che due insegnanti inglesi ultrasessantenni con figli ormai grandi decidono di trascorrere nella capitale francese per festeggiare il loro trentesimo anniversario di matrimonio. A Parigi erano già andati per la luna di miele; il nuovo viaggio dovrebbe anche servire per rinverdire (almeno un poco) un menage ormai segnato dalla routine. Decisamente saranno giorni diversi dal solito...Una commedia agrodolce, sulla fatica e la difficoltà di invecchiare insieme più che su termini alti e non Circolo del Cinema Charlie Chaplin 24 di rado annacquati come “amore”. Il regista inglese Roger Mitchell affronta con Le WeekEnd il discorso sulle evoluzioni-rivoluzioni cui la coppia va incontro nell’arco di una vita. In un film costruito tutto su dialoghi che mischiano ironia, amarezza e le consuetudini comunicative di una ‘solidità affettiva’, Mitchell sceglie il luogo del romanticismo per eccellenza per decostruirlo e (soprattutto) decostruirne l’assolutismo amoroso di cui è simbolo. Attraverso il logorio, il compromesso, le frustrazioni e anche gli insondabili legami della coppia di sessantenni, Le Week-End spalanca la finestra sul mondo del disincanto e dello stoicismo che rappresentano il lato più oscuro ma anche più veritiero del legame amoroso. Saltate le luci, i sogni sconfinati, e la magia dell’amore giovane vissuto per mano, sotto i riverberi romantici della Tour Eiffel, ciò che resta è il ricordo dei sacrifici e dei compromessi fatti per arrivare fin lì. Che dipenda dalla scrittura di Hanif Kureishi, alla sua quarta collaborazione con il regista, o dal fatto che entrambi hanno l’età esatta dei personaggi del film, la verità è che la storia che hanno inventato è una gemma preziosa, un ritratto disperatamente malinconico, ma anche spiritoso, dell’amore a 60 anni e delle difficoltà non di stare insieme, ma di evolvere allo stesso modo e di continuare a conoscersi intimamente. Le situazioni sono articolate con delicatezza e il film risulta convincente, perché i suoi protagonisti, interpretati con evidente empatia da tre magnifici attori, sono ben riconoscibili, ma non scontati. Jim Broadbent e Lindsay Duncan duettano magnificamente all’interno di un’opera amara e cinica che non manca però (a suo modo) di rappresentare anche le gioie e le rassicuranti fondamenta delle vita a due. Un film in cui i dialoghi, ironici o pungenti, assieme all’alternarsi dei momenti di tenerezza o reciproca ostilità, trasmettono piuttosto bene la bivalenza, la doppia faccia di uno stare insieme che pesa sull’autonomia e sull’indipendenza dell’individuo, ma che dovrebbe (all’occorrenza) essere anche in grado di alleggerirlo dal fardello della solitudine, di una vita vissuta nella mancanza di condivisione. www.circolochaplin.it 25 16 dicembre 2014 Sentimenti in cammino Pazza idea Regia: Panos H. Koutras; Sceneggiatura: Panagiotis Evangelidis , Panos H. Koutras; Produttore: 100% Synthetic Films, Wrong Men, Movie Partners In Motion Film; Fotografia: Helene Louvart Simos Sarketzis; Montaggio: Yorgos Lamprinos; Musiche: Delaney Blue; Interpreti: Kostas Nikouli, Nikos Gelia, Aggelos Papadimitriou, Romanna Lobats, Marissa Triandafyllidou; Grecia, Francia, Belgio 2014. Distribuzione: Officine Ubu. Durata: 128’ Morta la madre, il sedicenne omosessuale Dany (Kostas Nikouli) lascia Creta per raggiungere il fratello maggiore Odysseus (Nikos Gelia) ad Atene. Danny e Odysseus insieme decidono di partire da Atene alla volta di Salonicco alla ricerca del padre, che li aveva abbandonati in tenera età. Dal padre voglio farsi dare ciò che spetta loro, compresa la nazionalità greca, e poi vincere un talent show cantando una canzone di Patty Pravo, la passione della loro mamma, morta di alcool e solitudine. Sulla strada dovranno affrontare i fantasmi del proprio passato, la crudeltà degli uomini per realizzare a qualunque costo il loro sogno. Il regista Panos H. Koutras, sconosciuto in Italia, ha trovato, nel suo quarto lungometraggio, presentato al Festival di Cannes 2014 nella sezione Un Certain Regard, una sintesi molto ben riuscita di alcune tematiche a lui molto care, che spaziano dalla cultura classica greca a quella post moderna del pop e dei reality. Il film appare come un miscuglio agrodolce dove la cultura gay e quella televisiva, il cinema d’autore (da Araki a Almodovar passando per le citazioni di Donnie Darko e Charles Laughton) e Canzonissima, il fantastico e il documentario (i protagonisti sono non professionisti), Circolo del Cinema Charlie Chaplin 26 s’incontrano in una terra di mezzo che rende possibile la coesistenza del melodramma e della sua parodia. La terra di mezzo è il sentimento. Il sentimento dell’amore fraterno, che diventa faro nella nebbia. Koutras percorre una strada diversa rispetto ai colleghi del cosiddetto nuovo cinema greco che inscenano l’aspetto algido e mortifero della crisi sociale, spesso proprio a partire dalla disintegrazione della famiglia, e opta invece per la musica, il colore e il palpito, senza per questo rinunciare alla tensione e alla denuncia. Tutta la pellicola è attraversata trasversalmente, anche nei passaggi più drammatici, da un’ironia di fondo che sa alleggerire e approfondire, molto funzionali in questo senso le canzoni di Patty Pravo disseminate un po’ in tutto il film, ma non manca nel film la tematica della crisi. Quella economica si percepisce, quella sociale si soffre insieme ai protagonisti: fascisti che organizzano retate, polizia violenta, discriminazione per gli omosessuali e assenza di integrazione tra le varie etnie, il quadro attuale del paese ellenico che ne esce fuori è drammatico, ma non senza speranze. Non lo è grazie per esempio all’amore fraterno, rappresentato come paradigma indissolubile e invincibile. Vediamo quindi mescolarsi il melodramma mediterraneo alla Almodóvar, la commedia queer, il romanzo familiare, un qualcosa di classica tragedia greca, il tutto incapsulato in un racconto di formazione con al centro il fiammeggiante Dany. Personaggio che trova nel giovanissimo Kostas Nikouli – una scoperta – un attore in grado di restituire insieme improntitudine e fragilità, rabbia e arrendevolezza. Un gay che sfiora i cliché ma che non ne resta ingabbiato, a momenti irresistibile, di una vitalità anarchica e disperata e accattivante, un character cui lo spettatore impara presto ad affezionarsi. Sceneggiatura e regia riescono ad inscenare in modo perfetto e complementare il mondo interno di Dany, le sue paure e i suoi rifugi, le sue “visioni” e le sue premonizioni. Quanto a lei, Nicoletta-Patty, pare sia un totem personale del regista Panos H. Koutras, il quale se la vedeva bambino sulla tv greca nelle varie Canzonissime e poi l’ha incontrata a Napoli nel 2006, recuperando da allora (“sono le mie madeleine”, racconta lui) tutti i suoi dischi. www.circolochaplin.it 27 13 gennaio 2015 Sentimenti in cammino La gabbia dorata Regia: Diego Quemada-Diez; Sceneggiatura: Diego QuemadaDiez, Gibrán Portela, Lucia Carreras; Fotografia: María Secco; Montaggio: Leonardo Heiblum, Paloma López; Musiche: Jacobo Lieberman; Interpreti: Brandon López, Rodolfo Domínguez, Karen Martínez, Carlos Chajon; Spagna, Messico. Distribuzione: Parthénos. Durata: 102’ Juan, Sara e Samuel, 15 anni, fuggono dal Guatemala tentando di arrivare negli Stati Uniti. Durante la traversata del Messico, incontrano Chauk, un indio tzotzil che non parla spagnolo e sta viaggiando senza documenti. I tre adolescenti aspirano ad una vita migliore oltre la frontiera messicana, ma ben presto dovranno affrontare tutt’altra realtà. La gabbia dorata è l’opera prima di Diego Queimada-Diez, regista nato in Spagna, che dopo una lunga esperienza come assistente di personaggi quali Ken Loach, Oliver Stone, Alejandro Gonzalez Inàrritu e Fernando Meirelles, è passato al corto e al documentario (9 prodotti) ed ora al lungometraggio. Al centro del film di Quemada-Díez c’è il concetto di frontiera. Intesa come limite e separazione, linea immaginaria che separa i ricchi dai poveri, terre economicamente sviluppate da altre ferme sotto il giogo di una grande arretratezza. Un confine da aggirare, navigando su corsi d’acqua, strisciando in angusti cunicoli, camminando sulle rotaie di una ferrovia che dovrebbe portare al progresso, ad una realtà migliore, almeno in teoria. Un tema attualissimo che ci vede diretti testimoni soprattutto in questi ultimi anni. Il viaggio di Juan, Sara e Chauk è quello di tutti i migranti, di uomini alla ricerca di un luogo solo concettualmente distante in cui giocarsi la possibilità di essere diversi da quello che la Circolo del Cinema Charlie Chaplin 28 geografia ha scelto per loro alla nascita. Il regista ha raccolto le storie vere di centinaia di persone, ha vissuto in casa loro e ha frequentato i ghetti più pericolosi, rischiando a volte la vita. E’ un film nato in anni di preparazione e centinaia di ore di interviste e testimonianze di prima mano, Quemada-Diez ci tiene a sottolineare la componente realistica: “Tutto quello che è nel film c’è perché l’ho visto o vissuto o saputo. Ho conosciuto una ragazzina, come Sara, di 17 anni, che ha iniziato il viaggio a 12 anni con la madre che prima di partire le tagliò i capelli, le fasciò il seno e la vestì da uomo. A un certo punto del viaggio la madre è scomparsa. Sono storie molto forti. Ho incontrato una donna che prendeva la pillola perché sapeva che sarebbe stata violentata, era scontato per lei, ho preso dettagli da persone vere per costruire questi personaggi che sono un insieme di più cose. La maglietta di Rambo era quella del ragazzo indio, così come l’idea di salire sull’albero per ritrovare se stesso. Ognuno aveva la sua verità da raccontare. Ho cercato di fare ascoltare le voci di tutti perché diventassero memoria collettiva”. Con questo film, il regista, ha voluto sfatare il mito della frontiera, mostrandoci il muro su cui si infrangono i sogni e le speranze che spingono tanta gente ad affrontare un viaggio denso di insidie. Nel film c’è tutto quello che ruota intorno alla tragedia dell’immigrazione clandestina in quei paesi: la sorte delle donne, vittime di elezione in una società criminale e maschilista (impossibile non pensare alle oltre 400 ragazze massacrate nell’impunità a Ciudad Juárez, in Messico), la cultura india ormai quasi perduta, i migranti che si ammassano sui treni come gli hobos de L’imperatore del Nord, le tappe forzate lungo il cammino, dove pochi sprazzi di lavoro e solidarietà si alternano alle razzie dei criminali e dei narcotrafficanti. Sono tutte storie vere, rese ancora più forti e toccanti dalla poesia che si sprigiona dai volti e dalle voci degli adolescenti protagonisti, che ci fanno immedesimare in un dramma che la televisione tocca solo il tempo necessario per fargli esprimere la nostra indignazione sui social media, prima di passare ad altro. In questo senso Quemada-Diez ha appreso e superato la lezione del suo maestro Ken Loach, togliendo alla sua narrazione qualsiasi sovrastruttura ideologica e coinvolgendosi/ci da essere umano, invece che politico ed intellettuale. www.circolochaplin.it 29 20 gennaio 2015 Make up Solo gli amanti sopravvivono Regia e Sceneggiatura: Jim Jarmusch, Scenografia: Marco Bittner Rosser; Fotografia: Yorick Le Saux; Montaggio: Alfonso Goncalves; Musica: Jozef Van Wissem. Interpreti: Tilda Swinton, Tom Hiddleston, Mia Wasikowska, Anton Yelchin, John Hurt, Jeffrey Wright. Distribuzione: Movies Inpired. GB, Usa, Germania, Francia, Cipro 2013. Durata: 123’ Adam ed Eve sono due vampiri destinati a vivere in eterno e a rinnovare ripetutamente il loro amore. Adam, amante della musica e del passato vive a Detroit; Eve trascorre le sue giornate a Tangeri in bar dall’atmosfera esotica. I due vampiri si nutrono di sangue, che si procurano nei migliori ospedali, evitando di succhiarlo direttamente dalle vittime. Vivono appartati dal mondo esterno, in piena decadenza e trovano un equilibrio nel momento in cui Eve raggiunge Adam a Detroit. Ma l’entrata in scena di Ava, giovane sorella di Eve, ragazza turbolenta ed irrequieta, spezza l’incantesimo mettendo in crisi i due amanti. L’uomo che procura il sangue ad Adam muore e la coppia si trasferisce a Tangeri dove pero’ Marlowe, il loro referente risulta gravemente ammalato. Tutto sembra precipitare, ma infine i due vampiri si procureranno il sangue azzannando una coppia di innamorati che si baciano e la loro vita vampiresca riprendera’ a scorrere. Jim Jarmush, esponente di spicco del cinema indipendente americano, torna a farsi vivo dopo 4 anni di silenzio con una storia gotica che rappresenta la sua personale rivisitazione del genere horror, dopo avere esplorato in precedenti pellicole il western, il noir, il road movie e il gangster movie. L’ambientazione cambia ma i temi cari al regista dell’Ohio restano inalterati. Anche qui i protagonisti sono degli emarginati, degli Circolo del Cinema Charlie Chaplin 30 outsiders, che mal si adattano all’ambiente esterno e che anzi difendono fieramente la propria diversità e la propria irriducibilità. Tuttavia, in questo ultimo lavoro di Jarmush si assiste ad un paradossale rovesciamento di ruoli: i vampiri amanti della musica, dei libri, dell’arte e della cultura in genere sono i paladini dell’umanità del passato a rischio di estinzione, viceversa, gli uomini sono degli zombie, incapaci di nutrire valori ed ideali, sensibili solo alle esigenze materiali, erranti come fantasmi nelle loro città fatiscenti ed in rovina. Ai giorni d’oggi, sembra sostenere JJ, i vampiri che anelano ai raffinati valori del passato, sono gli assediati, le prede di una umanità in caduta libera, che via via distrugge ogni traccia di civilta’ regredendo ad una condizione di animalesca brutalità. Il pessimismo di Jarmusch sembra essere assoluto. La crisi irreversibile investe tutto il mondo. L’occidente è rappresentato dalla decadenza di Detroit, un tempo capitale dell’automobile ed oggi desertificata e privata delle sue fabbriche e delle sue attività. L’oriente, a sua volta, evocato da Tangeri, un tempo sinonimo dell’abbandono ai sensi e al misticismo, viene dipinta come un luogo in cui prevale la morbosità e la contraffazione. Ne’ le prospettive future appaiono più rosee. I giovani sono impersonati da Ava, sorella della protagonista, ragazza disturbata, confusionaria, priva del benchè minimo spessore atto a segnare un’inversione di tendenza nel processo sempre più grave di decadimento generale. In questo clima di totale abbrutimento, in cui la sopravvivenza tende a diventare un fatto puramente fisico, materiale, si potrebbe dire darwiniano, l’unica via di salvezza è l’amore, in grado, con la sua forza, di squarciare la spessa coltre degli istinti piu’ bassi, come insegnano Adam ed Eve che nel rinnovare il proprio sentimento, riescono a sfuggire alla disperazione del mondo esterno e a dare un senso alla propria vita.. Un film dunque amaro, che però sa farsi apprezzare dal pubblico, sia per l’ironia del regista (si pensi alla impareggiabile trovata del ghiacciolo al gusto di sangue zero negativo sorbito dai vampiri) sia per l’interpretazione degli attori principali, Tilda Swinton, Tom Hiddleston e Mia Wasikowska, particolarmente ispirati nei rispettivi ruoli. www.circolochaplin.it 31 27 gennaio 2015 Make up L’arte della felicità Regia, Soggetto e Scenografia di Alessandro Rak; Sceneggiatura: Alessandro Rak, Luciano Stella, Nicola Barile, Paola Tortora; Animatori: Antonia Angrisani, Annarita Calligaris, Giorgio Siravo; Musiche: Antonio Fresa e Luigi Scialdone; Produzione: Big Sur Srl, Mad Entertainmentt, Rai Cinema; Italia 2013; Durata: 84’ Sergio Cometa è un tassista napoletano di 40 anni, che si aggira con il suo taxi bianco tra le strade di Napoli, dialogando sulla propria vettura con i clienti, rappresentanti di una variegata umanità. Fuori piove, il Vesuvio brontola minacciosamente e i gabbiani planano su cumuli di immondizia, simbolo del degrado della metropoli partenopea. L’uomo si è isolato dal mondo dopo la partenza del fratello per il Tibet, 10 anni prima, che ha segnato anche l’abbandono delle sue ambizioni artistiche, visto che i due fratelli al piano e al violino, formavano un duo musicale di buona levatura. Il dialogo con i passeggeri spingerà Sergio a ricostruire il passato e ad elaborare il lutto del fratello Alfredo, tornando alla musica strumento per accedere ad un futuro piu’ felice. “L’arte della felicità” presentato alla mostra di Venezia del 2013, premiato a Londra al Raindance Film Festival ed unanimamente apprezzato dalla critica, segna il primo esempio in Italia di film d’animazione per adulti, genere che invece all’estero da tempo riscuote ampia fortuna. L’opera, ideata e disegnata dal fumettista italiano Alessandro Rak, e’ stata prodotta da Luciano Stella, produttore che ha avuto il merito di creare attorno a sè il laboratorio d’arte Mad, consentendo a giovani talenti in erba, tutti napoletani, di esprimere con un lavoro collettivo, la propria creatività nel campo dell’animazione, della musica e del Circolo del Cinema Charlie Chaplin 32 documentario. Accanto al lavoro encomiabile degli animatori del Mad che hanno coadiuvato Alessandro Rak a realizzare le sue composizioni dal tratto sfumato, tali da richiamare alla mente i disegni a matita, hanno partecipato all’impresa anche vari musicisti napoletani del gruppo Mad, tra i quali Luca Di Maio, con le sue ballate, Joe Barbieri autore di pezzi raffinati, i 24 Grana con composizioni rock ed ancora le nuove voci dei Foja, degli Enthusiastics e dei Guappecartò. Insomma una factory artistica che promette proficui sviluppi in futuro. La vicenda narrata nel film è fortemente intimista. Un uomo dalle ambizioni artistiche di notevole livello, che vede i suoi sogni spezzati nel momento in cui il fratello lo abbandona per recarsi in Tibet alla ricerca, nel buddismo, di un equilibrio interiore. Sergio di conseguenza si ripiega in sè stesso, acquisisce da uno zio la licenza di tassista, lavoro quanto mai lontano dalle sue mire artistiche e recide i contatti con il mondo esterno e con le persone. Il taxi diventa il guscio in cui si rinchiude per evitare ogni contatto. Ma la vita lasciata fuori dalla porta rientra dalla finestra. Spifferi di umanità e di realtà continuano ad insinuarsi nella corazzata armatura di Sergio, portati dai passeggeri che si introducono nel taxi facendo filtrare notizie altrimenti inaccessibili. Così Sergio scopre che il fratello Alfredo è morto e che la sua fuga in Tibet era stata originata proprio dal tentativo di trovare nel buddismo il sostegno per affrontare la prova estrema della malattia. Tale notizia sconvolgente spinge il tassista a rivisitare il passato: continui flashback di vita quotidiana ed artistica con Alfredo riappariranno alla sua mente e alla fine di questo lungo percorso a ritroso, Sergio ritroverà sè stesso, ricomporrà un rapporto armonico con il fratello e tornerà alla musica, desideroso di riaprirsi alla vita. Il segreto di questa trasformazione riposa nel diverso atteggiamento mentale del protagonista verso il prossimo, con una piena disponibilità a comprendere le ragioni degli altri e a provare compassione per le loro istanze. E chissà che il film individui più in generale proprio nella compassione, predicata dal Dalai Lama e declinata sul piano collettivo come atteggiamento di reciproca solidarietà il segreto per assicurare un avvenire felice anche alla città che con le sue immagini di profondo degrado fa da sfondo al film. www.circolochaplin.it 33 3 febbraio 2015 Make up Blancanieves Regia e Sceneggiatura: Pablo Berger; Soggetto: Fratelli Grimm; Fotografia: Kiko de la Rica; Montaggio: Fernando Franco; Musiche: Alfonso Villalonga; Costumi:Paco Delgado e Sonia Capilla; Scenografia: Alain Bainee; Distribuzione: Movies Inspired; Interpreti: Macarena Garcia, Maribel Verdù, Angela Molina, Daniel Gimenez Cacho, Inma Cuesta, Sofia Oria, Pere Ponce, Oriol Vila, Ramon Barea. Spagna-Francia 2012; Durata 104’ Siviglia, anni 20 del xx secolo. Il grande torero Antonio Villalta resta paralizzato dopo il pauroso ferimento subito da un toro nell’arena. Sua moglie muore di parto, mettendo alla luce la piccola Carmencita. La subdola infermiera Encarna, sposa lo sfortunato torero e allontana Carmencita, affidata alla nonna, ex ballerina di flamenco. Alla sua morte, la bimba torna nel palazzo del padre, ma è destinata a subire le angherie e le mortificazioni della matrigna. Il padre, però, inizia segretamente la figlia all’arte della tauromachia. Encarna, spietatamente uccide il marito e fa condurre Carmencita nel bosco, perchè sia soppressa. Una compagnia di nani toreri, però, salva la ragazza, ribattezzandola Biancaneve. La fanciulla mostrerà doti inaspettate di torera e trionferà nelle arene di Spagna, finchè la perfida matrigna non le farà mangiare la mela avvelenata. Blancanieves è un film muto e in bianco e nero, diretto dal regista spagnolo Pablo Berger, nel 2012, attraverso una sua personale rilettura dell’immortale fiaba dei fratelli Grimm. È indubitabile che il film sia stato avvantaggiato dal successo planetario di The Artist, vincitore di più premi Oscar. Tuttavia la pellicola di Berger è un’opera complessa, da decifrare su più piani di lettura. Circolo del Cinema Charlie Chaplin 34 La favola dei Grimm viene accostata con un approccio che accentuandone gli aspetti più oscuri e raccapriccianti origina un racconto dark ben lontano dalla banale e buonista edizione disneyana. Il film è un omaggio sincero ed appassionato al cinema europeo degli anni 20. Al muto, al bianco e nero, all’espressionismo tedesco ( Berger ha dichiarato che la prima idea gli è venuta dalla visione di un capolavoro di Carl Theodor Dreyer). Le inquadrature, il montaggio- si pensi al coinvolgente montaggio alternato adottato per giustapporre il ferimento del torero Villalta con la morte sul parto della sua donna- ed ancora i primi piani delle attrici che sottolineano l’emozionante espressività di due donne di rara bellezza e personalità come Maribel Verdù e la giovane Macarena Garcia ed infine, l’entrata in scena dei nani, chiara citazione dell’opera “Freaks” di Tod Browning, del 1932; tutto è teso ad esaltare il cinema europeo di quell’epoca, rimarcandone la vitalità e contrapponendolo al dispendio di mezzi ed effetti speciali di cui fa abuso il cinema americano. L’importanza della musica nel cinema è amplificata dal silenzio degli attori.. I ritmi frenetici del flamenco e la vivacità dei canti popolari spagnoli, accentuano i momenti di maggiore pathos, creando un’inesauribile corrente di coinvolgimento emotivo nell’animo dello spettatore. Ma soprattutto, il film di Berger è un film sulla Spagna e su una fase decisiva della sua storia., gli anni 20 che preludono alla tragedia della guerra civile. Biancaneve lascia il buio della foresta nera tedesca e si trasferisce nella profonda Andalusia, terra di sole, di sangue e di travolgenti passioni. Probabilmente l’ambientazione della vicenda è in funzione della connotazione drammatica che essa assume nel finale. La Biancaneve bergeriana non è una favola consolatoria che dopo aver messo di fronte il male e il bene approda ad una scontata e felice conclusione, con l’arrivo del principe azzurro, pronto ad alitare la vita sulla cerea ragazza. Qui, Biancaneve, simbolo di una inesausta purezza in lotta contro il male alla fine muore vittima della crudeltà più efferata e viene portata in processione dal popolo, come una eroina. L’accostamento alla dittatura franchista e al conseguente annichilimento dell’ ingenuità di un popolo pare naturale. www.circolochaplin.it 35 10 febbraio 2015 Make up Snowpiercer Regia: Bong Joon-ho, Sceneggiatura: Bong Joon-Ho, Kelly Masterson Montaggio: Steve M.Choe Musica. Marco Beltrami Distribuzione: Koch Media Interpreti: Chris Evans, Jamie Bell, John Hurt, Tilda Swinton, Octavia Spencer, Ed Harris,Ewan Bremner, Alison Pill, Song Kang-Ho. Corea del Sud, U.S.A. Durata: 126’ 2031. La Terra per una catastrofe ambientale conseguente al maldestro tentativo di raffreddamento della temperatura terrestre, reso necessario dal crescente surriscaldamento del pianeta, vive una fase di assoluta glaciazione, che pare irreversibile. Su un treno rompighiaccio, che ripete all’infinito il giro del mondo, hanno trovato posto i pochi sopravvissuti al disastro. L’inventore del treno li ha suddivisi in un rigido ordinamento sociale: i poveri, i derelitti, gli oppressi vivono in condizioni miserrime negli scompartimenti di coda, mentre le classi abbienti conducono una vita lussuosa nelle vetture di testa. Gli sfruttati avviano una cruenta ribellione, che dopo innumerevoli colpi di scena, porterà ad un finale inaspettato. Trasferta americana del grande regista sudcoreano Bong Joon-Ho, capace con appena quattro film di stupire tutti, per l’acutezza dello sguardo e la profondità dell’analisi sociale. Se in passato i passaggi americani di altri registi coreani, tra tutti Park Chan-Wook con “Stoker” e Kim Joe-Woon con “The last stand”, non avevano pienamente convinto, viceversa Bong pare aver superato brillantemente la prova del fuoco holliwoodiana, con quest’ultima opera che prosegue nel proficuo solco dei film precedenti, quali soprattutto Memories of murder, Mother e The Host. Snowpiercer, Circolo del Cinema Charlie Chaplin 36 dimostra infatti come sia possibile coniugare gli ingredienti tipici del blockbuster americano, la spettacolarità delle scene, l’azione adrenalinica, gli effetti visivi e le sorprese narrative con una riflessione profonda e lungimirante sulla società e più in generale sui destini futuri dell’intera umanità. Il racconto si sviluppa per gradi ed il passaggio da un vagone all’altro del treno segna il succedersi dei capitoli. Così facendo lo spettatore scopre progressivamente l’organizzazione della società post-apocalittica. Dallo squallore delle vetture di coda in cui una umanità reietta è costretta a condividere un angusto spazio e un rivoltante scarso cibo gelatinoso, si passa via via alle vetture successive in cui il tenore di vita migliora progressivamente, fino a raggiungere le vetture di testa in cui una categoria di persone spensierata e gaudente trascorre le giornate tra fiumi di droga e di alcool, incurante delle condizioni disumane di lavoro e di vita degli oppressi. In una vettura è organizzata la scuola che anzichè svolgere una funzione educativa ha lo scopo di attuare un radicale lavaggio del cervello degli alunni, facendo credere loro che il sistema vigente sia il migliore possibile, visto che fuori dal treno non vi è traccia di vita. Tuttavia, l’iniquità è così lapalissiana, che una ribellione violenta allo status quo non può essere evitata. Essa non avverrà nel segno di un sovvertimento di poteri tra le classi, con la sostituzione dei ribelli ai vecchi detentori, ma si tradurrà in una ecatombe, in cui nessuno sarà risparmiato, tranne una donna ed un bambino e solo con la radicale distruzione del microcosmo rappresentato dal treno, il nero pessimismo che pervade l’intero film sarà squarciato dal lieve baluginio della speranza di un mondo nuovo. Come si vede, dunque, il regista coreano fingendo di creare un prodotto di puro intrattenimento secondo i tradizionali canoni del film di fantascienza, dell’ action-movie e forse anche del movie-game, ci consengna un’opera dal possente respiro sociologico, in cui denuncia i mali della società odierna, generatrice di inevitabili conflitti e al contempo indica una terapia radicale nell’annientamento e non nella semplice riforma dell’ordine esistente, unica via per una risolutiva palingenesi del genere umano. www.circolochaplin.it 37 17 febbraio 2015 Nel nome del Padre Padre vostro Regia: Vinko Bresan; Sceneggiatura: Mate Matisic, Vinko Bresan; Fotografia: Mirko Pivcevic; Montaggio: Sandra Botica; Musiche: Mate Matisic; Scenografia: Damir Gabelica; Costumi: Zeljka Franulovic; Interpreti: Kresimir Mikic, Niksa Butijer, Marija Skaricic, Renne Gjoni, Inge Appelt, Senka Bulic, Zdenko Botic, Niko Bresan, Lazar Ristovski, Marinko Prga, Ivan Brkic’, Ana Maras, Ana Begic’, Stjepan Peric’, Gora Bogdan. Commedia; Croazia, 2013; Durata: 93’ Il giovane Padre Fabijan approdato in un’isoletta della Dalmazia, frustrato dalla popolarità dell’anziano parroco locale, è desideroso di lasciare il segno nella storia dell’isola, nonché di incoraggiare il “decorso della volontà divina”. Preoccupato per il declino della natalità e convinto di comportarsi nella maniera più corretta, dal momento che “anche il Papa è contro l’uso dei contraccettivi”, inizia a bucare tutti i preservativi in vendita sull’isola. Al lavoro del prete e dell’edicolante Peter, che vende i condom nel suo chiosco, presto si aggiunge quello del farmacista Martin, che somministra segretamente pillole di vitamine invece di contraccettivi. Fioccano gravidanze indesiderate e matrimoni riparatori ma, ben presto, l’azione del religioso inizia a influenzare la vita degli abitanti dell’isola, con conseguenze imprevedibili... L’acuta e divertente commedia, spiritosa anche se non sempre raffinata, ha già fatto incetta di premi, e non c’è da meravigliarsi perché Vinko Brešan è l’uomo dei record del cinema croato: Padre Vostro è il secondo incasso più alto nella storia del cinema prodotto in Croazia, appena dopo l’opera prima dello stesso regista. Brešan sceglie ancora una volta di mettere in scena un problema sociale attraverso i codici della commedia, il genere che più ritrae il suo modo di vedere il mondo. In linea Circolo del Cinema Charlie Chaplin 38 con il suo stile, costruisce un’opera graffiante e a tratti tragica, attraverso l’uso del tipico humor balcanico che porta con sé un gusto agrodolce. In questo film l’autore affronta un tema molto sentito in Croazia, quello del calo delle nascite. Per puntare i riflettori sulla questione, Brešan sceglie la pièce teatrale dell’amico Mate Matišić, con il quale scrive a quattro mani la sceneggiatura. Il regista si spinge attraverso un difficile tema con un’iniziale leggerezza che viene progressivamente scalzata dalla dura realtà. Padre vostro è una commedia dove l’irriverenza si fa dolenza e porta a galla alcuni aspetti del mondo clericale. Il regista infatti, senza intenzione di giudicare la Chiesa, tanto da aver voluto sul set due ex preti per evitare errori e incongruenze, porta all’attenzione dello spettatore un lato buio e spesso inesplorato del mondo cattolico. Non un viaggio spirituale quindi, ma un’analisi di quello che può succedere quando gli uomini giocano a fare Dio e cercano di imporre il proprio volere sulle vite degli altri. Una storia che invita il pubblico a riflettere, facendolo divertire allo stesso tempo. Ma descrivere Padre Vostro come una commedia sarebbe riduttivo, ci sono infatti momenti intensamente drammatici, dunque sarebbe più giusto definire il film una tragicommedia dai toni surreali. Vinko Bresan rallenta il ritmo narrativo rarefacendo ogni inquadratura, nessun dettaglio è lasciato al caso, ogni composizione scenica è calibrata al millimetro, anche perché la confezione sobria ed essenziale deve contenere una sceneggiatura dal coraggio dirompente, che affronta di petto, anche se ironicamente, temi incandescenti come il conflitto etnico e religioso nell’ex Jugoslavia, le rivendicazioni nazionalistiche croate, l’ipocrisia della Chiesa, i preti pedofili, il controllo delle nascite, la misoginia e il patriarcato nelle culture del Mediterraneo, la xenofobia e la non accettazione dell’omosessualità. Padre Vostro si prende anche un buon numero di libertà visive, utilizzando stratagemmi cinematografici come gli sguardi in camera, la manipolazione di luci e colori, con disinvoltura e senza deformare la struttura narrativa portante. Il risultato è una creazione filmica specifica e ben codificata, che nonostante alcune lungaggini riesce a raccontare efficacemente una storiella morale senza mai sconfinare nel moralismo. www.circolochaplin.it 39 24 febbraio 2015 Nel nome del Padre Stop the pounding heart Regia: Roberto Minervini; Sceneggiatura: Roberto Minervini; Produttore: Pulpa Entertainment; Ondarossa Film; Poliana Productions; Houston Film Commission; Japage Investments; Fotografia: Diego Romero; Scenografia: Riccardo Minervini; Montaggio: Marie-Hélène Dozo; Suono: Thomas Gauder; Ingrid Simon; Interpreti: Sara Carlson; Colby Trichell; Tim Carlson; LeeAnne Carlson; Katarina Carlson; Christin Carlson; Distribuzione: Biografilm Collection; Nazionalità: Belgio, Italia, USA 2013; Durata: 98’ Sara ha pochi anni e tanti fratelli, vive in una fattoria del Texas insieme ai genitori, allevatori di capre che educano tutti i figli secondo i rigidi precetti della bibbia. La sua è una vita serena e devota, passata ad accudire gli animali della fattoria, e a mantenere corpo e mente puri in attesa di un uomo che la prenda in moglie. L’incontro con Colby, allevatore di tori e cowboy da rodeo, turba la quotidianità di Sara precipitandola in una crisi profonda e portandola ad interrogarsi sui propri valori morali. L’opera a metà strada tra film e documentario, è passata quasi del tutto inosservata ma ha raccolto consensi a Cannes e al Festival di Torino vincendo poi il David di Donatello per il miglior documentario 2014. Capitolo conclusivo della trilogia sul Texas, Stop the Pounding Heart, di Roberto Minervini, autore marchigiano ‘emigrato’ negli States, è un’esplorazione dell’adolescenza, dei rapporti tra i sessi, tra religione e fede, valori familiari e sociali, nell’America di oggi. Come nei migliori romanzi di formazione, il film segue l’evoluzione della sua protagonista verso l’età adulta. La giovane protagonista, educata secondo i precetti dell’ortodossia biblica, Circolo del Cinema Charlie Chaplin 40 vive seguendo una decisa traiettoria e una vita già scritta che ne ha fatto una buona cristiana. È a questo punto che il regista inserisce Colby Trichell, local cowboy ed espediente drammaturgico, che interromperà l’inerzia emotiva di Sara confondendo i confini e tutte le nozioni fino a quel momento appreso. Immerso in una natura Malickiana, muta e osservatrice, Stop the Pounding Heart racconta un sentimento intenso, casto e silente, che non ha bisogno di dialoghi, col suo silenzio da film muto che si dipana, all’interno delle sequenze, tra i primi piani e le aperture sul paesaggio. Minervini scava nei volti ascoltando i ‘battiti del cuore’ di Sara. Un mondo paradossalmente chiuso quello della sterminata provincia proletaria statunitense, in cui i ragazzi hanno come unico divertimento giocare ai cowboys nei rodei e le ragazze come solo orizzonte il matrimonio. Tutti devoti a Dio e al secondo emendamento della Costituzione, quello che garantisce il diritto inviolabile a possedere armi, maneggiate da tutti con disinvoltura. Un materiale umano e sociale, che sarebbe stato facile adoperare come bersaglio di critica subordinata a convinzioni ideologiche. Ma, come ricorda Deleuze, una critica concepita unicamente come rappresentazione di conflitti, rimane interna a un sistema rappresentativo precodificato e, quindi, sostanzialmente inefficace. Minervini non vuole avere a che fare con uno spettatore passivo, controllato, assoggettato alla narrazione e soggiogato da schemi predisposti, lo pone davanti a una visione che lo obbliga a dimenticare le abitudini stereotipate del guardare. Il regista sfugge dai cliché per cercare di ritrovare tutto quel che non si vede nell’immagine, perché sottratto, o aggiunto, per renderla “interessante”. Vuole restituire un’immagine intera e senza metafora, che mostri le cose in sé, nei propri eccessi d’orrore o di bellezza, nel loro essere ingiustificabili, senza un’inquadratura giudicante, un eccesso didascalico. Un’immersività trasmessaci per mezzo dell’uso ininterrotto della macchina a mano, finalizzata alla partecipazione. La regia si apre agli stimoli esterni, per poter essere continuamente interagente con ciascun altro corpo con cui condivide quello spazio e quel tempo comuni. www.circolochaplin.it 41 3 marzo 2015 Nel nome del Padre Station of the cross Regia: Dietrich Brüggemann; Produttore: Jochen Laube; Sceneggiatura: Dietrich Brüggemann; Anna Brüggemann; Fotografia: Alexander Sass; Montaggio: Vincent Assmann; Costumi: Bettina Marx; Interpreti: Lucie Aron; Michael Kamp; Moritz Knapp; Birge Schade; Florian Stetter; Lea van Acken; Franziska Weisz; Georg Wesch; Ramin Yazdani; Hanns Zischler; Germania/Francia; 2014. Durata: 109’ Maria ha 14 anni. La sua famiglia è parte di una comunità cattolica fondamentalista. Vive nel mondo moderno, ma il suo cuore appartiene a Gesù. Vuole seguirlo, diventare una santa e andare in paradiso. Così Maria passa attraverso 14 stazioni, proprio come fece Gesù nel suo cammino verso il Golgota, e alla fine raggiunge il suo obiettivo. Nemmeno Christian, un ragazzo che incontra a scuola, può fermarla, anche se in un altro mondo, avrebbero potuto diventare amici, o anche di più. Maria è convinta che il peccato sia ovunque, in ogni parola, in ogni uomo. In armonia con tutto ciò ha infatti preso una decisione che non ha confessato ancora a nessuno. Il lungometraggio diretto da Dietrich Brüggemann, presentato in concorso al 64.mo Festival di Berlino, è scandito in diversi capitoli, 14 tableaux che hanno come titolo le diverse stazioni della via crucis, a cui corrispondono come indica il titolo. La dichiarazione d’intenti è immediata. La famiglia dell’adolescente è devota ad una organizzazione religiosa ortodossa che rinnega il Concilio Vaticano II e rivendica una dimensione oscurantista del cristianesimo. Il cinema ci ha raccontato spesso percorsi di santità laica, cioè di protagonisti che decidono di intraprendere un percorso faticoso, immolandosi in una sorta di purificazione Circolo del Cinema Charlie Chaplin 42 laica del proprio animo, che è sempre contigua a quella religiosa. Dietrich Brüggemann compie il percorso opposto e mostra apertamente quel brandello di vita della protagonista, come un vero e proprio percorso di santificazione religiosa, con l’obiettivo dichiarato fin dalla caratterizzazione bigotta della famiglia, di smontare tutto questo. Colpisce dritto al cuore, ci emoziona nel profondo non perché accenda i riflettori sulla storia patetica di una ragazzina, ma per il modo diretto di affondare le mani in una materia spinosa e delicata, senza mai rinunciare al proprio punto di vista e ad una critica feroce. L’opera si presenta come uno straordinario atto d’accusa contro la violenza della religione, contro un certo modo di vivere la religione. Senza toni urlati, con una distanza che non è mai glaciale, il regista ci spinge a seguire il lento distacco da sé stessa della protagonista, che rinuncia letteralmente a tutto, nel nome di un pensiero religioso che ne ha permeato la vita nel profondo. Non è un pamphlet politico, né un film a tesi, non attacca la Chiesa come istituzione e non istruisce il pubblico portandolo dalla propria parte, ma spinge a provare empatia per Maria, mostrandoci con chiarezza le dinamiche che l’hanno portata a scegliere un sacrificio troppo grande, disumano. La regia di Brüggemann è di assoluto livello e riesce a valorizzare appieno la profondità di una sceneggiatura dolorosamente realistica. La macchina da presa è sempre statica, tranne in tre momenti chiave della vicenda, quando il movimento nello spazio della cinepresa serve a sottolineare i punti più tragici del percorso della protagonista. Sebbene giri il suo Stations of the Cross in piccoli quadri, con una forma quindi austera, che mette in scena l’immobilismo umano e l’unica forza, l’ingenuità, in grado di scoperchiarne la violenza orrenda, riesce lo stesso a non rinunciare ad una forma peculiare di umorismo grottesco e anche quando mostra la sua faccia più tragica, non riesce ad evitare il ridicolo insito nella vita di ognuno. Il film sembra voler spiazzare lo spettatore ad ogni stazione e, mentre lo conduce su un percorso deduttivo abbastanza semplice, non rinuncia ad instillare dubbi. Perché questo film colmo di insofferenza per la religione, ci dice che il cinema non deve essere come la fede, non deve vivere di dogmi e non deve convincere nessuno delle proprie tesi; il regista non è un prete che evangelizza, ma un uomo che racconta storie con l’obiettivo di mettere in crisi quindi far riflettere lo spettatore. www.circolochaplin.it 43 10 marzo 2015 Interni di famiglia Gebo e l’ombra Regia di Manoel de Oliveira. Sceneg: Manoel De Oliveira Tratto dall’omonima pièce di Raul Brandão Interpreti: Michael Lonsdale, Claudia Cardinale, Jeanne Moreau, Leonor Silveira, Ricardo Trêpa, Luís Miguel Cintra Fotog: Renato Berta Mont: Valérie Loiseleux Scen: Isabelle Girard Musica: Tiago Matos Produzione: Portogallo/ Francia 2012 Durata: 95’ Nella casa del vecchio Gebo si ritrovano diversi amici per discutere del mondo, un banchetto di quiete che potrebbe durare all’infinito. Il ritorno inatteso di João, figlio di Gebo che ha smarrito la retta via, sconvolge gli equilibri interni alla famiglia e provocherà serie conseguenze. A quasi 104 anni Manoel De Oliveira ci regala un’altra parabola morale di grande impatto. L’occasione, stavolta, è l’adattamento di un testo teatrale del 1923, Gebo et l’ombre, di Raul Brandão. de Oliveira riunisce la diva Claudia Cardinale, alla prima esperienza col maestro portoghese, la francese Jeanne Moreau, Michael Lonsdale e le presenze fisse Luis Miguel Cintra e Leonor Silveira. Michel Lonsdale interpreta con una palpabile, infinita tristezza Gebo; intorno a lui girano tre donne variamente illuse: la moglie Claudia Cardinale che vuole ignorare la verità sul figlio fuggito, la nuora Leonor Silveira che ha un sesto senso che la aiuta a capire la verità, la vicina Jeanne Moreau in visita ottocentesca. Un gruppo di famiglia di terza età (meno Ricardo Trepa,) cui l’autore affida un irrisolto quesito: Il dovere di un uomo è quello di essere giusto e onesto o provare ad arricchirsi?”. L’anziano contabile Gebo lavora con i numeri ma non riesce a “conteggiare” la realtà, anzi matematicamente la occulta, nascondendo ai propri famigliari il destino compromesso e la deriva illegale del figlio Circolo del Cinema Charlie Chaplin 44 João. All’inizio il protagonista non parla. Gebo non vuole dire: dall’incipit i personaggi parlano ma non comunicano, rimandano il discorso, dicono il nulla. A invertire la rotta interviene l’ingresso di João nell’abitazione, preceduto proprio dalla sua ombra (come nella prima scena l’ombra lo accompagna fuori campo).L’arrivo è l’occasione per innescare un incontro/ confronto/scontro dialettico tra due concezioni diverse e inconciliabili. Da una parte la famiglia che ha sempre lavorato, in povertà e umiltà, dall’altra il figlio che coltiva la chimera del guadagno facile, vero e proprio lato oscuro del nucleo. Ma la divisione è tutt’altro che schematica: Doroteia accusa il marito di restare nella mediocrità, João si concede un’ammissione di amore alla madre, che sotterraneamente lo sostiene nella deviata impostazione ideologica/esistenziale. La “scatola magica” dei soldi ammalia la figura di Candidinha (nome antifrastico di un’amabile Jeanne Moreau), che la scruta e la accarezza, configurandola come scrigno delle meraviglie irraggiungibile per gli uomini (“Qui dentro c’è tutto”). De Oliveira inquadra il crepuscolo degli uomini, dove verità e menzogna si contagiano nell’ombra, dove avidità e povertà lottano invano; va dritto al cuore della questione: il denaro. Film “da camera”, tutto in una sera e in una notte. de Oliveira conosce benissimo il teatro e lo usa come caso particolare dell’immagine, come scena che si apre su un doppio fondo dal quale emerge il fantasma stesso dell’immagine. (...) forse uno dei più grandi e lucidi film mai fatti sulla fisica della proiezione. Sull’intuizione che le linee invisibili che uniscono e dividono i corpi e la Storia, altro non sono che il combustibile di un’intelaiatura forse indicibile, dove lo spazio stesso divampa e sparisce in un sol colpo, e l’anima letteralmente si immagina, come spesso accade con quella cosa che ancora chiamiamo cinema.” (Lorenzo Esposito, ‘Il Manifesto’, 19 giugno 2014). Gebo e l’ombra non è dunque liquidabile nella restrittiva categoria dell’oggetto teatrale: frequenta il teatro, certo, ma proprio per questo gli stralci cinematografici raddoppiano incidenza e valore assoluto. Nuova parabola morale, il film propone un cinema estremo e coraggioso, dove la bolla astorica del racconto ribadisce la sua radicalità intransigente e narrando la malia del denaro, resta calato nel contemporaneo, si offre come narratore ostinatamente ancorato al reale. “Nei miei film sembra che non succeda niente, ma nel frattempo le cose fondamentali succedono. Come spiegare la vita? La vita non ha spiegazione, si dispiega” (Manoel de Oliveira). www.circolochaplin.it 45 17 marzo 2015 Interni di famiglia Ida Regia: Paweł Pawlikowski; Sceneggiatura: Rebecca Lenkiewicz, Paweł Pawlikowski; Fotografia Ryszard Lenczewski, Lukasz Zal; Montaggio: Jaroslaw Kaminski; Interpreti: Agata Trzebuchowska, Joanna Kulig, Dawid Ogrodnik, Adam Szyszkowski. Polonia, Danimarca; Anno 2013. Durata: 80’ Polonia, 1962. Anna é una una giovane novizia rimasta orfana in tenera età. Prima di prendere i voti, viene mandata a Varsavia a conoscere sua zia: grazie a quest’ultima scoprirà diversi segreti del suo passato e di quello dei suoi genitori, scomparsi durante la seconda guerra mondiale. Ida, quinto lungometraggio di Pawel Pawlikowski (autore di My Summer of Love e del suggestivo La femme du cinquiéme) , ci mostra una Polonia ancora non riconciliata con il proprio recente passato e lo fa scegliendo per protagonista una ventenne senza storia e senza identità; un’identità che, pur non conoscendola, Ida sta per sacrificare del tutto, dal momento che ha deciso di farsi suora. Prima di lasciarle prendere i voti, la madre superiora le impone, però, di andare a conoscere la sua unica parente ancora in vita, la zia Wanda (Agata Kulesza). La novizia inizierà così un lungo percorso formativo che la porterà in viaggio attraverso un paese martoriato dalle oscure memorie del periodo bellico. Due donne in viaggio alla scoperta delle verità del passato: una giovanissima e l’altra matura, una piena di fede e l’altra di dolore, una con la forza per affrontarlo, l’altra ormai esausta. Non si conoscono, ma hanno lo stesso sangue. Ida , con il suo sguardo intenso e severo, conoscerà il volto Circolo del Cinema Charlie Chaplin 46 di sua madre in una vecchia fotografia, ne ritrova le ossa sepolte nel bosco e imparerà ad amare Wanda, vittima tormentata, ma anche carnefice. Anna, l’orfana senza passato diventa Ida, una giovane donna capace di scegliere per sé, lontana dalla silenziosa protezione di un convento. Agnes Kulesza, Wanda, e Agnes Trzebuchowska, Ida, danno vita a due personaggi intensi e metaforici: anime ferite in una Polonia che ha nutrito in sé cattolicesimo, antisemitismo e comunismo. La regia di Pawel Pawlikowski ci riporta al desueto formato dei 4/3, con una struttura a scene che si susseguono con passaggi netti, senza alcuna fusione, con enfatizzata la presenza del fuoricampo. Pawlikowsk lavora sulla misura e sui silenzi, mette in scena la densità degli sguardi, il dolore e la luce della forza interiore. Crea il senso con creatività stilistica, fondendo modelli classici, citazioni, e personali coniugazioni: il suo bianco e nero, ricco di sfumature di grigio, che riconduce al cinema nordico del secolo scorso, si accompagna alla rottura del canone classico della composizione, con la scelta reiterata di décadrage in cui le figure si ritagliano nel margine inferiore dell’inquadratura, lasciando un ampio spazio sopra le loro teste, quasi a creare, laicamente, un’estensione entro cui si possa collocare tutto ciò che è altro dall’uomo, ridimensionandone il peso. Vincitore del premio della critica all’ultimo Festival di Toronto, «Ida» è una pellicola di grande eleganza formale nella creazione delle immagini e nell’accurata selezione di brani di musica classica della colonna sonora. Film cupo e sospeso che parla d’identità, d’amore e fede ma anche di un paese, la Polonia ferita dalla persecuzione razziale prima e delle purghe staliniane poi. Un film che e che ha il pregio di accompagnarci con la semplicità di una storia intima là dove il passato si stratifica. Emozionante il finale, con Ida che avanza verso di noi e verso la vita che si è scelta, con libertà e consapevolezza. Miglior film al London Film Festival e Premio Fipresci al Toronto International Film Festival. www.circolochaplin.it 47 24 marzo 2015 Interni di famiglia Il passato Regia di Asghar Farhadi. Regia e Soggetto: Asghar Farhadi; Sceneggiatura: Asghar Farhadi, Massoumeh Lahidji. Interpreti: Bérénice Bejo, Tahar Rahim, Ali Mosaffa, Pauline Burlet, Elyes Aguis. Fotografia: Mahmoud Kalari; Montaggio: Juliette Welfling; Musiche: Evgueni Galperine, Youli Galperine. Produzione: Memento Films Production Francia, Italia 2013. Durata: 130’ Un marito, Ahmad, torna dall’Iran in Francia, incontra la ex moglie, Marie, per firmare le carte del divorzio. In casa della ex moglie convivono lui, lei, due figlie di lei avute da un precedente marito che abita lontano, ma anche il nuovo amante di lei con il figlio. Durante il breve soggiorno Ahmad ha modo di scoprire la conflittualità esistente fra Marie e la figlia Lucie. Gli sforzi di Ahmad per tentare di migliorare la situazione porteranno alla scoperta di un segreto sepolto nel passato. Storie di vite, di sentimenti, di dolore, “Il passato” di Asghar Farhadi è un film complesso e sincero, vibrante nella sua analisi psicologica, un perfetto mosaico di dettagli, colpi di scena, insospettate rivelazioni e momenti pieni di suspense, che spesso ci costringono a rivedere le nostre considerazione e a ridisegnare il film. Un film che racconta una storia avvincente che parla di temi che riguardano tutti, che tutti abbiamo vissuto o che tutti potremmo vivere. Un film, come da più parti è stato fatto notare, che è un mix di thriller psicologico e di dramma familiare filmato come un poliziesco. Un film che colpisce al cuore, prima che alla testa. Dove rimangono impressi i piccoli gesti, le parole, i dettagli, l’attenzione per i personaggi: il dialogo muto dietro i vetri dell’aeroporto tra Marie e Amhad, di cui non sentiamo le parole ma ne cogliamo pienamente Circolo del Cinema Charlie Chaplin 48 il significato, emblema dell’incomunicabilità tra gli ex coniugi; il parabrezza velato dall’acqua che continua a cadere incessante e su cui, nonostante che i tergicristalli in movimento continuino a spazzarla via, rimangono evidenti i titoli del film; la medicazione che Amhad applica sul dito del piccolo Fuad e che Samir poi rimuove, quasi un passaggio di testimone tra i due uomini; la riparazione del tubo di un lavandino che perde, contesa tra i due come senso di affermazione sul territorio. Piccoli dettagli, particolari che ci rivelano il malessere che attraversa i personaggi, sfumature che li denudano nei loro risvolti emozionali. Farhadi intesse una ragnatela complessa di vicende che innescano una serie infinita di triangolazioni tra i personaggi, che annebbia il giudizio e sfuma il contorno delle cose, fino a stravolgere la nostra percezione dei fatti. Una ragnatela che svela una varietà multiforme e sfuggente di verità, che non è mai univoca e che spesso contraddice verità prima accertate. La stessa Parigi è resa opaca dall’illuminazione scura della fotografia di uno dei più importanti direttori della fotografia irianiani, Mahmoud Kalari che, oltre ad aver collaborato con Farhadi, ha lavorato anche con Abbas Kiarostami, Mohsen Makhmalbaf e Jafar Panahidopo. Tutto è, dunque, incerto, tutto può essere verità, tutto può essere menzogna; ognuno ne possiede una parte, ognuno ne ha un frammento con cui costruire il suo puzzle. L’effetto è sempre destabilizzante, e insieme stranamente positivo, benefico. La ricerca svolta dai protagonisti sui fatti che non conoscono, i modi in cui cercano di nasconderli, e genericamente i confronti tra di loro, sono spesso vicoli ciechi che di riflesso pongono lo spettatore in una condizione scomoda, incapace com’è di incolpare o favorire nessuno, messo com’è in riferimento al buio, all’ignoto. Il passato che da il titolo all’opera non è qualcosa di definito e inamovibile ma è una materia flessibile che si ri-plasma ad ogni avvenimento, azione e rivelazione del presente. Farhadi, come Assayas, non ricorre all’espediente della semplificazione perché la semplificazione è una bugia; in questo senso la famiglia, nucleo pulsante della sua poetica, non è una unità ma una coesistenza di individui carichi di tensioni differenti e spesso discordanti. Il cinema di è Farhadi è quanto di più universale si possa chiedere, non per quello che mostra, ma per la complessità con cui lo mostra. www.circolochaplin.it 49 31 marzo 2015 Interni di famiglia I segreti di Osage County Regia: John Wells; Sceneggiatura: Tracy Letts; Produttore: Jean Doumanian, Fotografia:Adriano Goldman; Musiche: Gustavo Santaolalla; Scenografia: Roshelle Berliner; Interpreti: Meryl Streep, Julia Roberts, Ewan Mcgregor, Chris Cooper; USA 2013; Durata: 130’ La famiglia Weston si riunisce per la scomparsa del capo famiglia Beverly, riunione familiare non idilliaca, ritornano a galla tutte le tensioni familiari più o meno sopite, tra la madre e le figlie che hanno preso nel frattempo strade diverse. Sullo sfondo di tutto c’è la sconfinato e deserto paesaggio dell’Oklahoma. Film con cast stellare con nomination a Meryl Streep, come miglior attrice protagonista, e a Julia Roberts, attrice non protagonista, agli oscar 2014 più altre nomination in altre manifestazioni per le magistrali interpretazioni. Lo sceneggiatore Tracy Letts traspone sul grande schermo la sua commedia teatrale “Agosto, foto di famiglia” vincitrice nel 2008 del premio Pulitzer. Va detto però che il film non ha nulla di teatrale, nel senso negativo del termine si intende, difatti il regista traduce sullo schermo l’opera senza cadere nell’errore di trasformare la commedia in semplice teatro al cinema. Tracy Letts, nostra vecchia conoscenza per la sceneggiatura di Killer Joe, ha dichiarato “so che c’è un’altra dimensione nel film che non poteva esserci nel testo teatrale ed è Osage County. Vorrei portare il regista e la produzione a casa mia e mostrare loro il paesaggio che ha un valore profondo per me come persona che non ha solo scritto un testo ma una sceneggiatura che è in qualche misura autobiografica. Circolo del Cinema Charlie Chaplin 50 Il paesaggio stesso diviene personaggio”. Difatti tutti gli esterni sono stati girati in Oklahoma, che con la sua calura e i suoi ampi spazi deserti permea questo dramma familiare in cui l’aridità dei comportamenti umani rispecchia quasi la natura dei luoghi. La storia ruota attorno al personaggio di Violet, Meryl Streep, che ha una personalità difficile da definire che da vittima può trasformarsi in carnefice in un battito di ciglia, da donna tenera e arguta facilmente diviene verbalmente violenta. A contrapporsi, suo malgrado, la figlia Barbara, Julia Roberts, tesa come una corda di violino sul punto di spezzarsi sotto i violenti colpi della madre. Lo scontro tra le due personalità avrà il suo apice durante la riunione di famiglia, per la scomparsa in circostanze misteriose del capofamiglia Beverly. Durante quest’incontro nella grande casa di famiglia, incalzano i colpi di scena, i segreti e le verità taciute vengono a galla spesso con devastante forza. In questo balletto di rivelazioni e scontri c’è la minuziosa ma mai didascalica descrizione dei personaggi implicati che il destino o le scelte di vita hanno reso parenti. Sembra quasi di rivedere “Parenti serpenti” di Monicelli che in una delle sue commedie più nere era riuscito a ricostruire le bassezze di cui si è capaci anche nei confronti dei propri cari trasformandoci in vittime e carnefici. Come già detto il tutto, su insistenza dello sceneggiatore che ha voluto come per giustificare i comportamenti l’aridità dei sentimenti e d’animo, avviene nella calura agostana del sud degli Stati Uniti. Le immagini del film completano quindi il racconto, come per giustificarlo e a motivare gli atteggiamenti e le scelte delle persone implicate nella storia di questa famiglia non del tutto normale dando un valore aggiunto al testo teatrale. Come accennato in precedenza il cast è stellare dove nei ruoli maschili troviamo Ewan Mcgregor, Chris Cooper che in questo caso sono da complemento alle donne del film, sono infatti le interpreti femminili Meryl Streep e Julia Roberts ad ammaliare con la loro interpretazione, reggono tutto il film sul loro scontro, le si vede passare da un umore all’altro in un batter di ciglio senza sbavature, viene allo scoperto tutta la classe e la bravura delle due grandi attrici. Va detto che probabilmente senza di loro il film sarebbe stato diverso. www.circolochaplin.it 51 Ciclo Coming soon L’ultimo ciclo di questa 47° rassegna 2014-2015 è come consuetudine dedicata alle prime visioni. I titoli dei film scelti saranno comunicati nel corso della rassegna. Il prezzo della tessera include la proiezione di questo ciclo. 7 aprile 2015 Film anteprima 14 aprile 2015 Film anteprima 21 aprile 2015 Film anteprima Schede a cura di Claudio Scarpelli, Sara Scarpelli, Rosa Camera, Sara Di Marco, Chiara Labate, Giampiero Logoteta, Francesco Mancini e Stefano Ammendola. Impaginazione e Progetto grafico a cura di Saso Pippia I materiali sono tratti da: Rivista Cineforum, cinematografo.it, mymovies.it, cineblog.it, cinefilos.it , filmup.it, comingsoon.it. Circolo del Cinema Charlie Chaplin Via Acri 7, 89128 Reggio Calabria Tel. Fax. 0965.22142 Codice Fiscale: 80002690800 [email protected] WWW.CIRCOLOCHAPLIN.IT Circolo del Cinema Charlie Chaplin 52 www.circolochaplin.it 53