un racconto a più voci MANI DI DONNE donne si incontrano

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un racconto a più voci MANI DI DONNE donne si incontrano
un racconto a più voci
MANI DI DONNE
donne si incontrano, comunicano, progettano
un’esperienza di integrazione
a cura di Luciana Angeloni
Quaderni di PORTO FRANCO
studi e materiali
collana diretta da
Lanfranco Binni
Regione Toscana
Giunta Regionale
Direzione generale politiche formative, beni e attività culturali
via C. Farini, 8 - 50121 Firenze - via G. Modena, 13 - 50121 Firenze
tel. 055 4382604 – 614 - fax 055 4382703
Presidente della Regione Toscana
Claudio Martini
Direttore generale
Ugo Caffaz
Responsabile Area di Coordinamento
Gian Bruno Ravenni
Dirigenti
Lanfranco Binni. Paola Garvin, Francesco Gravina,
Massimo Gregorini, Sandra Logli, Giuseppe Miniati, Claudio Rosati, Chiara Silla
Settore Spettacolo e Progetti Speciali per la Cultura
Lanfranco Binni (responsabile)
Rosetta Bentivoglio, Massimo Cervelli, Lina Condemi, Lisa Covelli, Alberto Doni, Luciana Franceschi, Elviro Lombardi, Angela Moschini, Gabriella Nencioni, Patrizia Turini, Mariangela Zucconi
con la collaborazione di:
Maria Ludovica Callai, Laura Della Rosa, Elisa Mazzini, Cecilia Morandi, Bettina Picconi.
www.cultura.toscana.it
Hanno collaborato alla realizzazione del testo: Paola Galli - Salvije Salihi - Fatima Rufat - Lucia
Aramini -Hira Jahovic - Antonietta Federici - Elena Popovich - Carmen Confetto - Fatima Salihi - Angela Bondi - Adriana Mazzi - Elda Voliani - Luciana Angeloni (Laboratorio Kimeta).
La redazione dei testi è a cura di Luciana Angeloni.
Cura editoriale di Bettina Picconi.
Foto tratte dal documentario “Kimeta: diverse come noi”, di Elena Bougleux;
da “La disperata allegria, vivere da zingari a Firenze” di Gianni Berengo Gardin,
(edizioni Centro Di, 1994), e dall’archivio fotografico del Laboratorio Kimeta.
© Regione Toscana, 2007
© Centro Educativo Popolare, 2007
Edizioni Regione Toscana
Grafica e stampa
P.O. Produzioni editoriali, grafiche e multimediali
del Centro stampa Giunta regionale
Via di Novoli 73/a - 50127 Firenze
Tiratura 1000 copie
Distribuzione gratuita
Gennaio 2007
Regaliamo il racconto di questa nostra esperienza
Alle donne tenaci che non si stancano di cercare
percorsi di sororità, tenerezza, solidarietà
A chi cerca mani da stringere per trovare,
nel calore della fatica, dell’amicizia e della condivisione
la strada della conoscenza e della consapevolezza
che sfugge ai “padri, maestri, dottori”
A chi coglie il significato profondo e gratificante del proprio vissuto
nelle generose relazioni che sfuggono al consumo ed al possesso
alle giovani ed ai giovani che osano il futuro con l’ottimismo e l’impegno
a realizzare una società basata sull’intreccio delle diversità
A chi come noi cerca la conoscenza, l’incontro, la vicinanza
di persone e gruppi con cui condividere tratti di cammino
Le donne del Laboratorio Kimeta
Conoscenza,
integrazione,
diritti,
cooperazione
Introduzione
Esistono nella società le risorse umane per affrontare costruttivamente le emergenze dovute alle grandi trasformazioni della
nostra epoca fra cui il crescente divario fra ricchezza e povertà,
l’immigrazione e la convivenza fra culture diverse? Esistono sì,
ma spesso non fanno notizia. Manca l’informazione. Chi cerca
uno sbocco positivo e non si limita a covare o a gridare le proprie paure scaricandole irresponsabilmente sui capri espiatori
di turno ha difficoltà a comunicare. Favorire la comunicazione
delle esperienze positive e la crescita delle coscienze può essere
uno dei modi per affrontare i problemi che emergono.
Prendiamo il tema della convivenza con i rom accampati nelle
periferie di Firenze.
Oltre l’Isolotto, in una discarica abbandonata, si apre il territorio degli uomini del nulla, popolo dall’identità eternamente
negata. Vivono in alcuni campi che l’Amministrazione comunale, decentrata nel Quartiere (il Q4 dell’Isolotto), ha da poco
tempo strutturato in forma dignitosa realizzando due villaggi
di casette prefabbricate, in attesa di un definitivo superamento
dei campi stessi.
Il problema della integrazione rimane però ancora aperto. La
cultura dell’accoglienza, espressa per anni da un intreccio fra
società civile e istituzioni pubbliche, tenta di abbattere queste
nuove mura dell’esclusione. Ecco la fase nuova che sta aprendosi: la strada della integrazione.
Si tratta di una fase nuova che sta aprendosi a livello generale
e mondiale. La questione fondamentale dei nostri tempi non è
la giustizia nel senso tradizionale della redistribuzione, bensì
l’inclusione o meglio l’integrazione. Lo affermano economisti e
sociologi aperti e fa parte della nostra esperienza quotidiana.
“Inclusione” è parola particolarmente equivoca. “Integrazione” è equivoca anch’essa, come tutte le parole del resto, ma
forse esprime meglio la fase storica di incontro e di reciproca
fecondazione fra culture diverse in cui viviamo. L’integrazione
ben governata è l’unica alternativa razionale alla guerra fra
civiltà. La città non può rinunziare all’integrazione.
Si tratta di assicurare diritti di cittadinanza, con l’assunzione
dei rispettivi doveri, e di integrare nel tessuto vitale della società i diversi di ogni tipo e gli esclusi, non per dovere di ospitalità,
ma come orizzonte progettuale, come pietra fondamentale di
una città sicura e accogliente per tutti. Opposto a questo è il
progetto liberista che vuole la città della competizione globale,
della guerra di tutti contro tutti, del patto fra privilegiati per
escludere chiunque resta indietro. È questo lo spessore dello
scontro che si svolge a Firenze e nelle altre città sui rom e più
in generale sugli immigrati. In gioco, insieme ai diritti dei rom,
sono i nostri stessi diritti, diritti di lavoratori, di pensionati, di
disoccupati, di persone più deboli.
Il Quartiere 4 di Firenze, alle prese con il campo o meglio con
i vari campi del Poderaccio, ha dato negli anni un contributo
notevole con la progettazione e realizzazione di esperienze positive di integrazione nel rispetto dei diritti e delle identità ed
ha dimostrato che è di lì che si passa anche per dare sicurezza
ai cittadini.
Una fra le esperienze di positiva integrazione è il laboratorio
“Kimeta”.
Kimeta è il nome di una giovane donna rom prematuramente
scomparsa ed il cui ricordo suscita ancora tanto rimpianto in
chi l’ha conosciuta.
Kimeta abbiamo titolato il laboratorio di servizi (stiratura, aggiustatura, cucito, ricamo...), scaturito da un progetto di donne
dell’ Isolotto e di donne di altre culture, in particolare rom,
donne & donne, con il coinvolgimento delle istituzioni cittadine, in particolare della Regione Toscana, del Quartiere 4 e della
Cooperativa sociale Samarcanda.
La donna ha sempre rappresentato nella cultura del popolo
rom un elemento fondamentale dell’economia familiare, in un
contesto però fortemente patriarcale e maschilista. Nell’incon-
tro con la nostra cultura questo ruolo non è molto cambiato. I
pregiudizi, l’emarginazione, le pessime condizioni ambientali
in cui si sono trovate a vivere hanno impedito alle donne rom
ogni possibilità di inserimento lavorativo ed esse hanno dovuto mettere in atto strategie di sopravvivenza quotidiana legate
ai residui della nostra economia di consumo e l’accattonaggio
rimaneva la loro unica risorsa. L’integrazione non può escludere la donna rom. Anzi forse è proprio da lei che l’integrazione
deve partire, cioè dalla realtà doppiamente esclusa ma che costituisce l’anima profonda della società rom.
È questa l’idea che si trova al fondo della esperienza che stiamo
cercando di raccontare. Era oggettivamente nelle cose, nelle
nostre esperienze di vita, nei nostri passi incerti; ma all’inizio
era un’idea più intuita che consapevole. Le stesse donne rom
non erano coscienti delle loro possibilità e della loro ricchezza.
Solo progressivamente siamo andate prendendone coscienza.
In sintesi: integrazione e non paternalismo assistenziale, reciprocità e non omologazione, integrazione a partire dalla donna,
dalla forza creativa nascosta ma viva del mondo femminile rom
e del mondo femminile autoctono, “donne per le donne” appunto; integrazione reciproca attraverso una specie di complicità
fra le donne di tutte le etnie accomunate da sempre da un prezioso patrimonio di competenze e in qualche modo di “segreti”.
Già: i segreti delle donne, un tempo segreti di streghe e di zingare! Così disprezzati dalla perenne puzza al naso dei maschi di
tutte le etnie. Ma anche così egoisticamente sfruttati. I segreti
accumulati da millenni di strategie vitali di sopravvivenza, da
mille e mille tentativi per trovare varchi di speranza in notti
senza barlumi: fame, epidemie, guerre, genocidi, catastrofi naturali. Competenze acquisite nella pratica avveduta e amorevole della cura. Tutto questo lentamente abbiamo scoperto che ci
accomunava: donne rom e donne del territorio. E insieme siamo
cresciute, intrecciando lavoro, confidenze, riflessioni, racconti
di vita, perplessità, intuizioni. Lo abbiamo condensato con un
logo di tre parole: mani di donne. I segreti, le competenze, la
creatività di tutto il nostro essere simboleggiato dalle nostre
mani. E da lì siamo partite per una scommessa di integrazione
che può costituire una indicazione di percorso di significato più
generale, un barlume che insieme a tanti lucignoli più o meno
fumiganti può consentire di intravedere un orizzonte nuovo di
rapporti umani.
Oltre l’alternativa fra il modello di integrazione “multiculturalista” britannico, un modello carcerario che accosta ghetti separati, enfatizza l’appartenenza, ma non favorisce la reciproca
contaminazione, e il modello “assimilazionista” francese che
produce anomia creando indistinte banlieues senza identità,
abbiamo tentato la strada che passa attraverso la lenta decostruzione della fissità delle rispettive appartenenze culturali e
l’altrettanto lenta costruzione condivisa della “comunità oltre
i confini”.
Sia le rom che le volontarie sono donne legate alla cultura antica della cura. Che è stata annullata dalla cultura della in-curanza per le persone e le cose in nome del dominio del danaro
e del profitto. Una globale e profonda rimozione delle persone
è infatti il sacrificio richiesto dalla nuova religione del dio danaro. Le donne della società industrializzata e le donne della
società rom hanno così perso la loro soggettività e il loro ruolo.
I loro segreti e le loro competenze non servono più nella cultura
delle pillole per ogni disturbo, delle trovate tecnologiche per
ogni sogno e bisogno, dei prodotti a prezzi sempre più stracciati frutto della schiavizzazione di persone anch’esse stracciate come i frutti della loro fatica. L’usa e getta ha coperto di
rifiuti non solo la faccia della terra ma anche la memoria, i
segreti, le competenze accumulate in millenni di cultura della
cura, dell’attenzione amorosa per la vita, della preoccupazione
e responsabilità verso le persone. E così le donne della società
del consumo divennero preda della depressione e le donne rom
dell’accattonaggio.
Tutto questo è sotto i nostri occhi. Ma siamo anche testimoni
di una crisi senza sbocco. Così non può durare. Passiamo da
un’emergenza all’altra. E di nuovo, come in altri momenti tragici della storia, la soggettività femminile riemerge alla ricerca
di varchi e di barlumi nella notte.
In alternativa all’usa e getta, in-curante di tutto pur di realizzare il mitico profitto, fa di nuovo capolino, in forma quasi
impercettibile, come le piccole gemme degli anemoni nei prati
ancora impregnati del gelo invernale, la cura delle cose che è
anche almeno indirettamente cura delle persone, anzi da questa fondamentalmente deriva. Cura delle cose e cura delle persone stanno sempre insieme.
Non buttar via, non disprezzare le cose, non sprecare natura
e lavoro. Recuperare. Questa cura delle persone e delle cose,
da sempre praticata nelle società conviviali, contiene una profonda filosofia di vita, indica una vera e propria svolta di civiltà. Intorno al riemergere di gemme di cura, piccole esperienze,
incerti tentativi, ricerca a tentoni di varchi che consentano di
rianimare la speranza in questo tempo di crisi profonda, si può
aggregare un’altra società, più comunitaria, più aperta, carat-
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terizzata non da ciò che può spendere e sprecare, ma da quanto
sa fare e quanto sa aiutarsi e farsi aiutare. Non sarà così eroico
come ‘rovesciare i potenti dai loro troni’, ma c’è molto il senso
di ‘innalzare i senza potere’. Chi lo fa contribuisce alla salute
del nostro povero pianeta e dei viventi che lo popolano molto di
più di quanto non capiti a molti dottori della legge ambientalista. Diceva queste cose fra gli altri un testimone della cultura
ambientalista, Alex Langer, nel 1992, parlando a Lione in un
incontro per gli ottant’anni dell’abbé Pierre.
Ma c’è dell’altro. Questa cultura della cura è anche storicamente all’origine del cooperativismo e tuttora ne è l’anima. Le cooperative sono nate in alternativa al capitalismo padronale che
considerava l’operaio come merce funzionale anch’essa al profitto. La dignità umana del “socio” era il valore supremo della
cooperazione. E di conseguenza anche la dignità del lavoro e
dei prodotti del lavoro. L’interesse per le persone e per le cose
al primo posto. Il grande successo anche economico della cooperazione ha dimostrato che non c’è incompatibilità fra cura
e sviluppo. Ma oggi la cooperazione rischia di essere ingoiata
dal nuovo capitalismo degli gnomi senza volto. Se vuol salvare
l’anima la cooperazione deve anch’essa rinnovarsi, quasi rinascere. Non basta che offra merci in concorrenza spietata con
un mercato globale impazzito. Né tanto meno basta che offra
servizi anonimi agli enti pubblici a prezzi concorrenziali che
obbligano a trascurare la dignità e talvolta i diritti dei soci lavoratori. La cooperazione deve ritrovare la via della cura aprendosi ai servizi diretti alle persone e alla natura. La Cooperativa sociale Samarcanda, assumendo il compito di far crescere il
Laboratorio Kimeta è un esempio di cooperazione solidale al
servizio delle persone e non del mercato. Quando la cooperazione segue un tale orientamento può rivendicare il sostegno
da parte dello Stato e degli Enti pubblici. La Pubblica Amministrazione infatti non riesce a soddisfare adeguatamente, come
sarebbe suo dovere istituzionale, i diritti sociali dei cittadini.
La cooperazione ha il valore aggiunto della solidarietà nella
trasparenza e nella laicità. È giusto quindi che venga sostenuta
nel momento che offre servizi sociali con quel valore aggiunto
che solo lei, cioè solo la cooperazione può dare. “I beni privati (i
prodotti commerciali) offerti dalle imprese capitaliste sono più
che sufficienti a soddisfare i desideri più futili e strampalati”.
Lo scrive un osservatore esperto e attento come Giorgio Ruffolo su «la Repubblica» (8 gennaio 2006). E ne deduce la seguente
indicazione di orientamento per la cooperazione: “C’è invece
una crescente scarsità relativa di beni sociali…. Sarebbe proprio questo il terreno sul quale la natura genetica solidaristica
e democratica del movimento cooperativo potrebbe trovare una
rinnovata fioritura”.
La stireria e piccola sartoria del Laboratorio Kimeta sono, nell’intenzione e nei fatti, servizi sociali offerti alle persone, attività di cura per le persone e per le cose. La clientela è costituita
da famiglie che non possono permettersi la donna di servizio,
da single magari con lavoro e figli, da anziani soli, da giovani
che tentano i primi approcci con l’autonomia dalla famiglia. I
prezzi sono calcolati non in base al metro del profitto, ma in
base a un difficile equilibrio fra dignità di chi offre il servizio
e di chi ne usufruisce. Il laboratorio è in espansione, ma non
ancora al pareggio. Il sostegno istituzionale ci è indispensabile
e forse costituisce un diritto. Lo stesso movimento cooperativo
che non volesse perdere l’anima in una svolta storica cruciale
dovrebbe guardare a esperienze simili come a una risorsa positiva e promettente.
L’abbiamo presa larga, abbiamo volato alto, non per presunzione. Siamo ben consapevoli della nostra piccolezza e del nostro
trovarci di continuo sul pericoloso crinale fra resistere e soccombere. Abbiamo allargato il discorso parlando di orizzonti
nuovi perché crediamo nella legge delle formiche. È evidente
infatti che la crisi della società moderna sta riaprendo la discussione sui fondamenti, sul senso dello sviluppo, della crescita e del consumo, sulla “razionalità” del mercato, sugli stili di
vita individuali e collettivi, sulla nostra quotidianità. Fine del
tempo dei dinosauri che non hanno bocche abbastanza grandi
per la loro insaziabile avidità. A chi è affidata la speranza? Solo
le formiche, sempre calpestate e sempre riemergenti, possono
dare continuità alla vita.
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Diverse come noi:
intreccio di vissuti.
Racconti
Nota ai testi
I racconti che seguono sono la momenti significativi di una esperienza vissuta insieme per molti anni. Alcuni testi, scritti da persone singole, hanno
il nome dell’autrice; altri sono stati redatti in modo collettivo e riportano
quindi lo sguardo di tutte le donne di “Kimeta”.
I tempi e le date in cui si svolgono i singoli racconti, che vanno dal 1995 al
2006, non seguono una rigida cronologia, descritta nella sezione successiva.
La contestualizzazione è facilmente desumibile dal senso della narrazione.
L’autobus
racconta Luciana
Verso la metà degli anni Novanta, se la mattina ti capitava di
prendere l’autobus numero 9, che dall’Isolotto conduce verso il
centro, magari per andare a scuola o al lavoro, ti ritrovavi immersa in un brulichio di uomini dalla pelle olivastra, bambini
sporchi, donne dalle lunghe gonne che parlavano fra sé ad alta
voce in una lingua totalmente sconosciuta, e all’improvviso ti
assaliva un senso di smarrimento, paura, disagio, timore, incontrollabile insofferenza. L’Isolotto era un quartiere che, pur
avendo un’origine di meticciato fra provenienze e culture di
immigrati da ogni parte d’Italia, fino ad allora (anni Novanta)
non aveva una presenza rilevante di extracomunitari: eravamo
abituati ormai a sentirci parte di un quartiere omogeneo che
aveva saputo costruire una sua identità. Quando, durante la
guerra di Jugoslavia, all’improvviso l’insediamento degli zingari al Poderaccio, che si trova ai margini del nostro territorio,
si riempì di profughi rom pregiudizialmente rifiutati dalla nostra cultura, ci sentimmo come invasi da gente marcatamente
diversa, che occupava i nostri spazi vitali: piazze, supermercati,
autobus, uffici, ambulatori, esibendo tutte le spinose particolarità della loro identità ed etnia.
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In molti nacque un senso di insofferenza:
- Rubano, sono sporchi, puzzano, non hanno voglia di lavorare,
sfruttano i bambini e non li mandano a scuola. Perché proprio
qui al Quartiere 4? Mandiamoli via, non li vogliamo.
Le tensioni divennero difficilmente gestibili e le soluzioni sembravano impossibili.
Il Consiglio del Q4 affrontò la situazione con grande determinazione e consapevolezza; l’associazionismo di base, molto vivo
sul territorio, mise a disposizione le proprie energie per collaborare a risolvere le tante emergenze di ogni giorno, furono
coinvolte le scuole, le ASL, gli uffici pubblici e spesso anche la
forza pubblica. Si cercò in tutti i modi di attutire questo impatto per molti versi sconvolgente fra una popolazione allarmata
ed un gruppo di profughi troppo numeroso e diverso.
Mediare e governare i conflitti, operare per un inserimento sul
territorio che fosse il più rispettoso possibile delle diverse culture ma anche delle regole di convivenza necessarie per costruire
relazioni positive, ha richiesto tante energie da parte di tutti,
rom compresi; dopo anni di impegno tenace e di collaborazione
è stato possibile realizzare rapporti costruttivi che hanno permesso una convivenza più serena.
Oggi, novembre 2006, salgo sull’autobus numero 9 in via dell’
Argingrosso per recarmi in centro. Sono da poco passate le otto,
l’autobus è popolato di studenti e lavoratori, mi faccio strada
per andare più avanti. A sedere in prima fila trovo Refice con
suo marito ed il nipotino, ci salutiamo affettuosamente, parliamo insieme. Qualcuno ci osserva con curiosità, qualcun’altro
forse con disapprovazione, ma il clima intorno a noi è del tutto
naturale, nessuno manifesta particolare disagio. Se n’è fatta di
strada!
Il campo
una convivenza difficile
È autunno inoltrato, fa freddo, è piovuto da poco.
Un gruppo di donne del quartiere sale lungo il viottolo che porta al campo rom del Poderaccio. Manuela ha fissato un incontro
con le donne del campo per tentare di fare conoscenza.
Per chi si reca lì per la prima volta l’impatto è sconcertante:
bambini scalzi e poco vestiti si rincorrono e giocano in mezzo
al fango, ragazzine di dieci-dodici anni lavano i panni o i piatti
all’aperto in lavatoi comuni, le baracche e le roulotte sono ammassi di bandoni e assi di legno.
Un gruppo di piccoli gioca: si rincorrono, leticano, se le danno;
una mamma interviene e sgrida i più grandicelli; arrivano subito altre donne a controllare la situazione, prendono le difese
dei propri figli ed il litigio diventa grida e parole pesanti tra
adulti.
In quel fazzoletto di terra non esiste privacy, intimità, possibilità di sottrarsi al controllo degli uni sugli altri. Il campo non
ha una configurazione, è cresciuto caoticamente, baracca dopo
baracca; ciascuna famiglia, via via che arrivava, occupava uno
spazio libero vicino a parenti o componenti la stessa etnia e ci
costruiva il suo rifugio. Due sono le etnie di provenienza più
numerose: serbi e macedoni, spesso in conflitto fra loro.
Uno spazio più largo nella zona del lavatoio e all’ingresso del
campo, per il resto piccoli spazi vissuti in promiscuità.
A quella prima visita al campo del Poderaccio ne seguono altre
e la frequentazione con le donne rom del progetto di formazione-lavoro mette noi italiane di fronte ad uno spaccato umano
e sociale quasi incredibile: crescendo la familiarità e la fiducia
tra noi, le loro confidenze ci immergono in un mondo sconcertante.
- Ho paura, non ho dormito tutta la notte, grosse talpe passeggiavano sotto il mio letto.
- Suonano musica ad alto volume tutta la notte, mio marito lavora e vuole dormire, si è lamentato…l’hanno picchiato…
- Ci sono al campo delle persone che ci minacciano…..noi stia-
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mo nella nostra baracca e cerchiamo di rispettare tutti, ma loro
ci sono contro e abbiamo paura
- Dobbiamo tornare a casa quando ancora è giorno, guai se siamo fuori al buio, è pericoloso!
- Fino a qualche tempo fa al campo non c’era droga, la nostra
religione la proibisce, ma ora non è più così, io ho un figlio giovane ed ho paura che venga coinvolto dai suoi amici…
- È morta la piccola Silvana, aveva solo quattro anni, un corto
circuito ha causato un incendio, la sua baracca ha preso fuoco,
lei era dentro e non l’hanno potuta salvare.
- Nella mia baracca piove, questa notte ci siamo bagnati noi e le
nostre cose.
- Ci sono uomini bravi e uomini che bevono, si ubriacano, picchiano...
Ci sentiamo assalite da problemi più grandi di noi, impotenti
viviamo questi momenti di confidenze come un uragano che ci
assale, ci sembra un mondo totalmente altro che non ci appartiene, è un impatto difficile da sostenere, ci interroghiamo: se
dovessimo trovarci noi in quelle condizioni disumane, come le
affronteremmo?
Zingari, brutti, cattivi, violenti, oppure bruttura, violenza ed
illegalità della povertà?
Lavorare insieme
Si comincia. Il corso di formazione-lavoro è stato finanziato e si
svolgerà presso la sede della “Comunità dell’Isolotto-Centro Educativo Popolare”, nei locali chiamati “baracche verdi” anche se
sono state elegantemente ristrutturate e non sono più né baracche
né verdi.
Nonostante i dubbi e le perplessità sulla riuscita di una esperienza
di integrazione con donne rom, un
certo numero di volontarie dà la
sua disponibilità a collaborare.
Il contesto fortemente solidale del
quartiere e dell’associazionismo
di base favorisce la disponibilità
di molte di noi donne a mettersi
in gioco con le potenzialità e le
professionalità che ciascuna possiede. Al gruppo di coloro che avevano partecipato alla nascita del
progetto, si uniscono altre donne,
per lo più casalinghe, che sono e
saranno anche successivamente
preziose sia per la loro attitudine
a cucire, ricamare, fare la maglia,
sia per la loro continuità nell’impegno.
Arrivano le dieci donne del campo
del Poderaccio che sono state selezionate da Giusi, assistente sociale dell’Ufficio immigrati, in base a
criteri condivisi.
Manuela, consigliera del Quartie-
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re 4 e responsabile della Commissione sicurezza sociale, favorisce il dialogo e media fra rom e gagé (così chiamano noi italiane). Maria, responsabile del progetto per l’agenzia IAL che
lo gestisce, spiega come funzionerà la cosa. Insieme decidiamo
i tempi e i modi con i quali intendiamo procedere, le regole da
rispettare, l’organizzazione del lavoro.
I pochi soldi a disposizione non ci permettono grandi spese, si
acquistano macchine usate, aghi, un po’ di filo, tutte portiamo
da casa pezzi di stoffe, cotoni, lane che non usiamo, qualche
forbice, dei ditali. Insomma, come succede spesso, si fanno le
nozze con i fichi secchi, eppur si va!
Siamo nel luogo storico della Comunità dell’Isolotto e della solidarietà, qui noi del volontariato ci sentiamo a casa nostra: siamo un gruppo di donne che fin dagli anni Sessanta ha espresso un forte impegno sociale e che in questi locali ha condiviso
scelte e riflessioni alla ricerca di un cammino comunitario. Qui
ci sentiamo sostenute dalla condivisione di tutti i partecipanti
alla vita della comunità e possiamo anche rischiare nuove avventure solidali.
Lavoriamo in due stanze: un gruppo impara a cucire a macchina, un altro ricama e lavora a maglia e uncinetto. Si deve
cercare un’intesa con le rom del corso, dobbiamo affiatarci ed
accordare i suoni, il cammino sarà lungo, si parte augurandoci
un buon viaggio.
Il pregiudizio
- Ieri ho messo il ditale nella scatola, oggi non lo trovo più!
- Chi ha preso le forbici?
- Non trovo più un bel pezzo di stoffa che avevo portato da casa,
si poteva cucire qualcosa di nuovo!
- Aiuto! Avevo messo la borsa dietro la porta, dove è andata a
finire?
Ai primi passi, l’ansia da furto serpeggia fra le volontarie che,
quando arrivano, si attrezzano a nascondere la proprie cose in
posti sicuri: l’incognita sul futuro di queste relazioni fra noi e
le donne rom è totale; il contesto culturale di pregiudizio ma
anche l’esperienza, spesso diretta, di furti subiti non sono certamente tranquillizzanti.
Ci scrutiamo reciprocamente: il modo di vestire, gli odori, il
senso della cura, dell’ordine delle cose.
- Fumano, parlano fra di loro ad alta voce ed in modo aggressivo, non riescono a concentrarsi nel lavoro per più di mezz’ora,
cercano ciascuna di accaparrarsi le attenzioni e le simpatie delle italiane che sono preziose per ottenere aiuti, non hanno voglia
di lavorare, non riusciremo mai a dar loro il senso del lavoro e
dell’impegno, non sono abituate, sono diverse.
Si intrecciano così i commenti e le perplessità di noi gagé.
Mentre cerchiamo di capire, “loro” ci guardano, parlano fra sé
nella propria lingua e ridono. Chissà cosa si diranno mai! Percepiamo comunque che ridono alle nostre spalle: forse siamo
anche noi vittime dei loro pregiudizi?
Chi ci osserva dall’esterno, l’uomo della strada, guarda a questa iniziativa con incredulità e spesso anche con disapprovazione: non cambieranno.
Chi ha in qualche modo frequentato il campo ci scoraggia: non
verranno, smetteranno presto.
Non ci lasciamo scoraggiare, l’ottimismo è contagioso. Nonostante le perplessità e gli interrogativi iniziali, l’atteggiamento
delle donne del Poderaccio si rivela fondamentalmente positivo
e la voglia di incontrare questo mondo a noi sconosciuto ci coinvolge tutte.
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La firma
leggere e scrivere
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È l’ora dell’alfabetizzazione.
In cerchio intorno ad un tavolo si tenta di conoscersi, la comunicazione è difficile: Elfise non è mai uscita dal campo, Hafise,
Scegersada, Serbesa, Mirsada sono impacciate e silenziose, Sabilja e Zenepa più amanti di iniziativa e protagonismo tentano
in tutti i modi di partecipare alla discussione, mentre si avverte
chiaramente che Scireta e Refice sono coloro che hanno fatto
più esperienza di relazioni con gli italiani, si sente anche che
sono andate un po’ a scuola e tentano una mediazione verbale
fra le gagé e le altre rom .
Noi dell’Isolotto siamo certamente più a nostro agio, l’ambiente ci è familiare, ci sentiamo protagoniste a casa nostra, ma di
comprensione della loro lingua proprio nulla, anche perché le
stesse donne rom non sempre si intendono fra di loro in quanto
usano forme linguistiche differenti a seconda della etnia a cui
appartengono.
- Quanti anni hai?
- Non lo so.
- Quando sei nata? Qual è il giorno del tuo compleanno?
- Non so.
- Hai documenti?
- No.
- Io vengo dalla Jugoslavia.
- Io sono venuta in Italia da tanti anni, dieci anni fa.
- Io non so parlare, non conosco i numeri, non so telefonare, non
sono mai salita in autobus.
Ma è proprio vero che si trovano a questo livello di carenza culturale oppure è solo un problema di comunicazione linguistica?
Quello che abbiamo capito subito però è che su dieci donne solo due
o tre sono andate un po’ a scuola quando erano in Jugoslavia.
L’alfabetizzazione è un momento vissuto da tutte noi come una
grande avventura; pur essendo condotta da personale con lunga esperienza di insegnamento, il percorso da fare insieme si
presenta tutto da scoprire. La prima grande fatica è cercare
di comunicare ed intendersi; in questa fase iniziale è preziosa
la collaborazione di Scireta che ha svolto il ruolo di mediatrice
culturale essendo un po’ alfabetizzata e con buona capacità di
comprendere ed usare anche la lingua italiana.
Preso atto che si parte da un livello praticamente zero sul piano
strumentale, ci rimbocchiamo le maniche e ci poniamo i primi
obbiettivi minimi da raggiungere:
- fare la propria firma;
- riconoscere, leggere e scrivere i numeri;
- conoscere e leggere il calendario;
- usare l’orologio;
- memorizzare la propria età, collocarla nel tempo e nella successione dei mesi e degli anni;
- tradurre in lingua italiana i nomi degli oggetti;
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- tradurre verbalmente concetti e racconti del vissuto delle rom
in lingua italiana;
- leggere e comprendere titoli e sottotitoli dei giornali;
- riconoscere il denaro e il suo valore;
- fare semplici operazioni di calcolo.
Lo sforzo che viene richiesto a tutte noi ma soprattutto alle
donne del Poderaccio è immane. Non sono abituate a concentrarsi a lungo in un lavoro di questo genere: Serbesa non riesce
a coordinare i movimenti nell’usare la matita e dopo uno sforzo
stressante iniziale disarma e tende a rinunciare. Elfise non è
abituata ad uscire dal campo e dunque è quella che comprende
meno l’italiano e fa fatica ad apprendere, mentre Hafise, pur
essendo silenziosa e poco comunicativa, riesce ad applicarsi con
maggiore continuità, è precisa e ben coordinata e non si arrende
facilmente. Zenepa non accetta mai di mettersi in discussione,
teme il confronto con le altre e perciò si rifiuta di frequentare
il corso di alfabetizzazione. Solo dopo un po’ di insistenza da
parte nostra finalmente si lascia convincere ma persevera per
poco tempo nonostante ottenga buoni risultati. Scegersada ha
un carattere volenteroso e prende la cosa molto seriamente,
scopre che apprendere le potrà esserle utile e con la collaborazione della sua figlia maggiore che frequenta la scuola fa molti
progressi. Sabilja ce la mette tutta, ha frequentato un po’ la
scuola al suo paese e poi ha sempre dovuto arrangiarsi da sola e
riesce a mettere in atto strategie di apprendimento sue proprie,
anche se la sua concentrazione è frammentaria. Scireta e Refice si difendono meglio e sono quelle meno sotto stress.
Spendendo molto tempo ed energie riusciamo ad ottenere solo
risultati minimi, ma quando per la prima volta prendono il loro
gettone di presenza e firmano la ricevuta e vanno in banca a riscuotere l’assegno, si apre ai loro occhi una prospettiva del tutto
nuova, un modo nuovo di vivere che è stato finora loro negato.
Lentamente e con fatica cresce la voglia e la possibilità di imparare, comunicare, entrare in relazione. Ora anche loro osano
fare domande, chiedere notizie. Raccontandoci, le une con le
altre, si fa storia, geografia e molte altre discipline. Curiose di
apprendere reciprocamente scopriamo diversità e similitudini,
ed anche noi gagé ci scopriamo “diverse come loro”.
Le mani
racconta Paola
Le mani lavoravano attente,
ognuna al proprio posto. Quelle
“piccole e scure” manovravano
con abilità ago e filo: ne venivano
fuori graziosi occhielli ben rifiniti, orli a giorno ammirevoli per la
precisione, piccoli ricami colorati
su tovagliette bianche dalla trama
quasi impalpabile. Anche i gioielli sapevano fare “le mani piccole
e scure”, come quella collanina
d’argento con le pietre azzurre
che sembrava uscita dalla bottega di un artigiano provetto o il
braccialetto fatto di piccolissime
perline rosa e argento che avrebbe fasciato con grazia un polso di
donna. Le “mani lunghe e scure”
non erano da meno. Queste mani
erano anche particolarmente armoniose con le dita ben disegnate e abbellite da vari anelli tutti
d’oro, molto semplici, senza pietre
colorate. Tic tic tic zigzagava veloce l’uncinetto e intanto cresceva
il giro rotondo del centrino giallo. Nella stanza accanto le “mani
grandi e nervose” correvano su e
giù sull’asse da stiro. A un certo
punto s’impigliarono nelle pieghe
di una tenda bianca e complicata
e parvero impazzire. Erano mani
agitate quelle lì e scalpitavano
spesso sul ferro che s’impuntava,
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soffiava e sputava acqua. Anche perché la montagna dei panni
che aspettava era davvero considerevole.
Forse una bacchetta magica sarebbe stata l’ideale e le mani
avrebbero potuto accendersi una bella sigaretta e fumarla con
gusto fino alla fine o prendere una tazzina di caffè forte e profumato, che erano, entrambe le cose, due grandi piaceri della
vita. Ogni tanto la mano correva alla manopola della radiolina
sulla mensola e allora la musica amata usciva a fiotti e avvolgeva la stanza facendo compagnia. Allora le mani sospiravano
appagate e andavano su e giù con più leggerezza sulla trama
bianca e complicata della tenda.
Sul lato breve del lungo tavolo rettangolare stavano “le mani
seducenti” che si distinguevano appunto dalle altre per lo
smalto rosso vivo sulle unghie (qualche volta verdeazzurro
o addirittura rosso cupo quasi nero), i molti anelli, uno per
dito, i braccialetti tintinnanti ai polsi e un leggero profumo
che si diffondeva a ogni movimento. “Le mani seducenti” non
avevano una gran voglia di scrivere all’inizio della scuola, ma
poi presero gusto, a poco a poco, a riconoscere i suoni, a ricordare la forma delle lettere e anche a scrivere le parole. In
ogni modo la cosa che a loro piaceva di più era far tintinnare i
braccialetti, tenendo la tazzina del caffè, e guardare ogni tanto la bella luce degli anelli intorno alle dita, come se qualche
mano d’uomo fosse lì pronta per attirarle in un lungo ballo
romantico.
Le più laboriose erano certamente “le mani materne” che avevano ben più da fare delle altre perché, oltre a comporre parole
e a formar numeri, dovevano sollevare, cullare e blandire le
crisi di pianto di una bimba, imboccarla quand’era il momento
e ogni tanto, quando proprio non sapevano più cosa escogitare per farla star buona, attaccarla al seno e ninnarla un po’.
Certo: le parole non venivano bene e il conto dei numeri era
più difficile; “le mani materne” avevano però molta pazienza e
passavano abbastanza disinvoltamente da una all’altra di queste occupazioni, forse perchè erano mani molto giovani e piene di energia e per loro tutto era un po’ un gioco, faticoso ma
anche divertente e non di rado finiva che la piccola mano della
bambina, guidata dalla mano materna, si divertiva a cercar di
formare le “a” e le “o”, mentre gli occhi passavano pian piano
dai lacrimoni al sorriso.
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Mamme bambine
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Mirsada è la più giovane delle donne rom che frequentano il
corso di formazione e
alfabetizzazione al CEP, ha ventisei anni e sei figli, il settimo è
in arrivo (poi è arrivato anche l’ottavo).
Due splendidi occhi neri illuminano un bel viso incorniciato da
lunghi e folti capelli, è intelligente, apprende con profitto, ma
la lotta per la sopravvivenza sua e della sua famiglia è senza
tregua. Il marito non ha permesso di soggiorno e non può lavorare e poi lei non risulta sposata legalmente, non ha documenti, non ha permesso di soggiorno: l’elemosina è la sua unica
fonte di sopravvivenza, si trascina dietro i suoi piccoli e la trovi
ad accattonare agli angoli delle strade. Ha un processo in corso
per sfruttamento di minori, se la fermano la portano in carcere,
non può farsi vedere chiedere l’elemosina, ma non ha scelta.
La maggiore dei suoi figli ha nove anni e non frequenta la scuola, sta a casa a badare ai fratellini più piccoli.
Molte volte ci siamo impegnate, collaborando con Mirsada, a
cercare una soluzione affinché i piccoli potessero inserirsi nelle
scuole e nei nidi del quartiere: così almeno avrebbero avuto anche un pasto sicuro e sarebbero stati al caldo durante l’inverno,
ma questi genitori bambini non riescono ad organizzare la loro
vita e la mattina, piccoli e grandi, accucciati stretti nella loro
baracca di lamiera, prolungano il loro sonno, poi si vedrà!
Frequenta il nostro progetto di formazione-lavoro meglio che
può, il gettone di presenza è per lei un contributo prezioso.
Oggi è il giorno dedicato all’alfabetizzazione: con il bambino
più piccolo attaccato al seno si siede con noi intorno al tavolo
ed apre il suo quaderno: scrive brevi parole, scopre i numeri,
cerca di concentrarsi su semplici calcoli, ce la mette tutta, vorrebbe imparare ed un sorriso dolce e disarmante le illumina il
viso quando si accorge di sbagliare; poi il bambino comincia a
piangere e lei interrompe per coccolarlo con tenerezza, non è
mai nervosa, non alza mai la voce. A mezzogiorno, in braccio il
suo piccolo, se ne va: fuori il suo uomo l’aspetta, vanno insieme
in piazza a farsi un panino al chiosco del trippaio e, mentre
mangiano, li vedi che tornano verso il campo abbracciati e sorridenti.
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I figli
i piccoli delle rom e i nipotini delle gagé
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Se hai un minimo di coraggio e riesci a superare il muro di
paura, insicurezza e disagio che separano la tua dimensione
e quella del campo rom, se decidi di immergerti nelle pozze,
nel fango e nel letamaio di rifiuti che sei costretta a percorrere
per raggiungere la collinetta di lamiere e vecchie roulotte che
ospitano i rom al Poderaccio, se riesci ad intrecciare un minimo
di solidarietà con questa realtà, la cosa che maggiormente ti
colpisce sono i bambini.
Scalzi e a torso nudo d’estate, spesso scalzi e poco vestiti in
inverno, occhioni grandi, visini sporchi e nasi che gocciolano,
giocano vispi rincorrendosi fra le baracche e, appena ti vedono,
ti vengono incontro curiosi e ti investono con mille domande ed
espressioni tenere ed affettuose.
L’impatto è sconcertante, un senso di angoscia ti invade:
- Come è possibile fare tanti figli e poi lasciarli crescere esposti al freddo, alle malattie, ad una alimentazione insufficiente,
dentro baracche pericolose, infestate da topi enormi, dove frequentemente accade che perdano anche la vita, magari per un
cortocircuito che fa esplodere un incendio, per un gioco pericoloso dentro un frigorifero rottamato lasciato in un angolo, per il
freddo; come è possibile fare figli per trascinarli lungo le strade
a chiedere l’elemosina!
Dall’alto della nostra condizione di benessere guardiamo con
senso fortemente critico simili comportamenti ed esprimiamo
giudizi molto severi nei loro confronti:
- Sono incoscienti, non hanno cura dei propri figli.
Non abbiamo dubbi nel ritenerci superiori rispetto alla loro
cultura educativa e genitoriale.
Se poi hai la fortuna di fare un’esperienza di incontro fra diversità e di intreccio fra donne, se riesci ad elaborare ed a superare
quei tanti pregiudizi che ti impediscono di comunicare in profondità, come è accaduto a noi del laboratorio “Kimeta”, allora
è diverso.
L’attenzione ai bambini ha motivato fortemente l’impegno del-
le donne del volontariato: il senso materno, la tenerezza, le coccole, l’espansività
verso i cuccioli insieme alla loro attenzione ed alla cura, costituiscono nelle relazioni fra donne un legame fortemente
solidale,
un feeling profondo e la convivenza fra
diversità si nutre anche di confidenze, familiarità, gesti:
- le volontarie che portano pannolini,
giocattoli, vestiti: un intreccio fra la compassione, l’elemosina e il regalo, il dono
fatto con affetto e simpatia;
- giovani donne rom con il pancione in
attesa del loro ennesimo figlio, oggetto di
consigli, attenzioni e cura da parte delle
gagé;
- mamme e nonne che, mentre con le loro
mani operose lavorano le une accanto
alle altre, si scambiano racconti di vita,
pensieri e consigli sui propri figli e sulla
maternità: un intreccio fra l’ascolto reciproco, la critica a volte severa da parte
delle italiane e l’atteggiamento di tabù
e giustificazione che hanno le donne del
popolo rom di fronte al tema della sessualità e della particolarità della loro cultura;
- i luoghi dove si svolge il corso di formazione che si riempiono di carrozzine,
tappeti stesi in terra, piccole culle, disponibili ad accogliere le mamme rom con i
loro piccoli.
Tanti occhi di donne attente permettono
alle giovani rom di frequentare, di uscire
dal campo, di imparare, di costruirsi un
futuro.
I locali del Centro Educativo Popolare,
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dove si svolge il corso di formazione-lavoro e
di alfabetizzazione, un giorno alla settimana
si animano anche della vivacità dei piccoli
del campo che vengono a fare un laboratorio di teatro e danza: i piccoli ci sbirciano, ci
salutano, ci abbracciano senza timidezze:
- Io ti conosco.
- Io ti ho vista al campo.
- Io ti ho incontrata a scuola
- Chi sei?
- Perché siete qui?,
- Lei è la mia mamma, la mia nonna.
Giorno dopo giorno crescono la conoscenza
ed il rispetto reciproco, giorno dopo giorno
scopriamo mamme attente ma non ansiose, mamme protettive che magari dormono
in terra per lasciare il materasso ai figli, ma
non ossessionate dalle paure, mamme che
parlano ai piccoli con tono pacato senza mai
gridare troppo, che costruiscono rapporti di
familiarità amicale con i propri figli grandi,
specialmente se sono bambine, mamme che
mantengono con i figli un rapporto di distanza fatto di regole e disciplina, senza magari
perdersi molto a giocare insieme, ma che tengono i piccoli stretti alle loro gonne ed anche
quando se li trascinano dietro per le strade
la loro vicinanza è piena di affettuosità. Scopriamo bambini fondamentalmente sereni e
gioiosi, espansivi ed affettuosi, vivaci ma non
aggressivi; bambini che esprimono docilità e
comportamenti educati nei confronti degli
adulti. Allora anche noi donne italiane siamo
disposte a rimetterci in discussione.
Allora il pregiudizio si trasforma veramente
in scambio culturale.
Allora le relazioni abbattono muri e costruiscono ponti.
Andare per l’elemosina
racconta Luciana
È sabato mattina, mi sto recando al cimitero di Soffiano per
visitare la tomba di mia madre, scendo dalla macchina e mi
colpisce una figura seduta in terra ad un angolo dell’ingresso
che chiede con la mano tesa, è una donna rom con abiti lisi ed
un fazzoletto in testa che le copre quasi il volto. La osservo in
atteggiamento di comprensione e con un sorriso le passo accanto: è Hafise, una delle donne che frequenta il corso di formazione. Io non so se fermarmi a parlarle, sono incerta, non vorrei
metterla a disagio, lei si volta da un’altra parte e fa finta di non
vedermi, passo oltre.
Quando esco lei è sempre lì, decido di salutarla ma non le do
soldi, desidero non umiliarla.
Accadrà altre volte di incontrare Hafise accucciata in terra all’ingresso del cimitero o davanti alla porta della chiesa di S.
Quirico a Legnaia: questi luoghi sono il suo territorio di lavoro
per la sopravvivenza, perché ciascuna donna che va a chiedere
l’elemosina ha un proprio ambito in cui si reca costantemente
stabilendo un rapporto con le persone di quel territorio e nessun’altra lo invade.
Qualche volta passo oltre, altre volte mi fermo a parlare con lei,
ma quando ci vediamo alle baracche per il corso di formazione,
nessuna di noi due fa riferimento alla cosa.
- Vogliamo lavorare.
- Abbiamo bisogno del lavoro per sopravvivere.
- Non vogliamo più andare per l’elemosina.
- Bisogna mettere insieme i soldi per mangiare.
Così ripetono quando si parla insieme, ma intanto tutte continuano a porgere la mano.
L’atteggiamento questuante del porgere la mano, del risolvere
i problemi che si presentano chiedendo sempre che qualcuno
lo faccia per loro e magari elargendo poi ringraziamenti ossequiosi, è ormai un costume che fa parte della loro identità e non
sembra che lo vivano come umiliazione e dipendenza. Del resto
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è un’abitudine anche il nostro atteggiamento caritatevole del
regalare loro cose vecchie, in disuso, gli scarti.
L’elemosina, nelle varie forme più o meno dignitose che assume, sia che venga chiesta sia che venga data, caratterizza due
culture che si confermano si giustificano reciprocamente perpetuando le condizioni di emarginazione e subalternità di alcune realtà in una società basata sul profitto.
Il laboratorio “Kimeta” vuole essere un segnale di riscatto e di
affermazione di un diritto che superi le elemosine, l’assistenzialismo e le dipendenze.
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Al mare
A settembre Torre del Lago è in via di spopolamento, le vacanze sono terminate, la giornata è un po’ grigia con qualche
scroscio di pioggia, i turisti scendono dai pullman riparandosi
con l’ombrello, noi ci mescoliamo a loro e giriamo curiose fra le
bancarelle della piazza.
Avevamo da tempo progettato una gita al mare tutte insieme,
volevamo fare una esperienza, divertirci un po’.
Non siamo tutte. Nonostante il desiderio di fare un’ esperienza
lontano dai mariti, dai figli, dai problemi vari, alcune non si
sono potute sottrarre ai propri impegni: siamo nove e partiamo
con due auto la mattina alle otto e mezza.
Elfise ha con sé il suo nipotino, Hafise magra e con il volto austero e scuro, vestita in abiti tradizionali, comunica la sua euforia più con i gesti che con le parole, Scegersada è come al solito
silenziosa ma ci saluta con un bel sorriso, Sabilja è emozionata
e sente il bisogno di attirare l’attenzione esprimendo gesti affettivi, Serbesa soffre di stati di ansia e la manifesta tutta pur
comunicando la sua gioia.
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Anche noi gagé siamo poche, solo tre. Forse mostrarsi aggregate
ad un gruppo di zingare mette qualcuna a disagio! Ci conosciamo da non molto tempo ed ogni volta che ci mostriamo insieme
in pubblico siamo oggetto di sguardi meravigliati e scostanti.
Forse altri motivi hanno impedito una più larga partecipazione.
In compenso c’è con noi Enzo, un amico di tutte, che insieme ad
Eros e pochissimi altri ha espresso un’attiva collaborazione con
l’esperienza “donne per le donne” senza invadere con il protagonismo maschile la nostra visibilità e specificità femminile.
La prima parte della mattinata la dedichiamo ad un giro in
barca sul lago Puccini.
La passeggiata dura circa un’ora. Il paesaggio, l’osservazione
della fauna e della flora, l’esperienza del percorso in barca attira l’interesse generale per un po’, ma la vera attrattiva delle
donne rom è stare insieme, parlare fra noi, metterci in posa per
fare le foto e dopo un po’ all’interesse si sostituisce la noia e
l’ansia di scendere. Si va sul mare.
Intanto è smesso di piovere ed il tempo si sta rimettendo al
meglio.
Scendiamo sulla spiaggia, tutte felici ed esuberanti.
Hafise si libera della sua lunga gonna da rom e si mostra con
un bel vestitino a fiori alla gagé, come del resto erano vestite le
altre, nessuna in costume da bagno ma tutte ci tiriamo su vesti
e pantaloni per entrare nell’acqua a giocare, schizzare, correre,
cantare.
- Qui è bello!
- Non ero mai stata al mare italiano!
- Io non avevo mai visto il mare!
- È una grande emozione essere qui con voi!
Così si esprimono.
L’euforia cresce ed anche per noi italiane è una prima volta:
italiane e zingare insieme a fare il bagno in mare, chi poteva
crederci?
Questa era un’esperienza fortemente attesa, un attimo di giocosità ed esuberanza, una parentesi festosa che il popolo rom
ama concedersi anche nei momenti brutti e difficili della vita.
Si è fatto tardi, andiamo a cercare un posto dove mangiare
qualcosa. Entriamo in uno di quei bar che servono anche primi
e contorni freddi, ci sediamo ai tavoli. I proprietari ci guardano con aria sospettosa ed allarmata, noi italiane prendiamo in
mano l’iniziativa e trattiamo con loro il servizio. Tutte scegliamo il pasto. Per le donne del campo anche questo è un avvenimento nuovo ed emozionante: sedere ad un tavolo di un ristorante italiano per mangiare come i gagé; si guardano intorno
confuse, ordinano ancora, possono scegliere, oggi non vogliono
limitazioni, per una volta si può. Nell’euforia della situazione
e del parlare si tende ad alzare il tono della voce, qualcuno ci
richiama all’ordine; restiamo sedute a quei tavoli per un bel
po’, fino alla consumazione del caffè e poi usciamo sulla strada.
Proviamo a fare una passeggiata sul lungomare, ma la pioggia
minaccia di nuovo, decidiamo di concederci un gelato e poi di
nuovo in macchina, si torna a Firenze.
L’esuberanza e l’allegria ha contagiato anche noi dell’Isolotto,
abbiamo tutte la percezione che una esperienza così segnerà
positivamente il futuro delle nostre relazioni: abbiamo aperto
una breccia nel muro della diffidenza.
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Andare
incontrare, uscire dal campo
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- Nella nostra cultura rom le donne non lavorano, non vanno
a scuola: sono gli uomini che hanno questo diritto, le donne
devono fare figli, badarli, crescerli, lavare, stirare, cucinare,
rimaniamo chiuse nel campo senza entrare in relazione con il
mondo esterno. Anche quando, per necessità, andiamo a chiedere l’elemosina non usciamo da questo nostro mondo chiuso, non
entriamo in rapporto con gli altri.
È Scireta che parla e si racconta: è l’otto marzo e partecipiamo
ad una festa della donna organizzata alla Casa del popolo di via
Maccari. È la prima volta che partecipiamo ad una iniziativa di
sole donne, il clima è gioioso ed accogliente, ma è anche la prima volta che le donne del Poderaccio, rassicurate dal gruppo,
hanno il coraggio di prendere la parola in pubblico.
- Al campo in questi anni sono state fatte tante riunioni, ma
quasi sempre sono solo gli uomini che discutono mentre noi
ascoltiamo e stiamo zitte.
- Quando la prima volta venne ad incontrarci questo gruppo
di italiane facendo una riunione di sole donne, è stato difficile
convincere tante di noi a partecipare, a dire le proprie idee, forse
perché non credevamo di poter combinare qualcosa di buono fra
sole donne.
Uscire dal campo, entrare in un locale pubblico per sedere insieme alle altre, fare festa, parlare e non per chiedere l’elemosina, è un’esperienza sconcertante.
Tutte noi ci guardiamo intorno, cogliamo sguardi benevoli, ma
anche titubanti e perplessi.
Avevamo rotto il ghiaccio.
Finalmente prendevano la parola, affermavano la propria dignità.
Da quella volta ci sono state molte altre occasioni di incontro:
con realtà del Quartiere 4, studenti delle scuole, gruppi di persone anche di altre città; da quel giorno è trascorso molto tempo ormai, certamente il cammino fatto insieme è stato fecondo
per tutte noi.
Tuttora però per le donne rom il campo, il gruppo, l’etnia con la
propria cultura e le proprie tradizioni sono un richiamo ed una
sicurezza: l’affermazione della propria identità è giustamente
irrinunciabile e l’interrogativo è: fin dove è possibile camminare insieme? E come?
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Prendiamo la parola
parlare
per raccontarsi e raccontare
per esprimere pensieri
per conoscersi
parliamo
per scambiarci tradizioni , esperienze, sogni
per socializzare percorsi
per favorire l’assunzione di responsabilità
per accrescere le consapevolezze
parlare
per superare incomprensioni e conflitti
per smorzare le tensioni e contenere le aggressività
parlare
per superare paure e pregiudizi
per vincere la tentazione dell’insincerità
per favorire un rapporto di fiducia
per elaborare un progetto in comune
parliamo… parliamo… parliamo…..
per costruire insieme un futuro come piace a noi.
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Te la ho lafi
te vakerà
te vakerà hem te vakerape
te motovavke me misle
te pengiarape vakerà
te prominà mohabetia sar nakagium ho givoto, hem ho suné
te rasuminape
te vakerà
te nakavà, te rasuminape ano sorì
te nakavà i dar, hem mislingié loscno
te kerà, te baiarà disò saedno
vakerà, vakerà, vakerà…
Il laboratorio
cucire e stirare
LA LIBERTÀ È UN NEGOZIO
DI SARTORIA, l’Unità
KIMETA CONTRO OGNI
PREGIUDIZIO, Il Corriere di Firenze
ALL’ISOLOTTO UNA SCOMMESSA
VINTA: UN INCONTRO FRA
DIVERSITÀ FEMMINILI, La Città
QUANDO L’INTEGRAZIONE È
DAVVERO FUNZIONALE, La Nazione
QUEL LABORATORIO
ESPERIMENTO RIUSCITO, Metropoli
Così titolano alcuni giornali e telegiornali fiorentini il 17 aprile
2003.
È la cronaca di un avvenimento
per noi straordinario: l’inaugurazione del nostro laboratorio di
stireria e piccola sartoria in via
Modigliani 125, tre grandi sporti
a vetri sulla via danno accesso a
due belle stanze attrezzate aperte
al pubblico, dotate di servizi.
Ci siamo preparate a questo avvenimento con cura e partecipazione: chi ha fatto dolci, chi ha pensato alle bevande, chi ad apparecchiare e servire il rinfresco.
Le donne del Poderaccio che hanno
partecipato al corso di formazione
sono tutte presenti con loro i piccoli, ci sono le giovani figlie delle
donne lavoratrici, le loro amiche
e parenti, tutte le volontarie che
hanno sostenuto l’esperienza; c’è
Marzia Monciatti assessora alle
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politiche sociali del Comune e Mara Baronti presidente della
Commissione pari opportunità del Consiglio regionale: tante
donne insieme per condividere emozioni, timori e speranze di
un avvenimento che è punto di arrivo di un percorso di formazione e punto di partenza verso l’autodeterminazione e la piena
autosufficienza economica.
Eros Cruccolini presidente del Q4, Daniele Borghi presidente
della Cooperativa sociale Samarcanda, Enzo Mazzi della comunità dell’Isolotto, Angelo Passaleva assessore alle politiche
sociali della Regione Toscana: presenze maschili che hanno sostenuto con grande determinazione il progetto, che hanno “la
parola” per dire ed “il potere” di fare. Un intreccio creativo e
fecondo fra maschile e femminile che vorremmo in futuro si
arricchisse di uno scambio paritario anche nei ruoli.
- Sono così felice - esclama Sabilja mentre mostra orgogliosa la
propria carta d’identità - adesso quando passeggio saluto un
sacco di gente e tutti mi chiedono come sto.
Una frase semplice, un segnale forte che ci gratifica tutte e ci
rende partecipi della gioia e dell’entusiasmo che esprime. Siamo tutte determinate a non mollare.
Caffè italiano e caffè rom
Ogni giorno alle dieci e mezza si fa una breve pausa dal lavoro.
Occhi ansiosi sbirciano l’orologio, poche sanno leggerlo.
- Che ore sono? Si va al bar?
Per le donne del Poderaccio questo è un quarto d’ora di riscatto
e di autodeterminazione: si va al bar vicino, ci si siede al tavolo,
si consuma, si fuma una sigaretta, si fa conoscenze, si parla, poi
si fa segnare la consumazione e si torna al lavoro.
- Paghiamo a fine mese quando riscuotiamo.
Il barista si mostra comprensivo ed accogliente. Una volta che
entrarono nel bar due poliziotti e chiesero che le donne rom
mostrassero i documenti, fu lui a prendere le loro difese:
- Sono brave donne che lavorano e non fanno niente di male!
Per nulla al mondo rinuncerebbero a questa magica conquista:
donne rom da sole, in un luogo pubblico, al bar, a fumare, parlare con persone sconosciute, lontane dal controllo del campo e
dagli occhi autoritari dei mariti.
Le donne italiane solo alcune volte si uniscono a loro. Più spesso non interrompono il lavoro che stanno facendo, non sentono
il bisogno di recarsi al bar, qualche volta brontolano:
- Certo si lamentano continuamente che non hanno soldi e poi
vanno tutti i giorni al bar, noi abbiamo fatto tanti sacrifici
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quando ci mancavano i soldi per mangiare e al bar si andava
raramente, solo qualche volta nei giorni di festa!
Si intrecciano fra donne più giovani e meno giovani pensieri,
riflessioni, pareri differenti ma sempre in atteggiamento di ricerca di mediazioni e dialogo costruttivo.
Un giorno il bar chiude definitivamente i battenti, vicino al laboratorio non ce ne sono altri, bisognerebbe recarsi più lontano
e il tempo a disposizione è poco.
Ci organizziamo in uno stanzino spogliatoio dei locali dove lavoriamo: chi porta il fornellino a gas, chi quello elettrico, chi il
bricco, la moka, i bicchieri e le tazzine, chi il tè, il caffè e lo zucchero. Ma il caffè rom non è come quello italiano. Allora si fanno due tipi di caffè, secondo le abitudini e le preferenze. Certo
non è più come andare al bar ma facciamo ugualmente il nostro
break socializzando fra noi e i clienti che entrano apprezzano il
buon aroma che si diffonde nelle stanze.
La pausa non è sempre momento di condivisione: a volte diventa lo spazio della discussione polemica, anche del conflitto e dell’aggressività verbale, il momento in cui si scaricano le
tensioni e le incomprensioni spesso maturate altrove. In questi
momenti siamo tutte coinvolte: c’è chi reagisce appartandosi in
silenzio, chi si fa le sue ragioni, chi interviene per mediare, chi
esprime opinioni, chi svolge un ruolo più severo ed autoritario;
ma è mescolando tutto ciò che siamo riuscite ad integrarci ed a
crescere insieme per otto anni.
Un pomeriggio particolare
racconta Lucia
Passeggiare per le strade della città può sembrare la cosa più
naturale del mondo, ma quel pomeriggio d’estate che noi donne
del volontariato insieme alle donne rom del laboratorio “Kimeta” abbiamo preso l’autobus per raggiungere il centro ha
rappresentato un avvenimento particolare.
Camminare in fila indiana per le vie affollate, chiacchierando
allegramente, è un’immagine festosa che ricordo con piacere e
che non so perché mi fa venire in mente un film di Fellini. Ogni
angolo mi è sembrato diverso, quasi che per la prima volta scoprissi la mia città. Ho guardato con gli stessi occhi meravigliati
delle donne rom il Ponte Vecchio e le sue le botteghe luccicanti
di oro e di pietre. Oltre alla meraviglia per le botteghe del Ponte
Vecchio loro erano affascinate dai negozi etnici che espongono vestiti, borse, abbigliamento vario, molto colorato, ricamato
con perline, brillantini, tutti oggetti che sono vicini alla loro
cultura e che anche loro indossano.
La passeggiata continua, prossima fermata il gelato!
Questo è stato uno dei momenti più divertenti. Avevamo già il
gelato in mano ed eravamo pronti per mangiarlo quando qualcuna delle donne rom si mette a sedere ai tavolini riservati alle
ordinazioni. A quel punto mentre la proprietaria della gelateria ci guardava tra l’imbarazzato e il seccato, facendoci capire
che non si poteva, le donne rom si sono messe a ridere quasi in
tono di sfida anche perché non riuscivano a capire la ragione
del divieto. Poi, le donne che si erano sedute si sono alzate e
tutte insieme abbiamo continuato a ridere. Forse dal troppo
ridere a me è caduto addosso il gelato sporcandomi il vestito.
Chiedendo alla signora della gelateria, sempre più perplessa,
di usare l’acqua del lavandino, ognuna ha cercato di pulirmi. Il
risultato è stato pessimo, ma non ha assolutamente impedito
di proseguire il nostro giro e di raggiungere Palazzo Pitti, come
avevamo previsto. Anche questa è stata un’impressione positiva: la grande piazza ci ha accolto offrendoci lo spazio ideale per
riposarci e continuare a chiacchierare.
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Questo giorno ho provato la sensazione di un modo strano e diverso di vivere Firenze e di respirarla liberamente. È stata l’occasione di condividere una città piena di storia, che appartiene
a tutti, con persone che in genere ne rimangono ai margini,
anche fisicamente, vivendo nel campo situato alla periferia più
lontana. È stata l’occasione per condividerla insieme ad altre
donne che non possono usufruire di ricchezze universali perché
ne sono state da sempre escluse per le condizioni di precarietà,
per la povertà, per cultura (in genere i mariti non permettono
loro di andare in città da sole, se le trovi sui gradini delle chiese
ci stanno per stendere la mano).
Raccontare questo pomeriggio trascorso insieme può anche
sembrare poco significativo: in realtà io penso che proprio le
piccole cose, il nostro intreccio quotidiano di esperienze, siano
un passo per accorciare le distanze e un tentativo di superare
differenze e ingiustizie.
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Settembre
Dopo un mese di ferie, il primo settembre riapre il laboratorio.
L’incertezza del lavoro ci preoccupa, dobbiamo riorganizzarci
per rendere un buon servizio ai clienti, si ricomincia ogni volta
nell’incertezza del futuro, ma ritrovarci è per tutte noi una piacevole occasione di sostegno reciproco.
Zenepa non c’è, è andata al suo paese, a Pristina, è caduta e
dovrà portare il gesso per un mese.
Come faremo senza la sua presenza? Ce la faremo?
- Sì - dice Sabilja - io lavorerò anche il pomeriggio se necessario.
- Ma lo sapete perché Zenepa è a Pristina? È andata a scegliere
la moglie per il figlio di sedici anni.
La notizia trapela da frasi prudenti pronunciate durante la
conversazione.
- Come è possibile far sposare un figlio o una figlia di sedici
anni con qualcuno che non conosce - chiedono le donne italiane
e commentano:
- Noi vogliamo scegliere la persona con cui sposarci, dobbiamo
essere sicure di provare amore per lei, come si può senza conoscersi?
Scegersada precisa:
- Non tutti noi rom siamo uguali. Nella mia famiglia scelgono i
genitori ma poi, quando i ragazzi si conoscono, si sposano solo
se si piacciono.
Sabilja aggiunge:
- Io non ho scelto per i miei figli: maschi e femmine hanno scelto
da soli.
Luciana riflette:
- In verità anche quando eravamo giovani noi, spesso la famiglia si intrometteva nelle nostre scelte e si opponeva al matrimonio se considerava che la scelta dei figli non era opportuna e
secondo i loro desideri.
Quando Zenepa torna al lavoro ci racconta:
- Sono andata al mio paese e in una famiglia ho visto una bella
ragazza giovane che faceva le faccende in casa, era precisa e
svelta, aveva l’aria intelligente e buona, aveva tredici anni. Mi
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è piaciuta subito e ho deciso che era la moglie adatta per mio figlio. Ho parlato con i suoi genitori, ci siamo accordati sui soldi
perché da noi è la famiglia del marito che paga a quella della
ragazza che viene scelta.
- Ma così voi comprate una moglie!
Osservano le volontarie.
- Ma io dovevo provvedere al mio figlio più piccolo, se poi io
muoio chi pensa a lui? ho fatto un prestito in banca e lo pagherò con il mio lavoro.
Motiva Zenepa.
- Certo, a noi la cosa sembra molto grave ma anche da noi di
frequente si fanno accordi fra famiglie per stabilire la dote, chi
paga il pranzo di nozze, a chi spetta la spesa dei mobili o altro.
Osserva qualcuna delle donne gagé.
- Ma non è la stessa cosa, mi sembra molto diverso.
Ribatte qualcun’altra.
Quando a settembre 2005 siamo andate al campo a visitare le
loro nuove casette di legno tutte linde ed arredate con cura,
in casa di Zenepa la camera più bella, con un bel copriletto di
raso sul letto matrimoniale, era quella dei due giovani sposi,
mentre lei e suo marito dormivano in cucina; abbiamo anche
conosciuto la graziosa nuora che si dava da fare con quell’aria
da bambina!
Sabilja
ribellarsi per non subire
- Mi sono sposata a dodici anni racconta Sabilja - ho avuto i primi
figli che ero bambina e non sapevo
come dovevo accudirli, avevo ancora voglia di giocare. Dei primi
due nati uno è morto, l’altro me lo
ha cresciuto la mia suocera. Poi
sono diventata grande, ho avuto
altri figli, cinque in tutto, ho lavorato per mantenerli come era possibile. Poi mio marito è venuto in
Italia, a Firenze, dove già c’era un
suo cugino ed ha portato con sé il
figlio maggiore. Anni duri, in Jugoslavia non c’erano prospettive,
meglio le lamiere del Poderaccio
e la speranza che prima o poi si
potesse vivere in condizioni dignitose.
Solo dopo anni che mio marito era
qui io sono venuta con i miei figli
più piccoli, ma ho scoperto che mio
marito viveva già da tempo insieme ad un’altra donna. Lui era disposto ad accogliere anche noi, a
vivere tutti insieme, ma io non ho
voluto. Mi sono data da fare, ho
costruito con i miei figli una baracca di lamiere di fronte alla sua
e sono andata a vivere per conto
mio, senza marito, come vedova.
Al campo una donna senza marito
è vista male, derisa, considerata
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poco di buono, ma io non potevo accettare di vivere con l’altra
moglie, la vera moglie ero io, ero sposata legalmente in Macedonia e al tempo di Tito io potevo anche mandare in prigione mio
marito se viveva con altre mogli.
Sabilja ha lottato con tutte le sue forze per sopravvivere ed affermare la sua personalità. È la donna rom “diversa”, “ribelle”.
Non accetta di sottostare alle leggi del campo e della tribù, non
tace, non è sottomessa, sbraita, si fa le sue ragioni, non condivide certe regole di omertà. A volte si intromette in difesa di
altre donne vittime delle prevaricazioni dei maschi che quando
si ubriacano picchiano. Ma questo suo comportamento non piace né agli uomini né alle donne. Dice sempre quello che pensa,
non si arrende mai. Per tutti questi motivi viene tuttora isolata,
criticata, emarginata. È vero che tante vicissitudini hanno reso
il suo carattere un po’ complicato e difficile ed è anche vero che
ciò le procura incomprensioni anche da parte delle donne gagé,
ma il laboratorio “Kimeta” è divenuto il luogo del suo riscatto
economico, sociale e morale e ne va fiera.
Tutte le mattina è la prima ad arrivare, apre, prepara, mette
ordine e poiché conosce l’arte di arrangiarsi, anche senza saper
scrivere in lingua italiana riesce a gestire i rapporti con i clienti
quando noi non ci siamo:
- Va bene, lascia il lavoro, tu scrivi il tuo nome e io lo prendo.
Il cliente collabora e lei si sente protagonista ed orgogliosa.
Gita a Chianciano
racconta Antonietta
La preparazione delle gite è sempre problematica, difficile è
“accordare i suoni”.
I mariti daranno il permesso? A che ora si torna? Di notte? I
figli si possono portare? E i nipoti? Si deve spendere? Si guadagna?
Fino all’ultimo momento non si sa mai chi parteciperà.
Ma quella volta era anche eccitante perché avrebbero ballato!
C’erano Zenepa, Sabilja, Hafise, Elfise e Serbesa, senza figli
o nipoti. Avevano portato dei bei foulard “da ballo” ed altre
acconciature oltre alle cassette della loro musica che ascoltammo in macchina durante il tragitto per arrivare a Chianciano.
Erano tutte belle canzoni, ma dovevamo scegliere quella che
avrebbero ballato.
A Chianciano dal 28 al 30 aprile 2001 si teneva il Convegno
nazionale delle Comunità di Base sul tema “La diversità ci fa
liberi”. L’incontro si teneva in una bella palazzina circondata
da un grande parco.
La mattina passò un po’ sonnolenta, aspettando il nostro turno
d’intervento e le amiche rom erano un po’ svagate ed annoiate anche perché non comprendono bene l’italiano. Arrivato il
nostro turno, dopo un breve excursus sulla nostra esperienza,
hanno preso la parola molto volentieri ed ognuna di loro si è
espressa bene pur nel loro linguaggio stentato e anche le più
timide hanno raccontato l’esperienza della scuola di alfabetizzazione e del laboratorio di cucito e stireria dal loro punto di
vista, il disagio della vita al campo nomadi, le loro difficoltà non
indifferenti, le loro diversità e la nostra calda amicizia.
- Quando si balla?
Finalmente venne il momento e la trasformazione fu evidente.
Non più le timide donne dimesse, ma le regine della sala con i
loro fazzoletti variopinti, le loro grandi gonne, i loro passi eleganti e ritmati.
È stato un bel momento!
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Il convegno ha ripreso il suo iter, ma noi abbiamo pensato di
fare un “dirottamento” e siamo uscite per le strade di Chianciano a vedere il “mondo”.
Camminare per le strade da sole senza mariti, “senza confini”,
è stato per le rom un’esperienza nuova e piacevole. Poi ci siamo
sdraiate su un bel prato verde a prendere un po’ di sole pomeridiano, a sonnecchiare, a chiacchierare e ridere e scherzare, a
godersi il dolce far niente!
La nostra escursione è proseguita con l’acquisto di un bel cono
gelato e poi lo shopping nei vari negozietti da turisti, pieni di
souvenir. C’è stato solo un acquisto: naturalmente un paio di
piccolissimi orecchini d’oro. Ah l’oro è così attraente! Che piacere girare per negozi, domandare i prezzi, ammirare le vetrine!
Verso sera abbiamo raggiunto le nostre compagne e compagni
“conferenzieri” ma il tempo era passato così velocemente che ci
spiaceva tornare subito a casa, quindi ci siamo fermate a cena
in un autogrill: non il solito panino ma al ristorante!
Che meraviglia, che gioia: la tavola ben apparecchiata, servite
e riverite; si potevano prendere anche due portate, più il contorno e il dolce, e rilassarsi con una sigaretta dopo un fumante
caffè!
I ‘mangiari’
racconta Paola
Il cibo è una parte importante nella giornata di noi donne, un
argomento di cui si parla volentieri e con gusto, un piacere sostitutivo che ci attutisce spesso un pensiero molesto e ci crea un
gradevole senso di attesa. Con le nostre rom abbiamo mangiato
insieme molte volte portando ognuna le proprie cose oppure al
ristorante.
Loro prediligono la pasta al forno e comunque la pasta al sugo, meglio se corta. Mi ricordo di quando mangiammo insieme alla casa
del popolo “XXV Aprile”, era uno dei primi ‘mangiari’ da quando
eravamo diventate cooperativa. Avevo davanti Scegersada e Rabije e vedevo che spelluzzicavano senza convinzione il loro piatto
di spaghetti. Più tardi, durante il ritorno a casa, ci scambiammo
qualche impressione e chiesi perché non era loro piaciuta la pasta,
forse il sugo non era buono? Era cotta troppo poco?
- No, no - rispose Scegersada col tono discreto e ben educato che
la distingue.
- È che non si sapeva come mangiare, avevo paura che sugo va
tutto qua e là.
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Così altre volte abbiamo preferito la pasta corta o il riso che loro
cucinano magnificamente nei dolma, gustosi involtini di foglie
di cavolo o di bietola, ripiene di riso e carne, o pasticci di pasta
sfoglia con ricotta e spinaci, una specie di pizza bianca, come
dice Scegersada, a cui da parte mia ho insegnato le polpette di
carne e il patataccio che è uno sformato di patate e formaggio
molto appetitoso. Ci vorrebbe anche la mortadella ma loro non
mangiano maiale.
Il pane è a volte oggetto di scambio: un pane comprato, sciocco
com’è il nostro toscano, magari insaporito con olive o ramerino,
in cambio di un pane fatto in casa, nel forno della cucina nuova
acquistata un anno fa, verdolina e lucida come la voleva Leila,
la figlia di Scegersada, un pane bianco e soffice, quasi briosciato, che mi viene offerto involto nella carta perché lo porti a
casa. È ancora tiepido e offre così poca resistenza al morso che
me lo mangio subito per la strada, mentre torno a casa.
Per Sabilia, che predilige le cose morbide, una volta ho preparato gli gnocchi di patate, un’altra volta il risotto.
- Buono - dice lei - lo mangio spesso la sera, con latte. Faceva
mia mamma.
Ride, come fa lei, un po’ giocherellona, un po’ accattivante.
Qualche volta Sabilia è venuta a casa mia con certi würstel saporiti! Una montagna di salsicciotti scuri e ben affumicati.
- Mi ci vorrà un anno per mangiarli tutti! - le dico.
- Ma no, tu mangia uno al giorno, buono per la salute - ride,
battendomi la mano sulla schiena e attirandomi a sé.
Zenepa invece è golosa di verdure crude.
- Io no mangia verdura cotta, solo cruda.
E io: Insalata?
- No, no - risponde lei con quella voce che non ammette replica
e fa un gesto con la mano, - mangio carote, cetrioli tutti interi
così, come conigli. Ti ricordi?
Certo, mi ricordo di quando portai dall’orto due cetrioli piccoli
e teneri e lei se li mangiò di gusto, a morsi, senza neanche lavarli.
Siamo sedute al laboratorio intorno a quattro tazze di caffè e
due di tè, nel momento della pausa.
Sul vassoio c’è anche qualche pastina proveniente dalla spesa,
che con una certa regolarità Leila e Angela fanno al supermercato, contente e orgogliose di provvedere ai bisogni della nostra
piccola comunità.
In alcune occasioni abbiamo fatto dolci per i nostri “mangiari”. I loro rappresentano al meglio la cucina rom. Secondo noi
sono troppo unti e troppo dolci, con la pasta sfoglia che rimane decisamente sullo stomaco. Ma ho l’impressione, o forse la
segreta speranza, che ce ne siano di più misteriosi e allettanti,
che ancora non conosciamo e che loro tirano fuori soltanto in
occasioni specialissime di feste particolari. Dei nostri amano le
crostate ricche di marmellata casalinga e i tiramisù con quel
saporino nascosto di caffè che il cucchiaino lascia in bocca. Col
caffè sono maestre e lo fanno tutti i giorni alla turca, bello corposo e fragrante. Allora l’odore inconfondibile si diffonde per il
negozio e sappiamo che è gradito a tutte nello stesso modo.
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Il matrimonio: un sogno
racconta Luciana
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Nella varietà delle relazioni che si intrecciano fra donne, l’età,
i ruoli, i feeling spontanei, le consonanze di carattere segnano la diversità di comunicazione interpersonale. Angela è una
giovane donna lavoratrice che si è inserita nel laboratorio solo
da pochi mesi, la sua giovane età, la vivacità del carattere, una
notevole sensibilità hanno favorito la nascita di un rapporto
positivo fra tutte noi e soprattutto l’approfondimento di relazioni confidenziali con Scegersada e le altre del campo.
- Sai, sabato mattina verrà a casa di Scegersada una famiglia
a chiedere in sposa sua figlia Leila- mi dice Angela sentendo il
bisogno di comunicarmi una confidenza che Scegersada le ha
fatto il giorno prima.
Leila ha compiuto diciotto anni a marzo ed è la più giovane fra
tutte le donne del laboratorio. È una ragazza brava ed intelligente, possiede molte doti ed è al centro delle attenzioni affettive di tutte noi.
- Come? Si sposa? Allora va via, ci lascia! - osservo io meravigliata.
- Anche io sono rimasta costernata- dice Angela e continua - ho
detto a Scegersada: come, dai tua figlia a degli estranei che non
conosci e permetti che te la portino via, lontana, sola?
- Sono preoccupata anche io - mi ha risposto Scegersada - lei
però è contenta!
- Ma Leila è diversa dalle altre, lei è andata a scuola, lavora,
ha una professione, guadagna, perché deve accettare una sorte
sconosciuta e al buio?
- Lo so, senza conoscersi bene non si sa cosa ci aspetta. Ci sono
uomini che picchiano, che si ubriacano, che non hanno voglia
di lavorare!
- E poi come si troverà in una nuova famiglia che non conosce?
Andrà a servire una suocera che nella vostra cultura comanda e
decide per tutti, dei fratelli e delle sorelle che si comporteranno
da padroni di casa. Quante cose dovrà subire?
- Ma da noi si usa così. Io cerco di spiegarlo a Leila ma è lei
che deve decidere, lui è un giovane di ventitré anni che lavora e
vivono a Bergamo in una casa.
- Pensateci. Leila ha un futuro che può gestirsi autonomamente,
la vita insieme è difficile anche per chi si sposa per amore figurarsi se neppure ci si conosce!
Il colloquio confidenziale riferitomi da Angela mi trova impreparata, insieme commentiamo con preoccupazione e smarrimento questa eventualità, ci sentiamo coinvolte affettivamente e vorremmo che le cose andassero diversamente, come “secondo noi” dovrebbero essere, ma abbiamo davanti agli occhi
una ragazza che in questi ultimi tempi si è mostrata gioiosa,
sorridente, vivace, che parla del matrimonio come una grande
aspirazione ed una cosa di sogno e forse nessuno ha il diritto di
uccidere i sogni!
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Te ovoltut iek ker / Avere una casa
racconta Paola
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Stasera siamo in visita. Le donne ci vengono incontro lungo il
breve sentiero che scende dal villaggio nuovo di piccole case di
legno. È la prima volta che andiamo a vederle.
“Seustilan”, buon giorno, ciao. Si stringono addosso i golf perché
è una giornata ventosa e fredda. La prima è la casa di Sabilja
che è in angolo, in prima fila. È piccola, due stanze, ma è una
casa. Dentro c’è tepore e lei socchiude la porta del bagno per far
vedere che c’è tutto, la doccia, il mobiletto bianco con lo specchio
e sopra una graziosa bottiglia di schiuma da bagno colorata. La
camera è per il figlio, lei la notte si sistema in cucina.
- Perché non il contrario, Sabilja?
Mai! Queste persone che quasi sempre gestiscono paternalisticamente la vita dei figli quando sono molto giovani, riservano a
loro la camera e dormono in cucina sul divano letto.
La “pitta” che ha sapore di ricotta e di pasta sfoglia si abbina
bene col succo di frutta, ma Sabilja offre anche il caffè turco
leggero e profumato. Si dà da fare, come sempre, perché prendiamo, assaggiamo, spartiamo con lei. Scappo nella camera per
vedere le cose del figlio. Sì, somigliano a quelle di tutti i figli.
Piccole collezioni di orologi, di bandierine, di accendini, grandi
scarpe in un angolo. Penso a Ermes, che fra poco tornerà dal
lavoro, un lavoro continuativo, per ora. Questa è la prima volta
che ha una camera tutta per sé. Ma eccolo, entra, sorride un
po’ imbarazzato davanti a tante donne che lo guardano com-
piaciute, ma sempre estranee. Sorride con gli occhi neri e belli
nel piccolo viso bruno. E a noi viene voglia di sperare che il suo
sia un buon futuro.
La casa di Scegersada è piena di tendine fresche, ricamate da lei e
dalla figlia, mentre beviamo con gusto il tè caldo, sentiamo il piacere di stare in una casa ben tenuta, dove gli spazi, forse troppo piccoli
per questa famiglia di persone dalla corporatura alta e robusta, sono
curati nei particolari. Alla parete di sinistra sono appesi tre piccoli
ritratti. Mi accorgo che sono oggetti del tutto estranei alla cultura
rom e due di essi sono perfettamente uguali: il ritratto di Cecilia
Gallerani, la donna con l’ermellino di Leonardo. Sarà la grazia del
viso e della pettinatura giovanile e modernissima che è piaciuta così
tanto alla ragazza di casa? Non si può proprio non essere d’accordo.
È inevitabile una riflessione sulla rapidità con cui le giovani generazioni si aprono alla cultura del paese in cui vivono.
Ci accoglie, alla fine della visita, la casa di Zenepa. Una tenda
ben drappeggiata separa la cucina vera e propria da una specie
di piccolo salotto. Siamo un po’ allo stretto, ma anche qui la
camera è per i giovani, anzi giovanissimi, sposi. Guardo la culla
nell’angolo col bimbetto nato da poco e la faccia di bambina
della mamma. Sembra quasi annoiata, un po’ fuori luogo. Forse
il suo posto sarebbe a chiacchierare con le amiche o a divertirsi,
libera e spensierata nel suo lontano paese dove probabilmente
non ha mai neppure visto il mare.
Mentre ci salutiamo partendo, poiché si è fatto tardi, il vento
sibila penetrando dentro i fragili ripari di legno che gli uomini
hanno eretto intorno alle casette. Diciamo grazie, “ansasti”, e
gettiamo solo uno sguardo veloce alla piccola “moschea” perché
ci fa fatica toglierci le scarpe per poter entrare.
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Sulla via del ritorno penso al senso di estraneità che ci coglieva
le prime volte quando venivamo al campo, al rigagnolo d’acqua
che scorreva tra i piedi nella stradina che saliva al luogo dov’erano aggrappate le roulottes e le baracche, ai residui di oggetti rotti sparsi qua e là, alla musica a tutto volume che usciva
da dietro qualche porta sconnessa, un pezzo di legno di fortuna
messo lì a proteggere persone e cose, mentre voci sconosciute
si scambiavano parole sconosciute. Un mondo a parte, a cui si
sottraeva un po’ il recinto di legno pieno di bambini dagli occhi
neri e vivaci che correvano qua e là sotto lo sguardo compiaciuto di qualche donna anziana dal capo coperto. In fondo, dove
una tenda segnava l’ingresso al bar, troneggiava un contenitore
rosso di metallo che esibiva bottiglie di Coca-Cola. La CocaCola, l’elemento che a suo modo ricuciva l’estraneità riportandoci all’immagine del nostro mondo di consumi e di benessere.
Un insieme che, pur addolcito dalla cura degli interni di certe
baracche, con le tende in bella vista e i numerosi tappeti, nel
complesso riconfermava l’immagine tradizionale dei campi rom
nei nostri paesi, cioè di luoghi dove nessuno vorrebbe mai non
dico abitare ma nemmeno essere ospite per un giorno.
Del resto questa realtà difficile e dolorosa traspariva dalle parole delle donne. La casa era uno dei punti dolenti.
- Laggiù (nel Kossovo) era la mia casa, piccola. L’aveva costruita la mia famiglia. Ora non c’è casa. Io avevo grande casa con
mia suocera; intorno c’era orto. Io sempre mangiavo i cetrioli
piccoli crudi e lei brontolava.
Sempre, ogni volta che cadeva il discorso, si affacciavano alla
memoria queste immagini di un passato certo non del tutto sereno, sicuramente non florido, ma dove non era stato ancora distrutto dalla guerra e dalla povertà estrema questo fondamento
del vivere che è la casa, il perimetro degli affetti più intimi, il
luogo dove nasce la vita e prende nutrimento la relazione, pur
con tutti i suoi problemi. Quando è stato costruito il villaggio
di casette di legno, le donne non hanno preso quasi niente delle
vecchie cose, perché erano segnate da una degradazione che
non si volevano portare dietro.
- Basta con la pioggia che mi veniva dentro casa, con gli scarafaggi che scappavano dappertutto e anche col serpente che c’era
dietro la baracca quando stendevo i panni, dice Scegersada ridendo, ma ancora con un’ombra di disgusto negli occhi.
Certo nemmeno questa è la casa vera.
- La casa vera, ker ciacie, è quella dove non devi tenere i vestiti
vicino al letto la notte perché siano pronti se scoppia l’incendio,
dice Zenepa.
Penso a come mi dispiace non averle conosciute nel loro ambiente queste donne. Sabilja che correva a gara coi maschi nella
neve e non voleva che il fratello sparasse agli animali nel bosco,
Zenepa che si aggirava nell’orto a scovare i piccoli cetrioli teneri di nascosto alla suocera, Scegersada che saliva a piedi i molti
piani della casa del babbo quando l’ascensore era rotto. Proprio
come da noi. Magari si potrebbe anche aggiungere che l’uguaglianza preesiste, è il dato biologico, la diversità viene dopo, è
accidentale e spesso porta con sé povertà e svantaggi notevoli.
Per questo possiamo stare insieme e parlarci perché sotto la
diversità affiora quello che abbiamo in comune. Le immagino
queste donne, ora madri di quattro, cinque figli, quando erano
ragazze timide e inconsapevoli del loro futuro. Come eravamo
noi, nel nostro mondo allora più represso e repressivo e molto meno ricco di ora. I loro sogni non erano tanto diversi dai
nostri: l’amore, la famiglia, l’amore soprattutto, perché come
famiglia a vent’anni ti basta quella che hai già e a volte sembra
che ti leghi anche troppo. Oggi a tutte ci dolgono braccia, gambe e schiena per l’artrosi, a tutte ci piace sederci insieme nella
pausa del lavoro, mangiando i biscotti o la schiacciata con l’olio,
a chiacchierare di cose che alleggeriscono il peso della giornata
e allontanano per un po’ i pensieri molesti.
Ora mi pare che il vento si sia un po’ calmato, mentre lasciamo
il piazzale sterrato e ci avviamo verso il nostro mondo di consumi con la mente e il cuore pieni di sensazioni piuttosto forti,
anche se un po’ confuse.
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Il permesso di soggiorno
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Febbraio, giornate fredde e ventose, il vento tramontano investe
in pieno le persone e le case, ci si
ripara con difficoltà, cappotti lunghi e cappucci in capo.
Ieri Scegersada non è venuta al
lavoro, ha chiesto un giorno libero
perchè doveva andare a rinnovare
il permesso di soggiorno. Questa
mattina arriva ancora assonnata
ed infreddolita.
- Ieri mattina ci siamo alzati alle
tre - racconta con la voce rauca alle quattro eravamo in macchina
nei pressi della Questura, c’era
già una lunga coda di persone ad
attendere l’orario di apertura. Mio
marito chiede il permesso di soggiorno per famiglia, perciò dobbiamo recarci tutti all’appuntamento; i tre ragazzi accucciati nel
sedile dietro dell’auto si stringono
gli uni agli altri per riscaldarsi
un po’ e continuano a dormire; io,
mio marito e Leila, la figlia maggiore, andiamo a turno a tenere il
posto della coda.
Intirizziti dal gran freddo, i piedi
gelati, le mani che non le senti più,
lì appoggiati al muro a guardarci
gli uni gli altri, smarriti, arrabbiati, stanchi: commenti indignati in tutte le lingue possibili, frasi
dalla facile comprensione pur se
dette in lingue intraducibili!
Ci sentiamo vittime di ingiustizia, trattati come bestie! E questo
ogni anno e qualche volta anche dopo solo sei mesi! Sono dodici
anni che facciamo questa vita!
Quando dopo sette-otto ore di attesa arriviamo finalmente allo
sportello e presentiamo tutta la documentazione richiesta, l’ansia ci attanaglia: avremo portato i documenti giusti?
L’impiegato incomincia a sfogliare, controlla, fa domande,
riempie moduli, incolla foto e, quando va bene, ti dice: torna fra
40 giorni a ritirare il soggiorno. In questi casi si è fortunati perché più spesso accade che ti rimandino a casa in quanto manca
qualcosa e allora si deve tornare più volte!
Tutte le donne rom vivono il dramma del rinnovo del permesso
di soggiorno con grande disagio ed angoscia:
- Ce lo daranno? Potremo restare in Italia o ci manderanno via?
Senza soggiorno non si potrà lavorare - sono gli interrogativi
che si ripropongono ogni volta e l’ansia da insicurezza aumenta. Noi italiane che condividiamo con loro l’esperienza di “Kimeta” partecipiamo a questi loro problemi con sentimenti di
indignazione e senso di impotenza, ma anche con la consapevolezza che la nostra tenacia nel portare avanti questa esperienza
di lavoro è per loro la migliore garanzia per acquisire diritti e
regolarizzazioni.
Ancora oggi, dopo anni, il loro problema non è superato, ma
Leila, Zenepa, Scegersada con il loro regolare lavoro garantiscono il soggiorno per sé e per i loro familiari.
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Religioni, feste, riti
matrimonio, circoncisione, ramadan, funerale
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Scireta, che ha frequentato il nostro progetto di formazione per
alcuni anni, è la moglie del capo spirituale del campo. Tutti i
rom del campo sono di religione islamica e la figura del capo
spirituale ha il ruolo del saggio designato a dirigere la preghiera, leggere il Corano, favorire le relazioni, dirimere controversie fra famiglie o fra individui, avere autorevolezza durante le
discussioni e le decisioni che gli uomini si trovano a prendere.
Quando noi italiane ci rechiamo per la prima volta a visitare il
nuovo insediamento di casette di legno prefabbricate che ha sostituito il vecchio campo del Poderaccio, tutte le nostre amiche
ci vengono incontro e ci invitano ad entrare nelle loro case. Scireta ci accompagna a visitare la moschea, una casetta concepita
per il culto. Una stanza grande, arricchita di tappeti, cuscini e
tende di trina, è la moschea vera e propria dove possono entrare a pregare solo gli uomini, a piedi scalzi; noi ci limitiamo a
guardare dalle finestre, anche se in quel momento non ci sono
riti. Accanto, una stanza più piccola e ben arredata serve per
l’incontro e la preghiera delle donne e qui la moglie del capo
spirituale ha il ruolo di animatrice.
Non tutte le famiglie del campo frequentano la preghiera, ma
per tutti il riferimento ai riti ed alle tradizioni religiose mussulmane è irrinunciabile perché segno di identità culturale di
gruppo; è qui infatti che ogni famiglia, anche se è andata ad
abitare altrove, magari in una casa assegnata dal Comune, ritorna per affrontare i momenti significativi: il matrimonio, il
funerale, la festa del ramadan, la circoncisione.
Hafise con la sua famiglia è andata ad abitare in un appartamento alle Piagge; ma, quando morì suo marito i riti del lutto
li svolse nel campo e lì anche noi andammo a trovarla: tante
donne della comunità, sedute in terra sui talloni, a piedi scalzi, al modo dei mussulmani quando pregano, in cerchio lungo
le pareti di una stanza, accompagnavano il dolore della vedova con lamenti e grida a voce alta per un’intera giornata. Scireta guidava il rito. Salutammo Hafise e sua nuora Evciara.
Entrambe lavoranti del nostro laboratorio, si assentarono dal
lavoro per molto tempo perché il rito funebre prevede la visita
di tutti i parenti della famiglia, anche quelli che risiedono in
paesi lontani, e gli eredi del morto devono occuparsi di dar loro
da mangiare e da dormire: tutto ciò dura oltre un mese.
Quando invece morì la piccola Silvana nel rogo della sua baracca, partecipammo ad un rito di preghiera che si svolse alle
cappelle funebri dell’ospedale di Careggi: c’era la mamma so-
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stenuta da altre donne che piangeva e gridava, ma al momento
della preghiera diretta da un imam esterno al campo, tutte le
donne furono mandate via, non potevano né assistere alla preghiera né accompagnare il corpo al cimitero, questo spettava
solo agli uomini.
Anche i matrimoni si fanno rigorosamente al campo, sono matrimoni rituali che non hanno alcuna efficacia giuridica; molti
non fanno mai matrimonio civile e dunque non esiste alcuna
garanzia giuridica per il coniuge debole, sempre la donna, che
resta in balia del marito e della famiglia di lui. Il vero matrimonio per i rom è quel rito a cui partecipano parenti, conoscenti,
amici, in pratica quasi tutti gli abitanti del campo. Vestita in
abito tradizionale rom la sposa, camicia bianca e pantaloni neri
con gilè lo sposo, in costume rom quasi tutti gli invitati; musica
a tutto volume, danze che durano un giorno intero; ingresso
simbolico della sposa, accudita dalle donne della famiglia, nella
baracca dello sposo e, il giorno dopo, pranzo ed un giorno di festa. Tutti, mentre cantano e danzano, regalano soldi agli sposi.
Il rito si conclude, dopo la prima notte di nozze, con la verifica
della verginità della sposa: donne della comunità sono tutt’oggi
preposte a verificare il lenzuolo macchiato di sangue.
Quando al laboratorio, conversando, le donne rom si raccontano, lo fanno con l’orgoglio convinto di chi rivendica una identità
diversa e condivisa da quasi tutte, e noi donne gagé ascoltiamo
ora curiose, ora sconcertate, ora affermando la nostra diversità
con supponenza, ora introducendo nella conversazione qualche
timido interrogativo critico, preoccupate di rispettare la loro
particolarità e di non mettere troppo in crisi le loro sicurezze.
Il digiuno per il ramadan e la festa finale, la circoncisione dei
figli maschi, che ora, meno male, viene fatta all’ospedale, e la
festa che l’accompagna, sono avvenimenti del loro vissuto ed
occasioni per parlare insieme, ma anche per andare a ricercare
le origini storiche di tali tradizioni, origini di cui nessuna di
loro ha consapevolezza. Possiamo così introdurre elementi di
approfondimento ed anche di destrutturazione della fissità della cultura: il laboratorio dunque come luogo di crescita sociale
ma anche umana e culturale.
Creatività
e professionalità
Sono le otto e mezza, Sabilja che ha le chiavi del laboratorio è
arrivata mezz’ora prima dell’orario ed apre il bandone, va nella
stireria e per prima cosa accende le caldaie e i ferri da stiro, poi
comincia a fare un po’ di pulizie per rimettere in ordine quello
che il giorno prima era stato lasciato in mezzo. Luciana arriva
poco dopo, entra ed incomincia ad organizzare il lavoro, poi,
una alla volta, vengono tutte le altre.
- Buon giorno, come stai?
- Tutto bene.
- Ti sei svegliata bene?
- Questa notte ho dormito poco, avevo mal di denti.
- Maestra abbiamo aspettato l’autobus che non arrivava mai.
- Questa mattina mio figlio Marco non aveva voglia di andare a scuola.
- Oggi devo andare dal dottore per un controllo.
Il saluto della mattina è un momento di affettuosa socializzazione ma anche il polso dello stato d’animo con cui ciascuna
affronta la giornata.
Alle nove siamo già tutte ai nostri posti e ciascuna svolge i suoi
compiti: Angela va in stireria a controllare l’andamento e i
tempi e assegna ad Zenepa e Sabilja le ceste di roba da stirare;
Scegersada accende il tavolo da stiro della sartoria e poi riprende in mano il lavoro lasciato a mezzo il giorno avanti; Leila
controlla le scadenze dei lavori di cucito in sospeso e li prepara
in ordine di priorità; Paola verifica se ci sono camicie da piegare
o cose da scucire; Luciana coordina tutte queste operazioni perché si realizzi una collaborazione organizzata ed efficiente.
Poi tutte ci diamo da fare: chi prepara gli orli dei pantaloni, chi
cuce le tende, chi misura e taglia, chi cuce a macchina, chi stira,
scuce, piega. Come ogni giorno ci lasciamo prendere dal lavoro
in un clima di concentrazione e serena operosità.
Sono da poco passate le nove, orario di apertura del laboratorio,
ed il primo cliente cerca il nostro aiuto:
- Buon giorno, potreste accorciarmi questi pantaloni?
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- Certo, venga pure, se li deve provare?
Leila interrompe il lavoro per ascoltarlo, prendergli le misure,
annotare le richieste e fissare la data di riconsegna.
Come ogni giorno inizia il viavai di clienti, ciascuno con la propria particolare urgenza e ad ognuno ci dedichiamo, ora l’una
ora l’altra, con attenzione e cura perché spesso richiedono il
nostro parere personale per risolvere i vari problemi:
- Buon giorno, ho delle tende da accorciare, potete farmele?
- Potreste stringermi i pantaloni, li ho comprati troppo larghi.
- Vorrei cambiare la cerniera a questa gonna.
- Sono venuto a ritirare le mie camicie stirate.
- Avrei da scorciare le maniche di una giacca.
- Voglio fare gli angoli con elastico a queste lenzuola.
- Ho un lavoro un po’ difficile e delicato, sarà possibile per voi
farlo?
- Posso portare dei panni a stirare, quanto mi prendete?
Non sempre riusciamo ad accontentare tutti, qualcuno se ne va
scontento o ci contesta, ma succede raramente.
- Zenepa, mi raccomando, i pantaloni li voglio stirati con la
piega.
- Meno male che ci siete voi. Io non so fare niente di cucito.
- Mi ha mandato qui una vostra cliente e mi ha detto che siete
molto brave.
- Sono tornata a portarvi anche questo lavoro perché l’altro che
mi avete fatto è riuscito benissimo, siete molto precise.
- Sabilja, per favore puoi stirarmi queste camicie per domani?
Ne avrei bisogno.
- State realizzando una cosa bellissima!
- Meno male che ci siete voi! Con la stireria mi avete sollevato da
un bel peso, io devo lavorare e pensare alla casa.
- Mi raccomando non mollate perché per noi siete preziose!
- Che bel clima sereno si respira quando si entra qui dentro!
Questi sono i clienti fedeli, quelli della prima ora, quelli che
hanno avuto fiducia e ci hanno consapevolmente sostenuto anche quando “le zingare” erano da rifiutare ed emarginare. Ne
abbiamo fatto di cammino da allora! Grazie anche a loro, che ci
hanno incoraggiate e gratificate, oggi siamo conosciute, ricercate ed apprezzate nel nostro quartiere e non solo.
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Un’esperienza aperta
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Questa mattina abbiamo appuntamento con una giornalista dell’Unità, ci ha chiesto di conoscerci e di
fare alcune interviste alle donne
lavoratrici.
Tutte siamo d’accordo che questi
rapporti con la stampa sono per noi
importanti ed utili, sia per farci conoscere ed accrescere la clientela,
sia per comunicare il significato ed
il percorso di questa esperienza.
Le donne rom sono sempre molto
contente quando si sentono protagoniste e vengono coinvolte in prima
persona, hanno completamente vinto
il timore delle prime volte, adesso parlano, spiegano, raccontano, si fanno
fotografare, orgogliose di appartenere a questo gruppo. Ora poi che hanno una loro abitazione decente sono
disponibili anche ad accompagnare la
giornalista al Poderaccio perché possa documentare la loro vita.
- Questa è un’esperienza vera, è una
realtà che funziona, un progetto realizzato che veramente affronta il problema integrazione in modo alternativo ed efficace, sono molto colpita da
quello che siete riuscite a fare e dallo
stile con cui lo avete portato avanti.
Così commenta la giornalista al termine dell’incontro. Ci chiede documentazioni, informazioni dettagliate e poi se ne va esprimendo tutta la
sua partecipazione.
L’occasione ci richiama altri impegni analoghi:
- Ricordiamoci che alla fine del mese abbiamo fissato con la giornalista di Repubblica - fa memoria Lucia.
- A maggio abbiamo l’impegno di partecipare, a Prato, al seminario sull’empowerment delle donne, organizzato dall’università di
Firenze - ricorda Paola.
- Io, Antonietta e Lucia ci saremo, chi viene delle donne rom?
- Io sarò a Palazzo Vecchio per una relazione al convegno su “Poveri illegali ed illegalità della povertà” – dice Luciana.
- Ieri sono venuti alcuni studenti che stanno preparando una ricerca e chiedono di poter fare delle interviste, cosa rispondiamo?
- chiede Angela.
Leila informa che Giusi vorrebbe che partecipassimo ad una iniziativa del Quartiere 4 con cartelloni ed un banchino in cui esporre le nostre cose.
- Va bene - risponde Angela - io ci sarò, vieni anche tu con me?
Tante sono state le occasioni che abbiamo colto in questi anni per
incontrarci ed arricchirci di relazioni con altri: persone, stampa, istituzioni, associazioni; è stata una scelta consapevole di noi volontarie
quella di mantenerci aperte a contatti con altre realtà e l’abbiamo
coltivata con tenacia. Oggi possiamo affermare che è stata una scelta utile e positiva: ogni giorno infatti constatiamo quanto una tale
gamma di relazioni ha arricchito il nostro vissuto di questi anni e
potenziato la capacità di riscatto, acquisizione di dignità, crescita di
autonomia ed autostima di tutte le donne rom e non solo, perché
anche noi volontarie ci siamo lasciate coinvolgere ed arricchire senza
riserve. Ciò ha permesso al progetto laboratorio di avere un respiro
ed un significato che va oltre la realizzazione in sé, di mantenersi
come esperienza aperta, trasparente, disponibile al confronto, capace
di coniugare il lavoro manuale e l’impegno sociale e culturale, capace di testimoniare che una società basata sui diritti, sulle relazioni,
sulla giustizia sociale, sulla disponibilità reciproca, sul rispetto delle
diversità, può essere un obiettivo perseguibile, a partire dalle piccole
esperienze fino alle grandi scelte politiche. Volevamo comunicare i
significati profondi di una scelta volontaria nata dalla condivisione di
ideali e progetti esistenziali, guardando alle giovani generazioni con
il desiderio di offrire loro la possibilità di cogliere valori e con l’ottimismo di chi crede nel loro impegno creativo e progettuale.
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Conflitti e identità
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- Oggi ho stirato 18 camicie e lei è ancora a finire la prima cesta
- brontola Zenepa con atteggiamento di superiorità, alludendo
a Sabilja, l’altra lavorante della stireria.
- Cosa vuole, perché ce l’ha con me, cosa le interessa quello che
faccio io, perché Zenepa vuole comandare? È Luciana che deve
dire cosa fare! - controbatte Sabilja e subito si alza la voce e
siamo di fronte all’ennesimo conflitto.
La stanza della stireria è sempre quella più controversa: mutismi assoluti si alternano ad incomprensibili battibecchi in rigorosa lingua rom ed a grida ad alta voce che chiamano in causa
le gagé reclamando ciascuna le proprie ragioni.
Due personalità in perenne competizione, con elementi di gelosia reciproca e soprattutto con il fardello di conflitti decennali
che regolano la loro vita quotidiana al campo e che hanno origine dalle differenti etnie ed anche dai particolari caratteri e
comportamenti di ciascuna.
L’identità individuale e l’identità del campo sono per tutte le
rom una cosa sola; lì è la loro vita e quando si raccontano l’unico argomento è costituito dalle avventure del Poderaccio. Non
hanno altri interessi, non coltivano altre curiosità, andare a
comprare, girare per il mercato è l’unica esperienza al di fuori
del campo; ciò ha comportato, fin dall’inizio del progetto di formazione-lavoro, che si riproducessero nella loro convivenza in
mezzo a noi le situazioni di conflittualità, di omertà o di emarginazione reciproca che vivono al campo.
Tutto questo non ci scandalizza. Anche noi italiane, nella convivenza quotidiana al laboratorio, ci portiamo dietro i caratteri
e le relazioni del nostro vissuto; anche fra di noi si riproducono
battibecchi, simpatie o conflitti; siamo consapevoli che l’intreccio dei vissuti ha i suoi lati positivi e negativi. La particolarità
delle rom è la carica di aggressività che si portano dentro a
causa di una convivenza forzata, di una promiscuità che è al
limite della sopravvivenza. Per difendere quel minimo di sopravvivenza bisogna avere capacità di reagire, di aggredire con
le unghie e con i denti.
Durante questi anni abbiamo dedicato molto tempo a discutere
in cerchio, a cercare insieme la strada per superare conflitti e
relazioni difficili, a concordare regole comportamentali condivise. L’obiettivo è sempre stato vivere questa esperienza come
qualcosa di diverso, fuori dal campo e dai problemi familiari,
creare un’atmosfera che non riproducesse i vissuti quotidiani.
Di cammino in questa direzione ne abbiamo fatto, ma tuttora permangono momenti di tensione che richiedono interventi
autoritari da parte di chi è ritenuto dalle rom un riferimento
autorevole. Governare il conflitto non è sempre facile, ma anche questi sono momenti significativi perché ciascuna mette a
nudo la propria vera identità, con le sue generosità e prevaricazioni, le disponibilità e i sotterfugi, le rivendicazioni e lo spirito di collaborazione, le docilità e le ribellioni. A mezzogiorno,
quando lasciano il laboratorio per andare a casa, arriva uno dei
mariti con la macchina, preleva la moglie e se ne va, le altre
rimangono alla fermata dell’autobus ad aspettare e magari sta
piovendo a dirotto.
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Il laboratorio auto-organizzato
uno spazio a misura di donne e di mamme
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Mettere insieme efficienza e produttività con gli impegni familiari ed i bisogni dei figli piccoli, cercare una organizzazione
del lavoro che coniughi tante esigenze diverse, è la specificità
dell’autorganizzazione di un gruppo di donne lavoratrici che
non vogliono soccombere sotto un efficientismo esasperato od
un senso di ansia e di colpa perenni.
La dimensione della famiglia, del lavoro, della maternità, del
senso di responsabilità ed anche della realizzazione personale,
costituiscono il vissuto irrinunciabile di noi donne e da lì scegliamo di partire per creare condizioni di vivibilità il più possibile serene e rispettose dei bisogni di ciascuna.
- Domani mattina devo andare a fare un controllo medico, mi
trattengo nel pomeriggio e fra oggi e domani recupero il tempo
perso.
- In settimana dovrò assentarmi per fare il permesso di soggiorno.
- Non ti preoccupare, ti sostituisco io - dice Leila - verrò anche
di pomeriggio.
- Non ho nessuno che mi vada a prendere il bambino a scuola
alle sedici, quando esce.
- La tua presenza al laboratorio oggi pomeriggio è indispensa-
bile, perciò ti assenti venti minuti, lo prendi e lo tieni con te qui
al laboratorio fino alla chiusura - propone Luciana.
- C’è una volontaria che possa sostituirmi martedì mattina?
- Certo - risponde Paola - io posso venire.
- Allora io verrò mercoledì al posto tuo.
- La prossima settimana dovrò assentarmi due giorni, potrei
coprire quelle ore in questa settimana?
- In questo periodo il lavoro alla stireria è pressante - riflette
Angela - ma se ci avvantaggeremo con il lavoro, in modo da
affrontare la tua assenza, penso sia possibile.
- Se necessario la prossima settima io posso venire anche di pomeriggio - aggiunge Sabilja.
Così ogni giorno risolviamo le situazioni problematiche che ci si
presentano senza sottrarre al lavoro tempo ed efficienza, senza
la necessità di assenze che renderebbero problematica la fattibilità e la puntualità delle consegne, in un atteggiamento di
reciproca disponibilità.
- Siamo come una famiglia - ripete spesso Scegersada - io qui
faccio come a casa mia, ci si aiuta e si fa tutto insieme.
Scegersada ha ragione, l’esperienza della organizzazione familiare delle donne, elastica e duttile, non solo non diminuisce
la produttività, ma anzi favorisce l’impegno e l’assunzione di
responsabilità, accresce la partecipazione, ottiene migliori risultati e noi ne siamo una testimonianza.
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Kimeta in TV
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Otto marzo 2006, al centro della stanza adibita a sartoria un
bel mazzo di mimose illumina l’ambiente con il suo colore giallo vivo, Enzo chiede collaborazione per sistemare un piccolo
televisore portato da casa, tutte cerchiamo una collocazione
adatta perché si riceva al meglio il segnale: nella stanza non c’è
antenna e bisogna trovare la posizione più idonea.
- Sbrighiamoci altrimenti non facciamo in tempo a vedere il
programma - sollecita qualcuna.
- Questo è il posto giusto - dice Enzo.
Tutte ci avviciniamo e scegliamo la posizione migliore per poter
vedere.
- Ci saremo tutte nel filmato?
- Me mi avranno messa?
- Io ero emozionatissima alle riprese, chissà quante bischerate
ho detto!
- Saranno riusciti a mettere a fuoco le cose importanti?
Domande, curiosità, riflessioni si intrecciano in un chiacchierio
confuso che occupa il tempo dell’attesa.
Ore nove e venti, passano i titoli della trasmissione su Rai 2
“Un mondo a colori”: bel titolo per una trasmissione sull’integrazione! Poi, quindici minuti tutti per noi, per raccontarci e
raccontare la nostra esperienza. Si fa silenzio, ciascuna scruta con occhi curiosi la propria immagine e quella delle altre,
ascolta attenta le parole, segue il filo del commento ed il succedersi delle immagini; il documentario scorre bene, rispetta
pienamente lo spirito del nostro progetto, è ricco di stimoli e
di contenuti, alla fine un applauso al regista per la sensibilità
dimostrata, siamo proprio contente, ci è piaciuto molto.
Il regista che ci ha cercate lavora per Rai Educational ed in questo momento si occupa di servizi sul tema dell’integrazione.
Quando ci contattò e ci propose il servizio, la cosa ci interessò subito perché l’intreccio fra diversità è l’elemento fondante dell’ esperienza “Kimeta” e, poiché riteniamo la nostra una
esperienza positivamente riuscita, abbiamo desiderio di comunicarla e farla conoscere, sia come indicazione di strade percorribili verso una positiva convivenza fra diversi, sia per dare
sostegno alle tante formiche di buona volontà che ogni giorno
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compiono i loro piccoli passi di coerenza in questa direzione. Il
grande dubbio era: il regista avrà interesse a documentare la
realtà come la viviamo noi oppure ne capovolgerà il significato
facendoci dire ciò che lui ha in mente? Saremo capaci di affrontare le telecamere? Sapremo trovare le parole giuste? Sapremo
comunicare i contenuti più significativi?
Siamo state fortunate: abbiamo trovato una persona disponibile
che ha avuto con noi un atteggiamento di autentico servizio, ci
ha dedicato tutto il tempo e la pazienza necessari per realizzare
una documentazione efficace ed interessante, ha pienamente
compreso e rispettato lo spirito di condivisione comunitaria del
cammino da noi compiuto accettando di farci parlare tutte, di
documentare una coralità di contributi, di pensieri e di sentimenti, non è andato a cercare solo la figura leader da intervistare. È emerso fra noi e il regista un bel feeling, un’ottima
consonanza sia di ideali che di sentimenti. Scoprire che ci sono
nei vari ambiti dei vissuti esistenziali persone che percorrono
cammini all’unisono con noi ci fa molto piacere, anche se non
riusciamo ad incontrarci che raramente: vorremmo condividere pezzi di strada più spesso.
Il volontariato cede il passo
- Sai Luciana, la mattina mi alzo e sono felice di venire al lavoro,
non mi era mai capitato prima; venerdì scorso sono andata al mare
per il fine settimana e conversavo con una mia amica, lei pensava
al lunedì con senso di frustrazione e io invece ero tutta contenta di
tornare alla sartoria.
Così Angela comunica la propria soddisfazione di far parte di questa esperienza.
La Cooperativa sociale Samarcanda ha inserito Angela, sua socia
lavoratrice, nel laboratorio “Kimeta” circa due anni fa con l’obiettivo di farla crescere sia professionalmente che managerialmente,
in modo che ella riuscisse gradualmente a prendere in mano l’attività per portarla avanti insieme alle altre donne lavoratrici. Questo
obiettivo è stato con forza perseguito fin dall’inizio da noi del volontariato che abbiamo tenacemente operato per dare al laboratorio
condizioni di autonomia.
L’inserimento funziona, Angela è piena di entusiasmo e di iniziativa, osserva, domanda, apprende, ha buona predisposizione al cucito; in verità ella porta con sé un bagaglio di professionalità appresa
in una sua precedente esperienza, perciò è facile per noi introdurla
nel lavoro. Prende pian piano contatto con le altre donne lavoranti e
volontarie e si trova a scoprire un mondo di cui non aveva esperienza. Lei abita nel quartiere, è qui che ha fatto la scuola elementare,
conosce bene l’ambiente e si sente partecipe anche se ci frequenta
solo da poco tempo. Si lascia spontaneamente coinvolgere dallo stile
delle relazioni che abbiamo impostato e con il suo carattere sensibile e generoso entra subito in sintonia con tutte noi.
Angela viene concessa al laboratorio part- time, solo 4 ore al giorno.
Facciamo progetti:
- Dobbiamo aumentare il lavoro, produrre di più, altrimenti Samarcanda non ci sostiene.
- Potremmo organizzare un servizio a domicilio.
- La stireria fa un po’ fatica, bisognerebbe cercare nuovi clienti.
- Ho deciso che manderò una lettera a tutte le lavanderie della zona
per offrire una nostra collaborazione.
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- Bisognerebbe avere dei clienti più costanti come alberghi, ecc….
- Contattiamo qualche giornale che parli di noi e ci faccia conoscere.
Fin dall’inizio impegnamo tutte le nostre energie per dimostrare di
saper crescere e che possiamo farcela a raggiungere un’autonomia
economica.
Intanto il gruppo delle donne del volontariato che collabora si assottiglia, il succedersi dei giorni, dei mesi, degli anni scivola via talmente veloce che quasi non ce ne accorgiamo: sembra ieri che noi
volontarie ci davamo da fare per far sbocciare questo incontro fra
diversità femminili e invece sono passati quasi dieci anni, una vita
per chi all’inizio aveva già un’età non più giovane! I capelli bianchi
sono diventati ancora più bianchi, salvo tintura. Gli occhi fanno fatica ad infilare l’ago, gli appuntamenti con malattie e dottori sempre più frequenti, affrontare i vissuti familiari sempre più faticoso;
diverse di noi hanno dovuto mollare l’impegno anche se a malincuore, altre reggono ancora perché è per ciascuna uno spazio vitale
e gratificante, ma si incomincia a sentire il bisogno di rallentare
i ritmi. Nel frattempo, però, l’autonomia e la professionalità delle
lavoranti crescono, la clientela è ogni giorno più numerosa e la pro-
duzione aumenta. Cerchiamo in tutti i modi di farcela, ma ormai
è necessario che Angela copra per intero tutto l’orario di apertura
del laboratorio perché solo così potrà veramente prendere in mano
l’attività ed ha le capacità per farlo.
- Luciana, guarda, ti ho fatto una fotocopia, questo è il mio nuovo
contratto di lavoro, ora sono fissa qui, per tutte le ore necessarie.
Daniele mi ha spiegato i miei impegni e le mie responsabilità! Quasi
quasi mi sento importante! – ci comunica Angela alla fine di aprile
duemilasei.
- Non immagini la felicità e la gratificazione che provo oggi - osserva Luciana - ho lavorato e resistito cocciutamente per quasi dieci
anni per raggiungere un tale obbiettivo e questo contratto è la prova
tangibile che ci siamo riuscite tutte insieme, premiate per la tenacia
e la generosità con cui ci siamo spese. Si riparte di nuovo, ma io mi
sento sollevata dall’assiduità di un impegno che stava diventando
troppo gravoso, ora mi sento libera di esserci ma anche di dedicarmi
ad altro.
Finalmente possiamo guardare al futuro con qualche sicurezza in
più..
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Piccole storie che fanno storia
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I racconti terminano a questo punto della storia del laboratorio
“Kimeta”, ma l’esperienza continua; ogni giorno vissuto insieme arricchisce il libro delle nostre vite, avremo ancora mille
cose interessanti da narrare.
Abbiamo scelto di dare testimonianza del cammino di questo
progetto di integrazione attraverso la vivacità di racconti di
vita perché siamo convinte che l’assunzione di responsabilità,
il coinvolgimento personale e la condivisione di parole e prassi
lasciano orme profonde nella trasformazione sociale e contribuiscono a “costruire la storia”.
In atteggiamento critico nei confronti di una cultura che ci educa ad una visione della storia come protagonismo di personaggi, padri e maestri, in controtendenza rispetto a chi sceglie di
affidarsi a leaders e guru per risolvere i problemi esistenziali
dell’oggi, abbiamo voluto regalare piccole storie che lasciano
spazio ad interrogativi, riflessioni, dubbi, approfondimenti,
progetti altri, ma che, secondo noi, hanno la forza dirompente
del protagonismo delle donne e degli uomini di buona volontà
che si uniscono per “fare, esistere e resistere insieme”.
E’ un protagonismo che si ripete nella storia. Ci sembrano significative per esempio le storie vissute e documentate degli
emigranti italiani in Italia e nel Mondo, storie ed esperienze
delle quali, in tempi di integrazione difficile come sono quelli
attuali, è importantissimo fare memoria perché possono aiutarci veramente a riflettere sul presente.
Ci piace credere che un giorno, le future generazioni di ogni
varia umanità, intrecceranno le loro vite felicemente e non
avranno più il ricordo di razzismi, esclusioni, conflitti, emarginazioni. Si potrà arrivare a raggiungere tali obbiettivi solo maturando la consapevolezza che le orme di tante donne e uomini,
comprese le nostre, hanno lasciato tracce ed hanno contribuito
a trasformare positivamente le relazioni e a costruire una migliore civiltà.
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Donne
per le
donne
le nostre mani per uscire
dall’emarginazione
e progettare un futuro
di dignità
Percorso di una esperienza raccontata a due voci:
donne rom e donne dell’Isolotto
Settembre 1995.
Una ventina di donne provenienti dalle diverse realtà dell’associazionismo di base del quartiere danno vita a un gruppo di
confronto su “donne e volontariato” promosso dalla commissione Sicurezza sociale del Quartiere 4, Isolotto-Legnaia (le
Circoscrizioni a Firenze si chiamano Quartieri). Dopo una serie
di dibattiti e riflessioni ci si pone il problema “rom” in quanto è
una realtà del nostro territorio molto scottante e controversa.
Il nostro pensiero, in quanto donne, va alle donne del campo
rom del Poderaccio, chiamate “le zingare”. Perché - ci chiediamo - non intrecciare un rapporto fra donne e donne?
Gennaio 1996
Quando ci siamo recate al campo rom l’impatto è stato per
molte di noi sconcertante. Avevamo chiaro l’obiettivo primario
che ci eravamo proposte: conoscersi, parlare insieme, stabilire relazioni, comunicare bisogni; ma non conoscevamo le reali condizioni di vita delle donne in quel campo. Era gennaio,
un freddo terribile, bambini scalzi abbarbicati alle gonne delle
mamme, neonati attaccati al seno, donne adulte e adolescenti
con le mani immerse nell’acqua fredda del lavatoio all’aperto
a rigovernare e lavare, bambini che scorrazzavano nel fango e
nell’immondizia .
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Il freddo, la fame, le malattie hanno fatto prendere coscienza a
molte di noi rom, dopo anni di permanenza a Firenze, che bisognava uscire dall’isolamento. Le istituzioni ed il volontariato
del quartiere si sono impegnati molto per affrontare e risolvere i
tanti nostri problemi: la scuola per i nostri bambini, l’assistenza sanitaria, l’integrazione culturale, corsi di qualificazione per
gli uomini perché potessero trovare lavoro; ma purtroppo le condizioni in cui viviamo sono tuttora inumane.
La casa ed il lavoro sono in questo momento i nostri problemi
fondamentali.
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Abbiamo capito che ogni tipo di relazione con le donne rom
poteva crescere ed approfondirsi se si innestava su queste loro
richieste fondamentali.
Il tema lavoro ha costituito l’argomento di molti altri incontri e
insieme abbiamo cercato di crescere nella consapevolezza delle
difficoltà che ci si presentavano .
L’atteggiamento tenuto da noi donne del volontariato è stato
di non elargire promesse e progetti, anche perché non ne avevamo la possibilità, ma di costruire insieme ipotesi a partire
da un impegno comune per cercare soluzioni, basandoci sulla
collaborazione fra donne e sulla assunzione di responsabilità
individuali e di gruppo.
Nella nostra cultura rom le donne non lavorano, non vanno
a scuola: sono gli uomini che hanno questo diritto. Le donne
devono fare figli, badarli, crescerli, lavare, stirare, cucinare, rimanere chiuse nel campo senza entrare in relazione con il mondo esterno. Anche quando, per necessità, andiamo a chiedere
l’elemosina, non usciamo da questo nostro mondo chiuso, non
entriamo in rapporto con gli altri.
Abbiamo coinvolto il Consiglio di Quartiere sull’ipotesi di un
laboratorio di cucito, ricamo, maglia, uncinetto e attività affini
per orientarci verso un lavoro che permettesse anche di valorizzare le loro specifiche caratteristiche culturali.
Dopo una serie di riunioni fra donne rom, donne del volontariato e rappresentanti del Quartiere, siamo riuscite a formulare
un progetto di formazione-lavoro, finanziato da Regione, Comune e Quartiere 4.
“Donne per le donne” è la parola d’ordine dell’iniziativa su cui
abbiamo scommesso.
Agosto 1997
Il progetto viene finanziato. Esso prevede l’inserimento di 10
donne rom con un gettone di presenza mensile di 400mila lire
ciascuna.
Vengono concordate modalità e regole organizzative del corso,
a partire dalla volontà di realizzare una esperienza seria e positiva, ma anche tenendo conto dei bisogni delle persone che
partecipano all’iniziativa.
Pertanto viene così programmato.
- Avrà sede fuori dal campo perché ciò favorisce l’inserimento
nel territorio.
- Si procede ad elaborare insieme le regole in modo che poi vengano rigorosamente rispettate.
- Si aderisce attraverso una iscrizione che impegna le partecipanti ad una presenza costante.
- Le partecipanti saranno scelte in ordine di iscrizione.
- Si compila un orario che si concili con i bisogni e i ritmi di vita
delle donne rom interessate, affinché poi esso venga rispettato:
la presenza si articolerà su tre giorni alla settimana per 4 ore
al giorno.
- Ci sarà un controllo per le presenze.
- Le assenze prolungate ed ingiustificate faranno decadere il
diritto alla partecipazione.
Caratteristica fondante dell’iniziativa è stata la piena partecipazione di tutte le persone alla elaborazione e realizzazione del
progetto, pertanto ogni decisione, difficoltà, problema vengono
discussi e risolti insieme attraverso frequenti riunioni di confronto.
Al Poderaccio si sono fatte tante riunioni, ma quasi sempre sono
solo gli uomini che parlano e discutono mentre le donne ascoltano e stanno zitte.
Fra noi donne adulte del campo, anche se siamo in Italia da
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otto - dieci anni, pochissime riescono a capire la lingua italiana
e ancora meno a parlarla, la maggior parte di noi è analfabeta
e non sa fare la propria firma. E stato dunque difficile all’inizio
parlare con le donne dell’Isolotto e capirci. Ci sono voluti molti
incontri. Era la prima volta che si facevano riunioni solo fra
donne ed è stato difficile convincere tante di noi a partecipare,
a parlare, a dire le proprie idee; forse perché non credevamo di
poter combinare qualcosa di buono fra donne, ma questo ci ha
permesso di conoscerci meglio e di fare amicizia.
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Gennaio 1998
Inizia il corso di formazione.
Come ogni esperienza nuova, anche questa comincia fra insicurezze, timori, perplessità ed anche disagi e pregiudizi, ma ci
accorgiamo presto che il coinvolgimento e l’impegno di tutte è
molto forte.
Lo sforzo per conoscersi ed accettarsi reciprocamente, la fatica
di intendersi fra culture e linguaggi differenti, la constatazione
che le abilità possedute dalle donne rom in materia sono molto limitate e l’apprendimento è lungo e difficile, mettono alla
prova energie ed ottimismi iniziali, ci costringono a ridimensionare gli entusiasmi ma ci permettono anche di scoprirci e
valorizzarci reciprocamente.
Viene inserito nel progetto un corso di alfabetizzazione primaria che nasce dalla presa di coscienza che anche questo è un
bisogno fondamentale per le donne rom. Su dieci partecipanti
solo due sanno leggere e scrivere. La maggior parte non riconosce il proprio nome, non sa fare la propria firma, non sa usare
un quaderno o prendere in mano una matita, non conosce il
metro, l’orologio, il calendario.
Anche qui il cammino si fa lungo, date le difficoltà e il tempo
limitatissimo che a questo viene dedicato, ma si ottengono comunque risultati importanti.
Lentamente le difficoltà e i disagi cedono il passo alle confidenze, alla collaborazione, ad un clima di reciproca accoglienza e
solidarietà.
Cresce la fiducia reciproca, perché tutte esprimiamo impegno
costante e buona volontà.
Ci accorgiamo che l’esperienza è arricchente e gratificante, vogliamo che continui non solo per il lavoro futuro ma anche per
noi stesse oggi.
Partecipiamo a varie iniziative di quartiere e quasi sempre sono
proprio le donne rom ad illustrare e raccontare l’esperienza che
stiamo facendo: finalmente hanno la parola.
Ora, tre giorni alla settimana, mentre i nostri figli vanno a
scuola, dieci di noi veniamo al laboratorio che ha come sede
provvisoria i locali della Comunità dell’Isolotto.
Qui noi impariamo a fare qualcosa di utile e di bello, qualcosa
che può diventare un lavoro, e con il contributo di quattrocentomila lire al mese, previsto dal progetto, possiamo fare la spesa
invece di chiedere l’elemosina.
Settembre 1999
Un anno di corso e l’impegno di tutte noi hanno messo in atto
strumenti e strategie per favorire la formazione e l’alfabetizzazione, ma i progressi e i risultati ottenuti sono totalmente
insufficienti. Nessuna delle donne aveva esperienza del funzionamento e dell’uso della macchina da cucire, alcune sapevano
ricamare e fare la maglia ma nessuna sapeva tagliare o cucire.
La scarsa attitudine all’organizzazione del lavoro ed alla precisione delle esecuzioni, la difficoltà della lingua, il disagio di
dover affrontare un impegno per loro totalmente nuovo sono
alcune delle cause che rallentano la formazione. Ci accorgiamo
che i tempi si allungano, ma non siamo disposte a mollare. Presentiamo un nuovo progetto e continuiamo a lavorare.
Intanto l’esperienza si arricchisce di presenze significative:
un’insegnante di cucito e taglio affianca le volontarie per affinare la professionalità e una insegnante di scuola elementare
in regolare servizio presso un circolo didattico dell’Isolotto, con
il consenso della direzione didattica, affianca il gruppo che fa
alfabetizzazione. A giugno alcune donne rom del gruppo danno
l’esame e conseguono la licenza elementare.
Ogni giorno, insieme al lavoro anche un’ora di alfabetizzazione, perché imparare a leggere e scrivere è il primo passo verso
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l’integrazione e noi donne rom lo abbiamo ben capito. Saper
leggere e scrivere ci fa sentire più sicure. Quando andiamo a
scuola a parlare con le maestre dei nostri figli, ora sappiamo
cosa dire e poi possiamo fare la nostra firma, mentre prima
non sapevamo farlo e sentivamo vergogna. È un passo avanti
per noi e anche per i nostri uomini che, visto che guadagniamo,
ci lasciano andare. Alcune di noi, prima di questa esperienza,
non erano mai salite sull’autobus o entrate in un bar. Ora non
potremmo più tornare indietro!
88
Ottobre 2000
A cosa serve aver speso due anni per la formazione se poi non
esiste uno sbocco lavorativo? Dove potrebbero mettere a frutto
ciò che hanno appreso le donne del Poderaccio? Chi le prenderebbe a lavorare? Quali possibilità hanno di organizzare ed
autogestire un’ipotesi di lavoro? Allora i soldi e le energie spese
non sarebbero servite a sottrarle dall’unico mestiere per loro
possibile: chiedere l’elemosina!
Questi interrogativi riproposti sia all’interno del gruppo sia alle
istituzioni ci hanno spinto a progettare insieme una soluzione
lavorativa.
L’anno duemila è stato il momento della elaborazione di un
progetto di laboratorio e l’inizio dell’ardita esperienza di imprenditoria femminile. Si comincia cautamente a prendere contatto con il territorio per capire se i pregiudizi diffusi verso gli
zingari ci ostacoleranno, si prova ad entrare in relazione con il
pubblico per vedere se ci sarà una disponibilità ad usare i nostri
servizi, si esaminano le strade possibili per creare le condizioni
di legalità che ci permetteranno di svolgere la nostra attività.
Da molte parti ci giungono segnali di incoraggiamento. Si può
tentare.
In via Modigliani 125 si erano liberati dei locali già gestiti dalla
ASL per un servizio sociale ora dismesso. Abbiamo chiesto alle
Istituzioni di metterli a disposizione per realizzare il nostro
progetto. L’ambiente è spazioso, luminoso e aperto al pubblico
con dei grandi sporti: proprio quello che fa per noi. Personale
sensibile e preparato del Quartiere 4, demandato a seguire questa nuova fase del progetto, ci ha aiutato ad ottenere la dispo-
nibilità dei locali e ad arredare a norma di legge una stireria ed
un laboratorio di piccola sartoria. Si parte.
Questa esperienza per noi non è solo un laboratorio, è un luogo
per parlare, discutere, decidere tutte insieme.
Finalmente usciamo dal mondo chiuso del campo per fare esperienze nuove insieme ad altre donne di Firenze e questo ci fa
sentire più uguali e meno emarginate.
Donne rom e donne del volontariato, fianco a fianco, ago e filo
in mano o chine sulle macchine, cuciamo, ricamiamo, facciamo
uncinetto e maglia, stiriamo e intanto parliamo, ci raccontiamo, ci ascoltiamo e insieme prendiamo coscienza.
2001-2002
Ormai il gruppo si è talmente fuso che parla a una voce sola.
Le cose procedono bene, l’ambiente che si è creato è sereno, la
rete di relazioni che si va costruendo con i cittadini del territorio ci fa ben sperare, abbiamo però un problema irrisolto: non
riusciamo a trovare la formula giusta per costituirci legalmente. Dopo varie ipotesi ed approcci con una serie di istituzioni
Onlus, considerato il grave svantaggio sociale delle lavoratrici,
decidiamo di costituirci come “Piccola Cooperativa Sociale” secondo la legge 8 novembre 1991 n. 381. Alla nuova Cooperativa
diamo il nome di una giovane donna rom morta prematuramente: “Kimeta”.
Anche questo cammino verso l’autonomia amministrativa è
lungo e faticoso, niente è semplice e facile per chi, come noi,
non ha strumenti e preparazione per affrontare simili attività.
Eppure ce l’abbiamo fatta. Tutte insieme siamo andate dal notaio e tutte abbiamo firmato, anche le rom, perché con il corso
di alfabetizzazione almeno questo ora potevamo farlo!
Ci è sembrata una conquista impensabile. Chi l’avrebbe detto
che ci saremmo riuscite?
Non tutte le donne rom che avevano frequentato il corso hanno
avuto accesso alla Cooperativa, alcune mancavano ancora di
documenti e di permesso di soggiorno, altre hanno rinunciato
per motivi familiari.
Tutte le energie delle volontarie poi si sono concentrate sul-
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la riuscita del progetto lavoro. Il corso di alfabetizzazione si è
chiuso formalmente ma non sostanzialmente in quanto le relazioni che crescevano durante l’intreccio che si realizzava sul
lavoro erano secondo noi anche approfondimento culturale oltre che umano.
Ora potevamo veramente partire. Ma come fare per dare uno
stipendio alle lavoratrici se l’autonomia economica era assai
lontana?
In un intreccio di sostegno solidale fra associazionismo e istituzioni, la Comunità dell’Isolotto, l’Associazione di volontariato
Centro Educativo Popolare, l’Arci provinciale, l’Associazione
Nuotoclub dell’Isolotto, in collaborazione con il Quartiere 4,
decidono di sostenere l’esperienza del laboratorio “Kimeta”.
Dunque si può procedere.
Fare pubblicità, farci conoscere, inventarci confezioni creative
da vendere sul mercato, andare per mercatini, chiedere sottoscrizioni: abbiamo fatto di tutto per crescere nel lavoro e nell’autonomia economica.
Quando ormai tutto sembrava procedere bene, pur nella precarietà di chi vive l’oggi senza garanzie di sopravvivenza per il domani, nel luglio 2002 ci comunicano che la nostra Piccola Cooperativa Sociale “Kimeta” non ha le caratteristiche previste dalla
legge che regolamenta questa opportunità. Incredibile: le donne
rom analfabete e senza lavoro, che vivono di elemosina con nugoli di figli piccoli in baracche di bandoni nell’inferno del campo
del Poderaccio non sono considerate dalla legge che regola le cooperative sociali “categoria socialmente svantaggiata”!
2003-2004
La Cooperativa Sociale “Kimeta” deve essere chiusa. Il lavoro
viene sospeso, tutta la immane fatica per avviare positivamente l’attività e procurarci la clientela viene annullata. Bisognava
ricominciare tutto da capo. Cosa fare?
Le donne lavoratrici precipitano nell’angoscia. Le volontarie
si sentono scoraggiate. Ancora una volta non ci siamo arrese.
Donne e uomini del territorio e delle istituzioni ci siamo rimboccati le maniche. Si riparte alla ricerca di una soluzione istituzionale.
Dopo mesi di ricerche, troviamo la disponibilità della Cooperativa Sociale Samarcanda ad inserire il laboratorio “Kimeta” fra
le sue attività lavorative; disponibilità con riserva di verifica
delle reali possibilità di sviluppo e di autosufficienza economica.
Con il mese di febbraio 2003 possiamo riprendere il nostro lavoro in piena legalità.
Nel frattempo la stireria si è arricchita di tre nuovi tavoli da
stiro professionali, anche il laboratorio di piccola sartoria si è
attrezzato con nuovi macchinari, la clientela che era rimasta
fedele ha ripreso con soddisfazione ad usare i servizi che noi
offriamo, la nostra scommessa su un possibile futuro dell’iniziativa riprende fiato.
2004-2006
Trovare il lavoro, incrementare la clientela, farci conoscere è
l’impegno primario di questi ultimi due anni. Abbiamo puntato più che sulla pubblicità commerciale su spazi informativi
che facessero conoscere la qualità e le caratteristiche dell’esperienza coinvolgendo gli eventuali clienti verso una scelta di
collaborazione consapevole e responsabile. Ci è sembrato utile
inoltre puntare anche sulla qualità del servizio: recupero dell’usato contro l’ideologia dell’usa e getta; servizio di cura degli
indumenti e stireria a sostegno di donne e uomini che devono
affrontare la fatica del vivere quotidiano.
Tutto ciò ha favorito la crescita di una rete di conoscenze e di
utenti fortemente motivati e che condividono con tutte noi lo
sforzo che stiamo facendo.
L’obiettivo dell’autodeterminazione economica rimane fondamentale come fondamentale è l’autogestione del laboratorio. Il
volontariato che ha accompagnato per tanti anni questa esperienza intende cedere il posto alla competenza ed alla professionalità acquisite dalle donne lavoratrici. Si sono aggiunti alle
donne rom altri soggetti socialmente svantaggiati che contribuiscono efficacemente a sostenere il gruppo.
Sostituire l’accattonaggio con un lavoro che permetta alle donne lavoratrici la conquista della dignità del lavoro e ai clienti
che lo scelgono di usare un servizio e di dare contemporanea-
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mente un sostegno solidale: questa resta la prospettiva.
Siamo sopravvissute: ci siamo ancora!
Abbiamo scommesso fin dall’inizio sulla possibilità di realizzare un incontro positivo fra diversità ed un progetto di riscatto
per donne particolarmente svantaggiate sia sul piano dell’inserimento sociale e lavorativo che sul piano culturale.
Partivamo dalla consapevolezza che doveva trattarsi di un cammino verso il riscatto, lo scambio culturale, la crescita umana,
l’affermazione di diritti e non di assistenzialismo né di dipendenza delle une dalle altre.
Questa realizzazione è una piccola e modesta cosa, ma in questi
anni ha raggiunto obbiettivi molto interessanti:
- ha permesso innanzitutto a noi donne italiane ed alle donne
rom di conoscerci ed arricchirci reciprocamente; “diverse come
noi” è la scoperta che andiamo facendo in questo intreccio fra
donne rom e donne del volontariato;
- ha promosso la riappropriazione della parola e la capacità di
rapportarsi con il mondo esterno di molte donne del campo
senza subire sempre e solo il potere ed il protagonismo degli
uomini;
- ha favorito la presa di coscienza che per le donne rom era
possibile uscire dal campo non solo per chiedere l’elemosina
ma anche per andare a lavorare: ed oggi molte di loro cercano e
trovano una occupazione: dieci anni fa non era così;
- ha dato loro la dignità di avere una professionalità e, con il
lavoro, la possibilità di scoprire il valore di una autonomia economica;
- ha dimostrato che è possibile, con una mediazione di persone
responsabili, inserire ed accogliere positivamente nel territorio
persone diverse senza paure, esclusioni e pregiudizi.
La carica di ideali che è in noi ci invita ad andare oltre le separatezze, per comunicare un messaggio ed uno stile della solidarietà basato sull’ascolto reciproco, sulla capacità di metterci in
discussione, sulla volontà di valorizzarci reciprocamente.
In un momento in cui le contraddizioni dovute alle trasformazioni della nostra società, come il divario fra ricchezza e povertà, l’immigrazione, la convivenza fra diverse culture, vengono
vissute soprattutto come emergenze, paure, fobie che innescano solo tensioni e conflitti, questa nostra esperienza vuole essere un contributo creativo delle donne alla integrazione ed alla
convivenza. E anche un modesto ma pungente contributo perché il movimento cooperativo resista nel difendere e rinnovare
la propria anima solidale.
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Impegno solidale
Testimonianze
delle volontarie
che hanno collaborato
alla realizzazione
del Laboratorio Kimeta.
Antonietta
Da sempre mi sento femminista, anche prima di aver scoperto
e vissuto il movimento, ma il primo impatto con le donne rom
non è stato facile ed ho dovuto riflettere molto per comprendere
la loro islamicità. Il popolo rom che abita nel nostro quartiere
proviene dalla ex Jugoslavia, è di religione mussulmana e non
è un luogo comune parlare della dipendenza delle loro donne
dall’uomo-padrone. Gli anziani tengono molto affinché i propri
principi o tabù siano rispettati; ma la loro preoccupazione può
anche essere comprensibile quando la “modernità”, loro proposta anche dai mass media come la televisione, purtroppo è una
sconcertante mistura di lusso sfrenato, di droga e sesso.
Il mio rapporto con le donne del “Poveraccio” ben presto si è
sviluppato sulla confidenza interiore, penso perché anche io mi
sono aperta con loro, parlando di vari problemi come il rapporto con il marito, con i figli, con la mia vecchia madre malata.
Specialmente parlando dei figli ci siamo intese subito perché a
tutte le latitudini i figli possono rappresentare problemi, anche
solo per il desiderio che abbiamo di proteggerli.
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Credo veramente di avere con loro, almeno con alcune di loro,
un canale speciale, diciamo di complicità, perché vedo che con
me il loro atteggiamento è sciolto e confidenziale.
Ho iniziato con la scuola di alfabetizzazione e certamente come
maestra sono stata molto permissiva, ma come non comprendere la svogliatezza e come non immedesimarsi con l’imbarazzo per gli errori o la svogliatezza nel voler apprendere di una
donna adulta magari con cinque o sette figli a casa?
‘A casa’ è una espressione impropria: è vero che ora che il campo del Poderaccio è stato smantellato e le nostre rom vivono con
tante altre famiglie in delle casette di legno molto confortevoli
con bei servizi igienici, ma solo qualche anno fa il Poderaccio
era un disastro, una ignominia. Dovevano vivere in misere baracche fatte di materiale di recupero dove ci pioveva, dove circolavano topi, con servizi igienici comuni a tutto il campo, insufficienti e malfunzionanti, con immondizia sparsa ovunque.
Visitando il Poderaccio mi sono meravigliata del contrasto fra il
degrado esterno e il decoroso spazio interno ben tenuto e pulito
con grande fatica da queste coraggiose donne!
Al laboratorio di piccola sartoria io, che non so fare tante cose
di cucito, aiuto come jolly e tengo quel poco di contabilità necessaria.
In tanti anni di collaborazione il mio rapporto con le lavoranti
rom non è cambiato e sono contenta di essere lì due giorni alla
settimana, di parlare con loro e loro pure sono contente di raccontare e confrontarsi. Quando andiamo a fare qualche uscita
tutte insieme per una festività, una ricorrenza o semplicemente per uscire dalla routine, è proprio una festa: che gioia al ristorante! Che belle posate! Che bello essere servite! Si possono
ordinare anche due portate!
Ho potuto notare come in questi anni di socializzazione ed
esperienze insieme, queste nostre amiche si sono evolute: quel
poco di lingua italiana parlata e scritta che hanno appreso al
corso di alfabetizzazione ha dato loro una certa libertà e adesso
possono prendere un autobus da sole, andare al mercato o fare
tante piccole altre cose autonomamente, piccole-grandi conquiste senza la “guida” dei loro uomini .
Lucia
Come per tante altre cose della vita ci sono esperienze che lasciano il segno nella nostra esistenza.
L’idea di stabilire un rapporto solidale tra donne del quartiere
e donne rom nasce circa nove anni fa. Il progetto fin dall’inizio
presentava oggettivamente enormi difficoltà per la lingua, per
le tradizioni, per le condizioni così diverse e svantaggiate delle
donne rom. Solo il tempo e la conoscenza reciproca, la volontà
nostra e il bisogno da parte loro di uscire da un’esistenza chiusa e di avere un impegno di lavoro hanno permesso di fare i primi passi del cammino. Non sono state tutte rose e fiori, si sono
dovute vincere resistenze da ambo le parti, ma la continuità di
.rapporto che si è creata ha consentito di affrontare gli ostacoli
e reso più facili i vari passaggi di questa piccola attività.
Il fatto di essere tutte donne ha facilitato le cose perché specie
fra le donne nasce il desiderio di solidarietà, di metter insieme
le idee, di stabilire una confidenza tutta particolare sui problemi della quotidianità. È stata una conquista faticata e guadagnata ma ora stare insieme è piacevole perché si può parlare
anche di aspetti più intimi e leggeri.
È diventato naturale raccontarsi della vita familiare: parlare
di ciò che si mangia, confrontarsi sulle tradizioni. Mi ha colpito
per esempio in alcune di loro il modo leggero, delicato, soffuso
con cui si rivolgono ai figli. Così come è stato importante scambiarsi il sapore dei cibi. Mi ha incuriosito anche capire il motivo
per cui parlavano spesso di lavare i tappeti e delle difficoltà di
asciugarli perché tutti loro, per tradizione o abitudine, camminano senza scarpe sul pavimento domestico che è interamente
ricoperto, appunto, di tappeti.
Quando nel laboratorio, durante una pausa di lavoro, qualcuna
delle donne rom prepara il caffè, lo porge con la stessa grazia
femminile che è nella natura di tutte le donne, con il piattino
e il vassoietto, queste ed altre occasioni di piacevole intimità e
serenità stridono però con la realtà concreta di una oggettiva
differenza di condizione. Lo scambio del linguaggio è troppo
diverso: le donne Rom si sforzano di parlare italiano mentre
noi non facciamo lo stesso con la loro lingua, quasi che questo
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ci fosse dovuto. Il senso di autonomia è profondamente diverso:
molte tra le loro donne più anziane sono persino incapaci di andare da sole al centro della città. Il nostro cammino è arrivato
fino a qui. Sono convinta che rappresenta una goccia in mezzo
al mare ma anche il segno concreto di una speranza che si può
realizzare.
Elena
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L’esperienza che voglio raccontare è cominciata circa nove anni
fa. Fu fatta allora una riunione nel nostro quartiere alle Baracche verdi di via degli Aceri con tanti gruppi e associazioni provenienti dalla città. Ogni gruppo presentava la sua esperienza
nel campo sociale. In uno di questi gruppi parlò una giovane
donna rom che lavorava presso una famiglia ed era tanto contenta di questo suo lavoro. Fu così che nel gruppo della Comunità: dell’Isolotto a cui appartengo venne forte il desiderio
di conoscere meglio la vita delle donne rom abitanti da tempo
vicino a noi, ai confini del nostro territorio.
Ci siamo incontrate una prima volta al Poderaccio, e già lì si capì
la gran voglia, soprattutto delle giovani, di uscire dal ghetto del
campo e di poter lavorare, anche se purtroppo non per tutte sarebbe stato possibile perché molte avevano bambini piccoli e magari erano in attesa di una nuova nascita. Insieme a dieci di loro
abbiamo iniziato una esperienza di collaborazione ed io, come le
altre volontarie, ci siamo rese disponibili a collaborare.
Ci siamo divise il compito tra chi poteva insegnare a cucire o a
leggere e scrivere.
Io rimasi colpita dalla loro puntualità e dalla voglia che avevano di imparare. Sono passati nove anni da quel primo passo
d’inizio che facemmo insieme, tante cose sono cambiate e direi in meglio. La mia educazione, fino da piccola, mi portava
a diffidare degli zingari perché erano persone poco perbene e
rubavano. Ho imparato ora, da adulta , che per non aver paura delle persone diverse da noi bisogna cercare di avvicinarle
e conoscerle così si scopre quanto è importante e anche bello
solidarizzare.
All’inizio gli abitanti del nostro quartiere scrollavano il capo e
ci guardavano un po’ male,
ora invece molta gente ci frequenta, ha fatto amicizia con le
donne rom, viene al laboratorio a richiedere i nostri servizi ed
è contenta di questa nostra iniziativa.
Paola
Quando cominciammo a intrecciare la nostra storia con quella
delle donne del campo rom, sapevamo pochissimo di loro; in
compenso avevamo parecchi pregiudizi, cioè quelle informazioni che sostituiscono spesso la conoscenza diretta dei gruppi
etnici, in modo particolare di quelli che mantengono tuttora
notevoli diversità nei confronti del popolo nel cui paese si sono
trovati a vivere.
Via via che l’ esperienza è andata sviluppandosi, siamo entrate
in contatto con un certo numero di donne, con gli uomini solo di
riflesso, dal momento che avevamo scelto di costruire un gruppo di lavoro al femminile. Se penso all’inizio di questo percorso,
quando ci si parlava senza ancora conoscerci, avendo di mira
soprattutto il progetto di mettere in piedi una realtà lavorativa,
mi pare che quel primo impegno fosse già gratificante per noi
che ci apprestavamo a metterci alla prova con un esperimento
nuovo e con nuovi contatti umani ma anche per le donne rom
che si aprivano alla speranza di trovare un lavoro retribuito e
alla possibilità di uscire dal loro mondo chiuso.
Se poi considero le cose dal punto di vista dell’esperienza accumulata oggi, vedo che il tempo e il nostro impegno hanno fatto
nascere molte cose. Oltre alla loro e alla nostra soddisfazione per
un servizio che appare ben avviato e ben recepito nel quartiere,
è il nostro rapporto che naturalmente è cambiato. Ora ognuna
di noi si mette in relazione ogni giorno con donne che conosce
abbastanza bene, il cui comportamento è prevedibile in linea di
massima e con le quali può parlare delle cose del lavoro, ma anche d’altro, quando ci sono i momenti di pausa o quando siamo
poche: essere in due sole è l’ideale e a me capita in un turno
pomeridiano. Di che parliamo. Di vari argomenti: dei loro mariti
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che lavorano o faticano a trovare lavoro o dei figli, soprattutto
i loro, che studiano, si sposano di solito molto giovani e a loro
volta hanno presto dei figli, o delle piccole case nuove di legno
che sono più confortevoli delle baracche di fortuna di prima, dei
soldi che sono sempre troppo pochi e delle bollette della luce, per
loro una novità assoluta che è un problema riuscire a pagare. In
realtà è evidente che, per quanto anche noi italiane si parli delle nostre cose (dei nostri figli o dei nostri mariti, delle faccende
della casa che sono le stesse: pulire, lavare, cucinare), quello che
viene detto da noi del nostro vissuto è molto meno di quello che
loro mettono sul tavolo di loro stesse e della loro vita.
Penso che raccontando le proprie situazioni spesso problematiche queste donne cerchino da una parte di alleviare la pesantezza del loro vivere socializzandolo, dall’altra che nutrano la vaga
speranza che forse se noi sappiamo, potremo in qualche modo
aiutarle prima o poi. C’è quindi un rapporto di notevole fiducia
e stima da parte loro, che sono disposte a rivelare aspetti segreti della loro vita familiare con una sincerità e un abbandono
che spesso, anche se non sempre, noi non abbiamo nei loro confronti. Ci sono comunque degli spazi profondi del nostro essere
in cui ci ritroviamo, là dove maturano gli affetti e le ansie per i
figli - anche se alcune loro tradizioni, come quella di volerli sposare d’autorità molto presto, ci trovano decisamente critiche
- o emerge il desiderio di essere rispettate per il lavoro che si
fa e la consapevolezza di ricavarne autostima e autonomia nei
confronti dei propri familiari e degli altri. Credo che su queste
basi si sia instaurato un reciproco legame di affetto sincero, autentico proprio perché non generico di tipo assistenziale, ma individualizzato e alimentato da quelle caratteristiche particolari
che sono nel bene e nel male le nostre rispettive personalità.
Succede così che, come accade in tutte le convivenze che sono
generalmente positive, ognuna si arricchisce di qualcosa che
viene dalle altre, anche quando si genera conflittualità, perché
quel qualcosa mette in discussione e qualche volta scalfisce sicurezze e giudizi anche radicati.
Del resto neppure in loro mancano i pregiudizi o forse sarebbe meglio dire certe aspettative su cui si potrebbe discutere a
lungo. Infatti restano quasi deluse quando gli diciamo che in
famiglia abbiamo solo una macchina perché per loro la macchina è segno di ricchezza e benessere e non un mezzo indispensabile per muoversi, oppure quando viene fuori che in genere non solennizziamo le nostre feste con riunioni familiari
allargate e pranzi importanti. Così sembriamo loro poco serie,
poco rispettose delle tradizioni. E questo non è un argomento
semplice perché presuppone il passaggio dalla grande famiglia,
che è tuttora la loro realtà, ai piccoli e piccolissimi nuclei che
rappresentano la nostra realtà familiare attuale.
Certo per raggiungere risultati più soddisfacenti nei nostri rapporti interpersonali ci vorrebbe una vicinanza maggiore, la possibilità di stare più insieme e di parlare più approfonditamente,
ma è proprio questo che è difficile, forse più per noi che per
loro, perché siamo spesso vinte dalla tentazione di identificarci
con la storia di cui siamo parte, perché sappiamo con quante
difficoltà e quanti sacrifici personali sono stati superati ostacoli
e disuguaglianze di genere che non ci piace ritrovare ancora
irrisolti nella fatica giornaliera di queste donne. Anche se, d’altra parte, è poi per questo che in noi si mettono in movimento
il sentimento di solidarietà e il bisogno di metterci in relazione
con loro, per incontrarsi in quella parte del femminile in cui ci
sentiamo più vicine.
Resta il fatto che non possiamo non essere consapevoli che rimane tra loro e noi questa palpabile frattura costruita da civiltà
diverse, che ci mette continuamente sotto gli occhi il divario di
molti aspetti della nostra vita e che il desiderio di annullarlo per
stringerci in un abbraccio senza riserve sarà sottoposto ripetutamente a delusioni reciproche e ripensamenti. E del resto con
quante donne amiche, simili a noi, nate e vissute dalle nostre parti, è stato ed è possibile un abbraccio veramente senza riserve?
Resta da dire e non è davvero un aspetto trascurabile, che c’è
sempre una grande risorsa nei rapporti personali ed è l’affinità
particolare con qualcuno o qualcuna. Questa prerogativa ha il
singolare potere di legarci al di sopra delle culture e delle situazioni sociali e ci regala, anche in mancanza di linguaggi che
traducano adeguatamente i nostri sentimenti e le nostre idee,
quelle sensazioni che accrescono il nostro piacere di vivere insieme.
101
Elda
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Nel rapporto con le rom io non ci sono entrata subito, per scelta, perciò non sono andata al campo le prime volte.
Quando tutto cominciò alle baracche, dove si faceva alfabetizzazione e il primo corso di cucito, io mi occupavo solo di aprire
la porta perché , essendo quella che sta di casa più vicina, avevo
accettato l’incarico di tenere le chiavi.
Poi fui coinvolta. Mi parve che fosse una cosa in cui anch’io potevo mescolarmi, dare una mano, perché avevo da offrire una
mia abilità, il saper cucire.
Poi ho imparato, come le altre, a conoscerle una per una.
Alcune si sono perse negli anni, altre sono rimaste; i primi tempi c’erano anche bambini piccoli, quelli di Mirsada o di qualche
altra: questo mi commuoveva, mi attirava. E così, siamo andate
avanti insieme.
Mi piace far parte di questa esperienza e tuttora vado volentieri a
dar mano al laboratorio “Kimeta”. Sono particolarmente legata
a Scegersada, forse per via della bambina piccola alla quale faccio un regalino ogni tanto, l’abbiamo vista crescere si può dire,
ma anche con le altre c’è un rapporto positivo. Qualche baruffa
c’è stata, come succede sempre tra persone che stanno insieme.
Nei primi tempi avevo l’impressione che qualcuna delle donne
rom non credesse che noi stessimo lì come volontarie, senza
compenso di soldi: questo mi faceva molto dispiacere. Ora sono
sicura che non lo pensa più nessuna, perché ci siamo conosciute
meglio e c’è più affetto nei nostri rapporti.
Questo impegno, pensare che il martedì e il giovedì vado a lavorare a Kimeta e trovo altre donne con cui parlare e stare
insieme, mi fa compagnia.
Adriana
Parlare di questa iniziativa che abbiamo intrapreso ormai da
dieci anni non è per me un compito facile, altre volontarie di
questo gruppo lo faranno certamente meglio di me e quindi mi
limito a raccontare solo poche cose.
Quando abbiamo iniziato a frequentare il gruppo delle donne
rom del Poderaccio, persone intorno ed anche molto vicine a
noi torcevano il naso e pensavano che sarebbe stato tutto tempo perso! Certo non vi nascondo che anche per noi volontarie
la cosa non è stata facile né semplice, le discussioni ed i tempi
di preparazione e di affiatamento sono stati assai lunghi, ma
vi era in tutte tanta dedizione ed amore e gli ostacoli che ci si
presentavano venivano rimossi e superati.
Il nostro obbiettivo era togliere dalla strada e dall’accattonaggio queste donne per dare loro un lavoro ed anche una dignità.
Oggi la nostra scommessa è riuscita; siamo contente dell’iniziativa che tutte insieme abbiamo intrapreso e portato avanti,
anche la diffidenza nei loro confronti si è trasformata in amicizia.
L’esperienza del laboratorio “Kimeta” è stata molto ben accolta nel nostro quartiere, abbiamo un buon rapporto con tutti i
clienti che ci frequentano e quindi vorremmo che tutto questo
continuasse e ce lo auguriamo con tutto il cuore
103
Carmen
Da sempre mi è piaciuto il contatto umano e, se era necessario,
mettermi a disposizione di chi aveva bisogno del mio aiuto. Per
questo quando è iniziata l’esperienza col laboratorio “Kimeta”
ho aderito all’iniziativa con molto entusiasmo e, devo dire la
verità, anche con qualche pregiudizio. Entusiasmo perché finalmente potevo rendermi utile e insegnare molte cose, cioè la
mia abilità di sarta, a persone da sempre emarginate e quindi
bisognose di un supporto per potersi inserire nel nostro mondo e fare un percorso insieme. Quanto ai pregiudizi, sappiamo
tutti cosa si dice delle donne rom: sporche, ladre, false e via
dicendo. Così, all’inizio, eravamo piuttosto guardinghe, ma poi,
giorno dopo giorno, molte idee preconcette sono sparite perché
vivendo diverse ore insieme ci siamo conosciute meglio.
I primi tempi sono stati faticosi per tutte, volontarie e rom,
anche per i linguaggi diversi. Loro qualche parola d’italiano la
sapevano e del resto si faceva l’alfabetizzazione, noi invece non
104
sapevamo proprio niente del romané. Però alla fine si riusciva
a capirsi un po’ con la mimica, un po’ ripetendo più volte quello
che dovevano fare. Questa esperienza è servita, credo, a entrambe le parti. Alle donne rom perché hanno imparato molte
cose, finalizzate a trovare una fonte di guadagno che, seppure
modesto, è importante per la sopravvivenza, ma anche perché
dà a loro come donne una dignità che accresce l’autostima e le
fa anche crescere nei confronti dei loro uomini che la tradizione
considera sempre superiori. A noi, per conoscere una cultura
diversa e per rapportarsi a un mondo che ci sembrava tanto
lontano e che in definitiva era più vicino di quanto pensassimo.
Vorrei dire anche che questo stare insieme per diversi anni ha
fatto nascere tra noi quel sentimento di affetto reciproco che,
anche a distanza di tempo, non si è spento e continua a manifestarsi ogni volta che ci si incontra. Infatti proprio l’altro
giorno ero al supermercato vicino a casa, quando una signora
mi fa, guardandomi con intenzione: “Stia attenta, c’è una zingara proprio là dietro”. Mi volto e vedo Refice, che aveva frequentato il gruppo nei primi tempi, quando facevamo il corso di
alfabetizzazione e di avvio al lavoro e le donne erano numerose.
Era qualche anno che non ci si vedeva con Refice, ma lei mi ha
riconosciuto subito e mi è corsa incontro. Ci siamo abbracciate
e lei mi ha dato tre baci sulle guance.
“Carmen, che piacere!”.
“E tu, sei sempre la stessa, Refice!”.
Tutto sotto gli occhi della nostra signora che ci guardava non so
se più sorpresa o disgustata.
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Indice
Conoscenza, integrazione, diritti, cooperazione
Introduzione
Diverse come noi: intreccio di vissuti
Racconti
L’autobus
Il campo, una convivenza difficile
Lavorare insieme
Il pregiudizio
La firma. Leggere e scrivere
Le mani
Mamme bambine
I figli. I piccoli delle rom e i nipotini delle gagé
Andare per l’elemosina
Al mare
Andare. Incontrare, uscire dal campo
Prendiamo la parola
Il laboratorio. Cucire e stirare
Caffè italiano e caffè rom
Un pomeriggio particolare
Settembre
Sabilja. Ribellarsi per non subire
Gita a Cianciano
I ‘mangiari’
Il matrimonio: un sogno
Te ovoltut iek ker / Avere una casa
Il permesso di soggiorno
Religioni, feste, riti. Matrimonio, circoncisione,
ramadan, funerale
Creatività e professionalità
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Un’esperienza aperta
Conflitti e identità
Il laboratorio auto-organizzato.
Uno spazio a misura di donne e di mamme
Kimeta in TV
Il volontariato cede il passo
Piccole storie che fanno storia
Donne per le donne.
Le nostre mani per uscire
dall’emarginazione e progettare
un futuro di dignità
Percorso di una esperienza raccontata
a due voci: donne rom e donne dell’Isolotto
108
Impegno solidale
Testimonianze delle volontarie che hanno
collaborato alla realizzazione del Laboratorio Kimeta
Antonietta, Lucia, Elena, Paola, Elda, Adriana, Carmen